Come sostenere il bisogno spirituale alla fine della vita? di Marina Sozzi

Sono convinta che alla fine della vita la dimensione della spiritualità divenga più rilevante. L’homo faber, infatti, che generalmente ha avuto un ruolo preponderante durante la maggior parte della vita, va esaurendosi. A questo punto della storia biografica delle persone la ricerca di senso è uno snodo inevitabile. La malattia e la morte fanno emergere gli interrogativi sul senso sia nelle persone sia negli operatori, che sono a contatto ogni giorno con il morire degli altri.

Inevitabilmente, il confine tra la vita e la morte interseca la dimensione del sacro, del mistero, del trascendente (inteso in senso lato, come ciò che va oltre la quotidianità dell’esperienza). Per questo è fondamentale che le équipe di cure palliative siano consapevoli che il terreno su cui si muovono è costituito anche dalla dimensione spirituale.

Tuttavia, ho cercato anche di pormi un altro interrogativo, che mi pare serpeggi nelle istituzioni che offrono cure palliative, ma al quale non è ancora stata data una risposta definitiva. La questione è: la dimensione spirituale è propria dell’équipe nel suo complesso, oppure è utile, e magari opportuno, che esista una figura di assistente spirituale laico che si occupi di questo versante dell’esperienza della fine della vita? Non entro invece nel merito della presenza di assistenti spirituali religiosi, delle varie confessioni, che possono essere presenti oppure essere chiamati dall’équipe, una volta individuato il bisogno del paziente o del familiare. Per scrivere questo articolo mi sono confrontata con alcune persone, che desidero ringraziare, perché mi hanno permesso di entrare nel merito del loro lavoro: Caterina Giavotto, assistente spirituale in Vidas, a Milano; Claudia Cavegn, assistente laica (cattolica) al Regina Margherita, ospedale pediatrico a Torino, e infine Guidalberto Bormolini, sacerdote della comunità dei Ricostruttori, e promotore della scuola di assistenza spirituale. E mi è stato inoltre utile, per chiarire le mie idee, leggere il  in assistenza spirituale della Società Italiana delle Cure Palliative, del 2019, che potete consultare qui, e che offre una riflessione molto ricca, problematica e sfaccettata.

In questo periodo, peraltro, molte istituzioni si sono concentrate sul tema della spiritualità, costruendo corsi (ad esempio quello dell’Unione Buddisti Italiani, ma soprattutto la Scuola di Alta Formazione per l’assistente spirituale in cure palliative di Ricostruire la Vita, promosso da Fondazione Luce per la Vita, Associazione TuttoèVita ETS, Federazione Cure Palliative, Società Italiana di Cure Palliative).  Il Core Curriculum della SICP esordisce affermando che l’obiettivo del documento non è tanto di formare figure di assistenti spirituali, quanto di definire quali competenze debba acquisire l’équipe, nel suo complesso, per poter aiutare i pazienti e le famiglie ad affrontare le complesse domande di carattere spirituale che si affacciano alla fine della vita.

In effetti, molti degli aspetti citati come parte di un’ipotetica formazione dell’assistente spirituale sono, senz’altro, elementi propri di una cura di qualità: la compassione, (in senso etimologico di cum patior), l’ascolto, la comunicazione non giudicante, eccetera.

Da questo punto di vista, mi pare che ci sia una certa sovrapposizione tra la figura dello psicologo (che alla fine della vita si occupa proprio del senso e delle relazioni) e quella dell’assistente spirituale: sovrapposizione che le persone che ho intervistato, ad esempio Caterina Giavotto, confermano essere presente. Anzi, ribadisce Claudia Cavegn, “non si tratta di una frontiera”, c’è lo spazio comune dell’ascolto. E Bormolini sottolinea che non dobbiamo circoscrivere gli ambiti, perché dobbiamo mantenere la logica della “persona integrale”: “se spezziamo, frammentiamo”.

Tuttavia, ciascuno di loro sottolinea un aspetto specifico del proprio lavoro, non comune con l’operato dello psicologo. Bormolini ha subito chiara la specificità della dimensione spirituale, che ha a che fare, per lui, con il trascendente (in senso ampio: se non hai qualcosa per cui morire non hai qualcosa per cui vivere), il mistero, l’orientamento (avere una direzione) e il senso di comunione con qualcosa di più grande.

Caterina Giavotti mi racconta invece di una signora che aveva chiesto di vedere un frate (non un prete). Voleva una figura con un ruolo trasversale nella chiesa. Perché? Le ha chiesto Caterina. La signora aveva, nella sua biografia, due aborti, ed era terrorizzata che “Gesù non l’avrebbe perdonata”. Insieme hanno costruito (inventato) un piccolo rito, con la meditazione, una preghiera, e con una scatolina in cui lasciar andare l’accaduto e il rimorso, un rito che ha alleggerito molto la signora in questione.

Anche Claudia Cavegn mette l’accento sull’aspetto rituale: nella sua esperienza c’è una famiglia Rom con una bimba vicina alla fine della vita, una famiglia nella quale il marito è musulmano e la mamma ortodossa. La mamma, quando ha saputo che la speranza di guarigione non c’era più, ha chiesto che la bimba fosse battezzata. Quando ha saputo che Claudia poteva battezzarla, non le è importato che fosse cattolica. La rilevanza simbolica del rito l’ha fatta andare oltre i confini della propria confessione religiosa.

La dimensione del rito (e di un rito non religioso in senso stretto) è interessante. La morte, come scriveva Van Gennep, e molti altri antropologi con lui, è un rito di passaggio. Per chi resta, naturalmente. Ma talvolta anche chi se ne va ha bisogno di una dimensione rituale, un’azione che simbolizzi qualcosa che non si riesce a dire altrimenti, o ad elaborare altrimenti (come la signora che aveva abortito).

Questa dimensione è interessante anche perché sono convinta che le invenzioni rituali possano avere un ruolo rilevante in una società molto secolarizzata come la nostra. Per molti, la scatolina è più efficace dell’unzione dei malati.

Il core curriculum di SICP propone inoltre che la formazione preveda una cultura di massima sulla dimensione rituale e culturale delle religioni. Il che può senz’altro essere utile, mantenendo però la consapevolezza della complessità e della pluralità delle modalità di abbracciare uno stesso credo. Di fronte a una persona, non ci basta sapere, ad esempio, che è musulmana. Diverso è l’islam in diverse parti del mondo e, anche all’interno di una medesima area geografica, in vari strati sociali, e in famiglie diverse. Inoltre, talvolta può accadere che le persone in terra d’accoglienza modifichino l’atteggiamento religioso che avevano in patria. La formazione in “assistenza spirituale” va dunque usata per avere un inquadramento di tipo generale, e non per incasellare i bisogni dei pazienti o dei familiari.

Non ho naturalmente una risposta definitiva alla questione del ruolo dell’assistente spirituale, e concordo con il documento SICP che non è possibile avere la preparazione necessaria a espletare questo ruolo attraverso un corso, perché si tratta di qualcosa di più di una competenza: piuttosto è un atteggiamento nei confronti del mondo e della vita, che si nutre di esperienze reiterate, dalle quali si apprende e si affina la propria spiritualità, indispensabile per confrontarsi con quella degli altri.

Volevo solo portare alcuni punti alla riflessione, e sono naturalmente in ascolto delle vostre considerazioni, risposte ed esperienze. E grazie come sempre per il fruttuoso dibattito che sempre emerge da queste pagine!

Le cure palliative pediatriche: una risorsa nell’accompagnamento dei bambini inguaribili, di Cristina Vargas

Non è facile trovare le parole per parlare della malattia grave, della sofferenza e del fine vita dei bambini. Mentre scrivevo questo articolo mi sono accorta quanto ogni frase mi sembrasse insufficiente e superflua, incapace di cogliere la profondità del dolore dei piccoli malati e delle famiglie che si trovano ad affrontare queste drammatiche situazioni. Sentivo soprattutto la mancanza di un linguaggio condiviso per parlare di un tema su cui nella nostra società si preferisce tacere per “non pensarci”. Non vorremmo che fosse così, eppure succede: i bambini e i neonati possono essere colpiti da malattie per le quali non ci sono trattamenti curativi (o, se ci sono, questi possono fallire), e possono trovarsi ad affrontare percorsi carichi di sofferenza fisica e psichica.

Le cure palliative pediatriche, con il loro approccio olistico e integrato, sono una delle più importanti risorse assistenziali che oggi abbiamo a disposizione per accompagnare i bambini e ragazzi in età pediatrica affetti da patologie gravi e inguaribili, che limitano le loro possibilità di sopravvivenza. L’OMS, infatti, definisce le cure palliative pediatriche come l’attiva presa in carico globale del corpo, della mente e dello spirito del bambino, al fine di alleviare la sua sofferenza e migliorare la sua qualità di vita. La cura è intesa in un’ottica olistica e integrata e include necessariamente il supporto a tutta la famiglia.

In Italia, le cure palliative pediatriche sono state introdotte grazie alla Legge n. 38 del 2010, che prevedeva l’implementazione di reti territoriali e ospedaliere per la presa in carico sia dei bambini, sia degli adulti. In diverse regioni ci sono gruppi che hanno attivato servizi efficaci e stanno portando avanti un importante lavoro culturale per diffondere le cure palliative pediatriche, tuttavia, si tratta di un campo relativamente nuovo e c’è ancora molto terreno da percorrere: la Società Italiana di Pediatria stima che ogni anno ci siano circa 30.000 – 35.000 bambini che richiederebbero cure palliative, ma purtroppo solo il 15% di questi vi ha effettivamente accesso.

Mi sono avvicinata personalmente a questo campo grazie a diverse esperienze come docente e come formatrice. In questi contesti, il mio compito è quello di riflettere, insieme agli operatori, sugli aspetti antropologici e sull’incidenza dei fattori socioculturali nei casi da loro affrontati. Durante le mie lezioni e supervisioni ho avuto la possibilità di incontrare pediatri, neonatologi, medici legali, infermieri, psicologi, assistenti sociali, assistenti spirituali e altre figure ancora. Le équipe, infatti, sono sempre multiprofessionali, perché un singolo operatore semplicemente non basta.

I problemi sono tanti. Sul piano psicologico per i genitori la malattia grave di un figlio, oltre ad essere di per sé un’esperienza drammatica, comporta un turbinio di emozioni difficili – la rabbia, la paura, la frustrazione, il senso di impotenza – che non di rado mettono in crisi l’identità soggettiva e minano la stabilità della coppia. Ciascuno, compreso il bambino quando è più grandicello e consapevole, elabora il proprio vissuto e, a modo proprio, si interroga sul senso esistenziale dell’esperienza che sta attraversando. La malattia di un figlio ha anche numerose implicazioni sociali: essa rende necessaria una drastica riorganizzazione della quotidianità intorno ai bisogni assistenziali del piccolo malato e, soprattutto nei nuclei più vulnerabili, amplifica il rischio di povertà. Nelle famiglie è inoltre necessario conciliare il lavoro e la cura e capita che uno dei coniugi (quasi sempre la madre) debba rinunciare o ridurre il proprio lavoro. Nei nuclei a volte ci sono altri figli: fratelli e sorelle che rischiano di diventare “invisibili” perché tutto sommato “stanno bene”, e il dolore per chi invece bene non sta è troppo grande per lasciare spazio ad altri pensieri. Insomma la complessità è molto elevata e solo la collaborazione sinergica fra figure con competenze diverse può accogliere bisogni psicologici, umani, spirituali, sociali e clinici.

Fra le famiglie ci sono italiani e stranieri; persone benestanti o in difficoltà economica; reti familiari allargate e nuclei monoparentali; coppie coese e solide oppure in guerra fra loro. C’è chi soffre in silenzio, c’è chi urla, c’è chi si allontana, c’è chi crede di non avere le forze e invece da qualche parte le trova.

Anche le storie di vita e di malattia dei pazienti sono molto diverse. Ci sono, per esempio, situazioni prevedibili, in cui si sa che la condizione del neonato o del bambino è incompatibile con la sopravvivenza a lungo termine. In questi casi la pianificazione condivisa delle cure rende possibile concordare con l’équipe come gestire il tempo che resta senza interventi invasivi, facendo uso della terapia del dolore e di tutto ciò che è necessario per garantire al bambino il maggior confort possibile. Ci sono, all’estremo opposto, casi in cui la situazione deriva da un evento acuto i cui esiti non sono prevedibili, e dunque si deve decidere di volta in volta se andare avanti o fermarsi, facendo sempre i conti con l’incertezza.

Ci sono situazioni che iniziano già durante la gravidanza, e percorsi che coinvolgono ragazzi di quindici anni o sedici anni, che sono pazienti cronici e conoscono da tempo la loro malattia: qualsiasi cosa gli adulti credano, loro sanno, pensano, scelgono e, anche se minorenni, e alla loro voce va dato il giusto peso.

Cii sono poi bambini affetti da malattie degenerative neurologiche e metaboliche, oppure con gravi patologie irreversibili che causano disabilità severa senza prospettive di cura: in questi casi le cure palliative rappresentano una via per accompagnare la famiglia a lungo termine. Le cure palliative pediatriche, infatti, non sono le “cure della terminalità”, nel senso che non riguardano solo le fasi finali, ma prevedono iter assistenziali che durano a volte anni. Esse iniziano al momento della diagnosi, e continuano anche in concomitanza con altre terapie curative quando queste sono attuabili.

Tutti questi percorsi, per quanto diversi, sono accomunati da una filosofia che pone al centro una visione olistica della persona e della cura, che dà valore alla relazione, all’ascolto, e all’alleanza, e che ha uno sguardo sempre attento all’appropriatezza delle scelte cliniche. Sono centrali anche la dignità e il rispetto della volontà dei genitori e, quando possibile, del bambino o ragazzo, tenendo conto della sua età e del suo grado di sviluppo. In conclusione, mi sembra essenziale sottolineare l’importanza di garantire il diritto di accedere alle cure palliative pediatriche a tutti coloro che ne avrebbero bisogno. È quindi fondamentale colmare le lacune che ancora ci sono e, parallelamente, introdurre la filosofia e l’approccio palliativo in tutti i contesti ospedalieri pediatrici che si confrontano con l’inguaribilità.

Avete esperienze dirette o indiretto con questo tema? Attendiamo, come sempre, le vostre considerazioni.

Tanatologia digitale e formazione, di Davide Sisto

Nel corso degli ultimi anni, su questo blog, ho spesso raccontato e descritto le più svariate conseguenze generate dall’uso delle tecnologie digitali sulla comprensione umana del ruolo della morte nella vita, nonché nell’ambito dell’elaborazione del lutto e sul modo di conservare la memoria e di desiderare, eventualmente, l’immortalità.

Il progresso tecnologico avanza con una velocità tale da rendere sempre più pervasivo l’utilizzo intergenerazionale delle piattaforme digitali. Fino a qualche anno fa era normale servirsi dell’espressione “nativo digitale” per stabilire un implicito confine tra generazioni. Oggi, invece, siamo uniformemente concordi nel credere che il futuro prossimo sarà contraddistinto da cittadini di ogni età abituati a considerare le tecnologie digitali come strumenti irrinunciabili per lo svolgimento della vita quotidiana, quasi come vere e proprie protesi di sé. A prescindere dal fatto che questo ci piaccia oppure no. La consapevolezza della continua espansione della dimensione online e del carattere imprescindibile degli smartphone e dei computer mi fa pensare quanto segue: è giunto il momento di introdurre – in maniera ufficiale e non procrastinabile – la cosiddetta “tanatologia digitale” nei percorsi formativi ed educativi dei medici, degli operatori sanitari, degli psicologi, dei palliativisti e degli educatori in senso lato. In altre parole, occorre prendere coscienza che la relazione tra le tecnologie digitali e il fine vita non è più di natura rapsodica, magari limitata a specifici target di età o a particolari gruppi di cittadini particolarmente avvezzi alle tecnologie. È, semmai, una relazione che riguarda l’intera cittadinanza e che produce continuamente sia nuove opportunità sia, soprattutto, inedite criticità. La conoscenza attenta di entrambe diventa, pertanto, fondamentale per non aumentare le difficoltà e le sofferenze che già viviamo di per sé durante l’ultima fase della vita personale o di quella dei propri cari.

Quali sono, nel dettaglio, gli aspetti che rendono necessaria una sorta di “tanatologia digitale” nei percorsi di formazione? In primo luogo, l’aspetto comunicativo. È già ricorrente di per sé il problema della comunicazione faccia a faccia tra il medico, il paziente e i familiari del paziente in presenza di una malattia mortale o, in alternativa, radicalmente invalidante. Un problema che è particolarmente sentito a partire dal processo di rimozione sociale e culturale della morte e dalla riduzione della malattia a un tabù. Lo sviluppo della telemedicina, accelerato dalla pandemia da Covid-19, sta generando nuove forme di comunicazione che avvengono perlopiù in maniera scritta, tramite applicazioni di messagistica privata come WhatsApp o via mail, a cui si aggiungono le ricerche individuali attuate su Google. È, di conseguenza, fondamentale comprendere le differenze comunicative in presenza e a distanza, tramite parole espresse a voce o per iscritto, di modo da non incrementare le incomprensioni, le ansie, i dolori e le sofferenze delle persone. I registri linguistici e simbolici sono differenti, di conseguenza lo sono altrettanto i problemi che derivano dal loro uso. L’aspetto comunicativo include, poi, la gestione dei social media durante una malattia mortale: ogni singolo individuo ha un rapporto differente con i social, dunque risulta doveroso intercettare le sue modalità comunicative affinché i social diventino uno strumento di sostegno e non un problema in più. Tra l’altro, i singoli social si differenziano gli uni dagli altri, pertanto bisogna districarsi tra le peculiarità di Facebook, Instagram, YouTube, Tik Tok e via dicendo. E, ancora, come fare con l’eredità digitale? Cancellare preventivamente i propri profili? Mantenerli in vita? Darli in gestione a persone fidate? La risposta a queste domande chiama in causa, in secondo luogo, il lutto e la sua elaborazione. Oramai, ognuno di noi conserva una quantità incalcolabile di tracce delle persone amate, come mai successo in passato: parole scritte, messaggi vocali, fotografie, registrazioni audiovisive. Queste tracce tendono sempre più a rappresentare un prolungamento digitale dell’identità individuale (ormai, è diffusa tra gli studiosi l’espressione di “carne digitale” per descrivere questo prolungamento sul piano emotivo). Pertanto, è in costante aumento il numero dei dolenti che faticano a intraprendere un sano percorso di elaborazione del lutto, circondati da così tanti documenti i quali sembrano mantenere vivi i propri cari defunti. Sono sempre più numerosi coloro che proiettano sul proprio smartphone o su quello del caro defunto la possibilità di un contatto attivo, trascendendo in maniera patologica il mero ricordo o creando ibridazioni inedite tra le ritualità religiose assodate e quelle prodotte dalle tecnologie.

Questi sono solo alcuni dei tanti temi che occorre tenere a mente, man mano che mutano le caratteristiche delle società all’interno di cui nasciamo, cresciamo e moriamo. Mi pare miope e inconcludente escludere l’importanza della relazione tra tecnologie digitali e fine vita, a causa di pregiudizi individuali o di sospetti nei confronti di un’epoca storica particolarmente incentrata sulla tecnica e sulla tecnologia. Ancor di più, considerando che ci stiamo muovendo nella direzione del Metaverso e della realtà virtuale.

Cosa ne pensate? Ritenete sensate queste preoccupazioni? Attendiamo con interesse i vostri commenti, dubbi e riflessioni.

Consapevolezza? di Marina Sozzi

Chiunque lavori all’assistenza nel fine vita conosce l’importanza della consapevolezza (che ha anche una sua scala di misurazione) che consiste, in ultima istanza, nella capacità di raggiungere un certo grado di accettazione di fronte alla propria morte o alla morte di una persona che amiamo. In cure palliative, la consapevolezza è rilevante perché permette agli operatori di fare un lavoro migliore, e agli psicologi e agli altri operatori di accompagnare i pazienti e i familiari a tollerare l’ineluttabile, pur nella tristezza e nel dolore. In genere, permette ai nuclei familiari di accomiatarsi con maggiore serenità, di parlarsi della morte imminente, di rinsaldare i legami e scambiarsi frasi amorevoli.

Ma proprio chi lavora in cure palliative sa anche quanto rara sia la consapevolezza. Spesso i familiari attendono le équipe fuori dalla porta di casa, per raccomandare di nascondere il logo (in Italia le équipe specialistiche di cure palliative operano generalmente nel Terzo Settore), o per avvertire: «non sa nulla, non gli dite che non ha molto da vivere». Il lavoro delle équipe più avvertite è delicato, lento, e segue la capacità di comprensione e accettazione delle famiglie. Si cerca di dire ai familiari che spesso chi muore sa che sta morendo, e tenerglielo nascosto contribuisce soltanto a creare una barriera di cose indicibili che separano chi se ne va e chi resta.

Talvolta però, per alcuni medici, infermieri e psicologi, il raggiungimento o meno della consapevolezza da parte del paziente assume la valenza di un giudizio implicito sul proprio operato, e diviene così uno degli obiettivi taciti dell’assistenza. E’ corretta questa visione epica della consapevolezza (entrare nella morte ad occhi aperti), o forse dovremmo essere più cauti nel pensarla come obiettivo universalizzabile?

Facciamo un passo indietro. Sappiamo che la mancanza di consapevolezza è spesso dovuta alla reticenza degli specialisti, che pur di non comunicare che la scienza medica ha esaurito le possibilità di contenere la patologia, mentono, o dicono verità parziali. Con la formazione e l’azione culturale, occorre ridurre queste cattive comunicazioni, come peraltro richiede la legge 219/2017.
Tuttavia, sono stata testimone del caso di diverse persone affette da tumore a uno stadio avanzato, non più controllato dalle terapie oncologiche, con metastasi diffuse a tutto il corpo, a cui era stata detta la verità sia dagli specialisti, sia dal medico di famiglia, e che ritenevano che le cure palliative fossero una specie di convalescenza, prima di riprendere le terapie. La consapevolezza non può essere perseguita a oltranza, perché la mente non va dove non vuole andare, e talvolta proprio non vuole incamminarsi a incontrare la morte.

Spesso si pensa che la mancanza di consapevolezza dipenda dalla cultura in cui viviamo, orientata a evitare il discorso sulla morte, così che i nostri concittadini arrivano molto impreparati all’appuntamento con la nera signora, che proprio per questo appare sempre più nera, in un circolo vizioso.
Su questo tema si tende a citare molto Heidegger, che nel suo libro Essere e tempo parla dell’importanza di porsi consapevolmente di fronte all’unica possibilità assolutamente certa della condizione umana, la morte. Pensare alla morte, e metterla in primo piano nella nostra mente, significa comprendere che questo “essere gettato nella morte” è la possibilità più autentica dell’Esserci dell’uomo. Le attività della vita, i progetti realizzabili, perdono il loro valore nel momento in cui si confrontano con la morte, e l’angoscia che deriva dal loro annientamento allenta anche la presa del mondo sull’uomo. Si manifesta così, al cospetto della morte, l’unica libertà possibile. Proprio nella consapevolezza della morte sta, secondo Heidegger, la libertà dell’esistere, che coincide però con la svalutazione di tutto ciò cui l’uomo dà comunemente valore.

Ma davvero per poter essere liberi e consapevoli dobbiamo annichilire il mondo? Sartre si ribella di fronte al pessimismo di Heidegger in L’essere e il nulla. Ben lungi dal vedere nella morte la più autentica possibilità dell’umano, Sartre afferma piuttosto che la morte è la negazione di tutte le altre possibilità, giunge sempre a troncarle, sovente sul più bello. E’ impossibile prepararsi alla morte, perché ignoriamo quando e come ci colpirà: gli uomini somigliano a condannati che si preparano coraggiosamente a essere fucilati, ma vengono invece falciati da un’epidemia di influenza spagnola. Non sappiamo quando e come moriremo. Gli uomini hanno progetti, che costituiscono le possibilità della loro esistenza, e questi progetti vengono interrotti dalla morte.

Questa contrapposizione così netta tra due importanti pensatori del Novecento ci indica la complessità del tema che stiamo trattando, le sue implicazioni filosofiche. Salvare il nostro rapporto con la progettualità mondana è l’obiettivo condivisibile di Sartre. D’altronde, seppure non sia possibile conoscere le circostanze della nostra morte, non è neppure immaginabile rimuoverne l’angoscia. E l’angoscia ci chiede di venire a patti con la mortalità, di trovare un aggiustamento. Questo è un lavorio arduo e mai concluso, che possiamo cercare di fare nel corso della nostra vita. La difficoltà, che solo il saggio riesce a sostenere, sta nel mantenersi in bilico tra un ingaggio e un impegno nelle vicende del mondo e la consapevolezza della nostra provvisorietà.

E quando siamo nei pressi della nostra morte? Cosa accade alla nostra consapevolezza della mortalità? Non è facile esserne certi, forse è uno di quei misteri che si possono scoprire solo ex post, quando siamo morti, da coloro che restano («è stato lucidissimo, presente e consapevole fino alla fine»).

La consapevolezza della morte fa parte di quella opacità della nostra coscienza che non possiamo mai disvelare, finché non accade che davvero ci troviamo lì vicini, accanto alla morte imminente. Riusciremo a stare lì, nella prossimità? Saremo abbastanza saggi e coraggiosi? Saremo abbastanza appagati dalla nostra vita da poterla lasciare senza troppi rimpianti nelle mani di chi viene dopo di noi? Potremo tenere gli occhi aperti di fronte al mistero? Non lo sappiamo, come non sappiamo se ci getteremo in acqua per salvare qualcuno che annega. Non ci conosciamo mai davvero fino a quel punto. Ma possiamo provare a prepararci per questo obiettivo durante la nostra vita, con umiltà.

E allora?

Come scriveva Paolo Vacondio nel suo libro Sediamoci qui, la consapevolezza di malattia o di terminalità non è una questione del tipo “tutto o nulla”. Al contrario “essa si evolve in modo progressivo e influenzato dal vissuto personale”.
Quindi, per concludere il nostro ragionamento, occorre raccomandare a chi opera in cure palliative (o comunque si trova per lavoro o perché amico, compagno, figlio, a fare i conti con il morire) di fare uno sforzo di sospensione critica del proprio giudizio, e di rispettare fino in fondo coloro che arrivano impreparati, che non sono consapevoli e non vogliono neppure esserlo. Sospendere il giudizio e stare accanto, senza mentire sulla verità della morte imminente ma con la giusta gradualità, rispettando la capacità della mente altrui di fare spazio a questa immensamente difficile verità.

Cosa ne pensate? Vi capita di immaginare come sarete nella prossimità della vostra morte? Avete esperienze di accompagnamento in cui la consapevolezza o la sua mancanza hanno avuto un ruolo importante?

Narrare la fine, di Cristina Vargas

Nel 2019 venne diagnosticato un mieloma multiplo a Marilyn Yalom, studiosa di letteratura francese e autrice di numerosi libri sulla storia delle donne. Nonostante fosse sofferente tanto per causa della malattia che la affliggeva quanto per gli effetti collaterali della chemioterapia, Marilyn, conscia di avere solo alcuni mesi di vita, chiese a suo marito (il noto psichiatra e psicoterapeuta esistenziale Irvin Yalom) di scrivere un libro insieme per documentare le difficoltà di quei mesi finali. I due coniugi ottantasettenni cominciarono a scrivere spinti dal bisogno di trovare significato e soccorso nella scrittura, ma anche dalla speranza di essere utili ad altri che, come loro, stavano lottando contro una malattia terminale. Nacque così il volume “Una questione di morte e di vita” (Neri Pozza, 2022) che, alternando i capitoli fra i due autori, raccoglie in modo profondo e intimo le riflessioni, le emozioni, i pensieri e le sofferenze di ciascuno dei due lungo il percorso di cura. Nelle pagine finali, Irvin, ormai vedovo, si rivolge a Marilyn dicendo “Sei stata così saggia a invitarmi a scrivere questo libro con te… no, no, non è corretto: non mi hai invitato; hai insistito perché mettessi da parte il libro che avevo iniziato e, piuttosto, scrivessi queste pagine insieme a te. E ti sarò per sempre grato per la tua insistenza: questo progetto di scrittura mi ha tenuto in vita da quando sei morta, centoventicinque giorni fa.”

Meglio di qualsiasi riflessione teorica, queste parole colgono con vivida chiarezza il ruolo della narrazione nelle fasi finali della vita e nel lutto. Byron Good, antropologo e pioniere nel campo della medicina narrativa, descrive il narrare come “uno sforzo di dare forma al dolore, di dare nome alle sue origini nel tempo e nello spazio”. Raccontare è proprio questo, non tanto (o non solo) un modo per registrare o ripercorrere gli eventi vissuti, ma soprattutto un atto che conferisce significato all’esperienza, costruendo una trama che aiuta a integrare la sofferenza e la perdita nella propria autobiografia.

Nel fine vita e nel percorso di elaborazione del lutto la narrazione è infatti una risorsa importante, che ha lo straordinario potere di restituire, quantomeno parzialmente, un senso a un tempo sovente percepito come vuoto, caotico, incerto e disorientante.

La narrazione, e in particolare la narrazione autobiografica, è uno strumento terapeutico che integra e arricchisce il lavoro degli operatori sanitari. Si pensi, ad esempio, alle numerose esperienze di medicina narrativa nelle cure palliative e nell’assistenza ai pazienti affetti da malattie cronico-degenerative; oppure alla terapia della dignità di Harvey Max Chochinov, un intervento psicologico che aiuta il malato a soffermarsi sulle cose che per lui contano di più sul piano esistenziale e che vorrebbe fossero ricordate dalle sue persone care, per aiutarlo a produrre una testimonianza scritta da lasciare ai suoi parenti e amici.

La narrazione è anche una straordinaria risorsa nelle mani di chiunque abbia il desiderio e la motivazione di dare parola al proprio vissuto. Christine Valentine, ricercatrice dell’Università di Bath, ha mostrato come le bereavement narratives siano un modo per preservare il legame con le persone scomparse e per socializzare il dolore del lutto, affrontandolo senza tuttavia patologizzarlo.

Nella mia esperienza di lavoro nel campo del fine vita ho incontrato molte persone che hanno trovato forza e conforto nella scrittura e in altre forme di narrazione. Per alcuni il bisogno di raccontare la propria esperienza è molto forte. Nelle riunioni dei gruppi di Auto Mutuo Aiuto, una delle donne ricordava come nei primi mesi si sentiva quasi soffocata dall’urgenza di parlare della malattia e della morte di suo figlio. Aveva quindi deciso di cominciare a scrivere un diario e, sulle pagine, aveva riversato le parole che premevano per uscire dalle sue labbra e che non sempre poteva pronunciare. Un uomo, invece, aveva usato la scrittura per riorganizzare la memoria di sua moglie scomparsa. Nei primi mesi, egli era attanagliato da timore di dimenticarla e, simultaneamente, faceva un’enorme fatica a ricordare: guardare le foto di lei era straziante e le uniche immagine che gli veniva spontanee erano quelle degli ultimissimi giorni in ospedale. Con sforzo, un giorno come tanti altri si era messo davanti al computer e aveva intrapreso il compito di scrivere i ricordi della vita trascorsa insieme. Gradualmente, egli era riuscito a ricontattare momenti felici, piccoli aneddoti, persino liti e discussioni finite con un abbraccio. Scrivere, inoltre, lo stimolava a “fare” delle cose: telefonare un vecchio amico per ricostruire insieme un episodio di un passato molto lontano; aprire e riordinare i cassetti con i documenti della moglie, che per mesi erano stati intoccabili tanto era doloroso il solo pensiero di avvicinarsi.

Questi due esempi sono eloquenti del ruolo terapeutico della narrazione. Quando raccontiamo si attiva un processo mentale diverso rispetto a quello del pensiero individuale, che sovente assume la forma di un monologo interiore. Raccontare, per quanto si faccia in solitudine, presuppone un atto comunicativo: c’è sempre un “altro” – un lettore, un ascoltatore, un osservatore/osservatrice – al quale “dire” qualcosa. Questo comporta la necessità di spiegare ogni passaggio per renderlo comprensibile al nostro interlocutore; obbliga a trovare le parole giuste per esprimere sensazioni ed emozioni che sovente sono confuse e soverchianti; spinge a esplorare la propria interiorità, a cercare di comprenderla, per poterla condividere con altri.

Che si tratti di storie orali, di scrittura autobiografica oppure di narrazioni che usano altri linguaggi artistici, il narrare è un movimento all’insegna dell’incontro, dell’apertura e della condivisione; un viaggio dentro il sé che, simultaneamente, avvicina all’altro, sostenendo chi soffre nel lungo processo di riconnettersi con la vita.

Voi avete mai usato la scrittura autobiografica o la narrazione in momenti di sofferenza? quale ruolo ha avuto per voi l’esperienza di raccontarvi?

Elena, la Svizzera e la dignità della morte, di Marina Sozzi

In genere preferisco non parlare del tema dell’eutanasia e del suicidio assistito, su cui ho già in alcune occasioni espresso il mio pensiero.

Ma quando leggo sui quotidiani descrizioni approssimative e imprecise delle storie delle persone che scelgono di andare in Svizzera, mi viene il desiderio di commentare. Non intendo certo commentare la scelta della signora Elena, che si è recata a Basilea con Cappato a concludere la sua vita. Non si può e non si deve giudicare le scelte delle persone, che si sentono o non si sentono di vivere la propria malattia fino alla fine. Ciascuno sceglie in base alla propria storia, alle proprie risorse, a molti altri fattori della propria vita che non sono sindacabili.

Tuttavia, quando la storia di Elena, su Repubblica o sulla Stampa, è narrata come se l’alternativa di Elena fosse morire soffocata per via del suo microcitoma, non si può tacere.

Scrive Maria Novella De Luca su Repubblica: «Se n’è andata così Elena, con la voce sottile e il coraggio di un leone, lasciando un video che è un limpido testamento di amore per la vita. “Mi sono trovata davanti a un bivio. Una strada più lunga che mi avrebbe portata all’inferno, una più breve che poteva portarmi qui in Svizzera, a Basilea: ho scelto la seconda.”»

Ora, l’alternativa al suicidio assistito, nel caso di Elena, non è la sofferenza bruta a cui fa riferimento sia lei stessa che la giornalista: “l’inferno”.

E da questo punto di vista credo sia importante che, oltre a poter scegliere – e in Italia, dopo la sentenza della Corte Costituzionale, prima o poi una legge sul suicidio assistito si farà- si possa scegliere sulla base di buone informazioni.

E queste informazioni non le troviamo mai, o quasi mai, sui mass media nazionali: le cure palliative permettono di non soffrire dal punto di vista fisico, e di essere sostenuti dal punto di vista umano, psicologico e spirituale. Nel caso di Elena, se il microcitoma (tumore polmonare molto aggressivo) o le metastasi le avessero provocato dei sintomi cosiddetti “refrattari” (che non si riescono a contenere con i farmaci), o se la sua angoscia di morire soffocata fosse troppo forte, ci sarebbe stata l’indicazione per una sedazione palliativa. Questa sedazione non ha nulla a che fare con il suicidio assistito, perché non abbrevia né allunga la vita, e perché diverso è l’obiettivo (nel suicidio assistito i farmaci ingeriti sono volti a provocare la morte, mentre nella sedazione palliativa viene indotta una forma di sonno profondo che azzera la coscienza e anche la sofferenza, che sia fisica o mentale).

Quindi Elena avrebbe potuto finire la sua vita nella sua casa, circondata dall’affetto dei suoi cari, con una sofferenza tenuta sotto controllo. Quindi massimo rispetto per la sua scelta, ma l’alternativa non sarebbe stata “l’inferno”. E questo è importante dirlo per tutti gli altri innumerevoli malati di tumore che devono affrontare la fine della propria vita.

Ancora Repubblica: «Elena ha registrato un video – lucido e straziante – in cui testimonia la sua libera e inappellabile scelta, ma accusa anche il nostro paese di averla costretta ad emigrare per poter morire con dignità. “Avrei sicuramente preferito finire la mia vita nel mio letto, nella mia casa, tenendo la mano di mia figlia, la mano di mio marito. Purtroppo questo non è stato possibile e quindi sono dovuta venire qui da sola.» Ecco, no.

Nulla da eccepire sulla libera e inappellabile scelta di Elena, ma in Italia abbiamo due ottime leggi sul fine vita (la 38 del 2010 e la 219 del 2017) che le avrebbero permesso di morire nel suo letto, tenendo la mano dei suoi familiari.

Quando si decide che il malato non se la sente più di affrontare la malattia, l’équipe propone la sedazione palliativa, e la spiega accuratamente al paziente e alla sua famiglia, così che possano prendere insieme una decisione, e prima che la sedazione venga praticata la famiglia può riunirsi per un saluto, per le ultime parole d’amore. La sedazione non è sempre irreversibile, e talvolta è possibile programmare una sedazione intermittente, che permetta ad esempio al malato di riposare ma di essere ancora presente in alcuni momenti. La sedazione palliativa è uno strumento terapeutico duttile ed efficace, e, insieme a tutti gli altri, è volto a garantire la dignità alla fine della vita. Le cure palliative hanno come priorità la dignità del malato. Troppo spesso si rivendica la dignità come se la morte programmata fosse l’unica soluzione per garantirla.

Le storie che talvolta si sentono, di persone prese in carico troppo tardi, e che hanno sofferto, sono storie che dipendono prevalentemente dalla mancanza di cultura sulle cure palliative. Mancanza di cultura dei medici, che tardano troppo ad attivare le cure palliative; e anche mancanza di cultura dei cittadini, che ignorano i loro diritti (le cure palliative sono garantite a tutti come diritto dalla legge 38). Talvolta, certo, dipendono anche dalla cattiva organizzazione delle ASL e dai loro ritardi.

Ma anche di questo siamo tutti responsabili. Perché, oltre ad invocare il suicidio assistito e l’eutanasia, dovremmo informarci meglio e conoscere le possibilità che le cure palliative offrono di affrontare con dignità, con la tutela della qualità della vita, la propria morte. E dovremmo fare una battaglia civile perché le cure palliative siano estese a tutti i malati che ne hanno bisogno, in tutti i contesti di cura.

Sono ansiosa di sapere cosa ne pensate. Grazie in anticipo per i vostri commenti.

Il valore della morte, di Marina Sozzi

«La storia del morire nel ventunesimo secolo è la storia di un paradosso». Milioni di persone sono sottoposte ad accanimento terapeutico negli ospedali, e le famiglie e le comunità non sono più protagoniste della morte dei loro membri, hanno perso competenza e tradizioni.

Da quando, nelle ultime generazioni, il morire è gestito dalla sanità, cure futili e inappropriate continuano ad essere praticate negli ultimi mesi, giorni e addirittura ore di vita. Si spendono, per cure futili negli ultimi mesi di vita, cifre eccessive, che non apportano alcun beneficio alle persone. In molti casi servono solo ai curanti per poter evitare di parlare di morte con i loro pazienti. Le cure palliative, che sarebbero la risposta più adeguata, non sono ancora sufficientemente accolte ed applicate nel mondo.

Ma, cosa ancora peggiore, centinaia di milioni di persone non ricevono invece le cure necessarie, muoiono per malattie che potrebbero essere guarite e non hanno neppure accesso ai farmaci antidolorifici. Il modo in cui si muore è ancora gravido di diseguaglianze, dipende dalla porzione di mondo in cui si vive, dalla situazione economica, dal genere, dall’etnia, dall’orientamento sessuale.

Da queste considerazioni prende le mosse la riflessione della Commissione Lancet sul tema della morte, pubblicata al fine di gennaio di quest’anno, che potete leggere integralmente qui.

A cosa dobbiamo tutto questo?

Secondo la Commissione il cambiamento climatico, la pandemia, la distruzione dell’ambiente, e l’atteggiamento dominante nei confronti della morte tipico dei paesi ricchi hanno un’unica e medesima origine: l’illusione di avere un controllo sulla natura, come se l’uomo non ne facesse integralmente parte.

Si tratta ora, scrive la Commissione, di riscoprire il valore della morte: sì, proprio il valore. Perché vita e morte sono saldamente intrecciate e non esisterebbe l’una senza l’altra.

Occorre modificare il modo in cui comprendiamo, esperiamo e gestiamo la morte, e per farlo occorre trasformare al contempo numerosi fattori sociali, culturali, economici, religiosi e politici.

La Commissione Lancet pone cinque principi di un’utopia realistica alla quale lavorerà nei prossimi anni.  Auspica cioè:

1) Che siano affrontate e superate le differenze sociali di fronte al morire e al lutto
2) Che la morte sia compresa come processo relazionale e spirituale, e non come evento biologico
3) Che ci siano per tutti reti di cura e di sostegno per il morire e per accompagnare la perdita e il lutto.
4) Che diventino comuni e correnti i discorsi sul tema della morte e della perdita
5) Che la morte sia riconosciuta come qualcosa che ha un alto valore.

Vorrei concentrarmi su questo termine, “valore”, che sembra stravagante e irritante in un’epoca come la nostra, nella quale facciamo tanta fatica ad accettare la morte, anche quando arriva in età avanzata, dopo una lunga vita soddisfacente. E che, a maggior ragione, ci appare come una terribile ingiustizia quando arriva precocemente. Viviamo in un mondo che tende a negare alla morte ogni valore. E allora in quali sensi la Commissione di Lancet fa riferimento al “valore della morte”?

Senza la morte, scrive, “ogni nascita sarebbe una tragedia”, e la civiltà sarebbe impossibile. La morte è un meccanismo omeostatico necessario alla vita: i vecchi lasciano il posto ai giovani e questo ricambio permette sia l’evoluzione sia il rinnovamento. Già Anassimandro, nell’antica Grecia, scriveva che “che principio degli esseri è l’illimitato, da dove infatti gli esseri hanno l’origine, lì hanno anche la distruzione secondo necessità, poiché essi pagano l’uno all’altro la pena e l’espiazione dell’ingiustizia secondo l’ordine del tempo”. Intendendo con questo che occorre, nella dimensione limitata del tempo, lasciare il posto a coloro che vengono dopo di noi.

Inoltre, senza la morte non ci sarebbero nuove idee e non ci sarebbe il progresso. Max Planck aveva affermato che la scienza avanza non perché gli scienziati modifichino la loro opinione, ma perché c’è ricambio generazionale.

Anche i filosofi hanno riflettuto su questo. Heidegger sostenne che nessuno può morire al posto di qualcun altro, e che qualora si comprenda profondamente questo fatto, con senso di responsabilità, è possibile diventare autenticamente se stessi: anche in questo senso la morte dà valore alla vita, come consapevolezza del limite.

C’è un ultimo senso in cui la Commissione parla di valore, ed è qualcosa di molto familiare a chi opera in cure palliative: accompagnare un morente è un dono, come scrive Katherine Mannix: dando tempo, attenzione, e compassione alle persone che muoiono ci connettiamo con loro e con la nostra condivisa fragilità, con la nostra umana vulnerabilità, e comprendiamo la nostra interdipendenza, e capiamo che questo è proprio il nucleo delle relazioni umane.

Cosa pensate di questo termine, valore, attribuito dalla Commissione Lancet alla morte? Vi riconoscete in questa posizione o ritenete che sia da ripensare?

Le DAT alla luce del Covid, di Marina Sozzi

Le DAT, ovvero le Disposizioni anticipate di trattamento, la cui validità giuridica è stata stabilita dalla legge 219/2017, sono un tema molto importante, che questo blog ha già trattato in passato. Ad oggi, nonostante siano passati quattro anni dall’approvazione della legge, meno dell’1% della popolazione italiana ha testato. Forse negli ultimi due anni hanno avuto un peso le difficoltà create dalla pandemia ad accedere agli uffici comunali preposti, specialmente nelle grandi città. Tuttavia, la percentuale di testatori è irrisoria.

Le persone faticano a immaginarsi in una situazione in cui non siano più in grado di decidere per sé, e spesso non sono sicuri su cosa sia opportuno scrivere su quel modulo di Disposizioni anticipate di trattamento, o non sanno a chi dare il ruolo di fiduciario.

La pandemia, certo, non ha semplificato le cose.

Alcuni avevano ben chiaro di non voler essere attaccati a ventilatori meccanici, quando pensavano che la respirazione artificiale potesse venir loro applicata a seguito di un gravissimo incidente, ad esempio, col rischio di restare in stato vegetativo permanente, come è accaduto a Eluana Englaro. Non ci aspettavamo, però, che potesse colpirci una malattia infettiva gravissima, che ha compromesso la nostra capacità di respirare, ma dalla quale vi era una possibilità di uscire guariti, perfettamente ristabiliti.

E, d’altro canto, invece, in questa epidemia di Covid, in certi casi aver testato sarebbe stato importante per salvaguardare la propria capacità di scegliere, anche nella situazione convulsa in cui versava la sanità nei momenti di diffusione più rapida del virus.

Non siamo tutti uguali, e ci sono persone, magari molto anziane, o un po’ stanche di vivere, che non avrebbero voluto finire in terapia intensiva qualora si fossero ammalati di Covid, ma solo essere accompagnate da buone cure palliative. Invece, nella maggioranza dei casi, hanno deciso i medici, e sappiamo peraltro dai loro racconti quanto sia stato difficile scegliere tra i pazienti malati di Covid che si recavano in ospedale.

Diceva una dottoressa intervistata da Open nell’aprile 2020: «All’inizio avevo paura. Ora no. Ti abitui alle regole di un ospedale in guerra, ti abitui al terremoto, a prendere una decisione al minuto». Tra cui quella più difficile: «Chi puoi salvare e chi no. Io l’ho fatto e devo conviverci ogni notte». «Marzo è stato il mese peggiore della mia vita, lottavamo contro l’invisibile. I letti in terapia intensiva non bastavano mai. E così capitava che dovendo scegliere tra un paziente settantenne, pieno di complicanze, e un altro che poteva farcela, sceglievi di intubare il secondo, lasciando andare il primo». Una decisione in cui ci si consultava tra colleghi, spiega la dottoressa, «ragioni, rifai i calcoli cento volte, litighi. Ma alla fine decidi».

Alcuni di noi si sono scandalizzati (a mio modo di vedere erroneamente) quando, all’inizio di marzo 2020, la SIAARTI, società scientifica degli anestesisti e dei rianimatori, ha pubblicato un documento in cui dava istruzioni ai colleghi che si trovavano di fronte a una scarsità di risorse in rapporto alla quantità di malati. Scrivevano gli intensivisti che lo squilibrio tra necessità cliniche e disponibilità effettiva delle risorse, li obbligava a utilizzare i criteri tipici della medicina delle catastrofi: «Come estensione del principio di proporzionalità delle cure, l’allocazione in un contesto di grave carenza delle risorse sanitarie deve puntare a garantire i trattamenti di carattere intensivo ai pazienti con maggiori possibilità di successo terapeutico: si tratta dunque di privilegiare la “maggior speranza di vita”. Il bisogno di cure intensive deve pertanto essere integrato con altri elementi di “idoneità clinica” alle cure intensive, comprendendo quindi: il tipo e la gravità della malattia, la presenza di comorbidità, la compromissione di altri organi e apparati e la loro reversibilità.»

Sarebbe cambiato qualcosa se la popolazione avesse in maggioranza testato, esprimendo ad esempio le proprie preferenze riguardo alla ventilazione meccanica? Si sarebbe potuto tener conto di quelle disposizioni, sapendo che erano state scritte in una situazione molto diversa, nella quale le malattie letali erano prevalentemente croniche, e la morte come evento improvviso ce la si sarebbe potuta aspettare soprattutto come conseguenza di gravi incidenti?

Credo che sia giunto il momento di ripensare alle DAT, alla luce del Covid, per fare una campagna rilevante, nazionale, di divulgazione. In questi mesi passati l’ha fatta VIDAS, fondazione milanese che si occupa di cure palliative, che ha promosso l’idea di testare con spot su diversi canali, tv, radio, stampa e digitale, che sono stati fruiti da oltre 23 milioni di utenti. Circa 6.000 persone hanno voluto approfondire, e scaricato la guida presente sul sito VIDAS e il modulo per la stesura delle proprie DAT, messo a punto con la collaborazione della bioeticista Patrizia Borsellino. Lo slogan è stato: “Scelgo adesso, perché posso”. La linea telefonica di prima informazione gestita da volontari ha ricevuto tra ottobre e dicembre decine di richieste da parte di persone interessate e desiderose di approfondire. C’è stato anche un servizio di sportello che ha accompagnato alla redazione del proprio biotestamento, valorizzato come un atto di libertà e autodeterminazione. Sarà poi interessante, a campagna conclusa, capire quanti sono stati i testatori in più, e se nell’area del milanese, dove è stato possibile accedere allo sportello di consulenza, ci sia stato uno spostamento interessante delle percentuali di persone che hanno lasciato le proprie disposizioni.

Se dovesse essere così, si renderebbe evidente che occorre una consulenza per indurre le persone a testare, come dimostrano anche i casi dei paesi dove una campagna nazionale seria è stata fatta, come il Canada (12% della popolazione ha scritto il proprio living will) e gli Stati Uniti (25%).

Ma soprattutto, ritengo che il Covid debba indurci a lasciare le nostre volontà dando non tanto precise indicazioni su ciò che si accetta e ciò che si rifiuta, quanto fornendo la nostra visione filosofica della vita e della morte, delle limitazioni della nostra salute che siamo in grado di accettare, e di quelle che invece renderebbero la nostra esistenza non più meritevole per noi di essere vissuta. E per arrivare a questa visione, occorre che ci vengano poste le giuste domande, che ci facciano riflettere, andando in profondità, sul nostro rapporto con la vita e con la morte.

Che cosa ne pensate? Avete riflettuto sulle DAT durante la pandemia? Secondo voi un medico avrebbe potuto, o dovuto, tener conto del testamento biologico eventualmente presente nel contesto dell’epidemia di Covid-19?

C’è bisogno di cure palliative in RSA, di Marina Sozzi

Altre volte su questo blog ci siamo chiesti come muoiano i nostri anziani, soprattutto quando sono ricoverati in RSA (Residenze sanitarie assistenziali). O meglio, quando abbiano voluto o dovuto eleggere come loro “casa” una di queste strutture, perché non più del tutto autosufficienti o perché affetti da una forma di demenza.

Ora, negli ultimi mesi ho avuto modo di seguire (perché coordinato da me) un progetto di formazione in cure palliative in quattro RSA dell’area metropolitana torinese. Si è trattato di un progetto simile al progetto VELA, portato avanti già anni fa da Franco Toscani in Lombardia.

Come sono innanzitutto organizzate le RSA?

Nelle Residenze ci sono in genere moltissimi OSS (operatori sociosanitari, che fanno un corso biennale per prepararsi alla professione), alcuni infermieri, pochissimi o nessun medico (talvolta, a parte il direttore sanitario, i medici di riferimento sono solo i medici di medicina generale che raramente, o solo per ragioni di emergenza, si recano in struttura a vedere i loro pazienti). Gli OSS sono circa da 4 a 7 volte più numerosi degli infermieri. Non dappertutto è previsto uno psicologo nell’organico, o qualche fisioterapista.

Gli OSS svolgono quindi buona parte del lavoro di cura, sono in maggioranza stranieri, sono pagati poco e in genere non prendono parte alle decisioni di carattere sanitario che riguardano i pazienti. Questo accade per ragioni gerarchiche, nonostante il fatto che gli OSS siano le figure maggiormente a contatto con i residenti, e che abbiano quindi un’idea piuttosto precisa delle condizioni di salute di ciascuno e del loro eventuale peggioramento.

In questa situazione cosa accade quando un paziente si aggrava, perde autonomia, comincia a mangiare meno, a non alzarsi dal letto? Raramente i familiari vengono avvertiti, e preparati alla realtà del declino, e all’avvicinamento del loro congiunto alla fine della vita.

Accade ancora troppo frequentemente che, ad esempio, quando una persona non riesce più a deglutire (è un decorso frequente nelle forme di demenza) venga inviata in ospedale e si passi all’alimentazione artificiale, rischiando di aggiungere sofferenza a sofferenza. Le evidenze scientifiche dicono che in quei casi l’alimentazione artificiale non contribuisce al benessere della persona (quindi non migliora la qualità della sua vita) e neppure aumenta la quantità di vita residua. Inviando al Pronto Soccorso, tuttavia, si rimanda comunque il “problema” (e la responsabilità) ad altri, perché nessuno in RSA è pronto a prendersela.

“E’ la famiglia che ci chiede di mandare il parente in Pronto soccorso”, dicono sovente gli operatori. E certamente è più probabile che ci sia questa richiesta in un contesto in cui le famiglie non sono state adeguatamente preparate a quello che sarebbe accaduto. Se avessero saputo per tempo che l’evoluzione della demenza avrebbe portato il loro caro a non poter più mangiare (e che quello sarebbe stato anche un segno dell’avvicinarsi della fine), forse avrebbero potuto accettarlo ed evitare inutili e gravosi spostamenti e sofferenze a chi sta morendo.

L’altro grave esempio delle conseguenze di una preparazione carente delle équipe curanti in RSA è la sottovalutazione del dolore (e quindi il suo mancato trattamento) nelle persone con decadimento cognitivo, che non sanno quindi spiegare dove hanno male e come questo dolore si presenti. È frequente che vengano fraintesi l’agitazione, i lamenti, il pianto, da parte di operatori che interpretano questi sintomi come dovuti al declino cognitivo, mentre sovente sono segni di un dolore non controllato.

Nelle RSA la permanenza media degli ospiti è di poco più di 12 mesi, ed è chiaro che le persone che vi abitano si trovano nell’ultimo miglio della loro vita. Alcuni vivono in RSA meno, molto meno di 12 mesi. Come è possibile quindi che non si rifletta sull’esigenza di garantire una buona qualità della fine della vita in questi luoghi (dove tutti i residenti, o quasi tutti, concludono in effetti la loro vita?)

Ciò che manca, insomma, nelle strutture per anziani, è la sensibilità palliativa, l’approccio palliativo, l’attenzione per la sofferenza e il disagio, le competenze comunicative con gli ospiti e con le famiglie.

Come fare dunque a sollecitare questa attenzione e questo approccio in tutti coloro che lavorano in queste strutture, così da garantire una vita e una morte dignitosa a chi ci abita?

La prima cosa da insegnare al personale è a porsi quella che è stata definita la “domanda sorprendente”, che consiste nel chiedersi, per ogni paziente, o ospite (nel caso delle RSA): “Sarei sorpreso se questa persona morisse nel giro di sei mesi o un anno?”. Se la risposta è “No, non sarei sorpreso”, quello è già il momento per dare inizio a un approccio palliativo.

Le prossime sfide, per le cure palliative (che avranno finalmente una scuola di specialità per i medici), sono: 1) ampliare i luoghi di cura in cui saranno disponibili cure palliative (quindi anche gli ospedali e, appunto, le RSA); e 2) fare in modo che le cure palliative siano applicabili a ogni patologia (e gli anziani ricoverati in RSA spesso sono persone molto fragili, portatrici di più di una patologia cronica e degenerativa).

Certamente, formare gli operatori delle RSA è di primaria importanza, sia per le persone che vi risiedono, sia per i loro familiari, spesso carichi di sensi di colpa per non riuscire a curare a casa il loro caro; sia inoltre per i curanti, affaticati sia fisicamente sia emotivamente, a maggior ragione con il Covid (e infatti un veloce turn over degli operatori in queste strutture è usuale).

Ma occorre anche che i decisori (come si dice con un brutto termine) richiedano alle RSA la competenza già acquisita in cure palliative di base per accreditare le strutture. In questo modo l’adeguata formazione non sarebbe iniziativa singola di alcuni direttori sanitari particolarmente sensibili e lungimiranti, ma la norma.

Avete esperienze che riguardano la cura in RSA? Cosa pensate dell’auspicio che vi sia una formazione alle cure palliative in queste strutture per anziani?

La Death Education tra i carabinieri, di Davide Sisto

A novembre 2021 sono stato invitato a Viareggio, in qualità di tanatologo, al convegno “Suicidi in divisa. Analisi, gestione e prevenzione del fenomeno. Aspetti civili e penali”, organizzato dal Nuovo Sindacato Carabinieri (NSC). L’urgenza di questo convegno nasceva dal fatto che, a partire dal 1° gennaio, si erano suicidati nel corso dell’anno appena passato circa cinquanta esponenti delle forze dell’ordine: sette guardie giurate, sei appartenenti alla Polizia Locale, cinque alla Polizia Penitenziaria, quattro alla Polizia di Stato, quattro alla Guardia di Finanza, due alla Marina Militare e ben ventidue esponenti dell’Arma dei Carabinieri. Pertanto, il NSC ha voluto provare ad analizzare le molteplici ragioni di questo drammatico fenomeno con l’ausilio di associazioni che si occupano in maniera specifica del problema, quindi di psicologi, sociologi, politici, giornalisti, ecc. Particolare attenzione è stata dedicata alla presenza di Sergio De Caprio, meglio conosciuto come Capitano Ultimo, noto per aver arrestato nel 1993 Totò Riina.

All’interno di questo contesto assai variegato ho ritenuto preziosa la possibilità di portare il mio contributo in quanto studioso di tanatologia e Death Education. Ora, occorre innanzitutto fare una premessa doverosa: il tema dei suicidi in divisa implica un necessario rimando a un insieme di fattori psicologici, familiari, sociali, culturali e ambientali che ineriscono allo specifico ambito lavorativo di cui parliamo. Di conseguenza, non è compito di un professionista esterno entrare – con presunzione di conoscenza – all’interno di quelle dinamiche gerarchiche, disciplinari, relazionali e, a volte, giudiziarie che caratterizzano la quotidianità di chi presta servizio nelle forze dell’ordine. E che, di fatto, sono a fondamento – quando risultano particolarmente stressanti o ingiuste – della scelta estrema di togliersi la vita.

Detto questo, il contributo della Death Education può essere fecondo, in primo luogo, riguardo alla possibilità di acquisire chiara consapevolezza delle conseguenze negative della rimozione sociale e culturale della morte. Prendere coscienza della necessità di discutere senza pudore o imbarazzo della morte e della nostra costitutiva vulnerabilità esistenziale significa, infatti, offrire uno strumento importante per ridimensionare quei meccanismi tossici che, contraddistinguendo i legami gerarchici e il mito della mascolinità, provocano un senso di isolamento nel singolo lavoratore. Spesso, in altre parole, un certo superomismo malato può essere ridimensionato anche tenendo conto della democratica finitezza esistenziale che non esclude nessuno e che è alla base della rivalutazione qualitativa dei rapporti interpersonali.

In secondo luogo, la Death Education può rappresentare un punto di partenza importante per rivedere il rapporto tra la società e il tema del suicidio, il quale risulta essere ancora oggi il non plus ultra dei tabù. Di suicidio si parla il meno possibile, spesso nemmeno lo si menziona quando ha luogo. Si tende, generalmente, ad associare la scelta del suicidio all’effetto di una debolezza psicologica che, prima, porta all’isolamento lavorativo del singolo individuo, soprattutto in ambienti di lavoro in cui la forza – mentale e fisica – è ritenuta imprescindibile. Poi, una volta avvenuto il suicidio, spinge a concentrarsi sui sensi di colpa, sulla rabbia nei confronti del suicida, sull’insieme di cose che si potevano fare e non si sono fatte. Quindi, porta l’attenzione più sugli altri che su chi ha ritenuto che vivere non avesse più senso. Un’attenzione precisa dedicata alle evoluzioni storiche e sociali del suicidio, al legame tra il suicidio e la disposizione arbitraria della propria vita, al confine labile tra l’opportuna prevenzione e l’inopportuna – invece – patologizzazione del gesto suicidario richiedono l’ausilio di tutti quei professionisti che si occupano di tanatologia e di Death Education e che possono fornire anche solo degli spunti per districarsi nella complessità delle questioni.

In altre parole, ritengo sia doveroso riuscire a estendere la presenza dei tanatologi in tutti quei campi lavorativi in cui è basilare una riflessione attenta sul nostro legame con il fine vita. Così come è importante che, all’interno della nostra società, ci si cominci ad accorgere di questo peculiare campo di studi interdisciplinari, cogliendo il filo rosso che lega molteplici nevrosi presenti nei nostri rapporti interpersonali alla decennale rimozione sociale e culturale della morte dal nostro quotidiano.

Voi cosa ne pensate? Ritenete utile la presenza dei percorsi di Death Education in più ambiti lavorativi della nostra società? Come sempre, attendiamo commenti e riflessioni.

Intervista a Ludovica De Panfilis, di Marina Sozzi

Abbiamo intervistato Ludovica De Panfilis, che lavora come ricercatrice sanitaria e bioeticista presso l’Azienda USL-IRCCS di Reggio Emilia. Una figura unica in Italia, che può essere di ispirazione per chi si occupa di cure palliative in Italia.

In cosa consiste il tuo lavoro in ospedale?

Cinque anni fa ho avuto il compito di creare un’unità di bioetica all’interno dell’IRCCS. Il progetto era sperimentale, e si intitolava “La bioetica al letto del paziente”. Io cercai di dimostrare che si poteva fare ricerca sui temi dell’etica della cura, e che questo tipo di ricerca aveva effetti sulla qualità della cura e della vita dei pazienti.

Si trattava di una ricerca bioetica diversa da quella che si fa in ambito accademico: non era una ricerca teorica di filosofia morale, ma entrava nelle dinamiche della relazione di cura. E’ un tipo di ricerca che propone l’implementazione di nuovi servizi e ne misura gli effetti (ad esempio l’aumento della pianificazione condivisa delle cure, la soddisfazione dei pazienti nei confronti dell’atteggiamento degli operatori sanitari rispetto a certi processi decisionali; la valutazione della formazione, l’aumento delle competenze etiche).

L’approvazione della legge 219 alla fine del 2017 ha dato un impulso enorme a queste ricerche, l’etica è divenuta all’improvviso importante. Noi lavoriamo soprattutto con le cure palliative, ma anche con il laboratorio di procreazione medicalmente assistita, con il dipartimento di salute mentale, la neonatologia…

Il bioeticista è diventato una figura ricercata dall’équipe, e ho dovuto destinare delle ore non solo alla formazione, ma anche alla supervisione degli operatori che si confrontano con situazioni eticamente complesse.

Per scelta, invece, non interagisco mai con i pazienti direttamente, per non rischiare di creare confusione con altre figure: lo psicologo, l’assistente sociale.

Questa realtà che mi stai descrivendo, e che certamente è un’eccellenza, esiste altrove o è un unicum in Italia?

Ho cercato altre figure come la mia perché ho avuto l’esigenza di confrontarmi, ma ho trovato solo i Comitati per l’etica nella clinica, che non lavorano sulla sperimentazione, e spesso non riescono a raggiungere i problemi reali. Ho trovato però conforto nella realtà internazionale, soprattutto in America, dove le figure che svolgono il mio lavoro sono obbligatorie per ospedali che superino un certo numero di posti letto.

Penso che l’accademia avrebbe dovuto far virare la bioetica verso questo tipo di ricerca, che avrebbe dato un senso nuovo agli studi di bioetica. È un’occasione persa.

Com’è il tuo percorso?

Mi sono laureata in filosofia, poi ho sentito parlare degli hospice, e nel 2011, appena laureata, sono andata a fare il Master in cure palliative di Bentivoglio, che allora permetteva l’accesso a tutte le lauree. Durante il Master ho capito che la ricerca sarebbe stata la mia strada, e ho poi fatto il dottorato di ricerca in giurisprudenza.

Come mai secondo te la collaborazione più stretta, nella tua azienda, ce l’hai con le cure palliative?

Secondo me le cure palliative sono intrise di questioni etiche: credo che le competenze etiche siano importanti per gli operatori di cure palliative tanto quanto quelle relazionali, comunicative o cliniche. Sono competenze che si concretizzano nel saper accompagnare una persona a prendere una decisione. Non è affatto semplice. Quando ho scritto le mie disposizioni anticipate di trattamento (ci rifletto tutti i giorni) ho pensato “che fatica!”. In cure palliative, quando un paziente desidera concludere la sua vita in modo coerente con il modo in cui l’ha vissuta, le competenze etiche degli operatori diventano fondamentali. Inoltre, il significato più profondo delle cure palliative è quello di essere una medicina orientata alla condivisione delle responsabilità, e delle scelte. Le cure palliative possono trovare nell’etica sia delle risposte che degli strumenti.

Quali sono i nodi più importanti dell’etica nelle cure palliative?

Il primo tema centrale in questi anni è quello della pianificazione delle scelte. La pianificazione condivisa delle cure è un percorso, che si fa con il paziente, che lo porta a prendere decisioni concrete basate sui suoi valori. È importante saper riconoscere il dilemma etico nei pazienti, saper entrare nella relazione di cura con una persona, senza spingere nella direzione che il medico ritiene quella giusta o migliore. Perché anche in cure palliative c’è il rischio di “paternalismo palliativo”.

Lo stesso tema della sedazione profonda continua è intriso di etica, in quanto la scelta di perdere la coscienza fino al momento della morte deve essere condivisa, affinché possa essere vissuta bene da tutti gli attori. Occorre poi distinguere tra l’autonomia teorica e l’autonomia che si concretizza in scelte, in diritto all’autodeterminazione. Il bioeticista presente nelle riunioni d’équipe è importante per permettere agli operatori di riconoscere i temi etici, che spesso mettono in crisi un’équipe e che non vanno confusi con i problemi psicologici, o anche organizzativi, come talvolta accade. Si pensi inoltre al grande mistero della fine della vita, di cui le cure palliative si occupano, e su cui l’etica (e prima ancora la filosofia) si interrogano da che le conosciamo. Le cure palliative trovano nell’etica la strumentazione per affrontare tutti questi problemi.

Inoltre, è possibile che in futuro i palliativisti dovranno confrontarsi con il tema del suicidio assistito, anche se loro sperano di no, ma capiterà, in qualità di esperti di fine vita.

Hai parlato di paternalismo palliativo. Ho visto che hai scritto un articolo sul nudge, ossia sul paternalismo gentile. Puoi raccontarci qualcosa a questo proposito?

Noi facemmo un progetto di ricerca che si chiamava Teach for ethics in palliative care, il cui obiettivo era formare dei professionisti sanitari affinché potessero fare consulenza etica ai pazienti e supervisione etica ai colleghi. Durante questo corso era emerso che la tendenza a indirizzare il paziente verso ciò che i professionisti ritenevano giusto fosse qualcosa di intrinseco, che non riuscivano a controllare. Andando a cercare della letteratura che ci aiutasse a riflettere su questa tendenza trovammo il volume del 2014 di Sunstein e Thaler intitolato Nudge. La spinta gentile.

Il concetto proposto dagli autori è noto: gli uomini hanno debolezze sia psicologiche che cognitive, sono inclini all’inerzia, ai pregiudizi, all’incapacità di previsione, all’errore di prospettiva, sono spesso confusi sul loro vero interesse e pertanto hanno bisogno di essere guidati.  C’è quindi bisogno di “utili suggerimenti”, in grado di neutralizzare i pregiudizi, l’emotività, la pigrizia mentale dei singoli individui, e di orientare così le scelte verso scopi riconducibili al bene dell’individuo, che talvolta lui stesso non riconosce. È il paternalismo libertario di cui parlano i due autori, giustificato, dal loro punto di vista, anche dal fatto che l’assoluta neutralità e oggettività, nel presentare le varie opzioni, non è possibile umanamente. In che modo vi è servito questo volume?

Inserimmo all’interno del corso di formazione un Focus Group dedicato al tema delle spinte gentili: infatti ci accorgemmo che in cure palliative non si parlava affatto di paternalismo libertario, eppure si trattava di un atteggiamento presente anche se del tutto involontario. Concludemmo che il nudging era un concetto attraente ma pericoloso, perché rischiava di non favorire l’autonomia del paziente. La consulenza etica invece poteva essere uno strumento per aiutare i pazienti a decidere in maniera autonoma (ma condivisa) ciò che era importante per loro. Uno dei metodi per evitare di utilizzare questa sorta di spinta involontaria era incoraggiare l’autonomia relazionale. Il nudging è molto utile in alcuni contesti, anche di salute pubblica, ad esempio, ma non nella relazione di cura.

Dimmi se interpreto bene: l’autonomia si realizza proprio nella dimensione della relazione di cura, perché l’autonomia non è qualcosa che possediamo dalla nascita come caratteristica a priori, ma è qualcosa che si raggiunge nella relazione con altri.

Esattamente.

Inoltre, io credo che quando ci si ammala e si inizia a diventare dipendenti dagli altri l’idea di autonomia astratta decada. Si può lavorare su un’autonomia contestuale e quindi cercare di arrivare all’obiettivo di aiutare le persone ad essere veramente autonome.

Ho visto il volume a tua cura Teach to Talk, Apprendere per comunicare, appena uscito. Di cosa si tratta?

Questo è stato un bel progetto pensato e voluto dalla dottoressa Tanzi. Noi ci siamo conosciute durante il master in cure palliative: eravamo tutte e due molto giovani e condividevamo l’idea dell’importanza di un’etica della comunicazione. Il libro parla di una comunicazione che non è solo efficace, che non è solo empatica, ma è soprattutto autentica. Ci siamo interrogate anche su come formare gli operatori a questo tipo di comunicazione, andando al cuore della relazione comunicativa.

Cosa ti ha cosa ti aspetti nel futuro? Come pensi che questa tua professionalità sarà ulteriormente spendibile?

Penso che arriveranno altre spinte normative a sottolineare l’importanza di questa professionalità.  Mi viene in mente, ad esempio, il testo che è stato depositato alla Camera sulla morte volontaria: magari ci vorranno altri dieci anni ad approvarlo, ma la società civile domanda.

Il mio sogno sarebbe trasferire il modello che a Reggio Emilia sta funzionando nel maggior numero possibile di luoghi di cura. Mi piacerebbe che si creasse una schiera di persone che fanno il mio lavoro, con l’obiettivo di migliorarsi sempre, di non pensare mai di avere la verità in tasca, ma anzi di mettersi sempre in questione attraverso la ricerca.

Personalmente, poi, mi piacerebbe dedicarmi solo alle cure palliative.

Come mai questo interesse specifico per le cure palliative?

Le cure palliative devono restare fedeli a se stesse: l’etica completa il profilo del palliativista. Inoltre, nell’attivazione precoce delle cure palliative, di cui oggi si parla tanto, i valori, le preferenze e gli obiettivi della persona sono imprescindibili. Le maggiori soddisfazioni inoltre vengono da lì, la Società italiana di Cure palliative è molto attenta alla dimensione etica. L’etica permette alle cure palliative di mantenere viva la loro coscienza critica nei confronti della biomedicina.

Quali hospice per il futuro? di Marina Sozzi

Nella mia vita ho visitato molti hospice, alcuni sono all’interno di strutture ospedaliere, altri hanno la fortuna di godere di una posizione meravigliosa, di essere all’interno di ex ville, con parchi ricchi di alberi secolari e vista di grande bellezza. Gli hospice non sono tutti uguali, alcuni somigliano un po’ troppo a reparti ospedalieri, altri riescono a dare l’idea della casa che vogliono il più possibile mimare.

Quasi tutti, però, sono spesso difficili da trovare, decentrati rispetto al centro della città, e all’interno degli spazi dedicati si fa solo assistenza a chi sta lasciando la vita. Certo, talvolta all’interno degli hospice ci sono attività culturali, musicoterapia o arteterapia, Pet Theraphy e altre iniziative. A mio modo di vedere non basta.

Forse è giunto il momento di ripensare un po’ la nostra concezione dell’hospice, così come dobbiamo imperativamente ripensare le RSA dove muoiono i nostri anziani.

Il punto è che tutte queste strutture risentono un po’, nonostante le migliori intenzioni (soprattutto delle cure palliative), della difficoltà che la nostra cultura ha nel rapportarsi con la morte. La morte è sempre marginalizzata, e negli hospice entrano solo gli addetti ai lavori, medici palliativisti, infermieri di cure palliative, e gli altri professionisti dedicati (oltre ai familiari e ai volontari, naturalmente, pandemia  permettendo).

E se immaginassimo invece di collocare un hospice nel cuore pulsante di una città? Di affiancare all’hospice, nella stessa struttura architettonica, le famose case della salute dei medici di famiglia di cui tanto si parla, ambulatori di medici specialisti, ambulatori di cure palliative simultanee o precoci, e centri di formazione sanitaria e culturale, o comunque luoghi frequentati da molte persone per svariate ragioni?

Lo scopo sarebbe molteplice: ottenere che altre specialità mediche si confrontino quotidianamente con l’approccio palliativo, vedendo i colleghi lavorare e incontrandoli alle macchinette del caffè; rendere più facile, per i medici di medicina generale, attivare per tempo le cure palliative; fare in modo che i cittadini passino frequentemente di fronte all’hospice, ed entrino nella struttura anche per fare altre cose (vedere il loro medico di famiglia o altri curanti, sentire un concerto o una conferenza), così da favorire una maggiore familiarità con la fine della vita; contribuire alla diffusione delle cure palliative precoci e simultanee.

I numeri ci dicono che il bisogno di cure palliative sta crescendo in modo esponenziale nel mondo, e in particolare nei paesi in cui c’è una lunga aspettativa di vita e quindi molte persone anziane e fragili.

Invece di parlare in modo aulico e teorico di Death education (peraltro utile e sacrosanta, specie se si va a farla nelle scuole), perché non proviamo a rivoluzionare i luoghi in cui siamo soliti nascondere i malati gravi e i morenti?

Le cure palliative dovrebbero continuare la loro opera di istanza critica nei confronti della biomedicina, ma anche nei confronti di loro stesse, per evitare il rischio di diventare solo una branca della medicina (a maggior ragione ora che c’è una Scuola di specialità in cure palliative), e riuscire invece a progettare sempre nuovi modi di integrare la morte nella vita.

Che ne pensate?

Eutanasia, lo stato dell’arte, di Marina Sozzi

Non possiamo non riprendere, su questo blog, il tema dell’eutanasia, ultimamente molto discusso nel nostro paese, anche per via del referendum sul quale si stanno raccogliendo moltissime firme.

Partiamo dal quesito referendario, che prevede l’abrogazione di parte dell’art. 579 del codice penale concernente l’omicidio del consenziente. L’articolo resta valido solo qualora sia stata data la morte a un minore, a persona inferma di mente o sotto l’effetto di sostanze stupefacenti, o a persona il cui consenso sia stato estorto con violenza, minaccia oppure carpito con l’inganno.

È bene ricordare che il referendum non è quindi volto a inserire nel nostro ordinamento una legge sulla morte volontaria (il referendum in Italia può essere solo abrogativo), ma a eliminare una difficoltà sulla strada dell’approvazione di una depenalizzazione dell’eutanasia. Occorrerà quindi poi discutere una proposta di legge in parlamento.

Veniamo quindi al Testo unificato adottato come testo base dalle commissioni riunite II e XII della Camera, in una seduta piuttosto burrascosa, martedì 6 luglio 2021.

Per dare un’idea della superficialità e confusione con cui si sta affrontando il problema, va anche detto che, probabilmente nella foga della raccolta firme, il sito del referendum presenta ancora una proposta di legge in quattro articoli, superata dalla discussione alla Camera, e piuttosto inquietante, nella sua assoluta mancanza di garanzie per il cittadino che richiede di accedere alla morte volontaria.

Ma torniamo al testo base (che deve ancora subire l’iter emendativo, e che potete leggere integralmente a questo link. Il testo stabilisce la facoltà di una persona “affetta da una patologia irreversibile o con prognosi infausta” di richiedere assistenza medica per porre fine volontariamente alla propria vita. La definizione di morte volontaria è piuttosto generica, ma mette l’accento sull’autodeterminazione. Per poter fare richiesta eutanasica occorre essere maggiorenni, in grado di prendere decisioni libere e consapevoli, e soffrire fisicamente o psicologicamente in modo intollerabile. Il comma 2 precisa che la persona in questione deve “essere affetta da una patologia irreversibile o a prognosi infausta oppure portatrice di una condizione clinica irreversibile, o essere tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale (e va notato che la possibilità di rifiutare i trattamenti di sostegno vitale è già contemplata nell’ottima legge 219/2017), ed “essere assistita dalla rete di cure palliative o abbia espressamente rifiutato tale percorso assistenziale” (su questo aspetto , che ritengo cruciale, torneremo).

Ma completiamo la descrizione del testo base. La richiesta di morte volontaria, che deve essere “informata, consapevole, libera ed esplicita”, deve essere indirizzata “al medico di medicina generale o al medico che ha in cura il paziente ovvero a un medico di fiducia” (anche su questo aspetto torneremo). L’articolo 5, che norma le modalità, dovrebbe garantire la tutela del paziente, affinché la morte avvenga “nel rispetto della dignità della persona malata e in modo da non provocare ulteriori sofferenze ed evitare abusi”. Il medico che ha ricevuto la richiesta “redige un rapporto sulle condizioni cliniche del richiedente e sulle motivazioni che l’hanno determinata e lo inoltra al Comitato per l’etica nella clinica territorialmente competente”. Il comma 3 precisa che occorre verificare, perché la domanda sia ricevibile, se la persona è stata adeguatamente informata sulle sue condizioni e sui trattamenti sanitari ancora attuabili, in particolare sul proprio diritto ad accedere alle cure palliative. Il Comitato per l’etica dà il suo parere (in sette giorni), e lo invia al medico e al cittadino richiedente. Qualora il parere sia favorevole, il medico lo trasmette, insieme a tutta la documentazione in suo possesso, alla Direzione Sanitaria dell’Azienda Sanitaria Territoriale o Ospedaliera di riferimento. L’articolo 6 è dedicato all’istituzione dei Comitati per l’etica, multidisciplinari, autonomi e indipendenti, e costituiti da professionisti con competenze cliniche, psicologiche, sociali e bioetiche (e dico solo che mi auguro che non si trasformino in pachidermi burocratici come i comitati etici già costituiti). Infine l’articolo 7, «Esclusione di punibilità», oltre a decretare la non punibilità del medico che abbia seguito la procedura di questa legge, ne stabilisce la retroattività.

Questo è l’essenziale.

Come sanno i lettori di questo blog, le mie perplessità intorno all’eutanasia in Italia non riguardano ragioni di tipo religioso o ideologico: la mia posizione è laica e credo che la vita sia disponibile per l’uomo.

Tuttavia, ho alcune preoccupazioni, o dubbi, che proverò a elencare.

La prima è che stiamo discutendo di una legge sull’eutanasia, facendo finta che la legge 38 del 2010 e la legge 219 del 2017 siano pienamente applicate, il che è assolutamente falso.
Siamo in un contesto in cui due italiani su tre non conoscono le cure palliative, o ne hanno un’immagine del tutto distorta; i medici di medicina generale e molti specialisti ne sanno poco di più, e i pazienti arrivano quasi sempre troppo tardi ad essere seguiti in cure palliative, a domicilio o in hospice.

Qualora a questo incerto percorso (che attende ancora di essere esteso a tutte le patologie) si aggiunga la possibilità di chiedere l’eutanasia, c’è il rischio che diventi più pratico, veloce ed economico abbreviare la vita piuttosto che migliorarne la qualità. A discapito dell’autodeterminazione, tanto sbandierata dai sostenitori convinti dell’eutanasia. Un punto del testo base che non condivido affatto è quello che riguarda l’eventuale rifiuto delle cure palliative come porta d’accesso all’eutanasia. L’approccio palliativo non è l’alternativa all’eutanasia: solo chi non sa nulla di fine della vita può pensare che abbia senso far scegliere al paziente l’uno o l’altra come si sceglierebbe tra due opzioni equipollenti. L’approccio palliativo non riguarda solo la fine della vita. Quindi un paziente che non sia mai stato seguito con tale approccio non può avere alcuna idea di come starebbe se fosse stato preso in carico correttamente fin dalla prognosi infausta, o dai primi sintomi disturbanti.

La seconda preoccupazione riguarda i medici di medicina generale. Trovo inoltre del tutto inappropriata (e frutto della scarsa dimestichezza degli estensori della legge con la fine della vita) l’idea che la richiesta eutanasica possa essere gestita dai medici di famiglia. I medici di base sono professionisti a cui chiaramente si sta chiedendo troppo, e glielo si sta chiedendo male. Per chi si occupa di cure palliative è consueto avere a che fare con medici di medicina generale, poco formati sull’accompagnamento di fine vita, che sono recalcitranti nell’attivazione delle cure palliative, che pure è già loro compito. Davvero pensiamo che possano essere caricati della responsabilità di accogliere una richiesta eutanasica?

Ma la difficoltà non riguarda solo i medici di base, ma anche tutti gli specialisti, poco abituati a confrontarsi con la prognosi infausta e l’approssimarsi della morte, poco inclini a dare tutte le informazioni al paziente, nonostante la legge 219.

Ed è per questo che mi viene un pensiero, forse non così peregrino (mi direte voi cosa ne pensate). Se proprio una legge sull’eutanasia deve essere approvata nel nostro paese, gli unici che potrebbero farsi carico di una richiesta di questo tipo sono proprio i palliativisti, che hanno preso in carico il paziente e la famiglia, ne hanno esaminato il caso approfonditamente in équipe, conoscono il livello di sofferenza del paziente, possono valutare insieme a lui e ai familiari tutte le opzioni (compresa la sedazione palliativa), prima di giungere alla scelta eutanasica. Questo permetterebbe ai cittadini di scegliere davvero, facendolo all’interno di un percorso di cure palliative che deve cominciare per tempo, possibilmente in modo simultaneo alle cure attive.

Attendo, come sempre, le vostre considerazioni.

Che cosa è una doula? di Marina Sozzi

Sapete cosa è una doula? La parola deriva dal greco antico δούλη (in greco moderno δούλα), che significa serva, schiava; il termine è stato adottato per indicare una persona, di solito donna, che fornisce sostegno psicologico e assistenza fisica prima, durante e dopo il parto alla neomamma. Da alcuni anni nei paesi anglosassoni (Stati Uniti e Gran Bretagna) esistono nuove figure che accompagnano invece i morenti e le loro famiglie, che si definiscono Death doula o End of life doula. Una nuova professione, sulla quale vale la pena fare una riflessione.

Il loro punto di partenza è lo stesso delle cure palliative. Affermano che sovente le persone muoiono male, non nel luogo in cui avrebbero voluto morire. E spesso nelle realtà sanitarie non c’è sufficiente attenzione per la sofferenza, non tanto e non solo fisica, ma per le emozioni, per la realizzazione degli ultimi desideri di chi lascia la vita, per l’aiuto ai familiari e gli amici, per la dimensione spirituale, per l’organizzazione della ritualità. A volte, affermano alcune di queste persone dedicate all’accompagnamento, questa insufficiente attenzione esiste anche nelle istituzioni che si occupano di cure palliative.

Così, negli Stati Uniti alcune associazioni hanno cominciato a formare le Death doulas, e la professione va estendendosi.

Il lavoro di una doula è: pianificare il prima, durante e dopo la morte; fare riti o pratiche che portino conforto; aiutare il morente a riflettere sulla propria vita e sui propri valori; spiegare ai caregiver come avviene la morte. Ma la parte più importante del lavoro è intangibile, e sono solo le storie raccontate da chi resta che possono spiegare cosa faccia veramente una doula. Legge poesie, talvolta, o semplicemente garantisce una presenza tranquilla. L’obbiettivo è ridare senso alla fine della vita e restituire controllo alle persone sul loro fine vita. Affermano un nuovo modo di affrontare la morte, che incoraggia il morente e i suoi cari ad affrontare le loro paure, a infrangere il diniego e a impegnarsi in una esplorazione onesta e aperta della morte e del morire. Il che significa esplorare il significato della propria vita ed esprimerlo con strumenti a loro congeniali. Ad esempio, lasciando registrazioni, o lettere, cosa che fanno spesso le persone che hanno figli giovani.

La doula cerca anche di dare sacralità al processo del morire. Insegna strumenti quali il body scan o la visualizzazione guidata, la musica e il contatto fisico, per dare maggior conforto a tutti. È una sorta di coach della fine della vita, aiuta a gestire le emozioni, e a morire meglio.

Esiste anche un’International End of Life Doula Association (INELDA), fondata nel 2015, che ha come mission di supportare e formare le doulas che si occupano di fine della vita. Henri Fersko- Weiss ne è il fondatore e direttore: è un assistente sociale che ha lavorato anche nell’ambito delle cure palliative. Nel 2003 ha inaugurato il primo programma di formazione per queste figure e ha formato da allora più di 2000 doulas negli USA. Il libro scritto da Henry Fersko-Weiss, Gli ultimi giorni della vita. Rendere la morte un’esperienza significativa, del 2017, è stato tradotto in italiano nel 2019.

In Gran Bretagna ce ne sono circa cento: non sono operatrici sanitarie, ma spesso lavorano a fianco delle équipe di cure palliative in Hospice. O anche nella comunità, sul territorio.

Ci sono ottime cure palliative in Inghilterra, ma la presenza costante che garantisce una doula non è compatibile con il lavoro degli operatori sanitari, affermano queste professioniste (in gran parte donne, ma non solo).

La domanda è aumentata durante il Covid, e le doulas hanno dovuto arrangiarsi a interagire con pazienti e familiari da remoto. Molte di loro hanno cercato di sostenere i caregiver, quando non potevano fare molto altro per via del distanziamento sociale. È stato un lavoro essenziale, dicono le doulas, perché molti sono divenuti caregiver in modo inatteso, per caso, senza averlo scelto.

Il costo, che ho cercato su internet, è di circa 1200 sterline per un accompagnamento, mentre altre fonti parlano di un costo orario che può variare da 30 $ a 100 $ all’ora (negli Stati Uniti), a seconda delle esigenze del cliente.

Ora io mi chiedo e vi chiedo: abbiamo veramente bisogno di una professione come questa? Non possiamo migliorare le cure palliative e farle crescere ovunque? Affinare la formazione degli operatori sanitari e talvolta anche di quelli che si occupano di cure palliative, e combattere una battaglia culturale affinché la fine della vita possa essere accompagnata dalle famiglie, sconfiggendo i pregiudizi e le difficoltà di coping con la morte? Non è questa l’ennesima delega ad altri del processo del morire dei nostri cari?

Inoltre, parliamo di una professione, e dunque di un esborso di denaro per le famiglie. Non c’è il rischio che si crei un’ennesima spaccatura, un’altra diseguaglianza, anche nella morte, tra chi può permettersi di pagare una doula e chi no?

Attendo le vostre considerazioni e i vostri commenti.