Riflessioni sulla buona morte, di Marina Sozzi

Scrivo questo post a partire da un interessante incontro al quale ho partecipato in Vidas, insieme a Carlo Casalone e Luciano Orsi, il 5 marzo 2024, sulla buona morte. Ringrazio pertanto Caterina Giavotto per questo invito, che mi ha indotto a riflettere su questo tema.

Dobbiamo innanzitutto chiederci che cosa significhi “buona morte”, ed evitare di dare per scontato questo concetto.

Occorre prima di tutto non mitizzarne il tema. L’obiettivo delle cure palliative è accompagnare, per ottenere la migliore qualità della vita possibile. Tuttavia, la buona morte non dipende solo dalla qualità delle cure, ma anche da come ciascuno di noi ha vissuto, e da come ha affrontato la domanda sulla morte nel corso della vita. Hans Küng, teologo cattolico della dissidenza, diceva che la buona morte è da un lato un compito, dall’altro un dono. Nella parola “dono” è espressa anche la parte di incontrollabilità che riguarda la buona morte, le caratteristiche e le evoluzioni della patologia. Nella parola “compito” c’è invece il ruolo della soggettività del paziente. E tuttavia, credo che la buona morte possibile non sia neppure un fatto individuale, ma risieda nella triangolazione della relazione tra paziente, familiari e curanti: un compito condiviso, quindi.

Ma la buona morte è buona per chi? Dobbiamo farci questa domanda, per evitare di proiettare, come curanti, la nostra idea di buona morte sul paziente, mettendo inconsapevolmente in sordina i suoi desideri. Ovviamente, la morte deve essere buona soprattutto per chi se ne va, ma è importante anche per chi resta (il lutto è influenzato dalla morte che ha avuto la persona cara, lo dico anche per esperienza personale). Questo non significa che il familiare possa prevaricare il volere del morente, ma che i curanti debbano sempre cercare di “portarlo con sé”, di non lasciarlo solo con i suoi timori o le sue fantasie. Un esempio potrebbe essere quello della richiesta, da parte del paziente, di sedazione palliativa, quando i familiari non sono pronti a separarsi dal loro caro. L’abilità dei curanti (Sonia Ambroset lo dice magistralmente nel suo libro sulla sedazione) consiste nella condivisione, nella spiegazione, nell’accompagnamento.

Talvolta ci si chiede se la buona morte possa essere un diritto. Io credo che ci siano diversi diritti da tutelare alla fine della vita. Primo tra tutti, garantito anche dalla legge 38/2010 (non ancora pienamente applicata), il diritto a ricevere cure palliative qualora ve ne sia l’esigenza. Poi la dignità delle persone, il rispetto della loro identità e unicità, malgrado la malattia e l’avvicinarsi della morte. Tutelare la dignità significa, per i curanti, rivolgere sguardi pieni di rispetto verso i malati. E significa anche, al contempo, preservare l’autodeterminazione, la capacità di compiere scelte. Vale la pena soffermarsi un attimo sul concetto di autodeterminazione. Benché spesso si pensi all’autodeterminazione come a un diritto umano, e come tale universale e già acquisito alla nascita (cosa peraltro vera), occorre tenere presente che non tutte le persone sono abituate a prendere decisioni per sé. L’autodeterminazione deve quindi essere un obiettivo concreto della cura, ossia le persone vanno accompagnate a prendere le decisioni migliori per sé, coinvolgendo le famiglie e le comunità (intese come reti di relazioni di ciascuno) e aiutandole a comprendere le scelte compiute dal loro caro.

Invece, non credo sia produttivo dare alla buona morte lo statuto di un diritto. Si rischia di scivolare in una vicenda analoga a quella della felicità. Definita la ricerca della felicità come diritto nel XVIII secolo, inserita come tale nella Costituzione americana, essere felici è poco per volta divenuto un dovere, o perlomeno una forte pressione sociale: se non hai saputo procurarti la felicità non vali nulla, se non sei felice sei un fallito. Non vorrei che toccasse la stessa sorte alla buona morte, se vogliamo definirla come diritto. C’è il rischio che si infiltri in questo concetto un elemento di giudizio (negativo) per chi, ad esempio, non riuscisse a conciliarsi con la propria morte.

Un altro punto importante è la preparazione alla morte: è importante al fine della buona morte, come afferma Küng?

Esiste una lunga storia dell’idea che sia necessario prepararsi alla morte per averne una buona. Scopo delle Artes Moriendi del 1400 era preparare il morente e coloro che lo assistevano, mediante la preghiera e il respingimento delle tentazioni. Erasmo da Rotterdam, nella sua celebre opera De praeparatione ad mortem del 1534, indica due “cure” contro la paura della morte: una invita il lettore a percorrere mentalmente le tappe della propria esistenza per rendersi conto della sua caducità e di quanto sia colma di preoccupazioni e di dolori; l’altra si incentra sulla fede in Dio, unica difesa atta a sconfiggere i limiti, le imperfezioni e la fragilità della condizione umana.

Ancora nel 1620 con il Cardinale Bellarmino indica come norma sicura del buon vivere, e anche del buon morire, il meditare spesso e seriamente che si dovrà rendere conto a Dio delle proprie azioni e del proprio modo di vivere, e cercare di non accumulare ricchezze in questa terra, ma di vivere semplicemente e con carità in modo da procurarsi beni celesti.

Che ne è oggi della preparazione alla morte in un contesto molto secolarizzato? Ha senso? E’ possibile?

Nel suo libro Morire all’italiana, Asher Colombo ha fatto otto domande molto concrete a un campione di italiani sulla preparazione alla morte: ha chiesto se avevano dato disposizioni sul destino delle proprie spoglie; comunicato ai familiari la collocazione dei documenti importanti; espresso la propria volontà sulla donazione degli organi; lasciato le proprie DAT; pianificato il proprio funerale; comunicato le password dei propri account e social network; stabilito a chi affidare la cura dei propri cari; fatto testamento. Dalle risposte a queste domande Colombo deduce che circa il 43% degli italiani non si è preparato affatto alla propria morte. Ha senz’altro un valore, soprattutto per chi rimane, trovare le cose in ordine.

Io però credo che sia necessario un approccio più complesso. E penso che ci siano vari modi, anche molto personali, per prepararsi alla morte: pensarci, ad esempio, trovare una consolazione alla finitezza, informarsi sulle cure palliative, familiarizzarsi con la propria vulnerabilità e mortalità. Cose che è difficile indagare con un sondaggio.

Non possiamo eludere, inoltre, a proposito di buona morte, la questione della morte volontaria. La buona morte può essere anche morte nel tempo ritenuto opportuno dal morente? Credo che andiamo verso il riconoscimento della possibilità di scegliere di abbreviare il proprio tempo, anche in Italia. Con una legge, non solo mediante la sentenza della Corte costituzionale. La caratteristica del mondo in cui viviamo è la pluralità: delle religioni, delle credenze, degli stili di vita, degli atteggiamenti nei confronti della vita e della morte: quindi la chiave di volta dell’etica contemporanea, in sanità, è per me il rispetto delle diverse prospettive.

Occorre però che l’opzione del suicidio assistito non ostacoli la crescita delle cure palliative, altrimenti si finirebbe non per aumentare, ma per ridurre le scelte possibili.

Io non credo neppure, però, che il mondo delle cure palliative debba tirarsi fuori da questa riflessione. Credo anzi che, essendo l’unico soggetto ad avere dimestichezza con il fine vita, abbia molto da dire. So che ci sono sensibilità diverse su questo tema nel nostro mondo, e che alcuni rifiutano decisamente ogni interruzione prematura della vita. E so anche che esiste il timore che le persone rifiutino le cure palliative perché vengono ancora confuse con pratiche di abbreviazione della vita. E tuttavia, penso che a tale riflessione occorra andare incontro, facendo chiarezza, con un lavoro culturale costante e paziente.

Cosa pensate voi della buona morte? Che esperienze avete fatto? Pensate che si possa preparare?

Vi ringrazio in anticipo per i vostri preziosi commenti.

10 commenti
  1. Marinus Schouten
    Marinus Schouten dice:

    Marina Sozzi ha ragione, quando scrive che si dovrebbe evitare di parlare del ‘diritto alla buona morte’. Infatti, è assurdo come il ‘diritto alla felicità’. Tuttavia in Olanda l’eutanasia è un diritto, nel senso che la legge permette al cittadino di fare la richiesta e al curante di applicarla. Anziché diritto, direi ‘opzione’. E quest’opzione della buona morte, come l’opzione della felicità, purtroppo per moltissime persone non diventa e mai realtà. In Olanda per ottenere l’eutanasia una persona deve manifestare una sofferenza senza prospettive e insopportabile. Il neurologo del mio partner, che aveva il morbo di Parkinson, durante una visita nel 2016 ha detto: ‘Se è senza prospettive, lo posso stabilire io, sulla base della mia conoscenza medica, ma se è insopportabile lo stabilisci solo tu’. Il suo messaggio era che non aveva altre cure a disposizione e quindi per lui la situazione, già allora, era senza prospettive. Solo nel 2023, cioè sette anni dopo il desistere del neurologo, il mio partner ha dichiarato che la sua sofferenza fosse insopportabile, comportando in una richiesta di eutanasia, che dieci giorni dopo è stata applicata, con il mio consenso e nella mia presenza, dal nostro medico domiciliare. Non è facile ammettere a Marina Sozzi che la buona morte sia considerata un dono, ma in fondo ha ragione: lo è.
    Marinus Schouten, L’Aja, Olanda

    Rispondi
    • sipuodiremorte
      sipuodiremorte dice:

      Grazie mille Marinus per aver condiviso la tua esperienza, che ci fa ben comprendere la parte soggettiva della buona morte, e anche l’importanza della chiarezza della comunicazione medico/paziente.

      Rispondi
  2. giorgio antoniacomi
    giorgio antoniacomi dice:

    Grazie, prima di tutto e come sempre, per la profondità di queste riflessioni. Le domande, le questioni aperte, sono tante e non ammettono risposte sbrigative, proprio perché riflettono sensibilità differenti e divergenti, riferimenti di valore molteplici e dimensioni “semplicemente” irrazionali. Ho provato a fare il “test di Asher Colombo” e sono arrivato alla conclusione che sì, sembrerei essere abbastanza pronto, ma poi mi sono reso conto che forse il mio è solo il tentatio di esorcizzare un’ipocondria consueta e faticosa. Il senso, insomma, va forse cercato da un’altra parte. Sul trattamento di fine vita e il suicidio assistito confesso di essere stato favorevole in maniera incondizionata, cioè ottusa, fino a quando non mi è capitato di leggere Essere mortale di Atul Gawande; che mi ha aperto gli occhi su un’evidenza che era “semplicemente” lì, ma non riuscivo a vedere: la fine della vita è ancora vita. Ho, a questo proposito, almeno tre ricordi personali profondi che tengo per me, perché sono cose intime, ma confermano che trasformare la fine della vita in un diritto rischia di ribaltare il suo significato. Resto del tutto convinto, con fermezza, che la vita appartiene a ciascuno di noi e a nessun altro; e penso che la sentenza della Corte costituzionale abbia, per fortuna, messo un punto fermo di fronte all’inerzia del Parlamento. Per fortuna, se guardiamo nello specchietto retrovisore, vediamo che adesso è possibile morire senza sofferenze del tutto inutili e anzi lesive della personale dignità, cioè di un valore non negoziabile. Dunque un gap giuridico c’è e va colmato. Da qui alla scorciatoia, come bene mette in evidenza Marina Sozzi, c’è un salto: la buona morte è un dono, l’impiortante è che non sia un privilegio come sono state, prima che fossero adottate leggi finalmente aperte e liberali, altri diritti che riguardano il mondo in cui condurre la propria vita.
    A proposito di quanto ha scritto con garbo e lucidità Marinus Scouten, ricordo che un amico e collega di lavoro era stato invitato in Olanda perché un suo amico, che aveva programmato la propria dipartita, voleva salutare gli affetti più profondi e gli amici di sempre. Ci era andato con pensieri contraddittori, e ne era rtornato con un ricordo dolce e grato.
    Circa la buona morte per chi rimane, credo che, senza fare assurde classifiche, la condizione più inquietante sia quella di perdere un/a figlio/a.

    Rispondi
    • sipuodiremorte
      sipuodiremorte dice:

      Grazie mille per le sue considerazioni, che condivido pienamente. La buona morte non deve, per nessuna ragione, essere un privilegio. Questa è anche la ragione per cui gli enti che offrono cure palliative si occupano di promuovere i valori, e di narrare il modo di prendersi cura delle persone che informa il loro operato. Perché siano gli stessi pazienti, o i loro familiari, a chiederle, andando a volte oltre la resistenza dei medici.

      Rispondi
  3. Giovanni Sanvitale
    Giovanni Sanvitale dice:

    Bentornata Marina e, come sempre, grazie per le tue riflessioni consì puntuali e “vere”.
    Condivido appieno tutti i passaggi del tuo discorso, quindi vado direttamente alle tre domande finali, premettendo che proprio in questi giorni sto leggendo un saggio prezioso di Gabriella Caramore, “L’età grande” (Garzanti editore) che si occupa della vecchiaia e del nostro rapporto con la morte, con considerazioni colte, sagge e a volte visionarie (del tipo che, anche negli ultimi istanti è possibile che “il cuore travalichi sempre l’umano”; oppure: “forse la vita è una materia che sa”).
    Esiste una “buona morte”? Come tu stessa dici, sempre Gabriella Caramore insiste su questo fatto: “bisogna essere in due sull’esile striscia di terra [l’approssimarsi della morte] perché sia fertile: la persona e la comunità.”. “Sapendo che aver cura è il compito primario di ogni comunità umana”. E in questa comprende i medici (sottolineando le sofferenze che il mondo medico troppo spesso infligge ai malati con l’accanimento terapeutico), i parenti, gli amici e la società tutta. A mio avviso, una morte può definirsi buona se accompagnata da persone care e medici misericordiosi, che sanno ammettere anche il proprio scacco di fronte al fallimento delle cure; con l’accesso per tutti alle cure palliative e, per chi lo desidera, al suicidio assistito, nonostante l’inerzia (anzi, la resistenza della politica nazionale).
    La mia esperienza, come sai, è ormai di 20 anni di convivenza con un tumore da tempo metastatico, non curabile con la radioterapia ma appeso a una terapia ormonale la cui efficacia è limitata nel tempo (con la speranza di nuove scoperte di cui si parla tanto). In tutti questi anni, inconsciamente, ho seguito quella che un mio prezioso amico psicologo considera la via giusta: ho letto molto sul tema, e ho scritto altrettanto sia su questo blog che ripercorrendo la mia vita per reperirne un senso: ne sono nati due memoir e un saggio, per i quali non ho cercato a tutti i costi la pubblicazione (ma i primi due sono stati accolti e premiati in una lista d’onore dell’Archivio Diaristico Nazionale di Pieve Santo Stefano). Se si dispone di tempo, questo è il primo percorso da fare. Ma intanto si è affacciata la vecchiaia (sono ben oltre i 70) con i suoi acciacchi fisici e mnemonici, per cui comincio a pensare che potrei morire anche d’altro. Sempre Gabriella Caramore parla anche – citando Oliver Sacks – di “gratitudine”. Ecco: non ho avuto una vita facile (tre traumi, un fratello disabile, l’omosessualità ai tempi tutt’altro che facile da vivere, infine il cancro), ma posso dire di aver lottato sempre caparbiamente e di aver avuto una vita piena: quindi la mia gratitudine va alla vita, ma anche soprattutto al mio compagno, e agli affetti più vicini e fidati, capaci di ricambiare l’empatia in un reciproco aiuto/attenzione.
    Ci si può preparare? Faccio parte – a quanto pare – della minoranza che ha fatto testamento, ha redatto e depositato le DAT, ha dato disposizioni per il proprio funerale (rigorosamente laico) e per la distribuzione delle mie cose. Questo significa che io sia pronto? No, piuttosto rassegnato, ma sempre curioso della vita, magari in attesa di qualche sempre possibile illuminazione. Resta infine un unico rammarico: sempre Caramore definisce più traumatiche le morti dei genitori. Sono d’accordo, ma col tempo si può fare pace anche con questo: sono con noi, oltre il DNA: vivono in noi. Piuttosto, specie fra anziani, trovo insostenibili gli addii con i compagni/le compagne di una vita. Rimane lo scoglio più arduo da affrontare.
    Ma, guardando il mondo che ci circonda, con i suoi venti di guerra, la tragedia dei migranti, le morti sul lavoro, l’alto tasso di femminicidi, il sistema sanitario nazionale che va a rotoli, i sussidi tagliati o annullati a disabili e caregivers, i nazionalismi che avanzano, la crisi climatica, direi che la nostra generazione è stata privilegiata. Sono più preoccupato per il futuro dei giovani, cui cui comprendo lo smarrimento.

    Rispondi
    • sipuodiremorte
      sipuodiremorte dice:

      Caro Giovanni, grazie come sempre per le tue osservazioni, che sempre tanto aggiungono alle mie. E senz’altro, le persone care e i medici formati e capaci di capire quando è tempo di cambiare il registro delle cure sono fondamentali… e soprattutto un accesso alle cure palliative garantito a tutti i cittadini. Poi, come ti è chiarissimo (e anche a me), c’è il lasciar andare, nostro, la capacità di mollare la presa e mantenere la gratitudine per quel che è stato, e il perdono di se stessi per ciò che non ha potuto essere.

      Rispondi
  4. Licia Cauzzi
    Licia Cauzzi dice:

    28 maggio 2016, otto anni fa (banalmente sembra ieri), muore la mia mamma, di 86 anni, ricoverata in un hospice per un tumore non identificato.
    La causa della sua morte, tuttavia, è dovuta alla frattura di un femore per una caduta all’interno della struttura che io e i miei fratelli, confusi e lasciati a noi stessi, scegliamo di non fare operare, visto che avremmo dovuto decidere in fretta e furia, secondo le indicazioni dell’amministrazione, per il trasferimento nell’ospedale civile e perché pensiamo anche a un “dopo” caratterizzato, forse, da un peggioramento del suo iniziale decadimento cognitivo unito all’incertezza dell’esito dell’intervento.
    In conclusione i due mesi, quasi tre, successivi sono stati di sofferenza, fisica per lei, psicologica per noi che l’abbiamo seguita giorno dopo giorno in quell’hospice dove le cure erano quotidiane, ma che noi, i suoi figli, vedevamo sempre meno efficaci.
    Certo la sua morte è stata preparata da una costante sedazione palliativa, della quale allora io non avevo ben compreso gli effetti, forse non ha sofferto più del dovuto, ma mi domando da otto anni se con la nostra decisione ne abbiamo accelerato la morte, se avremmo potuto e dovuto fare meglio e di più, se i medici avrebbero potuto e dovuto essere più chiari rispetto alle nostre aspettative, se la sua è stata una buona morte.
    Rileggendo gli interventi, in particolare quello di Giovanni Sanvitale, potrei forse dirmi di sì, anche se ho qualche dubbio sui “medici misericordiosi”… ma tante sono le domande senza risposta e nel ripensare a quel tempo doloroso ritengo che la preparazione alla morte sia indispensabile anche per chi sopravvive e come sostiene Marina Sozzi “risieda nella triangolazione fra paziente, familiari e curanti”.
    Ecco, nella mia esperienza, quel triangolo virtuoso non è stato costruito e allora sono convinta che, poiché la mamma non ha potuto decidere per sé stessa, ma la scelta è stata demandata forzatamente a noi, sia necessaria una educazione alla morte, alla buona morte, oltre a una corretta ed esaustiva informazione.
    Licia Cauzzi

    Rispondi
  5. Giovanni Sanvitale
    Giovanni Sanvitale dice:

    Cara Lucia,
    visto che mi chiami in causa, purtroppo, come forse ho già narrato in questo forum, ho vissuto un’esperienza molto simile alla tua, riguardo mia madre, solo con qualche differenza. 95 anni, già affetta da demenza senile, causa rottura del femore, fu ricoverata nell’ospedale più famoso di Milano per questo genere di problemi. Nonostante le mie insistenti obiezioni, le fu diagnosticata la frattura alla gamba sbagliata. Per sfortuna o fortuna l’anestesista mi avvisò che rischiava moltissimo in caso di operazione a causa dei suoi problemi di cuore; ma il primario aveva molta fretta di operare (operiamo anche i novantenni!) e demandò la decisione a me, che rifiutai di decidere, non essendo un medico. Solo dopo ammise l’errore: “sono casi che succedono in pronto soccorso (i pazienti, in qual frangente, erano solo due!). Risparmio altri problemi che insorsero, causa la scarsa attenzione del personale infermieristico. Successivamente fu ricoverata in un centro di recupero altrettanto famoso: mia madre soffriva anche di diabete e solo grazie al nostro apperecchietto scoprimmo verso la fine che aveva la glicemia a 500 (senza parlare delle innumerevoli piaghe da decubito)! Non è finita: nel silenzio dei medici, circolavano infezioni ospedaliere: tutte e 3 le signore della stanza di mia madre presero la polmonite (e forse anch’io, che dovetti farmi sostituire per più di 10 giorni causa una febbre da cavallo): lo seppi solo dopo. Dovendo proteggere mio fratello disabile a casa dalla vista della sua morte, quando la fine si prospettò vicina, chiesi al primario di trasferirla nell’hospice della stessa struttura. Questi fu irremovile nella sua decisione di dimetterla (anche se, grazie ad altri aiuti trovati in loco, sarebbe bastata una settimana di attesa). Io obiettai che ormai stava morendo. “Non si può dire” fu la sua risposta. Mia madre tolse il disurbo morendo quel pomeriggio stesso. Mi accompagna, al riguardo, la tua stessa amarezza. “Medici misericordiosi”, purtroppo, spesso è solo un auspicio. La “triangolazione fra paziente, familiari e curanti” idem.

    Rispondi

Lascia un Commento

Vuoi partecipare alla discussione?
Sentitevi liberi di contribuire!

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *