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L’oblio oncologico, di Marina Sozzi

Il 7 dicembre 2023 è stata approvata anche in Italia, con l’accordo di tutte le forze politiche, la legge n. 193 sul diritto all’oblio oncologico, «Disposizioni per la prevenzione delle discriminazioni e la tutela dei diritti delle persone che sono state affette da malattie oncologiche», ed è entrata in vigore il 2 gennaio 2024.

La legge intende dare una risposta al fenomeno ricorrente per cui, nonostante l’avvenuta guarigione clinica, molte persone che hanno superato un tumore sperimentano discriminazioni nell’esercizio dei propri diritti. Cosa si intende quindi per oblio oncologico? Si tratta del diritto, per chi è stato malato di cancro, di non dover fornire informazioni sull’esperienza pregressa di malattia dopo dieci anni dalla fine delle terapie (qualora non si siano verificate recidive), nella stipulazione di qualunque contratto (assicurativo, bancario, finanziario o di investimento) e in ogni procedimento di selezione o concorso. I dieci anni diventano cinque per quei tumori che insorgono prima dei 21 anni di età.  Parallelamente, è fatto divieto alle altre parti che stipulano il contratto di informarsi con altri mezzi, e quindi di fatto di discriminare le persone che sono state malate di cancro.

L’Aiom (Associazione Italiana Oncologia Medica) e la Fondazione Veronesi stimano che gli ex malati di cancro che potranno beneficiare della nuova tutela siano un milione in Italia.

Ciò significa che queste persone potranno stipulare un’assicurazione sanitaria, chiedere un mutuo, ottenere un prestito, adottare un bambino, o partecipare a un concorso pubblico senza essere tenuti a segnalare l’esperienza di malattia. Sul piano bioetico, l’intento di questa legge è promuovere il rispetto dell’eguaglianza tra tutti i cittadini, riducendo ed eliminando possibili disparità di trattamento, che impediscono ad alcuni di esercitare e godere appieno dei propri diritti fondamentali.

Con l’entrata in vigore della legge si è anche data risposta a una sollecitazione della Commissione europea, che nel febbraio 2022, nell’ambito del Piano Oncologico Europeo, aveva auspicato che tutti gli stati membri si dotassero di una legge sul diritto all’oblio oncologico entro il 2025. La Francia è stata il primo paese ad approvare una norma, nel 2022, e in seguito lo hanno fatto anche Belgio, Lussemburgo, Olanda, Portogallo e di recente anche la Romania.

Nel nostro paese, a questa legge si è arrivati anche grazie a una campagna lanciata da Fondazione Aiom, con il contributo di buona parte del Terzo Settore che si occupa di malattia oncologica, tra cui LILT, AIL, ANDOS, che hanno utilizzato l’hashtag #iononsonoilmiotumore (che riecheggia il titolo del mio libro sul cancro!), con il quale sono state raccolte più di centomila firme.

La società scientifica degli oncologi (Aiom) ora prevede, inoltre, che, con procedure da definire attraverso un tavolo tecnico del Ministero della Salute, sia possibile istituire tabelle che consentano di ridurre ulteriormente i tempi stabiliti dalla legge in base alla differente patologia oncologica.

Si è trattato di un’importante battaglia di civiltà, tutti affermano, ed è senz’altro vero. Occorre aggiungere che questa legge, come la 219 del 2017 «Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento», oltre a tutelare dei diritti, ha un profondo significato culturale. È evidente che la legge è divenuta possibile perché la diagnosi di cancro, un tempo considerata una sentenza di morte, grazie agli importanti progressi che sono stati fatti in questo ambito dalla medicina, oggi si riferisce a una malattia che, seppure grave e pericolosa, può guarire. E anche nei casi in cui non sia possibile parlare di guarigione, è una patologia con la quale molti cittadini riescono a convivere per molti anni, con una buona qualità della vita.

Ma questa consapevolezza non è ancora sufficientemente diffusa nella popolazione. Proprio per questo, non possiamo considerare concluso il cammino che ha portato alla legge: occorre la promozione di una nuova “cultura della guarigione”, che divulghi i nuovi risultati terapeutici e offra una nuova interpretazione della patologia.

E’ noto infatti che la mentalità cammini più lentamente delle scoperte scientifiche. Oggi gli oncologi riferiscono di avere problemi non solo a comunicare le cattive notizie, ma anche le buone notizie, perché i pazienti stentano a credere di potersi considerare guariti.

Segno di una mentalità ancorata a vecchie immagini e vecchie metafore: il cancro alieno che invade e colonizza il corpo per succhiargli la linfa e ucciderlo, la gramigna infestante, la cellula pazza. Nel suo bestseller sul cancro del 2007, Anticancro, David Servan-Schreiber aveva scritto che dopo la sua diagnosi di tumore al cervello anche i colleghi medici lo evitavano, come se fosse già morto, un fantasma inquietante, un morto che cammina.

Anche la retorica della lotta, così efficacemente criticata da Michela Murgia nei suoi ultimi mesi di vita, deve essere superata. La dimensione bellica radica proprio l’idea del tumore come nemico esterno, alieno, da combattere in una battaglia all’ultimo sangue. Sappiamo quanta fatica comporti per i malati questa logica, che li spinge nell’arena, proprio quando avrebbero bisogno di trovare la pace necessaria per conciliarsi con l’esperienza di malattia. E quanto comporti il rischio di colpevolizzare chi muore, che può essere visto come colui che non ha combattuto abbastanza.

Le leggi a volte anticipano, a volte rilevano i cambiamenti sociali e culturali in corso. Questa legge in parte prende atto dei progressi scientifici avvenuti, in parte induce a ripensare le interpretazioni del tumore e i modi in cui ne parliamo socialmente.

Quindi richiede, affinché possa essere davvero applicata, un grande lavoro culturale, che probabilmente sarà portato avanti nel paese, come sempre, dal Terzo Settore.

Cosa ne pensate? Come avete preso l’approvazione della legge sull’oblio oncologico? Quali pensieri ha sollecitato in voi?

Una malattia o una guerra? di Marina Sozzi

Ancora troppo frequentemente, quando si parla di malattie che mettono a rischio la vita, e soprattutto del cancro, si sentono da più parti incoraggiamenti alla lotta, alla guerra, al coraggio, al braccio di ferro con la malattia-intruso.

Se c’è un richiamo così ampio, così socialmente diffuso al combattimento, è perché il cancro viene sentito, ancora ai nostri giorni, come una minaccia terribile, che richiede una mobilitazione generale. Genera inquietudine in tutti. Nei pazienti, naturalmente, che scoprono la precarietà della vita in generale, e la fragilità della loro in particolare; nei familiari, che li amano, e sono a loro legati o attaccati, o da loro dipendenti; negli oncologi, per l’imprevedibilità frequente del decorso della malattia e per il tasso ancora alto di fallimenti della medicina; in tutti gli operatori sanitari, medici, infermieri e operatori socio-sanitari, che lavorano in un reparto oncologico o in un Day Hospital, e che non possono ignorare di essere anch’essi vulnerabili al cancro, che colpisce trasversalmente le persone più differenti, con storie e abitudini di vita diverse.

Di fronte all’inquietudine, la risposta più rassicurante è quella della battaglia all’ultimo sangue. Per questo la rappresentazione del tumore-bestia da battere, unita all’appello alla lotta contro il nemico alieno, è ancora, forse, la più diffusa socialmente, e quella che tiene uniti in un’unica visione pazienti, familiari e medici. Ora, è vero che l’uomo porta con sé un istinto guerriero per la difesa della vita, quello di conservazione, che è il più radicato, e rimonta alla preistoria. Tuttavia, nella richiesta che si fa al malato di tumore di lottare ci sono anche altri significati, meno evidenti.

In primo luogo, il richiamo alla battaglia è strettamente connesso al modello del “buon malato” che, indipendentemente da come il paziente si sente con se stesso, lo rende funzionale al sistema di cure dell’oncologia medica: è il malato che si adegua al contesto di cura, non viceversa.

Se il paziente “è su di morale”, combattivo e ottimista (a volte contro ogni evidenza) è più facile mantenere il controllo dei luoghi di terapia, si possono circoscrivere i dialoghi medico/paziente alla razionalità della cura e alla speranza di guarigione, non si perde tempo a consolare persone che si lasciano andare all’emotività. Resta così fuori dalla porta dell’ospedale, degli ambulatori medici, dei Day Hospital, eccetera, tutta la parte dolente dell’umano minacciato dalla malattia, la solitudine di vite in cui ogni aspetto della quotidianità viene stravolto, dal lavoro alle relazioni affettive.

I medici e gli infermieri non intendono permettere che i pazienti crollino davanti a loro. Di fronte alle lacrime o alla disperazione, non sanno cosa fare o cosa dire, e si sentono a disagio, perché nessuno li ha preparati a tale eventualità. Se possibile, meglio prevenirle. La desertificazione emotiva richiesta ai pazienti oncologici durante le cure, perlomeno in pubblico, garantisce così lo svolgimento ordinato e senza sbavature delle azioni terapeutiche, che, nella loro estrema violenza sui corpi, proprio ai corpi, oggettivati dalla medicina, devono restare confinate. Qualora si potesse menzionare la violenza insita nelle cure, necessaria ma pur sempre terribile, la loro somiglianza con la tortura, potremmo dire che l’oncologia medica ha saputo umanizzarsi, e raggiungere la consapevolezza di sé.

Inoltre, dobbiamo chiederci: questo modo di affrontare la malattia grave è efficace? E soprattutto, cosa ne pensano i pazienti?

Nel 2020 l’associazione inglese di sostegno ai pazienti oncologici Macmillan Cancer Support ha condotto un’indagine su duemila persone ammalate, chiedendo loro di narrare la propria percezione di come il cancro è raccontato, sia nei mass media, sia dalle persone che li circondano, medici, amici e familiari. La maggioranza di loro ha affermato di essere stanca delle metafore belliche usate per parlare della loro malattia. Tuttavia, dall’indagine inglese pare che la comunità dei malati sia divisa su questo punto: alcuni si riconoscono nel linguaggio militare, e affermano che considerare il cancro come una sfida da vincere sia stato per loro un modo per prendere consapevolezza dell’accaduto e per sostenere la fatica delle cure. E’ normale che, quando una visione del mondo (in questo caso della malattia) sia molto condivisa socialmente, le persone vi aderiscano, la facciano propria.

Sono interessanti, però, i molti che hanno parlato del loro disappunto a sentir parlare di battaglie da vincere, segno che nella mentalità dominante si stanno producendo alcune crepe.

Le metafore guerresche hanno seri effetti collaterali: se colui che guarisce è visto come qualcuno che ha combattuto, che ha vinto, e in ultima istanza come un eroe, colui che muore può essere interpretato come qualcuno che non ha lottato abbastanza, che non ha avuto abbastanza voglia di vivere, in una parola un perdente.

Implicitamente, siamo di fronte a una colpevolizzazione della vittima, che viene svalutata in quanto non ha saputo reggere la sfida.

Tuttavia, la visione del malato di cancro come un guerriero sta venendo sostituita, lentamente (come sempre accade nei cambiamenti di mentalità) da altre interpretazioni. Mi viene in mente Gianluca Vialli, che ha definito il suo cancro “un compagno di viaggio indesiderato”, e ha affermato che non intendeva “combattere”, perché sarebbe stata una lotta impari.

VIDAS, uno dei principali enti non profit italiani che si occupa di cure palliative, sul suo sito dà alcuni suggerimenti ai familiari e agli amici dei malati, esaminando alcune frasi da non dire. Tra queste, “Coraggio, non mollare” e “Devi essere forte”.

La prima non deve essere mai pronunciata. Infatti, “in questa frase il desiderio di incoraggiare diventa involontariamente un’attribuzione di responsabilità, come se l’esito della “battaglia” dipendesse dalla forza di volontà di chi si è ammalato.  Arriva un momento, prima o poi, in cui invece quella persona ha bisogno di sentirsi autorizzata proprio da chi ama a “mollare”, a lasciare che la malattia faccia il suo corso, senza sentirsi in colpa per aver gettato la spugna.”.

E la seconda è inopportuna perché il malato deve poter manifestare ed esprimere la propria fragilità, e ad essere forti (e di sostegno) devono piuttosto essere coloro che si prendono cura di lui ogni giorno.

L’inopportunità del discorso bellico sul tumore si accompagna, per fortuna, anche a un miglioramento e cambiamento delle terapie. Poco per volta, su molte forme di tumore le cure diventano meno invasive, più efficaci, e la metafora della guerra sempre più inadeguata.

Che ne pensate? Voi usate le metafore belliche per parlare del cancro? Vi ci ritrovate? Ritenete che si possa costruire una nuova narrazione dell’esperienza della malattia?

La storia di Riccardo Coman: prendere in giro il proprio tumore su Tik Tok, di Davide Sisto

Il 19 aprile 2021 i principali quotidiani nazionali hanno dato la notizia della morte di Riccardo Coman, un ragazzo bergamasco di diciassette anni che stava affrontando da tempo un terribile tumore. Ne hanno esplicitamente parlato per il particolare uso che egli faceva di Tik Tok, un uso che lo ha reso assai popolare tra gli adolescenti: più di quattrocentocinquanta mila i followers e quasi sedici milioni di like. Il suo profilo personale è, infatti, colmo di video in cui Riccardo raccontava la sua malattia con una lucidità e un’ironia tali da lasciare completamente disarmati coloro che lo seguivano. L’ultimo video, datato primo aprile, lo immortala senza capelli, a causa della chemioterapia, e con la mascherina. Sopra l’immagine del suo viso compare, inizialmente, la seguente scritta: “io pronto a vivere l’estate serenamente”. Subito dopo appare la sua immagine completamente mossa e trasfigurata, accompagnata dalla scritta rossa “tumore al cervello”. In un altro video, meno recente, ironizza sui propositi futuri, alludendo alla sua vicina morte. Altri esempi: “sono nato a giugno e ne sono uscito cancro. Letteralmente”, “io al mio funerale quando mia madre dirà: ora finalmente possiamo vedere cosa c’è nel suo telefono”, segue sguardo terrorizzato. Ancora, “quando le piace la medicina e tu sei un paziente oncologico”, segue sguardo ammiccante.

Questi sono alcuni dei tantissimi esempi di una narrazione della propria malattia senza peli sulla lingua, la quale unisce riflessioni amare sulle conseguenze fisiche ed estetiche della chemioterapia a battute di spirito sagaci e prive di qualsivoglia imbarazzo, utilizzando al meglio le caratteristiche specifiche di Tik Tok: vale a dire, l’unione armonica tra la musica in sottofondo, il tipo di immagine scelta e il carattere particolare delle parole, il tutto condensato in pochi minuti di registrazione. Qualcuno ha manifestato la propria perplessità relativa a questo modo di esporsi; la maggioranza, tuttavia, ha invece mostrato una grande vicinanza mediante centinaia di commenti nei quali emerge il grande affetto che la comunità social aveva per questo ragazzo. “Siamo la tua famiglia” è una delle frasi ricorrenti.

Da diversi anni seguo, per ragioni di ricerca, le vicende dei cosiddetti “cancer blogger”, vale a dire di coloro che parlano esplicitamente del proprio tumore all’interno dei vari social media, creando comunità più o meno numerose. Ma è, forse, la prima volta che mi capita di osservare un modo così spontaneo, sarcastico e immediato di descrivere una malattia tumorale nella dimensione online. Ammiro sinceramente l’intelligenza di Riccardo, il quale è riuscito ad affrontare le enormi sofferenze di tre lunghi anni di tumore, per di più vissuti durante l’adolescenza, ritagliandosi uno spazio personale in cui prendersi le sue dovute rivincite. Quindi, uno spazio in cui dare libero sfogo alla fantasia, alla capacità di autorappresentarsi in maniera insolita e al bisogno di sentirsi investito di un compito: quello di togliere imbarazzo dalla condizione di malato e di parlare liberamente di un cancro. Sappiamo bene tutti che il tumore aggiunge ai tanti drammi personali del singolo individuo la spiacevole sensazione di essere identificato irrimediabilmente con la propria malattia. Quando si scopre di avere un tumore, subito si perde la propria cittadinanza nel mondo e si diventa un “malato”, ritrovandosi isolato dal mondo dei sani. Riccardo non ha accettato le regole del gioco e ha messo a frutto quelle possibilità importanti che un social media offre al singolo: provare a esporre la malattia, usando il registro comunicativo più aderente alla propria personalità. In tal caso, servendosi di uno humor nero che, sottolineando implicitamente il dolore provato, evidenzia una personalità colma di luminosità e di forza. E i tanti adolescenti che lo hanno seguito, continuano ancora oggi – dopo la sua morte – a scrivere sotto i suoi video, manifestando tanto la loro tristezza per l’assenza di Riccardo quanto la stima per una persona che ha rotto – a suo modo – un tabù.

Non voglio fare l’ottimista a tutti i costi, dunque lungi da me nascondere le riflessioni critiche sull’uso dei social, sul tipo – spesso superficiale – di relazioni che nascono al loro interno, su qualsivoglia aspetto negativo che deriva dalla comunicazione online. Tuttavia, mi pare doveroso raccontare la storia di Riccardo per evidenziare come la dimensione online si appropri di un territorio lasciato terribilmente vuoto nella dimensione offline: il territorio della comunione e della vicinanza in presenza di situazioni che suscitano imbarazzo, dunque portano a isolare la fonte dell’imbarazzo. La protezione dello schermo aiuta a limitare questo sentimento improprio e, forse, svolge un ruolo educativo i cui effetti li vedremo tra qualche decennio. Magari, tra le centinaia di migliaia di persone che hanno seguito Riccardo vi sarà anche solo un 10% che trarrà da questa esperienza un insegnamento, imparando a rapportarsi a chi si ritrova ad avere un tumore con un piglio diverso.

Vi consiglio vivamente di andare sul profilo di Riccardo, fulgido esempio di come un diciassettenne del XXI secolo può utilizzare le tecnologie digitali per darsi quella forza mancante nello spazio pubblico.

I “cancer blogger”: raccontare il tumore all’interno dei social network, di Davide Sisto

La rivoluzione digitale in corso, che ha trasformato la nostra vita quotidiana soprattutto a partire dalla nascita di Facebook il 4 febbraio 2004, non ha risparmiato il tema della malattia. Da qualche anno, infatti, si è diffuso il fenomeno dei cosiddetti “cancer blogger”, coloro che sentono il bisogno di condividere sui social network e nei blog online la propria esperienza quotidiana con la malattia tumorale. Chi preferisce raccontare la propria malattia tramite i video apre un canale personale su YouTube; chi invece vuole privilegiare le immagini fotografiche utilizza il suo profilo su Instagram; chi, infine, punta maggiormente sulle riflessioni scritte si serve del suo account Facebook. In tutti i tre casi, il più delle volte integrati gli uni con gli altri, si crea una narrazione composta da parole, fotografie e video per mezzo della quale il malato diventa una specie di influencer, con un seguito di followers molto numeroso che “fa rete” – letteralmente – attorno a lui e alla sua malattia.

Tra i tanti esempi, uno mi ha colpito in particolare: quello della pagina Facebook chiamata “Anime Belle di Teresa Calvano – #FuckCancer”. La pagina è stata gestita da questa ragazza trentenne di Andria, la quale ha raccontato per tre anni la sua quotidianità con l’osteosarcoma. Seguita da oltre ventimila persone – le “anime belle” – fino all’istante della sua morte, la ragazza ha condiviso pensieri personali, video e immagini di sé in cui è raffigurata mentre indossa foulard colorati che coprono i segni della chemioterapia. Nel corso degli anni, ha creato l’iniziativa “(T)urban wave”, vale a dire una serie di turbanti colorati femminili, adatti nei periodi della chemioterapia, che la ragazza ha deciso di donare ai reparti oncologici italiani. Nel suo ultimo video, a Capodanno, fa gli auguri alle sue “anime belle”, menzionando la sua condizione di salute precaria. Nei primi giorni del 2019 una parente dà la notizia della sua morte, ringraziando tutti coloro che hanno seguito la pagina in questi tre anni, offrendo il loro supporto “virtuale” tramite i commenti sotto i post. Da questo momento, la pagina Facebook di Teresa cambia connotazione: da narrazione autobiografica a punto di riferimento per tutti coloro che vivono o hanno vissuto la stessa esperienza tumorale. I familiari continuano a produrre e a distribuire foulard colorati, supportando le associazioni contro i tumori. E, inoltre, hanno dato vita a serate a tema dedicate alla memoria di Teresa, durante le quali psicologi e medici discutono delle malattie tumorali, le pazienti sottoposte a chemioterapia sfilano con i foulard colorati e ha luogo l’iniziativa “Beautiful Women in Oncology”, con make up artist a disposizione delle donne malate.

Questo è un esempio positivo, a mio avviso, di integrazione tra la dimensione online e quella offline. All’interno dei social network ogni malato si identifica con il messaggio che comunica e veicola verso gli altri. L’assenza della fisicità e l’impossibilità di usare il corpo per dare visibilità alle sue emozioni rende ciò che comunica – messaggi scritti e orali, fotografie, video – il suo corpo digitale. Soggetto e oggetto della narrazione, egli  può mettere da parte l’imbarazzo provato nella dimensione offline, in cui il corpo – mostrando i segni della malattia – genera quella condizione di distanza e di isolamento che aumenta la sofferenza del malato. La disinibizione, dovuta alla protezione e alla distanza offerte dagli schermi digitali, rende più facile raccontare i contorni della propria malattia in maniera esplicita. E, dunque, permette di “normalizzarla”. Inoltre, determina effetti concreti nella dimensione offline, come dimostra Teresa Caivano.
Addirittura, al funerale  del trentatreenne inglese Daniel Edward Thomas (che ha raccontato il suo tumore tramite centinaia di video su YouTube),  sono accorse decine e decine di persone le quali, pur non conoscendolo nel mondo offline, lo hanno seguito per anni in quello online, sentendosi – quindi – coinvolti.

Ovviamente, non mancano le criticità: l’assenza della presenza fisica può favorire comportamenti superficiali e irrispettosi nei confronti del malato che si espone. Inoltre, vi è il concreto rischio di confondere la realtà della malattia con la sua rappresentazione, se non si è in grado di attribuire il corretto significato alle immagini e ai video condivisi. Tuttavia, mi chiedo: se a chi soffre per una grave malattia fa bene condividere sui social network le sue sensazioni, creando una piccola comunità attorno a lui, perché essere critici o eccessivamente dubbiosi nei confronti di questa inedita pratica?

Qual è la vostra opinione in merito? Come sempre, siamo molto curiosi.

 

Medici, “appropriatezza” e salute

Che cosa ci auguriamo come cittadini quando ci rechiamo dal nostro medico di famiglia? In primo luogo, che si tratti di un medico competente e attento, non di un semplice burocrate compila-ricette. Che sappia tenere le fila dei vari aspetti della nostra salute, che comprenda le nostre patologie senza rinviarci in una danza di appuntamenti specialistici, quando non sono necessari. Oggi credo si possa affermare che è in aumento la consapevolezza dei medici di medicina generale rispetto al loro ruolo sul territorio, e che molti medici – giovani e meno giovani – rivendicano tale ruolo. Questo va detto, nonostante accada, naturalmente, di imbattersi nella mediocrità, come in ogni campo dello scibile.
Occorre aggiungere, visto che siamo in tempi di vacche magre, che un buon medico di famiglia, libero di fare il suo lavoro con coscienza, è anche un grande risparmio per la sanità. Meno specialisti, meno esami inutili, ma il giusto monitoraggio sulla salute dei suoi assistiti. Prevenire costa meno che curare.
E invece, tra gli infiniti lacci e lacciuoli che già rendono arduo il mestiere del medico di medicina generale, sentite l’ultimo decreto del ministero della Salute, comparso sulla Gazzetta ufficiale n. 15 del 20 gennaio 2016 (qui il link per i curiosi), dal roboante titolo Condizioni di erogabilità e indicazioni di appropriatezza prescrittiva delle prestazioni di assistenza ambulatoriale erogabili nell’ambito del Servizio sanitario nazionale.
Non posso descrivervi in dettaglio il decreto, che tocca vari argomenti, scritto con un linguaggio talmente astruso e azzeccagarbugli da risultare incomprensibile agli stessi medici. Ma posso riassumerlo in pochi passaggi. Occorre risparmiare, quindi: più di 200 prescrizioni, se fatte al di fuori dei criteri di “appropriatezza”, sono a totale carico del paziente. Tra gli esami ai quali ora è possibile accedere solo nel rispetto di certe condizioni, alcuni sono molto comuni, come ad esempio il colesterolo o la funzionalità epatica. Altri, come le indagini radiodiagnostiche e genetiche, si prescrivono con minore frequenza, e in genere per individuare patologie gravi o gravissime, che possono compromettere la stessa vita del paziente. Esempio principe, il tumore. Quel tumore che il ministro Lorenzin sostiene demagogicamente che occorre “vincere”.
In sintesi, questo decreto ci regala: più burocrazia, meno tempo terapeutico, incertezza e timore di essere sanzionato per il medico, più spesa per il paziente, meno controllo sulla salute dei cittadini.
Il termine chiave sembra essere “appropriatezza prescrittiva”. E chi decide se un esame è o meno “appropriato” per un cittadino? Il medico, viene spontaneo rispondere, di concerto con il suo paziente, nel nome dell’alleanza terapeutica! Nossignore. Etica medica, bioetica, etica della cura sono semplici parole per i nostri burocrati del ministero.
Facciamo un esempio, nel quale si decide con sconcertante leggerezza della vita e della morte dei cittadini: e qui la parola BIOPOTERE assume un’inquietante concretezza. Quando il mio medico può prescrivermi accertamenti di radiologia diagnostica se ha il dubbio che io abbia un cancro?
L’articolo 2 del decreto dice che questi sono i riferimenti che il medico deve tenere presenti:
1) anamnesi positiva per tumori (che significa, esattamente? vogliamo continuare a far finta che le cause ambientali del cancro non esistano?)
2) perdita di peso (che avviene a malattia avanzata, per quanto ne so)
3) assenza di miglioramento con la terapia dopo 4-6 settimane (quale terapia?)
4) età sopra 50 e sotto 18 anni (questa è la condizione più assurda: in base a quale epidemiologia?)
5) dolore ingravescente, continuo anche a riposo e con persistenza notturna (cioè quando è tempo di cure palliative?)
Lasciatemi chiudere con un racconto personale. Un anno fa accusavo un dolore ai nervi intercostali, non ingravescente e non continuo, non ero dimagrita, avevo avuto un po’ di miglioramento con una terapia antinfiammatoria. Dopo varie ipotesi e tentativi diagnostici, il mio medico disse che non comprendeva, e che per sicurezza mi prescriveva una PET (esame radiologico complesso, e costoso). Dalla PET è emerso che in effetti ho un cancro, carcinoma mammario nella zona del mediastino, non operabile, difficile, ma ancora senza metastasi. Oggi, dopo un anno di cure, potrei avviarmi verso una remissione della malattia, anche se non è ancora certo. L’accuratezza del mio medico mi ha probabilmente salvato la vita. Ma ciò che è certo è che, se non avessi fatto una PET, non sarei qui a parlarvi di quest’argomento. E lui, il mio medico, d’ora in poi, se non si ferma questo brutto decreto, sarà costretto a tenersi i suoi sospetti per sé, o a spiegare a un proprio paziente (che teme essere malato di tumore) che dovrebbe fare un accertamento, ma che non ha il permesso di prescriverglielo. Se lo specialista non lo prescrive, il mio medico lo potrà prescrive solo a pagamento….. È giusto? E chi non ha il denaro? Dobbiamo avallare il principio che la sopravvivenza cambi in base al reddito?
Con quale coraggio si parlerà ai medici di etica professionale?
Altro interrogativo: e i giornalisti dove sono di fronte a questo grave taglio alla salute? Non avrebbe dovuto essere pubblicamente discussa una decisione come questa?
Non sta cambiando, silenziosamente e impercettibilmente, la sanità italiana? Questa non è democrazia. Non possiamo più permetterci la sanità pubblica che abbiamo avuto fino ad oggi?
E’ imperativo che i cittadini siano informati e che si apra un dibattito serio sul futuro.

Ho il cancro ma non è colpa mia

David Jay, The Scar Project

Nella torrida estate che stiamo attraversando, sempre sperando in un alito di brezza, io nel mio eremo campagnolo leggo e rifletto sul cancro.
Leggo di tutti i fattori che aumentano il rischio di ammalarsi, specie se si sommano l’uno all’altro: la dieta errata, il fumo, il consumo eccessivo di alcol, la sedentarietà, l’obesità.
Se questi fattori costituiscono l’eziologia del cancro, io proprio non ci rientro: mangio vegetariano da anni, niente junk food, niente patatine e cocacola, la mamma non mi lasciava neanche da piccola, non fumo dal 1991, da quando aspettavo mia figlia, bevo al massimo uno/due bicchieri di vino rosso a cena, faccio ginnastica e yoga da quando ho 18 anni, cammino parecchio, peso meno di 47 kg, indice di massa corporea 18.
Curiosamente, l’Italia ha una frequenza di neoplasie, sia per gli uomini sia per le donne, simile o più elevata rispetto ai Paesi Nord-europei e agli Stati Uniti. Eppure a junk food e obesità stiamo senz’altro meglio noi… non dev’essere tutto qui.
Leggo anche opere di psicosomatica, che mi spiegano che forse ho una personalità che predispone al cancro, di tipo C, repressa, incapace di esprimere le emozioni e in particolare la rabbia. Mi ci riconosco perfino un po’, poi rifletto sul fatto che l’esperienza del cancro è attraversata in Italia, nel corso della vita, da un uomo su due e da una donna su tre (fonte: www.airc.it). Possono avere tutti la stessa personalità? No, naturalmente, sarebbe come credere nell’oroscopo…come se tutti quelli nati nel segno della Vergine, tra agosto e settembre, fossero pedanti e ordinatissimi.
E dunque? Cosa si sa esattamente delle cause del cancro? Il sito dell’AIRC descrive con la massima chiarezza lo stato dell’arte.
Si parla di multifattorialità: “Il cancro ha molte cause, che in ogni persona concorrono tra loro (…) a determinare il rischio individuale di ammalarsi.” Correttamente, tra le concause elencate, troviamo il fattore ambientale: inquinamento, agenti fisici e chimici, agenti infettivi.
Tuttavia, in conclusione, l’AIRC si sofferma in particolare sulle cause modificabili dall’individuo: “quasi un terzo delle morti per cancro si potrebbero evitare solo abolendo l’uso di tutti i prodotti a base di tabacco, e con una dieta sana, accompagnata da una regolare attività fisica”.
Ragioniamo un po’ su queste affermazioni: quasi un terzo delle morti per cancro dipendono da errori dei malati nello stile di vita. Bene. E gli altri due terzi abbondanti? Dipendono dalla familiarità genetica? Non sembra proprio. Ad esempio, solo il 5% – 10%, dei tumori al seno dipende dai geni ereditati.
Forse val la pena, allora, soffermarci su questi fattori ambientali dei quali si parla così poco (e che così poco sono studiati). La ricerca sul cancro oggi lavora soprattutto sul meccanismo genetico che determina l’insorgere della malattia. Di prevenzione, invece, si parla solo quando, appunto, si tratta di comportamenti evitabili dagli individui. Hai il cancro? Colpa tua. Questo atteggiamento si chiama negli Stati Uniti “blame the victim”, colpevolizzare la vittima. Da noi si direbbe: cornuto e mazziato!
Invece, prevenzione sarebbe anche eliminare quelle sostanze chimiche di cui si conosce l’azione cancerogena: non solo l’amianto e il radon, ma i pesticidi, gli idrocarburi: sono più di cento le sostanze accertate come cancerogene identificate dall’Agenzia Internazionale per la Ricerca sul Cancro (IARC, http://www.iarc.fr/index.php ), e altre centinaia sono sospettate di esserlo. Questa prevenzione, detta anche prevenzione primaria, richiederebbe seri investimenti nello studio delle sostanze cancerogene (mentre solo l’1% della ricerca è dedicata a questo aspetto del problema cancro).
E’ ingenuo pensare, ad esempio, che solo i lavoratori che sono esposti a pesticidi (perché li impiegano) siano a rischio, mentre coloro che si nutrono di cibi che sono venuti a contatto con pesticidi non lo siano. L’accumulo, dicono gli esperti, è decisivo. Così, il cosiddetto cancro “occupazionale” diventa prima o poi “ambientale”, e riguarda tutti.
Occorrerebbe potenziare anche la ricerca su prodotti alternativi, meno tossici per l’uomo, in tutti gli ambiti. Si pensi al motore a scoppio (ottocentesco) e al suo potere inquinante. Perché la ricerca per sostituire efficacemente lo spostamento mediante “automobile con motore a scoppio” con un altro metodo procede con passo da formica?
Non è certo rivoluzionario, ma semplicemente realistico, constatare che il sistema capitalistico che abbiamo creato non prevede che gli interessi e i profitti delle multinazionali (con potere sovrastatale) siano messi in forse. Laura Corradi, nel suo bel libro Nuove Amazzoni, cita il caso di una multinazionale a polo statunitense che produce al contempo solventi cancerogeni per la pittura delle auto, e Tamoxifene, un farmaco antitumorale per il cancro al seno. Paradossale, no? E va aggiunto che sono spesso le aziende farmaceutiche che finanziano la ricerca sul cancro.
Essere consapevoli di questi fatti ci permette di essere più attenti, e anche più critici ed agguerriti: forse è ora di cominciare a uscire dall’inerzia, e a considerare il cancro non solo come tragedia privata, ma come problema sociale e politico complesso.
Che cosa ne pensate?

Il cancro. Parte seconda

Cari amici, benché sia lungi da me l’idea di intrattenervi e tediarvi sul tema del mio cancro, vorrei darvi ancora un’informazione, fare con voi una riflessione, e rivolgervi una domanda. Poi Si può dire morte parlerà d’altro.
Come prima cosa, però, voglio ringraziarvi tutti infinitamente per la vostra vicinanza, che mi ha fatto molto bene. Avrei voluto farlo individualmente, ma non ne ho l’energia, siete troppi!
Ciò che mi sta ancora a cuore dirvi, è che ho pensato di trasformare il mio cancro in un’avventura, oltre che personale, intellettuale.

L’informazione. Questa malattia è ancora troppo oscura, inquietante e indicibile: non a caso, dopo l’articolo di Vera Schiavazzi dedicato a me su Repubblica, il giornalista Mimmo Càndito ha sentito l’esigenza di parlare del suo tumore al polmone sulla Stampa (e vorrei ringraziarlo). Prima di ammalarmi, mai avrei pensato che ci fosse ancora una così grande difficoltà a dire “ho un cancro”, e solo ora capisco la riuscita pubblicità dell’AIRC: la parola “incurabile” è tramutata nella parola “curabile”, mentre il prefisso “in” si sgretola a colpi di piccone.
Credo quindi possa essere utile analizzare la malattia (che per molti è ancora sinonimo di sentenza di morte) da un punto di vista sociale e culturale: come ci rappresentiamo socialmente il cancro? Cosa accade a noi, ai nostri familiari, ai nostri amici, quando viene formulata la diagnosi? Come affrontiamo le terapie? Abbiamo fiducia nella medicina ufficiale? Rimettiamo in discussione le nostre vite?
Ho così cominciato a leggere e prendere appunti per costruire una nuova ricerca.

La riflessione. Inoltre se il cancro non è un’invasione di alieni, se è qualcosa che il mio corpo ha prodotto, vorrei capire se è vero che la mia mente è stata solidale con le cellule “impazzite” e non col mio sistema immunitario, e perché.
La medicina psicosomatica parla da decenni di un’insorgenza multifattoriale del tumore (che deve dunque anche tener conto delle variabili psicologiche e sociali): e io ho percepito di non essere stata una vittima della malattia, ma un agente. Il mio corpo mi ha probabilmente dato un avvertimento, un segnale d’allarme, con il sintomo cancro. Certo non c’è evidenza scientifica che sia così, ma l’ipotesi non può essere scartata. Potrebbe essere, il cancro, anche (certo non solo) una richiesta d’aiuto del nostro corpo bistrattato? Del nostro corpo che ci richiede di svoltare? Di crescere, di risolvere i conflitti interiori, di smetterla di scappare?
Io sono diventata adulta imparando a dare un peso preponderante alla mia parte razionale. Ma non ho tralasciato qualcosa? E le emozioni che ho trascurato, negato, occultato, potrebbero aver preso una via di sfogo somatica (per dirla in soldoni)?
In una cultura del “dover essere”, del dover stare sempre bene, sempre in forma, sempre positivi, sempre sorridenti, sempre dinamici, sempre “in carriera”, l’oblio delle emozioni potrebbe non riguardare solo me. Anzi, la presbiopia emozionale sembra essere un problema diffuso. Volgiamo sdegnosamente lo sguardo dall’altra parte quando qualcosa può farci male o metterci in crisi. Ma che effetto ci fanno queste molteplici negazioni?

La domanda che vorrei farvi è: siete d’accordo con la visione psicosomatica del tumore, per cui quest’ultimo ha una pluralità di cause, tra cui un’importante dimensione psicologica? O pensate piuttosto che il cancro sia una malattia “biologica”, che arriva casualmente all’uno o all’altro? O altro ancora? Mi aiutate? Tutto quello che vorrete dirmi sarà un importante materiale per la mia ricerca sul cancro. Grazie!

Ho un cancro, si può dire

Ho un cancro, per la seconda volta nella mia vita. Ci sono tre ragioni per cui desidero parlarne con voi, miei lettori. La prima è che questo è uno spazio di condivisione, e lo è anche e in primo luogo per me che l’ho voluto e creato.
La seconda ragione è che, malgrado i notevoli progressi della medicina nella cura e nella cronicizzazione dei tumori, la parola “cancro” è ancora per molti indicibile. Allora io, anche un po’ provocatoriamente, lo dico a tutti, e registro mentalmente le reazioni: poi prendo appunti e rifletto. Sono anche piuttosto incongruente. Metto la parrucca, e racconto a chiunque che si tratta di una parrucca. D’altra parte, chi è immune da contraddizioni?
La terza ragione per cui vi parlo del mio cancro, è che sento di essere chiamata a rispondere a un interrogativo che mi sono posta molte volte a partire dal 5 febbraio, giorno in cui mi è stato diagnosticato un carcinoma mammario, inoperabile perché all’interno della cassa toracica, coi contorni non ben definiti, e molto vicino al cuore. L’interrogativo è: nel momento in cui ho a che fare col mio tumore, mi sono serviti questi vent’anni di studi e riflessioni sulla morte? Me lo sono chiesto perché, se la risposta fosse stata negativa, per coerenza avrei dovuto cambiare mestiere, chiudere questo blog e scusarmi con voi per avervi importunati.
Per rassicurare quelli tra voi che mi conoscono e mi vogliono bene, la prognosi è buona. Tuttavia, come mi era accaduto la prima volta, a trentacinque anni, avere un tumore mi ha fatta sentire nuda, imbelle di fronte alla fragilità e alla mortalità, che si manifestano potenti, non parole ma verità inscritte nella carne.
Come lo vivo, dunque, questo cancro?
Intanto, dopo brevi momenti di fuga e negazione e altri di paura (in tutto una decina di giorni), ho scelto di accompagnarlo e osservarlo, questo tumore, senza coincidere con il mio cancro (come giustamente ha detto Emma Bonino di sé), ma senza sottovalutarlo. Mi curo e intanto penso che questa situazione della mia vita abbia di sicuro qualcosa da insegnarmi. Stare in ascolto, affinare l’attenzione, mi permette di sentirmi sempre pienamente viva.
Non percepisco questo tumore come un “nemico” esterno. Chi mi incita alla battaglia e al coraggio, alla lotta e alla resistenza, non trova eco in me. Sono grata a tutti coloro che mi fanno forza, perché comprendo le loro affettuose intenzioni. Io però non ho il proposito di combattere, ma di fare qualche passo verso una maggiore consapevolezza. Questa malattia è parte di me, in qualche misura forse è esito del mio modo di stare al mondo. Sono le mie cellule a essersi moltiplicate male, è il mio sistema immunitario che non è stato reattivo, non c’è stata un’invasione di alieni!
In questo momento (vedremo se riuscirò a mantenere questa disposizione d’animo) ho il desiderio di dilatare la mia sensibilità e la mia ricerca spirituale, che so essere interminabile, mai conclusa. Un giorno si cresce in saggezza, e il giorno dopo quei risultati sono già messi a dura prova, e procediamo da gamberi…
La mia personale ricerca ha per me il profumo dell’espansione vitale, dell’adempimento (anche se sempre parziale): così, finora, nutrita da questa dilatazione del cuore e della mente, mi sveglio sempre di buon umore, addirittura gioiosa, anche quando devo andare a fare la chemioterapia.
Un’ultima considerazione, per oggi. Molte persone malate, tra quelle che incontro in ospedale, si chiedono continuamente: «Perché a me? Cosa ho fatto di male?». So bene che questa domanda non corrisponde al pensiero: «sarebbe stato meglio se il cancro avesse colpito il mio vicino!». Non si tratta di una posizione amorale. E’ però, mi pare, la sensazione di essere sprofondati, di colpo, nel buio, di aver perso l’orientamento consueto delle giornate. Allora sorgono i quesiti sul destino e sulla provvidenza, sulla giustizia e l’ingiustizia metafisicamente intese.
Chi però già sapeva di essere vulnerabile, non entra nell’oscurità e non scomoda il fato. Ho incontrato anche molte persone straordinarie, che elaborando il significato della malattia nella loro vita sono davvero diventate migliori.
Vi parlerò ancora di questa mia esperienza, ma c’è qualcuno che ha voglia di dire come l’ha attraversata o la sta attraversando, o come l’hanno attraversata persone a lui care?