Articoli

Riflessioni sulla buona morte, di Marina Sozzi

Scrivo questo post a partire da un interessante incontro al quale ho partecipato in Vidas, insieme a Carlo Casalone e Luciano Orsi, il 5 marzo 2024, sulla buona morte. Ringrazio pertanto Caterina Giavotto per questo invito, che mi ha indotto a riflettere su questo tema.

Dobbiamo innanzitutto chiederci che cosa significhi “buona morte”, ed evitare di dare per scontato questo concetto.

Occorre prima di tutto non mitizzarne il tema. L’obiettivo delle cure palliative è accompagnare, per ottenere la migliore qualità della vita possibile. Tuttavia, la buona morte non dipende solo dalla qualità delle cure, ma anche da come ciascuno di noi ha vissuto, e da come ha affrontato la domanda sulla morte nel corso della vita. Hans Küng, teologo cattolico della dissidenza, diceva che la buona morte è da un lato un compito, dall’altro un dono. Nella parola “dono” è espressa anche la parte di incontrollabilità che riguarda la buona morte, le caratteristiche e le evoluzioni della patologia. Nella parola “compito” c’è invece il ruolo della soggettività del paziente. E tuttavia, credo che la buona morte possibile non sia neppure un fatto individuale, ma risieda nella triangolazione della relazione tra paziente, familiari e curanti: un compito condiviso, quindi.

Ma la buona morte è buona per chi? Dobbiamo farci questa domanda, per evitare di proiettare, come curanti, la nostra idea di buona morte sul paziente, mettendo inconsapevolmente in sordina i suoi desideri. Ovviamente, la morte deve essere buona soprattutto per chi se ne va, ma è importante anche per chi resta (il lutto è influenzato dalla morte che ha avuto la persona cara, lo dico anche per esperienza personale). Questo non significa che il familiare possa prevaricare il volere del morente, ma che i curanti debbano sempre cercare di “portarlo con sé”, di non lasciarlo solo con i suoi timori o le sue fantasie. Un esempio potrebbe essere quello della richiesta, da parte del paziente, di sedazione palliativa, quando i familiari non sono pronti a separarsi dal loro caro. L’abilità dei curanti (Sonia Ambroset lo dice magistralmente nel suo libro sulla sedazione) consiste nella condivisione, nella spiegazione, nell’accompagnamento.

Talvolta ci si chiede se la buona morte possa essere un diritto. Io credo che ci siano diversi diritti da tutelare alla fine della vita. Primo tra tutti, garantito anche dalla legge 38/2010 (non ancora pienamente applicata), il diritto a ricevere cure palliative qualora ve ne sia l’esigenza. Poi la dignità delle persone, il rispetto della loro identità e unicità, malgrado la malattia e l’avvicinarsi della morte. Tutelare la dignità significa, per i curanti, rivolgere sguardi pieni di rispetto verso i malati. E significa anche, al contempo, preservare l’autodeterminazione, la capacità di compiere scelte. Vale la pena soffermarsi un attimo sul concetto di autodeterminazione. Benché spesso si pensi all’autodeterminazione come a un diritto umano, e come tale universale e già acquisito alla nascita (cosa peraltro vera), occorre tenere presente che non tutte le persone sono abituate a prendere decisioni per sé. L’autodeterminazione deve quindi essere un obiettivo concreto della cura, ossia le persone vanno accompagnate a prendere le decisioni migliori per sé, coinvolgendo le famiglie e le comunità (intese come reti di relazioni di ciascuno) e aiutandole a comprendere le scelte compiute dal loro caro.

Invece, non credo sia produttivo dare alla buona morte lo statuto di un diritto. Si rischia di scivolare in una vicenda analoga a quella della felicità. Definita la ricerca della felicità come diritto nel XVIII secolo, inserita come tale nella Costituzione americana, essere felici è poco per volta divenuto un dovere, o perlomeno una forte pressione sociale: se non hai saputo procurarti la felicità non vali nulla, se non sei felice sei un fallito. Non vorrei che toccasse la stessa sorte alla buona morte, se vogliamo definirla come diritto. C’è il rischio che si infiltri in questo concetto un elemento di giudizio (negativo) per chi, ad esempio, non riuscisse a conciliarsi con la propria morte.

Un altro punto importante è la preparazione alla morte: è importante al fine della buona morte, come afferma Küng?

Esiste una lunga storia dell’idea che sia necessario prepararsi alla morte per averne una buona. Scopo delle Artes Moriendi del 1400 era preparare il morente e coloro che lo assistevano, mediante la preghiera e il respingimento delle tentazioni. Erasmo da Rotterdam, nella sua celebre opera De praeparatione ad mortem del 1534, indica due “cure” contro la paura della morte: una invita il lettore a percorrere mentalmente le tappe della propria esistenza per rendersi conto della sua caducità e di quanto sia colma di preoccupazioni e di dolori; l’altra si incentra sulla fede in Dio, unica difesa atta a sconfiggere i limiti, le imperfezioni e la fragilità della condizione umana.

Ancora nel 1620 con il Cardinale Bellarmino indica come norma sicura del buon vivere, e anche del buon morire, il meditare spesso e seriamente che si dovrà rendere conto a Dio delle proprie azioni e del proprio modo di vivere, e cercare di non accumulare ricchezze in questa terra, ma di vivere semplicemente e con carità in modo da procurarsi beni celesti.

Che ne è oggi della preparazione alla morte in un contesto molto secolarizzato? Ha senso? E’ possibile?

Nel suo libro Morire all’italiana, Asher Colombo ha fatto otto domande molto concrete a un campione di italiani sulla preparazione alla morte: ha chiesto se avevano dato disposizioni sul destino delle proprie spoglie; comunicato ai familiari la collocazione dei documenti importanti; espresso la propria volontà sulla donazione degli organi; lasciato le proprie DAT; pianificato il proprio funerale; comunicato le password dei propri account e social network; stabilito a chi affidare la cura dei propri cari; fatto testamento. Dalle risposte a queste domande Colombo deduce che circa il 43% degli italiani non si è preparato affatto alla propria morte. Ha senz’altro un valore, soprattutto per chi rimane, trovare le cose in ordine.

Io però credo che sia necessario un approccio più complesso. E penso che ci siano vari modi, anche molto personali, per prepararsi alla morte: pensarci, ad esempio, trovare una consolazione alla finitezza, informarsi sulle cure palliative, familiarizzarsi con la propria vulnerabilità e mortalità. Cose che è difficile indagare con un sondaggio.

Non possiamo eludere, inoltre, a proposito di buona morte, la questione della morte volontaria. La buona morte può essere anche morte nel tempo ritenuto opportuno dal morente? Credo che andiamo verso il riconoscimento della possibilità di scegliere di abbreviare il proprio tempo, anche in Italia. Con una legge, non solo mediante la sentenza della Corte costituzionale. La caratteristica del mondo in cui viviamo è la pluralità: delle religioni, delle credenze, degli stili di vita, degli atteggiamenti nei confronti della vita e della morte: quindi la chiave di volta dell’etica contemporanea, in sanità, è per me il rispetto delle diverse prospettive.

Occorre però che l’opzione del suicidio assistito non ostacoli la crescita delle cure palliative, altrimenti si finirebbe non per aumentare, ma per ridurre le scelte possibili.

Io non credo neppure, però, che il mondo delle cure palliative debba tirarsi fuori da questa riflessione. Credo anzi che, essendo l’unico soggetto ad avere dimestichezza con il fine vita, abbia molto da dire. So che ci sono sensibilità diverse su questo tema nel nostro mondo, e che alcuni rifiutano decisamente ogni interruzione prematura della vita. E so anche che esiste il timore che le persone rifiutino le cure palliative perché vengono ancora confuse con pratiche di abbreviazione della vita. E tuttavia, penso che a tale riflessione occorra andare incontro, facendo chiarezza, con un lavoro culturale costante e paziente.

Cosa pensate voi della buona morte? Che esperienze avete fatto? Pensate che si possa preparare?

Vi ringrazio in anticipo per i vostri preziosi commenti.

Elena, la Svizzera e la dignità della morte, di Marina Sozzi

In genere preferisco non parlare del tema dell’eutanasia e del suicidio assistito, su cui ho già in alcune occasioni espresso il mio pensiero.

Ma quando leggo sui quotidiani descrizioni approssimative e imprecise delle storie delle persone che scelgono di andare in Svizzera, mi viene il desiderio di commentare. Non intendo certo commentare la scelta della signora Elena, che si è recata a Basilea con Cappato a concludere la sua vita. Non si può e non si deve giudicare le scelte delle persone, che si sentono o non si sentono di vivere la propria malattia fino alla fine. Ciascuno sceglie in base alla propria storia, alle proprie risorse, a molti altri fattori della propria vita che non sono sindacabili.

Tuttavia, quando la storia di Elena, su Repubblica o sulla Stampa, è narrata come se l’alternativa di Elena fosse morire soffocata per via del suo microcitoma, non si può tacere.

Scrive Maria Novella De Luca su Repubblica: «Se n’è andata così Elena, con la voce sottile e il coraggio di un leone, lasciando un video che è un limpido testamento di amore per la vita. “Mi sono trovata davanti a un bivio. Una strada più lunga che mi avrebbe portata all’inferno, una più breve che poteva portarmi qui in Svizzera, a Basilea: ho scelto la seconda.”»

Ora, l’alternativa al suicidio assistito, nel caso di Elena, non è la sofferenza bruta a cui fa riferimento sia lei stessa che la giornalista: “l’inferno”.

E da questo punto di vista credo sia importante che, oltre a poter scegliere – e in Italia, dopo la sentenza della Corte Costituzionale, prima o poi una legge sul suicidio assistito si farà- si possa scegliere sulla base di buone informazioni.

E queste informazioni non le troviamo mai, o quasi mai, sui mass media nazionali: le cure palliative permettono di non soffrire dal punto di vista fisico, e di essere sostenuti dal punto di vista umano, psicologico e spirituale. Nel caso di Elena, se il microcitoma (tumore polmonare molto aggressivo) o le metastasi le avessero provocato dei sintomi cosiddetti “refrattari” (che non si riescono a contenere con i farmaci), o se la sua angoscia di morire soffocata fosse troppo forte, ci sarebbe stata l’indicazione per una sedazione palliativa. Questa sedazione non ha nulla a che fare con il suicidio assistito, perché non abbrevia né allunga la vita, e perché diverso è l’obiettivo (nel suicidio assistito i farmaci ingeriti sono volti a provocare la morte, mentre nella sedazione palliativa viene indotta una forma di sonno profondo che azzera la coscienza e anche la sofferenza, che sia fisica o mentale).

Quindi Elena avrebbe potuto finire la sua vita nella sua casa, circondata dall’affetto dei suoi cari, con una sofferenza tenuta sotto controllo. Quindi massimo rispetto per la sua scelta, ma l’alternativa non sarebbe stata “l’inferno”. E questo è importante dirlo per tutti gli altri innumerevoli malati di tumore che devono affrontare la fine della propria vita.

Ancora Repubblica: «Elena ha registrato un video – lucido e straziante – in cui testimonia la sua libera e inappellabile scelta, ma accusa anche il nostro paese di averla costretta ad emigrare per poter morire con dignità. “Avrei sicuramente preferito finire la mia vita nel mio letto, nella mia casa, tenendo la mano di mia figlia, la mano di mio marito. Purtroppo questo non è stato possibile e quindi sono dovuta venire qui da sola.» Ecco, no.

Nulla da eccepire sulla libera e inappellabile scelta di Elena, ma in Italia abbiamo due ottime leggi sul fine vita (la 38 del 2010 e la 219 del 2017) che le avrebbero permesso di morire nel suo letto, tenendo la mano dei suoi familiari.

Quando si decide che il malato non se la sente più di affrontare la malattia, l’équipe propone la sedazione palliativa, e la spiega accuratamente al paziente e alla sua famiglia, così che possano prendere insieme una decisione, e prima che la sedazione venga praticata la famiglia può riunirsi per un saluto, per le ultime parole d’amore. La sedazione non è sempre irreversibile, e talvolta è possibile programmare una sedazione intermittente, che permetta ad esempio al malato di riposare ma di essere ancora presente in alcuni momenti. La sedazione palliativa è uno strumento terapeutico duttile ed efficace, e, insieme a tutti gli altri, è volto a garantire la dignità alla fine della vita. Le cure palliative hanno come priorità la dignità del malato. Troppo spesso si rivendica la dignità come se la morte programmata fosse l’unica soluzione per garantirla.

Le storie che talvolta si sentono, di persone prese in carico troppo tardi, e che hanno sofferto, sono storie che dipendono prevalentemente dalla mancanza di cultura sulle cure palliative. Mancanza di cultura dei medici, che tardano troppo ad attivare le cure palliative; e anche mancanza di cultura dei cittadini, che ignorano i loro diritti (le cure palliative sono garantite a tutti come diritto dalla legge 38). Talvolta, certo, dipendono anche dalla cattiva organizzazione delle ASL e dai loro ritardi.

Ma anche di questo siamo tutti responsabili. Perché, oltre ad invocare il suicidio assistito e l’eutanasia, dovremmo informarci meglio e conoscere le possibilità che le cure palliative offrono di affrontare con dignità, con la tutela della qualità della vita, la propria morte. E dovremmo fare una battaglia civile perché le cure palliative siano estese a tutti i malati che ne hanno bisogno, in tutti i contesti di cura.

Sono ansiosa di sapere cosa ne pensate. Grazie in anticipo per i vostri commenti.

Leggi sul fine vita: non dimentichiamo le vecchie per le nuove, di Marina Sozzi

La Corte Costituzionale si è espressa, giudicando non punibile chi presta aiuto al suicidio assistito, purché si tratti di un malato tenuto in vita da trattamenti di sostegno vitale, o affetto da una patologia irreversibile che provochi sofferenze fisiche e psicologiche ritenute intollerabili dal soggetto. Il paziente, inoltre, deve essere pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli.
Per ora abbiamo solo il comunicato stampa della sentenza, ma molti hanno affermato, primo tra tutti Cappato, che da ieri gli italiani sono più liberi. Certamente, visto che, come spesso accade, la giurisprudenza ha anticipato la politica, sarà necessario che il Parlamento legiferi sul suicidio assistito.

Si tratta di una buona notizia. Certo non si poteva condannare Marco Cappato o Mina Welby per il loro impegno di accompagnamento.
Ci sono però alcune cautele che non sono marginali, e che occorre ribadire continuamente, affinché il meglio non sia nemico del bene.

Noi abbiamo due buone leggi sulla fine della vita, conosciute (secondo recenti sondaggi) da meno di un terzo dei cittadini italiani: una è la legge 38/2010, sul diritto a ricevere cure palliative e terapia del dolore, l’altra è la 219/2017, che tratta di consenso informato, di disposizioni anticipate di trattamento (testamento biologico), di pianificazione condivisa delle cure, di sedazione palliativa.
I lettori di questo blog sanno certamente che cosa sono le cure palliative, ma costituiscono una minoranza della popolazione (allego comunque in calce a questa pagina il decalogo delle cure palliative, prodotto dal Centro di Promozione Cure Palliative istituito dalla Rete oncologica del Piemonte e della Valle d’Aosta, e che contribuisce a chiarire le idee).

La legge 219, che afferma il dovere del medico di informare il paziente sulle sue condizioni di salute, sulla sua aspettativa di vita, sugli effetti collaterali delle terapie, sulla possibilità di successo di queste ultime, costituisce un’innovazione dirompente in sanità, ma corre il grosso rischio di restare lettera morta. La stessa fine ingloriosa (l’oblio), può fare lo splendido richiamo a considerare la relazione medico/paziente come tempo di cura; e la possibilità per i cittadini di lasciare le proprie disposizioni anticipate di trattamento corre il pericolo di coinvolgere una percentuale irrisoria di popolazione.

Inoltre, è evidente la difficoltà dei medici a comprendere appieno di cosa parliamo quando diciamo pianificazione condivisa delle cure. I medici sono piuttosto abituati a prendere decisioni “al posto” del paziente, “per il suo bene”, “in scienza e coscienza”, ma certo faticano a decidere “con, insieme” al paziente. Con le debite eccezioni, naturalmente.

Per quanto riguarda le cure palliative, poi, sappiamo che ci sono ancora nel nostro paese enormi disparità di applicazione, non solo tra regione e regione, ma anche tra una provincia e l’altra di una stessa regione. Molto lavoro resta da fare per estendere le cure palliative a tutte le patologie e ai cittadini anziani, e altrettanto per infrangere il tabù culturale sulle cure palliative, sovente temute come una condanna a morte, prima di conoscerle e quindi di comprenderle.

Allora, pur essendo d’accordo sull’esigenza di una legge sul suicidio assistito (che riguarda soprattutto i casi estremi come quello di Fabiano Antoniani, più che non i casi di terminalità dovuti a una patologia progressiva), mi preoccupa questo correre sempre avanti al prossimo obiettivo (Cappato parlava già di eutanasia): mi preoccupa perché così si tralascia di lavorare pazientemente affinché le norme già stabilite abbiano un futuro, possano incidere e cambiare la biomedicina in meglio, permettendo ai pazienti di essere più consapevoli, e quindi – davvero –  più liberi.

Infatti, non c’è libertà senza consapevolezza, senza sapere cosa è probabile che ci accada, per poter riflettere con la maggior serenità possibile su cosa siamo in grado di sopportare e cosa no, dove si arresti la nostra voglia di vivere e la capacità di stare nel mondo insieme ai nostri affetti. Già. Essendo noi non individui isolati gli uni dagli altri, ma esseri strutturalmente in relazione reciproca, dipendiamo inevitabilmente, che ci piaccia o meno, dagli altri, e siamo condizionati da ciò che abbiamo vissuto. La nostra libertà è dunque sempre segnata dal limite e non coincide con l’eliminazione di tutti gli ostacoli tra noi e il nostro volere, ma anzi, si raggiunge solo insieme agli altri, con un’azione mutualmente emancipatrice. Questo principio vale per molti aspetti della vita umana, e in particolare per la fine della vita e le scelte che l’accompagnano. Scelte che richiedono una ardua e attenta triangolazione tra malato, familiari e curanti.

Salutiamo quindi con favore la decisione della Corte Costituzionale, che peraltro ha fatto riferimento anche alla 219 per motivare la sua scelta, e ci auguriamo che il Parlamento faccia un buon lavoro su questo tema, ma chiediamo anche che venga fatta una campagna pubblica per far conoscere ai cittadini le due leggi precedenti e che sia investito denaro per formare il personale sanitario alle nuove norme: che si faccia, insomma, ciò che è necessario affinché le leggi che già abbiamo nel nostro paese sulla fine della vita entrino in vigore non solo formalmente ma concretamente.

Mai più un caso Loris Bertocco. I problemi del caregiver familiare, di Giovanni Sanvitale e Davide Sisto

Pileggi_Donatella_lamalattiacronica_01 copiaNon ci sono feste natalizie per chi ha un parente disabile, bisognoso di assistenza e cura 24 ore su 24. Oltre alla lacerante sofferenza emotiva che questa situazione genera, vi sono all’interno della nostra società carenze di natura pratica ed economica talmente evidenti, nonché ingigantite da una burocrazia tristemente kafkiana, da far sentire tanto il disabile quanto il caregiver familiare isolati e abbandonati al loro destino.

Le storie che si ascoltano dalla bocca dei protagonisti fanno sorgere un forte senso di indignazione. Forse perché un parente non autosufficiente, a causa di una disabilità, di una demenza o di altra patologia, acuisce l’evidenza della diseguaglianza sociale che segna lo spazio pubblico in cui viviamo: gli assegni di accompagnamento e le pensioni di invalidità sono generalmente così modeste, inadatte anche solo a coprire le spese relative allo stipendio e ai contributi fiscali di un badante, da far pensare a quanto fosse “fortunato” il protagonista parigino del film “Quasi amici”. La sua invalidante disabilità poteva almeno essere compensata da una condizione sociale agiata, che gli garantiva tutte quelle cure di cui troppo spesso lo Stato non si fa carico.

Il recente caso di Loris Bertocco è particolarmente emblematico. A partire da un incidente stradale nel 1977 Loris è rimasto paralizzato; contemporaneamente, si è aggravata una malattia alla vista, che aveva da quando era ragazzo, portandolo alla cecità assoluta. La disabilità ha segnato gli ultimi suoi quarant’anni di esistenza, condizionando la sua vita sentimentale e lavorativa.

Lo scarso supporto statale nel garantire le cure e le attività di riabilitazione lo hanno spinto a ricorrere al suicidio assistito in Svizzera (qui potete leggere la lettera in cui spiega la sua scelta).

Al caso Bertocco, che ha portato i media ad aprire – tardivamente – un dibattito sull’assistenza alla disabilità, è seguito il varo del Fondo per il sostegno dei “caragiver familiari” da parte della commissione Bilancio del Senato con un emendamento, a prima firma Laura Bignami ma sottoscritto da centinaia di senatori, che stanzia 20 milioni di euro per ciascuno degli anni 2018, 2019 e 2020 per “la copertura finanziaria di interventi legislativi finalizzati al riconoscimento del valore sociale ed economico dell’attività di cura non professionale del caregiver familiare”. Come riportato da La Repubblica, in data 27 novembre 2017, il sostegno sarà destinato “alla persona che assiste e si prende cura del coniuge, di una delle parti dell’unione civile tra persone dello stesso sesso o del convivente di fatto, di un familiare o di un affine entro il secondo grado, o di familiare fino al terzo grado che non si autosufficiente, sia ritenuto invalido o sia titolare di indennità di accompagnamento”.

Nei giorni successivi all’emendamento hanno cominciato a prendere forma alcune regole: innanzitutto, l’estensione della definizione di “caregiver familiare” (tradotta in italiano con “prestatori volontari di cura”) ai nipoti che si prendono cura dei nonni riconosciuti come invalidi civili. Secondo quanto emerge, dovranno assisterli per almeno 54 ore alla settimana, vigilanza notturna compresa. In secondo luogo, l’obbligo di scegliere tra il ruolo di caregiver e i benefici della legge 104, la quale concede tre giorni di permesso retribuito al mese per assistere un parente disabile.

Purtroppo non è chiaro in che modo verranno usati i 60 milioni di euro stanziati, dal momento che paiono essere una cifra misera per garantire ai caregiver un assegno o i contributi della pensione. Ancor più misera, se si tiene conto dell’estensione del ruolo del caregiver anche ai nipoti del disabile. Questo perché in Italia si calcola che sia circa un milione il numero di persone che assistono a tempo pieno un parente disabile. Inoltre, “essere riconosciuto prestatore volontario di cura farà perdere a tutti gli altri familiari lavoratori la possibilità di utilizzare la legge 104, quella che dà diritto a permessi straordinari dal lavoro”.

Ora, le regole saranno definite da un decreto a cui stanno lavorando i tecnici dei ministri del Lavoro, Giuliano Poletti, e della Salute, Beatrice Lorenzin. Pertanto, non si hanno ancora gli strumenti per una valutazione oggettiva di quanto è stato emendato. Va detto che l’ANFFAS ONLUS (Associazione Nazionale Famiglie di Persone con Disabilità Intellettiva e/o Relazionale) è scettica nei confronti del testo in discussione al Senato. Ha presentato a sua volta un testo in cui chiede soprattutto che la disabilità sia riconosciuta come un problema sociale e non privato, cui lo Stato deve garantire tutti i servizi e l’assistenza economica opportuni, nonchè estendere il più possibile la figura del caregiver familiare, nell’ottica di proteggere e non abbandonare la persona disabile.

Il problema è particolarmente importante e urgente, anche tenuto conto della crisi economica che stiamo vivendo, della disoccupazione ancora molto elevata nelle singole regioni italiane e della forbice economica che separa le diverse generazioni, da cui segue la prospettiva di un futuro in cui i familiari “giovani” avranno sempre meno strumenti per accudire i propri cari.

Vi chiedo di raccontare la vostra esperienza in merito, o di condividere le vostre riflessioni.

 

Foto di: Pileggi Donatella

Distinguiamo bene i termini: limitazione delle cure non è eutanasia, di Maria Teresa Busca

Definition of word euthanasia in dictionaryIn Italia il dibattito sulle materie eticamente sensibili, e quindi anche sulle questioni riguardanti il fine vita, oscilla tra una radicale ideologizzazione e il silenzio. Dilaga la spettacolarizzazione mediatica della malattia e della morte, che tende a sostituire la necessaria profondità e complessità della riflessione. Questa situazione si accompagna a una confusione di termini, significati e contenuti, sia nell’ambito dell’informazione sia in quello della politica: sovente espressioni quali “limitazione delle cure”, “eutanasia” e “suicidio assistito” vengono tutte ricomprese nella parola-contenitore “eutanasia”.

Al contrario, un approccio ragionato, basato sulla condivisione del significato preciso che si intende dare alle parole si dimostra l’unico davvero utile a compiere scelte individuali meditate e consapevoli alla luce del principio di autodeterminazione.

Infatti, quando in ambito scientifico o giuridico si parla di limitazione delle cure, eutanasia e suicidio assistito s’intendono concetti del tutto diversi tra loro. Tali concetti implicano scelte compiute da persone affette da malattie differenti per natura e gravità, attuate con differenti responsabilità e implicazioni morali. Ma qual è l’obiettivo primario della riflessione bioetica, se non fornire strumenti per prendere decisioni in maniera razionale, autonoma e responsabile? Per questa ragione è necessario prima di tutto fare chiarezza, esaminando attentamente tali differenze per avviare una discussione aperta e non ideologica sul tema del fine vita.

Per “limitazione delle cure” s’intende l’interruzione o il non avvio di trattamenti diagnostici o terapeutici che risultino eticamente sproporzionati e/o clinicamente inappropriati. Sono eticamente sproporzionati i trattamenti che per il malato comportano oneri superiori ai benefici attesi. Gli oneri s’intendono come oggettivi, cioè previsti dalla scienza medica – gli effetti collaterali dei trattamenti – o soggettivi, quelli percepiti come tali dal malato. Sono invece clinicamente inappropriati i trattamenti che non corrispondono più ai criteri di efficacia e appropriatezza clinica, non essendo più in grado di modificare positivamente la prognosi (guarigione o stabilizzazione della malattia).

In Italia, la limitazione delle cure è prevista dall’articolo 16 del Codice di Deontologia Medica e può attuarsi in qualsiasi contesto assistenziale.

Una limitazione delle cure può avvenire a seguito della decisione del malato che esprime insindacabilmente il suo dissenso rispetto all’inizio delle cure o che, altrettanto insindacabilmente, ritira il suo consenso alla loro prosecuzione, come garantito dall’articolo 32 della Costituzione (che tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, garantendo cure gratuite agli indigenti e stabilendo che nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge). Oppure per decisione dei medici nel caso di un malato non più in grado di decidere per sé, quando le cure e/o i supporti vitali, non contrastando più validamente il processo di malattia, non sono in grado di modificare una prognosi ormai certamente infausta. In quest’ultima situazione i fatti salienti sono: la liceità morale di evitare inutili sofferenze; l’irreversibilità del processo del morire scientificamente provata; il limite sperimentato della cura; l’inutilità della sua prosecuzione.

La causa della morte in questo caso è dunque la malattia. La limitazione delle cure non viene quindi posta in essere per abbreviare la vita del malato; in ciò differisce dall’eutanasia o dal suicidio assistito, che invece hanno lo scopo di causare nel più breve tempo possibile e in maniera indolore la morte del paziente, ma per lasciare che si concluda un processo di morte causato da una malattia non più guaribile o stabilizzabile.

Il senso dell’agire clinico non si colloca tra “fare” o “non far nulla”, ma tra “fare” o “fare altro” (cfr. a tal proposito il documento prodotto dal Cortile dei Gentili e presentato al Senato il 17 settembre 2015, Linee propositive per un diritto della relazione di cura e delle decisioni di fine vita)

Vale a dire, l’agire clinico deve saper abbandonare i trattamenti sproporzionati per garantire invece una presa in carico globale del malato, finalizzata a migliorare la qualità della parte finale della sua vita, riducendone la sofferenza psicologica e fisica e risparmiandogli la solitudine, considerandolo vivo fino alla fine e meritevole di solidarietà e di rispetto per la globalità della sua persona attraverso le cure palliative.

Nel documento Linee propositive è inoltre evidenziata la necessità di riconoscere che la dignità della persona è da individuare proprio nella sua libertà di scegliere il rifiuto di cure sproporzionate, preferendo un accompagnamento di tipo palliativo. Questa considerazione è importantissima ancora una volta rispetto alla necessità di non confondere questa scelta con quella dell’eutanasia e del suicidio assistito. Nel rispetto della diversità delle impostazioni teoriche, il documento rappresenta un concreto esempio di come sia possibile, con sincerità e rigore, non solo ascoltarsi, ma anche ritrovarsi in qualità di appartenenti a un’unica comunità.

Voi, quando leggete sui quotidiani a proposito dell’eutanasia, siete coscienti di queste differenze di significato? O ritenete che spesso non sia chiaro il senso in cui si parla di eutanasia a livello mediatico? Mi piacerebbe sapere quali idee avete quando sentite parlare di “eutanasia” nei discorsi pubblici e se tali idee tengono conto della distinzione tra limitazione della cura, eutanasia e suicidio assistito.

 

Brittany Maynard e la nostra morte

In questi ultimi giorni si è parlato moltissimo, su tutti i media, di Brittany Maynard, la ragazza americana che ha scelto di morire con un suicidio assistito, prima che il tumore che le aveva invaso il cervello le impedisse di vivere una vita da lei considerata degna. Si è trattato di un suo diritto, riconosciutole nello Stato dell’Oregon. Inutile dire che la sua storia, come tante altre di vite con destini tanto tristi, ci commuove. Brittany non ha solo scelto di morire, ha voluto rendere pubblica la sua morte. E da quel momento in poi, non è più di lei che stiamo parlando, ma di noi.
Due sono le questioni a cui vorrei fare un rapido accenno.
a) Sul tema della fine della vita. Molte firme si sono spese per commentare l’accaduto. Ne citerò solo due: la Pontificia accademia per la vita, per bocca di monsignor Carrasco de Paula, che ha condannato il gesto (non la persona) come non dignitoso. E il giurista Zagrebelsky che, nell’articolo pubblicato sulla Stampa dell’altro ieri si chiede se sia legittimo vietare il suicidio assistito (e implicitamente risponde di no). Un passaggio mi è parso particolarmente interessante: “E’ difficilmente accettabile l’argomento secondo il quale occorre vietare a tutti, perché qualcuno potrebbe non essere pienamente consapevole e quindi libero”. E’ infatti molto complesso il rapporto tra la probabile illegittimità di vietare e la mancanza di una cultura della morte nel nostro paese (che rende fragile la libertà che si intende difendere). E’ un aspetto, questo, di fronte al quale cerco, faticosamente, giorno dopo giorno, di riflettere senza schierarmi. Tutti i miei lettori possono immaginare quanto sia difficile questa posizione, soprattutto in Italia, dove il dibattito su questi temi è ammesso solo per coloro che sono al fronte, da una parte o dall’altra, e l’incertezza, il confronto profondo non hanno diritto di cittadinanza. Fatta questa premessa, mi colpisce che si possa parlare di morte solo davanti a un caso eclatante, che implica il suicidio o l’eutanasia, mentre è ancora tanto raro un dialogo aperto sul quotidiano morire di ciascuno. Non dimentichiamo che suicidio ed eutanasia riguardano lo zero virgola della popolazione, e che è un paradosso disinteressarsi dell’altro 99 per cento.
b) E con questo veniamo al secondo punto. Troppe persone muoiono ancora male, soffrendo fisicamente e spiritualmente, senza cure palliative appropriate, in luoghi non idonei, senza i loro cari accanto, senza sapere neppure cosa chiedere per una morte più dolce. Il fatto che otto milioni di persone abbiano visualizzato il video di Brittany parla chiaro. Tralasciamo il versante morboso della spettacolarizzazione del dolore, che forse esiste per molti, ma che è difficile da analizzare e quantificare. Diciamo invece che tanti sentono l’esigenza di capire, di parlare della fine della vita propria e altrui, ma non trovano sedi e momenti opportuni per farlo. Ricordo che il New York Times pubblica una media di tre/quattro lunghi articoli alla settimana sull’approfondimento della riflessione sulla morte. Anche il Washington Post non è da meno. Dove sono i nostri giornalisti? Sanno che metà degli italiani ritengono che le cure “palliative” siano quelle che non servono a niente, o ritengono che siano solo per i malati di cancro? Interessa ai direttori dei giornali che i cittadini non sappiano pertanto pretendere ciò che è già un loro diritto, ossia essere accompagnati, non soffrire, poter scegliere e sentirsi vivi fino alla fine, finché la malattia lo consente? E inoltre, di conseguenza, non lasciare parenti distrutti da un lutto devastante, carichi di immagini di dolore e di sensi di colpa per essere stati impotenti di fronte alla morte dei loro congiunti?
Parliamo pure anche di quei casi in cui le cure palliative potrebbero non rivelarsi sufficienti. Parliamone in un ampio dibattito pubblico, tutti insieme: palliativisti, bioeticisti laici e cattolici, giuristi, antropologi, psicologi, sociologi, ma soprattutto cittadini. Facciamolo attivando la nostra capacità di ascolto e mettendo tra parentesi i nostri pregiudizi, e anche le nostre battaglie politiche; e ricordiamo che si tratta di casi probabilmente mai universalizzabili, per via dell’incancellabile specificità dell’individuo umano. Se quindi dovrà essere poi stabilita qualche norma di carattere generale, è possibile auspicare che ciò accada dopo questo dibattito, e che si tratti di un diritto lieve e gentile, che entri il meno possibile in quel sistema di relazioni che è la vita delle persone?
Cosa ne pensate?

Non parlatemi più di spine da staccare!

Sulla Stampa ha preso forma ancora una volta, nel botta e risposta tra l’ex ministro della Salute Girolamo Sirchia e il tesoriere dell’Associazione Luca Coscioni Marco Cappato, un dibattito tipicamente italiano, invecchiato e sterile: quello sulle cure palliative e sull’eutanasia come soluzioni “alternative”.
Sirchia fa un condivisibile elogio alle cure palliative e mette in luce l’esigenza di migliorare la cultura della terapia del dolore. E aggiunge: «l’eutanasia è una grande mistificazione e un sofisma basato sull’assunto che il dolore sia peggio della morte (…) siccome morire è meno doloroso del dolore stesso, la morte viene considerata il male minore. Ma se alleviamo il dolore, il falso castello crolla”: dunque cure palliative contro eutanasia.
Marco Cappato risponde dicendo due cose diverse. Da un lato ammette che i paesi in cui c’è l’eutanasia sono quelli con i più alti standard di cure palliative. E denuncia anche le disparità che esistono nel nostro paese rispetto all’accesso alle cure palliative da parte dei cittadini. Dall’altro ribadisce che morire è una scelta, fermo restando il dovere dello Stato di fare il massimo per alleviare il dolore. Quindi: cure palliative e eutanasia devono poter coesistere, ma delle cure palliative si occupi qualcun altro.
Questa risposta continuo a non capirla. Lo stesso Cappato ammette che i paesi dove c’è l’eutanasia hanno ottime cure palliative (e non possiamo dire lo stesso dell’Italia). Perché allora non cominciamo da lì, visto che siamo tutti d’accordo che è una lotta necessaria?
E’ come se io avessi sete e fame, e davanti a fontana mi rifiutassi di bere finché non mi portano il pane: è illogico, e in questa mancanza di logica sono nascosti tre non detti.

1.L’indifferenza per il destino dei morenti, e la strumentalizzazione politica del tema. Altrimenti sarebbe ovvia la priorità da dare alle cure palliative e alla corretta applicazione della legge 38/2010.
2.La verità che il suicidio assistito, e/o l’eutanasia, non sono tanto risposte al dolore fisico irriducibile (o lo sono solo in minima parte), ma al male di vivere, quando le condizioni di vita sono difficili o intollerabili: ed è su questo che occorrerebbe discutere, perché il dibattito pubblico sia onesto. L’eutanasia riguarda le persone che non hanno più voglia di vivere perché troppo depresse, o con una malattia neurodegenerativa, o perché molto vecchie (cfr. le scelte svizzere di questi giorni), eccetera.
3.Non lo vogliamo davvero, in Italia, un dibattito pubblico informato su questi temi: è più utile creare polarizzazione delle opinioni e divisione. Evidentemente paga di più continuare a far pensare alla maggioranza degli italiani che morire significa trovarsi di fronte all’alternativa tra staccare e non staccare una spina (sic).

Vi prego, ditemi cosa ne pensate.

Quali nuove sull’eutanasia in Europa?

L’eutanasia attiva (uccisione mediante iniezione di farmaco letale) è legale in Olanda e in Belgio. In entrambi i paesi c’è stato, negli ultimi anni, un picco di richieste, accolte dai medici, di eutanasia e suicidio assistito. In Olanda si parla di un incremento del 75%. In Belgio s’ipotizza di estendere ai minorenni e ai malati di demenza senile la possibilità di accedere alla “dolce morte”.
Come interpretare questi dati? Come il fisiologico ampliamento di un diritto e della sua conoscenza da parte del pubblico? O come inquietanti segnali di uno scivolamento verso una gestione della morte troppo sbrigativa?
L’European Institute of Bioethics, che ha sede in Belgio, ritiene che non ci siano stati sufficienti controlli sull’applicazione della legge, e stima che l’8% dei pazienti non fosse in stato terminale e che nel 94% dei casi mancasse la domanda scritta, prevista dalla legge.
Anche in Francia c’è stata discussione, e si è creata una frattura tra Hollande (che ha annunciato per giugno 2013 un disegno di legge che prevedrà la depenalizzazione dell’eutanasia) e Didier Sicard, presidente onorario del Comitato di Bioetica Francese, contrario a questa decisione. Sicard ha piuttosto invitato il governo a perseguire una migliore applicazione dell’ottima legge Leonetti sulle cure palliative, del 2005.
Nel 2011 la Svizzera, dove è legale il suicidio assistito (insieme agli Stati di Washington, dell’Oregon e del Montana negli Usa), ha dibattuto sull’opportunità di fermare il “turismo della morte”: ma i cittadini hanno deciso, con un referendum, di non togliere agli stranieri l’opportunità di cercare nel paese la fine della propria sofferenza. Un’opportunità colta, come forse ricorderete, anche da Lucio Magri, uno dei fondatori de Il Manifesto.
Che dire di queste tendenze? Si tratta di riforme “ad alto tasso d’ideologia”, come scrive Francesco Ognibene su Avvenire, volte a distogliere l’attenzione dalla crisi economica?
O occorre tener conto della vasta popolarità della soluzione eutanasica tra i cittadini?
Rigidamente contrari all’eutanasia restano in Europa soprattutto i governi di due paesi, la Gran Bretagna, e l’Italia. La Gran Bretagna prevede fino a quattordici anni di carcere per eutanasia, assimilata all’omicidio. E’ noto il caso di Tony Nicklinson, che soffriva di locked-in-syndrome, e si trovava, lucido, prigioniero nel suo corpo immobile, a cui è stata negata la possibilità di morire.
Anche in Italia l’eutanasia è oggi accomunata con l’assassinio di consenziente. E tuttavia, se ne discute molto. All’interno della Chiesa vi sono posizioni diverse, benché accomunate dal rifiuto dell’eutanasia attiva. Basti fare due nomi, il cardinal Martini e il cardinal Bagnasco.
Recentemente, una proposta di legge d’iniziativa popolare per la depenalizzazione dell’eutanasia è stata depositata dalle associazioni Exit e Coscioni insieme alla UAAR (Unione degli Atei, Agnostici e Razionalisti). Ci vorranno 50.000 firme per portarla in Parlamento, e non è detto che i proponenti ci riusciranno.
Ma è davvero questa (l’eutanasia attiva) la priorità italiana (ed europea) a proposito di buona morte? Perché non concentrarci in primo luogo sulla diffusione delle cure palliative, che prevedono anche, contro la sofferenza, adeguate dosi di morfina e la sedazione terminale (che, a scanso di equivoci, nulla ha a che fare con l’eutanasia)? Perché non approfondire il ragionamento sul diritto di ciascuno a sospendere le cure salvavita, chiarendo che né Welby né Englaro furono casi di eutanasia? Perché non mettere l’accento sull’esigenza di una legge seria sul testamento biologico, diversa da quella in discussione (che di fatto nega valore al testamento stesso, considerato solo orientativo e non cogente per il medico)? Non è per caso perché dire SI all’eutanasia richiede meno riflessione, e permette di dare il proprio parere senza aver veramente fatto i conti con la morte?

Buona morte e/o eutanasia?

I francesi, dice un recente sondaggio, sono all’80% favorevoli all’eutanasia; non molto diversamente, in Italia una rilevante porzione della popolazione auspica una legge sull’eutanasia. Anche se tale opinione diffusa pare la lucida espressione di una meditata riflessione, c’è qualcosa che non convince pienamente.
Intanto, siamo sicuri che tutti i cittadini intendano la stessa cosa quando dicono “eutanasia”? Vogliamo l’eutanasia o stiamo chiedendo, essendo oggi possibile, di essere aiutati a morire bene? Nel nostro paese il dibattito pubblico mescola tutte le carte: si è parlato di eutanasia a proposito di Piergiorgio Welby, che voleva interrompere le cure che lo tenevano artificialmente in vita. Si è parlato di eutanasia a proposito di Eluana Englaro, la cui condizione vegetativa permamente richiedeva solo di permettere che la natura facesse il suo corso, dopo diciassette anni di alimentazione e idratazione parenterale.
In questa situazione di mancanza di chiarezza, si finisce per catalogare come eutanasia tutte le forme di abbreviazione dell’agonia che impediscono ai cittadini di morire lentamente, incoscienti, intubati, ventilati, con mille fili e tubi che escono dal loro corpo martoriato da inutili e futili tentativi di prolungare una vita che alla vita non somiglia più per nulla.
Se vogliamo invece parlare di eutanasia, occorre distinguere. Non è eutanasia la sospensione delle cure, garantita come diritto dalla Costituzione Italiana. Non è eutanasia l’interruzione delle terapie di sostegno alla vita nel caso di stato vegetativo permanente, che, tanto più in presenza di un testamento biologico, ricadono nel caso precedente. Non è eutanasia la sedazione terminale, che null’altro è che l’abolizione farmacologica della coscienza qualora il dolore sia troppo intenso per essere sopportato, ma che non abbrevia e non prolunga la vita. Non è eutanasia neppure l’aumento delle dosi di oppiacei in fase terminale, per contenere la sofferenza, qualora il paziente lo chieda.
Per poter discutere, dobbiamo chiarire il nostro oggetto: eutanasia si ha quando si interrompe la vita mediante somministrazione attiva di farmaci letali.
Se ipotizziamo, in una società ideale, che tutti i casi citati sopra siano stabiliti in modo trasparente e realizzati nella prassi della cura – ossia che venga meno anche la tentazione di non rispettare la volontà del paziente e di accanirsi sulle terapie – ci si rende conto che il tema dell’eutanasia perde un po’ della sua centralità. Resterebbe un problema, forse, ma certo riguarderebbe un numero molto minore di individui.
In un paese in cui le cure palliative fossero estese a tutti i cittadini e a tutte le patologie nella prossimità della morte (come vuole la legge 38 del marzo 2010, che pone il principio che l’accesso alle cure palliative sia un diritto) si invocherebbe meno di frequente l’eutanasia. Se ci fosse un rigoroso rispetto delle volontà dei pazienti morenti, la consapevolezza che il malato terminale non è un “paziente grave” ma un “uomo che muore”, forse non ci sarebbe bisogno di inettare veleni in nessuna vena.
Potrebbe restare in discussione se sia opportuno legalizzare il “suicidio assistito”, ossia se la nostra società intenda farsi carico, a livello collettivo, del desiderio di persone, sane o malate, di suicidarsi con aiuto medico. Tema molto delicato e complesso, sul quale non ho risposte. Tengo in considerazione, tuttavia, la messa in guardia di un grande bioeticista americano, Daniel Callahan, il quale ci ricorda che il cammino della civiltà ha avuto la direzione di una limitazione dei casi in cui è legittima l’uccisione di un uomo con il benestare sociale o statale. Infatti si combatte sul piano internazionale la pena di morte, ed esiste un reato di eccesso di legittima difesa. L’eutanasia sarebbe, invece, un’estensione della casistica in cui è lecito dare la morte a un individuo, seppure col suo consenso.
Ma prima di riflettere su questo spinoso dilemma (che andrebbe inoltre trattato uscendo dall’asfittico dibattito sulla disponibilità o indisponibilità della vita umana), non sarebbe bene lavorare per rendere prassi comune ciò che è già stato riconosciuto come diritto e che non pone problemi morali così complessi?

Perché questo blog?

Non possiamo continuare a far finta di niente.
A ritrarci con disagio o a fare scongiuri se qualcuno nomina la morte, come avesse agito in modo sconcio o molto imbarazzante.
A rimandarne il pensiero.
A evitare i conoscenti in lutto (oddio cosa gli dico?)
A raggirare noi stessi, come se la vita e la morte non fossero strettamente interconnesse e saldate insieme.

Interveniamo su questa vuota convenzione sociale.
Qui vogliamo rompere il divieto, ignorare il sorriso ironico di chi non vuole saperne di essere mortale.
Vogliamo aprire uno spazio dove sia possibile parlare, discutere, accalorarsi, piangere, ridere, riflettere, cambiare.
Vogliamo stare vicino a chi è triste perché ha perduto qualcuno che era importante.
Vogliamo imparare a convivere più serenamente col tempo che scorre e porta cose buone e cattive, e poi le porta anche via.
E’ il nostro vivere, è il nostro invecchiare. Ci sono la paura, il dolore, il disincanto del mondo, la solitudine, la malattia; ma accanto, a volte dentro, il coraggio, la gioia, il mistero, la saggezza, l’amore.
Vogliamo imparare a ricordare e dimenticare, onorare i nostri morti e andare avanti a vivere.
Vogliamo parlare di religioni e di laicità, purché vere, aperte, tolleranti. Vogliamo ragionare di etica, aggirando i pregiudizi e lasciandoli stecchiti sul terreno.
Vogliamo riflettere sui nuovi riti che si affacciano al nostro tempo.
Vogliamo dibattere di arte, letteratura, fotografia, cinema, perché oggi molti artisti trovano nuove lingue per dire morte.

Suicidio assistito in USA

Il 6 novembre, in Massachussets, si vota un Death with Dignity Act. Stato dopo Stato, gli Stati Uniti affrontano il tema del suicidio assistito. Se la legge verrà approvata, i malati terminali la cui aspettativa di vita non sia più lunga di sei mesi potranno chiedere di essere aiutati a morire: dovranno essere coscienti, fermamente decisi, e in grado di prendere da soli i farmaci prescritti. E’ quindi procedura diversa, sia chiaro, dall’eutanasia (somministrazione attiva da parte del medico del farmaco letale), vietata in tutti gli Stati Uniti. Il primo Stato a votare una legge sul suicidio assistito fu, nel 1994, l’Oregon, che ha quindi quasi un ventennio di esperienza. E’ su questo aspetto che vale la pena soffermarsi, come stimolo per i dibattiti nostrani, sovente troppo ideologici e privi di dati.
Uno dei principali timori, di fronte alla legge del 1994, era che rendere accessibile l’abbreviazione della vita finisse per ridurre l’attenzione o gli investimenti per le cure palliative: viceversa, molti esperti ritengono che l’Oregon abbia le migliori cure palliative del paese. Una certa preoccupazione riguardava anche la classe sociale di coloro che avrebbero scelto una morte anticipata, specialmente nel paese delle assicurazioni sanitarie (sistema solo parzialmente corretto dall’amministrazione Obama): invece, coloro che hanno scelto la morte «dignitosa» sono ricchi, colti e provvisti di assicurazione. Non pare, inoltre, che nessuno sia mai stato spinto dalla famiglia, per avidità o per evitare di prendersi cura di un parente alla fine della vita. Molta attenzione è stata posta al tema della depressione. Non è che si chiede il suicidio assistito quando si è depressi? Questa ricerca è più difficile da fare, poiché in fase terminale è normale e fisiologico essere depressi. Tuttavia, gli osservatori della Divisione della Salute pubblica che monitorano, di anno in anno, il modo in cui la legge viene applicata, possono confermare che i pazienti alla fine della vita che chiedono di essere aiutati a morire non sono più depressi degli altri malati terminali. Qualche numero: dal momento dell’applicazione della legge fino alla fine del 2011 il suicidio assistito è stato chiesto da 569 pazienti (1 ogni 500 decessi). La maggior parte avevano forme di cancro con metastasi, e quasi tutti ricevevano cure palliative. Il 94% scelse di morire a casa. Circa un terzo dei pazienti che avevano chiesto la prescrizione letale non ne fecero uso, la tennero a portata di mano, come forma di rassicurazione: avrebbero avuto un’ «uscita di sicurezza» nel caso in cui la situazione fosse diventata per loro insostenibile. Solo un quinto dei pazienti citò il dolore fisico come motivazione principale della loro scelta (il dolore era probabilmente tenuto sotto controllo dalle cure palliative). Viceversa, la maggior parte di loro giudicò intollerabile e indignitosa la perdita di autonomia.
Questo dato mi interroga, pur non intaccando la mia approvazione per la legge dell’Oregon, che auspico sia approvata anche in Massachussets.
Siamo proprio sicuri che la dignità della morte stia nell’autonomia, nel non aver bisogno di aiuto, nel non dipendere da altri per i gesti quotidiani? Forse, la nostra cultura sta enfatizzando troppo questo aspetto, sta innalzando l’autonomia a valore assoluto, dimenticando che tutti, fin dalla nascita, e anche quando stiamo bene, dipendiamo l’uno dall’altro, siamo inevitabilmente in relazione con gli altri, nel bene e nel male?
La dignità non è forse una caratteristica della persona, più intangible e nobile, che consiste nel modo in cui si sta in relazione con se stessi e con il mondo? Un esempio italiano: Piergiorgio Welby ha scelto di non voler proseguire a vivere: ne aveva il diritto e istintivamente siamo dalla sua parte, aveva resistito e sofferto troppo. Ma non era dignitosa la sua vita, prima di morire, anche se non poteva più muoversi dal letto?
Cosa ne pensate?

ps. per chi desideri maggiori informazioni cfr. L’articolo di Marcia Angell, May doctors help you to die? su The New York Review di Ottobre 2012 Guarda l’articolo e i report della Division of Public Health dell’Oregon. Guarda il report