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Intervista a Ludovica De Panfilis, di Marina Sozzi

15 Novembre 2021/11 Commenti/in Interviste, La fine della vita/da sipuodiremorte

Abbiamo intervistato Ludovica De Panfilis, che lavora come ricercatrice sanitaria e bioeticista presso l’Azienda USL-IRCCS di Reggio Emilia. Una figura unica in Italia, che può essere di ispirazione per chi si occupa di cure palliative in Italia.

In cosa consiste il tuo lavoro in ospedale?

Cinque anni fa ho avuto il compito di creare un’unità di bioetica all’interno dell’IRCCS. Il progetto era sperimentale, e si intitolava “La bioetica al letto del paziente”. Io cercai di dimostrare che si poteva fare ricerca sui temi dell’etica della cura, e che questo tipo di ricerca aveva effetti sulla qualità della cura e della vita dei pazienti.

Si trattava di una ricerca bioetica diversa da quella che si fa in ambito accademico: non era una ricerca teorica di filosofia morale, ma entrava nelle dinamiche della relazione di cura. E’ un tipo di ricerca che propone l’implementazione di nuovi servizi e ne misura gli effetti (ad esempio l’aumento della pianificazione condivisa delle cure, la soddisfazione dei pazienti nei confronti dell’atteggiamento degli operatori sanitari rispetto a certi processi decisionali; la valutazione della formazione, l’aumento delle competenze etiche).

L’approvazione della legge 219 alla fine del 2017 ha dato un impulso enorme a queste ricerche, l’etica è divenuta all’improvviso importante. Noi lavoriamo soprattutto con le cure palliative, ma anche con il laboratorio di procreazione medicalmente assistita, con il dipartimento di salute mentale, la neonatologia…

Il bioeticista è diventato una figura ricercata dall’équipe, e ho dovuto destinare delle ore non solo alla formazione, ma anche alla supervisione degli operatori che si confrontano con situazioni eticamente complesse.

Per scelta, invece, non interagisco mai con i pazienti direttamente, per non rischiare di creare confusione con altre figure: lo psicologo, l’assistente sociale.

Questa realtà che mi stai descrivendo, e che certamente è un’eccellenza, esiste altrove o è un unicum in Italia?

Ho cercato altre figure come la mia perché ho avuto l’esigenza di confrontarmi, ma ho trovato solo i Comitati per l’etica nella clinica, che non lavorano sulla sperimentazione, e spesso non riescono a raggiungere i problemi reali. Ho trovato però conforto nella realtà internazionale, soprattutto in America, dove le figure che svolgono il mio lavoro sono obbligatorie per ospedali che superino un certo numero di posti letto.

Penso che l’accademia avrebbe dovuto far virare la bioetica verso questo tipo di ricerca, che avrebbe dato un senso nuovo agli studi di bioetica. È un’occasione persa.

Com’è il tuo percorso?

Mi sono laureata in filosofia, poi ho sentito parlare degli hospice, e nel 2011, appena laureata, sono andata a fare il Master in cure palliative di Bentivoglio, che allora permetteva l’accesso a tutte le lauree. Durante il Master ho capito che la ricerca sarebbe stata la mia strada, e ho poi fatto il dottorato di ricerca in giurisprudenza.

Come mai secondo te la collaborazione più stretta, nella tua azienda, ce l’hai con le cure palliative?

Secondo me le cure palliative sono intrise di questioni etiche: credo che le competenze etiche siano importanti per gli operatori di cure palliative tanto quanto quelle relazionali, comunicative o cliniche. Sono competenze che si concretizzano nel saper accompagnare una persona a prendere una decisione. Non è affatto semplice. Quando ho scritto le mie disposizioni anticipate di trattamento (ci rifletto tutti i giorni) ho pensato “che fatica!”. In cure palliative, quando un paziente desidera concludere la sua vita in modo coerente con il modo in cui l’ha vissuta, le competenze etiche degli operatori diventano fondamentali. Inoltre, il significato più profondo delle cure palliative è quello di essere una medicina orientata alla condivisione delle responsabilità, e delle scelte. Le cure palliative possono trovare nell’etica sia delle risposte che degli strumenti.

Quali sono i nodi più importanti dell’etica nelle cure palliative?

Il primo tema centrale in questi anni è quello della pianificazione delle scelte. La pianificazione condivisa delle cure è un percorso, che si fa con il paziente, che lo porta a prendere decisioni concrete basate sui suoi valori. È importante saper riconoscere il dilemma etico nei pazienti, saper entrare nella relazione di cura con una persona, senza spingere nella direzione che il medico ritiene quella giusta o migliore. Perché anche in cure palliative c’è il rischio di “paternalismo palliativo”.

Lo stesso tema della sedazione profonda continua è intriso di etica, in quanto la scelta di perdere la coscienza fino al momento della morte deve essere condivisa, affinché possa essere vissuta bene da tutti gli attori. Occorre poi distinguere tra l’autonomia teorica e l’autonomia che si concretizza in scelte, in diritto all’autodeterminazione. Il bioeticista presente nelle riunioni d’équipe è importante per permettere agli operatori di riconoscere i temi etici, che spesso mettono in crisi un’équipe e che non vanno confusi con i problemi psicologici, o anche organizzativi, come talvolta accade. Si pensi inoltre al grande mistero della fine della vita, di cui le cure palliative si occupano, e su cui l’etica (e prima ancora la filosofia) si interrogano da che le conosciamo. Le cure palliative trovano nell’etica la strumentazione per affrontare tutti questi problemi.

Inoltre, è possibile che in futuro i palliativisti dovranno confrontarsi con il tema del suicidio assistito, anche se loro sperano di no, ma capiterà, in qualità di esperti di fine vita.

Hai parlato di paternalismo palliativo. Ho visto che hai scritto un articolo sul nudge, ossia sul paternalismo gentile. Puoi raccontarci qualcosa a questo proposito?

Noi facemmo un progetto di ricerca che si chiamava Teach for ethics in palliative care, il cui obiettivo era formare dei professionisti sanitari affinché potessero fare consulenza etica ai pazienti e supervisione etica ai colleghi. Durante questo corso era emerso che la tendenza a indirizzare il paziente verso ciò che i professionisti ritenevano giusto fosse qualcosa di intrinseco, che non riuscivano a controllare. Andando a cercare della letteratura che ci aiutasse a riflettere su questa tendenza trovammo il volume del 2014 di Sunstein e Thaler intitolato Nudge. La spinta gentile.

Il concetto proposto dagli autori è noto: gli uomini hanno debolezze sia psicologiche che cognitive, sono inclini all’inerzia, ai pregiudizi, all’incapacità di previsione, all’errore di prospettiva, sono spesso confusi sul loro vero interesse e pertanto hanno bisogno di essere guidati.  C’è quindi bisogno di “utili suggerimenti”, in grado di neutralizzare i pregiudizi, l’emotività, la pigrizia mentale dei singoli individui, e di orientare così le scelte verso scopi riconducibili al bene dell’individuo, che talvolta lui stesso non riconosce. È il paternalismo libertario di cui parlano i due autori, giustificato, dal loro punto di vista, anche dal fatto che l’assoluta neutralità e oggettività, nel presentare le varie opzioni, non è possibile umanamente. In che modo vi è servito questo volume?

Inserimmo all’interno del corso di formazione un Focus Group dedicato al tema delle spinte gentili: infatti ci accorgemmo che in cure palliative non si parlava affatto di paternalismo libertario, eppure si trattava di un atteggiamento presente anche se del tutto involontario. Concludemmo che il nudging era un concetto attraente ma pericoloso, perché rischiava di non favorire l’autonomia del paziente. La consulenza etica invece poteva essere uno strumento per aiutare i pazienti a decidere in maniera autonoma (ma condivisa) ciò che era importante per loro. Uno dei metodi per evitare di utilizzare questa sorta di spinta involontaria era incoraggiare l’autonomia relazionale. Il nudging è molto utile in alcuni contesti, anche di salute pubblica, ad esempio, ma non nella relazione di cura.

Dimmi se interpreto bene: l’autonomia si realizza proprio nella dimensione della relazione di cura, perché l’autonomia non è qualcosa che possediamo dalla nascita come caratteristica a priori, ma è qualcosa che si raggiunge nella relazione con altri.

Esattamente.

Inoltre, io credo che quando ci si ammala e si inizia a diventare dipendenti dagli altri l’idea di autonomia astratta decada. Si può lavorare su un’autonomia contestuale e quindi cercare di arrivare all’obiettivo di aiutare le persone ad essere veramente autonome.

Ho visto il volume a tua cura Teach to Talk, Apprendere per comunicare, appena uscito. Di cosa si tratta?

Questo è stato un bel progetto pensato e voluto dalla dottoressa Tanzi. Noi ci siamo conosciute durante il master in cure palliative: eravamo tutte e due molto giovani e condividevamo l’idea dell’importanza di un’etica della comunicazione. Il libro parla di una comunicazione che non è solo efficace, che non è solo empatica, ma è soprattutto autentica. Ci siamo interrogate anche su come formare gli operatori a questo tipo di comunicazione, andando al cuore della relazione comunicativa.

Cosa ti ha cosa ti aspetti nel futuro? Come pensi che questa tua professionalità sarà ulteriormente spendibile?

Penso che arriveranno altre spinte normative a sottolineare l’importanza di questa professionalità.  Mi viene in mente, ad esempio, il testo che è stato depositato alla Camera sulla morte volontaria: magari ci vorranno altri dieci anni ad approvarlo, ma la società civile domanda.

Il mio sogno sarebbe trasferire il modello che a Reggio Emilia sta funzionando nel maggior numero possibile di luoghi di cura. Mi piacerebbe che si creasse una schiera di persone che fanno il mio lavoro, con l’obiettivo di migliorarsi sempre, di non pensare mai di avere la verità in tasca, ma anzi di mettersi sempre in questione attraverso la ricerca.

Personalmente, poi, mi piacerebbe dedicarmi solo alle cure palliative.

Come mai questo interesse specifico per le cure palliative?

Le cure palliative devono restare fedeli a se stesse: l’etica completa il profilo del palliativista. Inoltre, nell’attivazione precoce delle cure palliative, di cui oggi si parla tanto, i valori, le preferenze e gli obiettivi della persona sono imprescindibili. Le maggiori soddisfazioni inoltre vengono da lì, la Società italiana di Cure palliative è molto attenta alla dimensione etica. L’etica permette alle cure palliative di mantenere viva la loro coscienza critica nei confronti della biomedicina.

https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2021/11/Depositphotos_27181397_S-e1636827406922.jpeg 264 350 sipuodiremorte https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2024/05/93409bba-2fe8-4231-86b3-36648bff989e.png sipuodiremorte2021-11-15 09:57:582021-11-15 09:57:59Intervista a Ludovica De Panfilis, di Marina Sozzi

Sulla terra in punta di piedi. Intervista a Sandro Spinsanti, di Marina Sozzi

23 Marzo 2021/3 Commenti/in Interviste, Riflessioni/da sipuodiremorte

Abbiamo intervistato Sandro Spinsanti, bioeticista, fondatore e direttore dell’Istituto Giano per le Medical Humanities e il Management in sanità, sul tema del suo ultimo libro, la spiritualità e la cura.

C’è un’immagine bellissima subito all’inizio del tuo libro, che troviamo anche nel titolo, Sulla terra in punta di piedi. Occorre smettere di calcare la terra da padroni, bisogna minimizzare la nostra impronta ecologica, camminare in punta di piedi. In che senso questo ha a che fare con la spiritualità?

Ho preferito affidarmi a un’immagine, piuttosto che a una definizione. Certo, sia le parole che le immagini possono essere fuorvianti. Per molti lo è sicuramente la parola “spiritualità”: l’associano all’attività del pastore d’anime. Spiritualità ha un sentore di sagrestia, evoca scenari disincarnati, se non addirittura ostili alla vita terrena e corporea. Ma sono consapevole che anche l’immagine della posizione eretta può essere mal interpretata. Dall’antichità greca l’attribuzione della posizione eretta all’uomo è stato il simbolo della sua supremazia rispetto agli animali. È stata la sigla di un antropocentrismo che siamo invitati a scrollarci di dosso. Di questa transizione culturale si è fatto portavoce autorevole il magistero di papa Francesco con l’enciclica Laudato si’. Propone una fratellanza che non si limita agli esseri umani, ma arriva ad affermare come nuovo programma che “niente di questo mondo mi risulta indifferente”. Né gli animali, né le piante, né il pianeta stesso nella sua rude materialità: perfetta antitesi dell’atteggiamento antropocentrico che abbiamo nutrito nei confronti della terra (con le parole dell’enciclica: “Siamo cresciuti pensando che eravamo suoi proprietari e dominatori, autorizzati a saccheggiarla”). È una nuova dimensione della spiritualità, opposta al disprezzo nei confronti della materia, considerata il contrapposto dello spirito.

A questo punto l’immagine dell’essere umano in piedi sulla terra ha bisogno di essere abbinata a quella di un uomo chinato verso la terra stessa, in atteggiamento non solo umile, ma di cura. Le due metafore non si escludono reciprocamente, ma si richiamano e si completano. La spiritualità alla quale siamo chiamati nel nostro tempo non può fare a meno né dell’una, né dell’altra. Se l’uomo in piedi è simbolo dell’umano, quello chinato con atteggiamento di cura richiama il modello post-antropocentrico, verso il quale siamo chiamati a transitare. È molto più che un’evoluzione; qualcuno lo chiama anche coraggioso cambio di paradigma.

La spiritualità è per te strettamente connessa con il tema della cura. Che cosa ne pensi del filone femminista dell’etica della cura, e in particolare della definizione della cura data da Joan Tronto: “La cura è una pratica volta a mantenere, continuare o riparare il mondo”?

Sembra consolidata l’idea che il pensiero spirituale sia sovrapponibile a “pensare al femminile”. Non lo contesto, ma credo che sia opportuno vigilare su forme di sessismo nascoste, che si presentano dove meno ce l’aspetteremmo. Anni fa ha fatto epoca un saggio di Carol Gilligan: Con voce di donna. Denunciava l’apparente neutralità delle teorizzazioni che descrivevano lo sviluppo della capacità di formulare giudizi morali nell’essere umano. In realtà – affermava – per secoli la voce che abbiamo ascoltato era la voce degli uomini nel senso di maschi: era il loro modo di concepire i conflitti e le scelte morali, mentre la struttura etica che emerge dal pensiero delle donne è stata considerata come una deviazione dal modello ideale, una specie di fallimento evolutivo; come se nelle donne, rispetto alla capacità di giungere a un giudizio morale, ci fosse qualcosa che non va…

Il bias sessista nascosto nell’etica ci induce a stare all’erta riguardo a ciò che potrebbe succedere nella spiritualità. Magari a ruoli invertiti: riversando nella spiritualità stereotipi culturali femminili, opposti a quelli riservati alla mascolinità. È succube di questa insidiosa ripartizione di ruoli anche l’attribuire il compito della cura alla componente femminile della società. Se poi passiamo alla medicina, diventa: curare è maschile, prendersi cura è femminile. La spiritualità è un invito a scompigliare questi ruoli predeterminati. In tutti gli ambiti della cura: da quella della salute alla cura del pianeta. Anche il ripiegamento consapevole sulla propria crescita potrebbe essere visto in chiave femminile, mentre al maschio si riserva l’estroversione nel lavoro, nella scalata sociale, nel potere. L’alzarsi sulla punta dei piedi non è né maschile, né femminile: è una potenzialità da sviluppare, alla quale è chiamato ogni essere umano.

Sembri essere critico nei confronti della professionalizzazione del sostegno spirituale. Che ne pensi dunque del “core curriculum” che nell’ambito delle cure palliative è stato definito proprio per diffondere la figura dell’assistente spirituale?

La professionalizzazione è sia un pericolo che un’opportunità: in tutti gli ambiti della cura, non solo nella spiritualità. La professione delimita la cura stessa entro certi confini. Non possiamo aspettarci da un professionista lo stesso coinvolgimento emotivo che auspichiamo da parte di un familiare o da una persona intima. Quello che vorrei fosse associato alla professionalizzazione del sostegno spirituale è la competenza. Mentre questa è facile individuarla nelle cure mediche o infermieristiche, è più difficile quando ci spostiamo nell’ambito della spiritualità. Possiamo dire, in negativo: non bastano la spinta ideale e l’entusiasmo personale. Per questo nei confronti di chi si appresta a fornire un accompagnamento spirituale sono necessari: una selezione (certe persone è più opportuno che si astengano, se hanno un orientamento missionario), una formazione specifica (quindi ben vengano le indicazioni del ‘core curriculum’) e una supervisione che accompagni la pratica attraverso un confronto per le situazioni più difficili.

Nel tuo libro sei molto prudente nel dare definizioni positive di cosa sia spiritualità o di come possa essere esercitata. Ma secondo la tua riflessione c’è un legame tra consapevolezza della vulnerabilità e della mortalità (quando è incarnata, e non puramente intellettuale) e desiderio di spiritualità?

La consapevolezza è il presupposto per la spiritualità, intesa non come una pratica segmentale e confinata in certe situazioni, come quella della terminalità, ma come un percorso che si estende tanto quanto la cura. Se dalla cura ci si aspetta unicamente la ‘restitutio ad integrum’, la spiritualità è fuori gioco.

In quali modi la spiritualità ha a che fare con una riduzione dell’antropocentrismo e dell’individualismo della società occidentale?

Spiritualità e sopravvivenza: è una connessione inedita. Eravamo abituati a coniugare il progresso spirituale dell’umanità o con l’attenzione che sposta il centro di gravità dalla vita terrena alla vita eterna – nella prospettiva religiosa – o con un affinamento della nostra qualità umana. Ora invece siamo stati bruscamente confrontati con la sopravvivenza della specie umana. Lo ha proclamato, in modo scenograficamente efficace, papa Francesco nella sua preghiera in una piazza san Pietro deserta, durante la prima fase della pandemia, quando ha proclamato che ci appoggiamo su un pianeta ammalato per lo sfruttamento a cui lo abbiamo sottoposto. E ancora, nell’enciclica Fratelli tutti, ha evidenziato come il Covid 19 abbia messo in luce le nostre false sicurezze. Non si tratta, dunque, di chiudere una parentesi e tornare alla normalità: “Se qualcuno pensa che si trattasse solo di far funzionare meglio quello che già facevamo, o che l’unico messaggio sia che dobbiamo migliorare i sistemi e le regole già esistenti, sta negando la realtà”. È questa la sfida: mettere la spiritualità non in rapporto con l’ultraterreno, ma proprio con la terra, con la rete dei viventi su di essa. L’alzarci punta di piedi diventa allora una metafora per evocare un peso più leggero. Il contrario dello sfruttamento a oltranza. E proprio qui sta la difficoltà: non ci è richiesto solo qualche piccolo aggiustamento, ma di cambiare il modo di vivere, l’ordine delle priorità. Potremo sopravvivere solo se impareremo a sopra-vivere: ecco, in sintesi, che cosa ci sta chiedendo la spiritualità.

Secondo te la terribile esperienza del Covid ha modificato il nostro rapporto con la spiritualità, e se sì, in che modo? Se ne parla tanto, fin dall’inizio della pandemia, ma io vedo soprattutto un’enorme fatica, il conteggio dei morti la sera, e la fuga dalla realtà dei negazionisti o degli spregiudicati…

Dal punto di vista ideale, la crisi pandemica è un invito a un ripensamento del nostro stile di vita, ovvero uno stimolo ad alzarci sulla punta dei piedi, per ricorrere ancora all’immagine con cui invito a pensare alla spiritualità. Se invece guardiamo all’impatto concreto che la pandemia sta avendo sulle opportunità di crescita spirituale, la tua analisi è molto realistica. Sembra che anche questa opportunità la stiamo perdendo: siamo più orientati a chiudere la parentesi per tornare alla normalità, invece di cercare una diversa e migliore normalità.

Uno sviluppo che mi piacerebbe approfondire è l’interfaccia tra spiritualità e arte. Quali sono i rapporti reciproci?

Nella mia riflessione ho dedicato una particolare attenzione a quelli che ho chiamato “incroci di percorso”. Invece di isolare la spiritualità, l’ho messa in relazione con quanto viene proposto e praticato in ambiti che corrono paralleli nella nostra cultura: con la religione – per dire – e con la psicologia, con l’ecologia e con la filosofia. Uno dei confronti più promettenti è proprio quello della spiritualità nel percorso di cura con l’arte. Sembra una provocazione, perché la cura si presenta come questione di scienza; e la scienza si colloca su un terreno del sapere diverso rispetto all’arte. La spiritualità in questo ambito equivale a un invito ad ampliare il nostro sguardo. La prima guarigione di cui abbiamo bisogno è proprio quella dall’impoverimento della nostra prospettiva. La ricerca della salute richiede anche un nostro orientamento verso la bellezza. In tutte le sue forme: quelle che parlano agli occhi e quelle che percorrono la via dell’udito, così come la cura è costituita da parole, non meno che da farmaci.

Le espressioni dell’arte che ci vengono incontro sono le più varie: dalla parola letteraria (è appena il caso di menzionare in questo contesto l’importanza della Medicina Narrativa, in tutte le sue articolazioni) alla musica, che ha preso dimora nelle strutture sanitarie più all’avanguardia come ospite fisso; dall’arte grafica (l’”arteterapia” è offerta ai malati in percorsi di cura eccellenti) a quella cinematografica. L’arte è un’ottima compagna di strada della spiritualità; le sue articolazioni sono tante quante la nostra creatività riesce a immaginare.

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