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Come sostenere il bisogno spirituale alla fine della vita? di Marina Sozzi

Sono convinta che alla fine della vita la dimensione della spiritualità divenga più rilevante. L’homo faber, infatti, che generalmente ha avuto un ruolo preponderante durante la maggior parte della vita, va esaurendosi. A questo punto della storia biografica delle persone la ricerca di senso è uno snodo inevitabile. La malattia e la morte fanno emergere gli interrogativi sul senso sia nelle persone sia negli operatori, che sono a contatto ogni giorno con il morire degli altri.

Inevitabilmente, il confine tra la vita e la morte interseca la dimensione del sacro, del mistero, del trascendente (inteso in senso lato, come ciò che va oltre la quotidianità dell’esperienza). Per questo è fondamentale che le équipe di cure palliative siano consapevoli che il terreno su cui si muovono è costituito anche dalla dimensione spirituale.

Tuttavia, ho cercato anche di pormi un altro interrogativo, che mi pare serpeggi nelle istituzioni che offrono cure palliative, ma al quale non è ancora stata data una risposta definitiva. La questione è: la dimensione spirituale è propria dell’équipe nel suo complesso, oppure è utile, e magari opportuno, che esista una figura di assistente spirituale laico che si occupi di questo versante dell’esperienza della fine della vita? Non entro invece nel merito della presenza di assistenti spirituali religiosi, delle varie confessioni, che possono essere presenti oppure essere chiamati dall’équipe, una volta individuato il bisogno del paziente o del familiare. Per scrivere questo articolo mi sono confrontata con alcune persone, che desidero ringraziare, perché mi hanno permesso di entrare nel merito del loro lavoro: Caterina Giavotto, assistente spirituale in Vidas, a Milano; Claudia Cavegn, assistente laica (cattolica) al Regina Margherita, ospedale pediatrico a Torino, e infine Guidalberto Bormolini, sacerdote della comunità dei Ricostruttori, e promotore della scuola di assistenza spirituale. E mi è stato inoltre utile, per chiarire le mie idee, leggere il  in assistenza spirituale della Società Italiana delle Cure Palliative, del 2019, che potete consultare qui, e che offre una riflessione molto ricca, problematica e sfaccettata.

In questo periodo, peraltro, molte istituzioni si sono concentrate sul tema della spiritualità, costruendo corsi (ad esempio quello dell’Unione Buddisti Italiani, ma soprattutto la Scuola di Alta Formazione per l’assistente spirituale in cure palliative di Ricostruire la Vita, promosso da Fondazione Luce per la Vita, Associazione TuttoèVita ETS, Federazione Cure Palliative, Società Italiana di Cure Palliative).  Il Core Curriculum della SICP esordisce affermando che l’obiettivo del documento non è tanto di formare figure di assistenti spirituali, quanto di definire quali competenze debba acquisire l’équipe, nel suo complesso, per poter aiutare i pazienti e le famiglie ad affrontare le complesse domande di carattere spirituale che si affacciano alla fine della vita.

In effetti, molti degli aspetti citati come parte di un’ipotetica formazione dell’assistente spirituale sono, senz’altro, elementi propri di una cura di qualità: la compassione, (in senso etimologico di cum patior), l’ascolto, la comunicazione non giudicante, eccetera.

Da questo punto di vista, mi pare che ci sia una certa sovrapposizione tra la figura dello psicologo (che alla fine della vita si occupa proprio del senso e delle relazioni) e quella dell’assistente spirituale: sovrapposizione che le persone che ho intervistato, ad esempio Caterina Giavotto, confermano essere presente. Anzi, ribadisce Claudia Cavegn, “non si tratta di una frontiera”, c’è lo spazio comune dell’ascolto. E Bormolini sottolinea che non dobbiamo circoscrivere gli ambiti, perché dobbiamo mantenere la logica della “persona integrale”: “se spezziamo, frammentiamo”.

Tuttavia, ciascuno di loro sottolinea un aspetto specifico del proprio lavoro, non comune con l’operato dello psicologo. Bormolini ha subito chiara la specificità della dimensione spirituale, che ha a che fare, per lui, con il trascendente (in senso ampio: se non hai qualcosa per cui morire non hai qualcosa per cui vivere), il mistero, l’orientamento (avere una direzione) e il senso di comunione con qualcosa di più grande.

Caterina Giavotti mi racconta invece di una signora che aveva chiesto di vedere un frate (non un prete). Voleva una figura con un ruolo trasversale nella chiesa. Perché? Le ha chiesto Caterina. La signora aveva, nella sua biografia, due aborti, ed era terrorizzata che “Gesù non l’avrebbe perdonata”. Insieme hanno costruito (inventato) un piccolo rito, con la meditazione, una preghiera, e con una scatolina in cui lasciar andare l’accaduto e il rimorso, un rito che ha alleggerito molto la signora in questione.

Anche Claudia Cavegn mette l’accento sull’aspetto rituale: nella sua esperienza c’è una famiglia Rom con una bimba vicina alla fine della vita, una famiglia nella quale il marito è musulmano e la mamma ortodossa. La mamma, quando ha saputo che la speranza di guarigione non c’era più, ha chiesto che la bimba fosse battezzata. Quando ha saputo che Claudia poteva battezzarla, non le è importato che fosse cattolica. La rilevanza simbolica del rito l’ha fatta andare oltre i confini della propria confessione religiosa.

La dimensione del rito (e di un rito non religioso in senso stretto) è interessante. La morte, come scriveva Van Gennep, e molti altri antropologi con lui, è un rito di passaggio. Per chi resta, naturalmente. Ma talvolta anche chi se ne va ha bisogno di una dimensione rituale, un’azione che simbolizzi qualcosa che non si riesce a dire altrimenti, o ad elaborare altrimenti (come la signora che aveva abortito).

Questa dimensione è interessante anche perché sono convinta che le invenzioni rituali possano avere un ruolo rilevante in una società molto secolarizzata come la nostra. Per molti, la scatolina è più efficace dell’unzione dei malati.

Il core curriculum di SICP propone inoltre che la formazione preveda una cultura di massima sulla dimensione rituale e culturale delle religioni. Il che può senz’altro essere utile, mantenendo però la consapevolezza della complessità e della pluralità delle modalità di abbracciare uno stesso credo. Di fronte a una persona, non ci basta sapere, ad esempio, che è musulmana. Diverso è l’islam in diverse parti del mondo e, anche all’interno di una medesima area geografica, in vari strati sociali, e in famiglie diverse. Inoltre, talvolta può accadere che le persone in terra d’accoglienza modifichino l’atteggiamento religioso che avevano in patria. La formazione in “assistenza spirituale” va dunque usata per avere un inquadramento di tipo generale, e non per incasellare i bisogni dei pazienti o dei familiari.

Non ho naturalmente una risposta definitiva alla questione del ruolo dell’assistente spirituale, e concordo con il documento SICP che non è possibile avere la preparazione necessaria a espletare questo ruolo attraverso un corso, perché si tratta di qualcosa di più di una competenza: piuttosto è un atteggiamento nei confronti del mondo e della vita, che si nutre di esperienze reiterate, dalle quali si apprende e si affina la propria spiritualità, indispensabile per confrontarsi con quella degli altri.

Volevo solo portare alcuni punti alla riflessione, e sono naturalmente in ascolto delle vostre considerazioni, risposte ed esperienze. E grazie come sempre per il fruttuoso dibattito che sempre emerge da queste pagine!

Il valore della morte, di Marina Sozzi

«La storia del morire nel ventunesimo secolo è la storia di un paradosso». Milioni di persone sono sottoposte ad accanimento terapeutico negli ospedali, e le famiglie e le comunità non sono più protagoniste della morte dei loro membri, hanno perso competenza e tradizioni.

Da quando, nelle ultime generazioni, il morire è gestito dalla sanità, cure futili e inappropriate continuano ad essere praticate negli ultimi mesi, giorni e addirittura ore di vita. Si spendono, per cure futili negli ultimi mesi di vita, cifre eccessive, che non apportano alcun beneficio alle persone. In molti casi servono solo ai curanti per poter evitare di parlare di morte con i loro pazienti. Le cure palliative, che sarebbero la risposta più adeguata, non sono ancora sufficientemente accolte ed applicate nel mondo.

Ma, cosa ancora peggiore, centinaia di milioni di persone non ricevono invece le cure necessarie, muoiono per malattie che potrebbero essere guarite e non hanno neppure accesso ai farmaci antidolorifici. Il modo in cui si muore è ancora gravido di diseguaglianze, dipende dalla porzione di mondo in cui si vive, dalla situazione economica, dal genere, dall’etnia, dall’orientamento sessuale.

Da queste considerazioni prende le mosse la riflessione della Commissione Lancet sul tema della morte, pubblicata al fine di gennaio di quest’anno, che potete leggere integralmente qui.

A cosa dobbiamo tutto questo?

Secondo la Commissione il cambiamento climatico, la pandemia, la distruzione dell’ambiente, e l’atteggiamento dominante nei confronti della morte tipico dei paesi ricchi hanno un’unica e medesima origine: l’illusione di avere un controllo sulla natura, come se l’uomo non ne facesse integralmente parte.

Si tratta ora, scrive la Commissione, di riscoprire il valore della morte: sì, proprio il valore. Perché vita e morte sono saldamente intrecciate e non esisterebbe l’una senza l’altra.

Occorre modificare il modo in cui comprendiamo, esperiamo e gestiamo la morte, e per farlo occorre trasformare al contempo numerosi fattori sociali, culturali, economici, religiosi e politici.

La Commissione Lancet pone cinque principi di un’utopia realistica alla quale lavorerà nei prossimi anni.  Auspica cioè:

1) Che siano affrontate e superate le differenze sociali di fronte al morire e al lutto
2) Che la morte sia compresa come processo relazionale e spirituale, e non come evento biologico
3) Che ci siano per tutti reti di cura e di sostegno per il morire e per accompagnare la perdita e il lutto.
4) Che diventino comuni e correnti i discorsi sul tema della morte e della perdita
5) Che la morte sia riconosciuta come qualcosa che ha un alto valore.

Vorrei concentrarmi su questo termine, “valore”, che sembra stravagante e irritante in un’epoca come la nostra, nella quale facciamo tanta fatica ad accettare la morte, anche quando arriva in età avanzata, dopo una lunga vita soddisfacente. E che, a maggior ragione, ci appare come una terribile ingiustizia quando arriva precocemente. Viviamo in un mondo che tende a negare alla morte ogni valore. E allora in quali sensi la Commissione di Lancet fa riferimento al “valore della morte”?

Senza la morte, scrive, “ogni nascita sarebbe una tragedia”, e la civiltà sarebbe impossibile. La morte è un meccanismo omeostatico necessario alla vita: i vecchi lasciano il posto ai giovani e questo ricambio permette sia l’evoluzione sia il rinnovamento. Già Anassimandro, nell’antica Grecia, scriveva che “che principio degli esseri è l’illimitato, da dove infatti gli esseri hanno l’origine, lì hanno anche la distruzione secondo necessità, poiché essi pagano l’uno all’altro la pena e l’espiazione dell’ingiustizia secondo l’ordine del tempo”. Intendendo con questo che occorre, nella dimensione limitata del tempo, lasciare il posto a coloro che vengono dopo di noi.

Inoltre, senza la morte non ci sarebbero nuove idee e non ci sarebbe il progresso. Max Planck aveva affermato che la scienza avanza non perché gli scienziati modifichino la loro opinione, ma perché c’è ricambio generazionale.

Anche i filosofi hanno riflettuto su questo. Heidegger sostenne che nessuno può morire al posto di qualcun altro, e che qualora si comprenda profondamente questo fatto, con senso di responsabilità, è possibile diventare autenticamente se stessi: anche in questo senso la morte dà valore alla vita, come consapevolezza del limite.

C’è un ultimo senso in cui la Commissione parla di valore, ed è qualcosa di molto familiare a chi opera in cure palliative: accompagnare un morente è un dono, come scrive Katherine Mannix: dando tempo, attenzione, e compassione alle persone che muoiono ci connettiamo con loro e con la nostra condivisa fragilità, con la nostra umana vulnerabilità, e comprendiamo la nostra interdipendenza, e capiamo che questo è proprio il nucleo delle relazioni umane.

Cosa pensate di questo termine, valore, attribuito dalla Commissione Lancet alla morte? Vi riconoscete in questa posizione o ritenete che sia da ripensare?

Che cosa è una doula? di Marina Sozzi

Sapete cosa è una doula? La parola deriva dal greco antico δούλη (in greco moderno δούλα), che significa serva, schiava; il termine è stato adottato per indicare una persona, di solito donna, che fornisce sostegno psicologico e assistenza fisica prima, durante e dopo il parto alla neomamma. Da alcuni anni nei paesi anglosassoni (Stati Uniti e Gran Bretagna) esistono nuove figure che accompagnano invece i morenti e le loro famiglie, che si definiscono Death doula o End of life doula. Una nuova professione, sulla quale vale la pena fare una riflessione.

Il loro punto di partenza è lo stesso delle cure palliative. Affermano che sovente le persone muoiono male, non nel luogo in cui avrebbero voluto morire. E spesso nelle realtà sanitarie non c’è sufficiente attenzione per la sofferenza, non tanto e non solo fisica, ma per le emozioni, per la realizzazione degli ultimi desideri di chi lascia la vita, per l’aiuto ai familiari e gli amici, per la dimensione spirituale, per l’organizzazione della ritualità. A volte, affermano alcune di queste persone dedicate all’accompagnamento, questa insufficiente attenzione esiste anche nelle istituzioni che si occupano di cure palliative.

Così, negli Stati Uniti alcune associazioni hanno cominciato a formare le Death doulas, e la professione va estendendosi.

Il lavoro di una doula è: pianificare il prima, durante e dopo la morte; fare riti o pratiche che portino conforto; aiutare il morente a riflettere sulla propria vita e sui propri valori; spiegare ai caregiver come avviene la morte. Ma la parte più importante del lavoro è intangibile, e sono solo le storie raccontate da chi resta che possono spiegare cosa faccia veramente una doula. Legge poesie, talvolta, o semplicemente garantisce una presenza tranquilla. L’obbiettivo è ridare senso alla fine della vita e restituire controllo alle persone sul loro fine vita. Affermano un nuovo modo di affrontare la morte, che incoraggia il morente e i suoi cari ad affrontare le loro paure, a infrangere il diniego e a impegnarsi in una esplorazione onesta e aperta della morte e del morire. Il che significa esplorare il significato della propria vita ed esprimerlo con strumenti a loro congeniali. Ad esempio, lasciando registrazioni, o lettere, cosa che fanno spesso le persone che hanno figli giovani.

La doula cerca anche di dare sacralità al processo del morire. Insegna strumenti quali il body scan o la visualizzazione guidata, la musica e il contatto fisico, per dare maggior conforto a tutti. È una sorta di coach della fine della vita, aiuta a gestire le emozioni, e a morire meglio.

Esiste anche un’International End of Life Doula Association (INELDA), fondata nel 2015, che ha come mission di supportare e formare le doulas che si occupano di fine della vita. Henri Fersko- Weiss ne è il fondatore e direttore: è un assistente sociale che ha lavorato anche nell’ambito delle cure palliative. Nel 2003 ha inaugurato il primo programma di formazione per queste figure e ha formato da allora più di 2000 doulas negli USA. Il libro scritto da Henry Fersko-Weiss, Gli ultimi giorni della vita. Rendere la morte un’esperienza significativa, del 2017, è stato tradotto in italiano nel 2019.

In Gran Bretagna ce ne sono circa cento: non sono operatrici sanitarie, ma spesso lavorano a fianco delle équipe di cure palliative in Hospice. O anche nella comunità, sul territorio.

Ci sono ottime cure palliative in Inghilterra, ma la presenza costante che garantisce una doula non è compatibile con il lavoro degli operatori sanitari, affermano queste professioniste (in gran parte donne, ma non solo).

La domanda è aumentata durante il Covid, e le doulas hanno dovuto arrangiarsi a interagire con pazienti e familiari da remoto. Molte di loro hanno cercato di sostenere i caregiver, quando non potevano fare molto altro per via del distanziamento sociale. È stato un lavoro essenziale, dicono le doulas, perché molti sono divenuti caregiver in modo inatteso, per caso, senza averlo scelto.

Il costo, che ho cercato su internet, è di circa 1200 sterline per un accompagnamento, mentre altre fonti parlano di un costo orario che può variare da 30 $ a 100 $ all’ora (negli Stati Uniti), a seconda delle esigenze del cliente.

Ora io mi chiedo e vi chiedo: abbiamo veramente bisogno di una professione come questa? Non possiamo migliorare le cure palliative e farle crescere ovunque? Affinare la formazione degli operatori sanitari e talvolta anche di quelli che si occupano di cure palliative, e combattere una battaglia culturale affinché la fine della vita possa essere accompagnata dalle famiglie, sconfiggendo i pregiudizi e le difficoltà di coping con la morte? Non è questa l’ennesima delega ad altri del processo del morire dei nostri cari?

Inoltre, parliamo di una professione, e dunque di un esborso di denaro per le famiglie. Non c’è il rischio che si crei un’ennesima spaccatura, un’altra diseguaglianza, anche nella morte, tra chi può permettersi di pagare una doula e chi no?

Attendo le vostre considerazioni e i vostri commenti.

Michele, la fine della vita e le italiche confusioni

La scorsa settimana, sulla Repubblica c’è stato un dibattito sull’intervista all’infermiere Michele di Careggi. Lo trovate a questo link: http://www.repubblica.it/cronaca/2015/02/26/news/io_infermiere_vi_racconto_leutanasia_silenziosa_nei_nostri_ospedali-108205220/
Dal mio punto di vista, si tratta di un esempio lampante dell’informazione approssimativa che si fa oggi sul tema della fine della vita. Un esempio di confusione, che non aiuta i lettori a riflettere, ma li invita soltanto a schierarsi. Per questo desidero commentarlo, e vorrei sapere la vostra opinione.
Intanto non ci viene detto in che reparto lavora Michele: per privacy, certamente. Ma un conto è lavorare in terapia intensiva, un altro conto in oncologia o in medicina. Se Michele ha a che fare con 30/40 casi l’anno di “terra di nessuno”, ossia di persone sospese tra la vita e la morte (e anche di morti tenuti a cuor battente da macchine) probabilmente stiamo parlando di una terapia intensiva. Il tema degli interventi salvavita estremamente rischiosi, che hanno talvolta come esito terribili casi di stati vegetativi, dovrebbe essere affrontato in primo luogo a monte: quando ha senso fare dei tentativi di rianimazione? Quando desistere?
In queste scelte, come è noto (e molti di noi lo hanno sperimentato per i propri cari), ha grande peso il timore da parte dei medici di essere accusati di incuria e abbandono terapeutico e di essere denunciati. Questo problema si affronta soprattutto sul piano culturale, diffondendo la consapevolezza dell’umana mortalità, accogliendo figure nuove nelle strutture sanitarie, come quella del bioeticista clinico: ben sapendo che i tempi del superamento dell’idea del medico onnipotente saranno lunghi, come tutti i cambiamenti di mentalità. Nel frattempo, certo, occorre una legge sul testamento biologico: perché il caso Eluana Englaro, diciamolo ancora una volta, non è stato di eutanasia, ma di interruzione delle cure. Una volontà (quella di non essere tenuta in vita in stato vegetativo) espressa da Eluana quando era una ragazza ventenne sana, anche se mai messa per iscritto, per sfortuna sua e del padre Beppino.
Michele parla poi di sospensione di farmaci: “smettiamo di darli (…) non facciamo più le cosiddette procedure invasive”. E anche qui, si tratta del condivisibile auspicio di una pratica medica che respinga l’accanimento terapeutico, che adotti la trasparenza verso pazienti e familiari, che si confronti sulle scelte. Entriamo nuovamente in un ambito di tipo culturale e di lungo periodo. Michele parla poi chiaramente di uno “scudo” legislativo, che difenda i curanti dalle accuse dei parenti, e lo identifica nel testamento biologico. E’ questo il testamento biologico? Uno scudo per i medici, ruolo che troppo spesso ha assunto anche il consenso informato? O non piuttosto uno strumento di scelta (e di educazione alla scelta) per i cittadini? Credo sia un’interpretazione al ribasso del ruolo del living will.
La fretta e l’impazienza, che informano la nostra cultura, non sono buone consigliere. Occorre lavorare molto, in tanti, per anni e forse decenni, per modificare la nostra cultura della cura e della morte. Certo non basta una “botta di morfina” per “morire in maniera degna, lasciando un bel ricordo di sé agli altri”: la propria buona morte la si prepara anche in vita, come scriveva Hans Küng.
La morfina ci vuole, senza lesinarla, così come la sedazione terminale, quando il dolore o la sofferenza non sono sotto controllo. Uno zio da me molto amato, con un cancro terminale alle ossa, mi guardò dritta negli occhi e mi disse con un filo di voce: “voglio dormire”. Gli chiesi se voleva essere sedato e rispose di sì con lo sguardo. Fu sedato e smise di soffrire, visse ancora due giorni e poi morì. Queste sono cure palliative, non eutanasia (non è ammessa la confusione): le cure palliative sono garantite a tutti i cittadini, indipendentemente dalla patologia, dalla legge 38 del 2010, ancora largamente inapplicata.
Altra cosa è l’eutanasia, e su questa occorre dire tutta la verità. Se avessimo ottime cure palliative, nel nostro paese, l’eutanasia riguarderebbe, alla fine della vita, ossia in fase avanzata di malattia, un numero esiguo di persone per le quali, come per la maggior parte di noi, non è questione di “spine da staccare”.
Il tema dell’eutanasia (considero eutanasia solo l’iniezione o il cocktail letale, non certo la morfina necessaria a togliere il dolore) riguarda non tanto i pazienti terminali, ma coloro che, pur avendo ancora un’aspettativa di vita di anni, non riescono a sopportare l’esistenza nella condizione di malattia in cui sono costretti. Se discutiamo di eutanasia, questo è il tema, ben più spinoso del dibattito sulla fase terminale delle malattie. Il che non significa che non sia legittimo porsi l’interrogativo sulla depenalizzazione dell’eutanasia, a patto che tale domanda sia impostata nel modo corretto.
Credo che si debba prendere coscienza del fatto che la risoluzione delle molteplici contraddizioni della medicina contemporanea si farà, giorno dopo giorno, con l’aumento della cultura dei cittadini su questi temi, cioè con un dibattito pubblico molto più ampio e onesto di quello presente.

Che ruolo ha la musica alla fine della vita?

Nell’entusiasmante viaggio che ho fatto in Sicilia prima di Pasqua per presentare Sia fatta la mia volontà, ho conosciuto alcune di quelle rare persone che si scolpiscono nella memoria, e nel cuore. Una di queste, oltre alla mia ospite, la bioeticista Giusi Venuti, è Raffaele Schiavo, musicista e musicoterapeuta, che si occupa dell’accompagnamento dei morenti attraverso la musica. Portando il suo lavoro in Canada, a Toronto all’HPCO annual conference, Raffaele ha avuto un grande successo ed è stato premiato come migliore presentazione orale dell’intero convegno. Date un’occhiata al video: http://www.youtube.com/watch?v=2vxP8u9wCQ0
Combinazione, sempre dal Canada mi arriva la seguente riflessione, che riguarda proprio l’utilizzo della musica alla fine della vita. La palliativista Ira Byock ritiene che vi siano quattro sentimenti che permettono di chiudere bene le relazioni alla fine della vita: l’amore, la gratitudine, il perdono e il commiato. E, come è noto, la possibilità di portare a compimento le relazioni ha un grande importanza per chi sta morendo. Le canzoni, la musica sanno condurre questi messaggi affettivi più efficacemente e più rapidamente delle parole, sostiene la dottoressa Byock. E racconta della morte della propria nonna: due canzoni hanno aiutato la sua famiglia a darle l’addio. Una è la canzone Wind Beneath My Wings, che contiene le parole che hanno permesso alla madre di dire alla nonna: «Sapevi di essere la mia eroina, colei che vorrei diventare; io posso volare più in alto dell’arcobaleno, tu sei il vento che spiega le mie ali». La seconda canzone è Eagles’ Wings, una canzone cristiana che ha aiutato la stessa dottoressa Byock a esprimere la speranza nella vita dopo la morte: «Egli ti solleverà sulle ali dell’aquila, ti innalzerà sopra il respiro dell’alba, ti farà splendere come il sole, e ti terrà in palmo di mano.»
Mi piacerebbe approfondire con voi questo tema: avete delle esperienze da raccontare? Ci sono stati momenti alla fine della vita dei vostri cari, o dei vostri pazienti, in cui la musica ha assunto un particolare rilievo? Che cosa pensate della musicoterapia? Dovrebbe essere integrata nelle competenze richieste in cure palliative?

Paura della morte

Ferdinando Cancelli, palliativista e bioeticista cattolico, che ha lavorato alla Fondazione Faro e all’Asl CN1, ha scritto un libro dal titolo Vivere fino alla fine: chi l’ha già letto dice che è un potente antidoto contro la paura di morire. Le cure palliative, peraltro, si stanno diffondendo in tutto il mondo, Kenia e India compresi.
In Francia, l’anestesista Bernard Devalois ritiene che l’eutanasia sarebbe stata una soluzione nel passato, quando non c’erano i mezzi per combattere il dolore; sarebbe invece superata oggi, quando un malato terminale può prendere la morfina, o nel caso di una sofferenza ancora troppo grande, chiedere la sedazione terminale, un coma farmacologico che abolisce la coscienza senza abbreviare la vita.
Cancelli afferma che spesso una cattiva informazione crea un clima di paura: la fine della vita è spesso immaginata, allora, come un’anticipazione della morte, come un periodo cupo e disperato, da trascorrere tra atroci sofferenze, nell’attesa tremebonda della fine. Ma è davvero così morire?
Quali sono i timori che soprattutto ci fanno propendere per un sì alla soluzione eutanasica, più sbrigativa delle cure palliative? A mio modo di vedere ci sono infatti, indubbiamente, particolari situazioni (alcune malattie neurologiche, o condizioni post traumatiche), che rendono necessario discutere anche di eutanasia. Ma stupisce che in Belgio nel 2012 il 74% delle eutanasie siano state praticate a malati di cancro (il cancro è la malattia meglio controllata dalle cure palliative).
Allora, parliamone, visto che nessuno lo fa: cosa ci fa maggiormente paura in relazione alla morte nostra e dei nostri cari?

Il mito della speranza

Ritenete importante la riflessione sulla speranza alla fine della vita?
Vorrei consigliarvi una giornata formativa: La speranza come dimensione di cura nella terminalità, Mantova 17 novembre, organizzata dal Dipartimento interaziendale provinciale oncologico di Mantova.
Dice il pieghevole: “Il tabù della speranza è falso e va abbattuto con determinazione se si vuole realizzare un vero percorso d’accompagnamento alla persona malata in fase avanzata e terminale di malattia. Infatti, il mito della speranza impedisce un’onesta comunicazione fra malato e sanitari, nell’illusorio timore che un’informazione sincera generi una perdita di speranza nel malato.
In realtà la letteratura scientifica e l’esperienza quotidiana di chi frequenta la terminalità forniscono dati opposti: la consapevolezza della diagnosi e, soprattutto della prognosi, si sviluppa spontaneamente in quasi tutti i malati, indipendentemente dal grado e dal tipo d’informazioni ufficialmente fornite.
Tali consapevolezze si riflettono sulla speranza, che non è affatto qualcosa di statico; anzi, la speranza nel percorso di malattia subisce profondi cambiamenti di cui si deve tener conto se si vuole mantenere una reale sintonia con il malato.
Viceversa, alimentando la congiura del silenzio, si isola progressivamente il malato in una gelida solitudine e si abbandona la famiglia allo stress della commedia degli inganni.
Solo la conoscenza di come evolve la speranza nell’individuale prospettiva del malato e di quali siano i suoi reali bisogni informativi e comunicativi rende possibile la costruzione di un percorso di relazioni più autentiche e quindi più efficaci.
Solo comprendendo come mutano i colori della speranza e quali volti via via essa assume nel vissuto del malato è possibile muoversi nella penombra del reciproco buio che malati, familiari, sanitari e volontari devono attraversare insieme nel percorso o di terminalità.”
Per ulteriori informazioni e per scaricare il programma, http://www.aopoma.it/lay_not.php?IDNotizia=2518&IDCategoria=14