Le DAT alla luce del Covid, di Marina Sozzi
Le DAT, ovvero le Disposizioni anticipate di trattamento, la cui validità giuridica è stata stabilita dalla legge 219/2017, sono un tema molto importante, che questo blog ha già trattato in passato. Ad oggi, nonostante siano passati quattro anni dall’approvazione della legge, meno dell’1% della popolazione italiana ha testato. Forse negli ultimi due anni hanno avuto un peso le difficoltà create dalla pandemia ad accedere agli uffici comunali preposti, specialmente nelle grandi città. Tuttavia, la percentuale di testatori è irrisoria.
Le persone faticano a immaginarsi in una situazione in cui non siano più in grado di decidere per sé, e spesso non sono sicuri su cosa sia opportuno scrivere su quel modulo di Disposizioni anticipate di trattamento, o non sanno a chi dare il ruolo di fiduciario.
La pandemia, certo, non ha semplificato le cose.
Alcuni avevano ben chiaro di non voler essere attaccati a ventilatori meccanici, quando pensavano che la respirazione artificiale potesse venir loro applicata a seguito di un gravissimo incidente, ad esempio, col rischio di restare in stato vegetativo permanente, come è accaduto a Eluana Englaro. Non ci aspettavamo, però, che potesse colpirci una malattia infettiva gravissima, che ha compromesso la nostra capacità di respirare, ma dalla quale vi era una possibilità di uscire guariti, perfettamente ristabiliti.
E, d’altro canto, invece, in questa epidemia di Covid, in certi casi aver testato sarebbe stato importante per salvaguardare la propria capacità di scegliere, anche nella situazione convulsa in cui versava la sanità nei momenti di diffusione più rapida del virus.
Non siamo tutti uguali, e ci sono persone, magari molto anziane, o un po’ stanche di vivere, che non avrebbero voluto finire in terapia intensiva qualora si fossero ammalati di Covid, ma solo essere accompagnate da buone cure palliative. Invece, nella maggioranza dei casi, hanno deciso i medici, e sappiamo peraltro dai loro racconti quanto sia stato difficile scegliere tra i pazienti malati di Covid che si recavano in ospedale.
Diceva una dottoressa intervistata da Open nell’aprile 2020: «All’inizio avevo paura. Ora no. Ti abitui alle regole di un ospedale in guerra, ti abitui al terremoto, a prendere una decisione al minuto». Tra cui quella più difficile: «Chi puoi salvare e chi no. Io l’ho fatto e devo conviverci ogni notte». «Marzo è stato il mese peggiore della mia vita, lottavamo contro l’invisibile. I letti in terapia intensiva non bastavano mai. E così capitava che dovendo scegliere tra un paziente settantenne, pieno di complicanze, e un altro che poteva farcela, sceglievi di intubare il secondo, lasciando andare il primo». Una decisione in cui ci si consultava tra colleghi, spiega la dottoressa, «ragioni, rifai i calcoli cento volte, litighi. Ma alla fine decidi».
Alcuni di noi si sono scandalizzati (a mio modo di vedere erroneamente) quando, all’inizio di marzo 2020, la SIAARTI, società scientifica degli anestesisti e dei rianimatori, ha pubblicato un documento in cui dava istruzioni ai colleghi che si trovavano di fronte a una scarsità di risorse in rapporto alla quantità di malati. Scrivevano gli intensivisti che lo squilibrio tra necessità cliniche e disponibilità effettiva delle risorse, li obbligava a utilizzare i criteri tipici della medicina delle catastrofi: «Come estensione del principio di proporzionalità delle cure, l’allocazione in un contesto di grave carenza delle risorse sanitarie deve puntare a garantire i trattamenti di carattere intensivo ai pazienti con maggiori possibilità di successo terapeutico: si tratta dunque di privilegiare la “maggior speranza di vita”. Il bisogno di cure intensive deve pertanto essere integrato con altri elementi di “idoneità clinica” alle cure intensive, comprendendo quindi: il tipo e la gravità della malattia, la presenza di comorbidità, la compromissione di altri organi e apparati e la loro reversibilità.»
Sarebbe cambiato qualcosa se la popolazione avesse in maggioranza testato, esprimendo ad esempio le proprie preferenze riguardo alla ventilazione meccanica? Si sarebbe potuto tener conto di quelle disposizioni, sapendo che erano state scritte in una situazione molto diversa, nella quale le malattie letali erano prevalentemente croniche, e la morte come evento improvviso ce la si sarebbe potuta aspettare soprattutto come conseguenza di gravi incidenti?
Credo che sia giunto il momento di ripensare alle DAT, alla luce del Covid, per fare una campagna rilevante, nazionale, di divulgazione. In questi mesi passati l’ha fatta VIDAS, fondazione milanese che si occupa di cure palliative, che ha promosso l’idea di testare con spot su diversi canali, tv, radio, stampa e digitale, che sono stati fruiti da oltre 23 milioni di utenti. Circa 6.000 persone hanno voluto approfondire, e scaricato la guida presente sul sito VIDAS e il modulo per la stesura delle proprie DAT, messo a punto con la collaborazione della bioeticista Patrizia Borsellino. Lo slogan è stato: “Scelgo adesso, perché posso”. La linea telefonica di prima informazione gestita da volontari ha ricevuto tra ottobre e dicembre decine di richieste da parte di persone interessate e desiderose di approfondire. C’è stato anche un servizio di sportello che ha accompagnato alla redazione del proprio biotestamento, valorizzato come un atto di libertà e autodeterminazione. Sarà poi interessante, a campagna conclusa, capire quanti sono stati i testatori in più, e se nell’area del milanese, dove è stato possibile accedere allo sportello di consulenza, ci sia stato uno spostamento interessante delle percentuali di persone che hanno lasciato le proprie disposizioni.
Se dovesse essere così, si renderebbe evidente che occorre una consulenza per indurre le persone a testare, come dimostrano anche i casi dei paesi dove una campagna nazionale seria è stata fatta, come il Canada (12% della popolazione ha scritto il proprio living will) e gli Stati Uniti (25%).
Ma soprattutto, ritengo che il Covid debba indurci a lasciare le nostre volontà dando non tanto precise indicazioni su ciò che si accetta e ciò che si rifiuta, quanto fornendo la nostra visione filosofica della vita e della morte, delle limitazioni della nostra salute che siamo in grado di accettare, e di quelle che invece renderebbero la nostra esistenza non più meritevole per noi di essere vissuta. E per arrivare a questa visione, occorre che ci vengano poste le giuste domande, che ci facciano riflettere, andando in profondità, sul nostro rapporto con la vita e con la morte.
Che cosa ne pensate? Avete riflettuto sulle DAT durante la pandemia? Secondo voi un medico avrebbe potuto, o dovuto, tener conto del testamento biologico eventualmente presente nel contesto dell’epidemia di Covid-19?
Buongiorno Marina,
sto redigendo il mio diario delle volontà funerarie ed ho iniziato con le DAT. Veramente avevo iniziato già nella primavera dello scorso anno, quando finalmente avevo potuto prendere un appuntamento in presenza con la mia dottoressa di famiglia. Quando le ho sottoposto un fac-simile delle DAT che avevo scaricato dal web, mi ha chiesto cosa fossero le DAT. Ho cercato di restare calma e diplomatica e le ho chiesto se potevamo usare proprio questa occasione per spiegare a me certi passaggi e mettere lei a conoscenza di questa opportunità che tutti i suoi pazienti avevano. E’ stata gentile e collaborativa, anche se un po’ imbarazzata. Io poi sono stata distratta da altri avvenimenti ed ho rimandato questo momento di raccoglimento e decisione a qualche giorno fa. Ho compilato tutte le voci, ed anzi ne ho aggiunta qualcuna (sono andata sul web a vedere diverse versioni ed ne ho redatto una che mi pareva più confacente alla mia filosofia di vita). Tutta contenta e motivata, telefono all’ufficio preposto al ritiro delle DAT del mio comune di residenza pensando di chiedere una semplice conferma delle modalità di consegna. Però ho dovuto prendere un appuntamento. Tutto questo per dire cosa? Per confermare le sue parole ed la consapevolezza che temi così delicati e difficili vanno affrontati con coloro che possono dare risposte. Difficilmente una persona prende tutte queste iniziative e ha la lucidità di impiegare tutto il tempo che ha impiegato chi ha redatto le sue DAT. Per rispondere alla sua ultima domanda, che mi appare però un po’ disorientante, credo che si, se fossero presenti le DAT (e, perché no, auguriamoci che in futuro siano tantissime), un medico dovrebbe tenerne conto anche in un momento di criticità e, magari, sarebbe anche sollevato di non dover ricorrere ad una scelta difficile. D’altronde, la respirazione forzata nel caso del Covid19 faceva parte di un trattamento salva vita e non di accanimento terapeutico o della certezza di arrecare al paziente danni permanenti fino allo stato vegetativo. O mi sbaglio?
Un saluto
Gentile Lucia, grazie per la sua preziosa testimonianza, che ci fa comprendere il bisogno di formazione che ancora c’è per i medici, oltre all’esigenza di una campagna informativa sulla popolazione.
La mia ultima domanda era in parte provocatoria, in parte avrei auspicato che qualche medico rispondesse.
Sono d’accordo che le volontà espresse nelle DAT dovrebbero sempre essere rispettate, ma credo anche che il Covid abbia rappresentato un’oggettiva complicazione. Sia per la situazione di emergenza estrema nella quale si sono trovati gli intensivisti (e andare a cercare le volontà eventualmente espresse dalle persone non deve essere stato facile), sia perché, per il poco che ne so, in questo caso non credo ci fosse il rischio di creare casi di stato vegetativo (ma certamente, invece, di far uscire le persone, soprattutto anziane, dalle terapie intensive guarite dal Covid ma con un serio declino cognitivo).
Ho preso sul serio il tuo auspicio e la tua domanda “in parte provocatoria”. Temo però che mi sia un po’ scappata la mano in quanto a lunghezza della riflessione… che comunque ti propongo anche un po’ controcorrente.
Parto da due “storie” che mi avevano colpito nei primi mesi di pandemia. Un uomo giovane, con fobia assoluta per qualsiasi tipo di ago (anche solo per la via sottocutanea), con diagnosi TAC (ovviamente senza mezzo di contrasto) di neoplasia polmonare localmente molto avanzata, altrettanto ovviamente non tipizzata non potendosi eseguire una biopsia per il rifiuto dell’ago. Lo seguii ambulatorialmente a lungo con terapia antidolorifica e antidispnoica orale, in una relazione franca e reciproca. Ricordo il suo terrore rispetto alla possibilità di essere soccorso in stato di incoscienza (era il quadro tipico delle prime diagnosi di ipossia silente da Covid-19) e di venire quindi “automaticamente” portato in rianimazione, sottoposto a prelievi ed esami ed essere eventualmente intubato. Avevamo condiviso per scritto il suo rifiuto di interventi invasivi (ben consapevole che se anche fosse sopravvissuto al Covid non sarebbe sopravvissuto a lungo alla neoplasia, ma anche informato che le situazioni estreme di sofferenza che il suo quadro lasciava prevedere avrebbero potenzialmente richiesto, proprio per rispettare la sua volontà di non soffrire inutilmente, una via di somministrazione dei farmaci che ben difficilmente avrebbe potuto essere quella orale fino alla fine). Ma la “promessa” che la sua volontà sarebbe stata rispettata divenne certezza solo nel ricovero in hospice, vero luogo di “protezione” delle volontà. Lì accettò anche l’unica venipuntura, necessaria per la sedazione palliativa continua, dopo una lunga condivisione con l’equipe, nelle ultimissime ore di vita.
Un altro paziente, che al primo colloquio si presentò con una copia delle sue DAT (in cui era esplicitata la richiesta di eutanasia, pur nella consapevolezza della impossibilità “legale” di riceverla), si mostrò molto turbato sul dilemma di come comportarsi in caso di necessità di terapia intensiva. Il rischio Covid era oltretutto certamente aumentato da una certa vitalistica riluttanza a rispettare precauzioni e distanziamenti, anche se era evidentemente piuttosto terrorizzato dal virus. Fu un percorso molto lungo e difficile (la sua ostinazione nel proseguire la chemioterapia orale poteva sembrare un po’ contraddittoria rispetto alla sua asserita volontà di morire; accettò con molta resistenza le cure palliative domiciliari, tornò ancora sulla domanda se “non si poteva fare ancora un po’ di chemio”. Concluse anche lui i suoi giorni in hospice, accompagnato in tutti i passaggi del suo percorso di cura dal fascicolo delle sue DAT, che, direi, furono rispettate “semplicemente” assicurandogli adeguate cure palliative: non fu necessaria la sedazione palliativa, che aveva comunque rifiutato. L’impressione era che “giunto al dunque” non avesse poi così tanta voglia di morire…).
Più in generale: nei reparti Covid, nelle prime due ondate in cui la morte era esperienza quotidiana, ricordo invece il terrore di “non essere curati” di molti pazienti oncologici, oltre a un foglio DAT un po’ contraddittorio di una paziente sotto tutela (esprimeva “rifiuto di interventi intensivi” ma segnava “Sì” alla domanda “se necessario richiedi di essere intubato?”) che ci mise un po’ in difficoltà nel rapporto a distanza con il tutore (la paziente ritornò infine alla RSA di provenienza alla negativizzazione, raggiunta senza interventi invasivi)… Invece ricordo un vecchio avvocato, docente di diritto, che per quanto demente e sotto tutela, affermava con forza il rifiuto di interventi anche non intensivi (come le cure corporee) citando a memoria gli articoli del Codice. La conferma del Tutore, anch’egli avvocato, fu semplicemente un rinforzo della scelta di sedazione palliativa che emergeva in modo ben chiaro da tutti gli atti, le posture e le affermazioni dell’interessato come la più dignitosa e rispettosa della persona (ma se il tutore avesse avuto un parere diverso la scelta sarebbe diventata assai più problematica).
Insomma: c’è anche una indubbia complessità. Uno dei lavori più consultati nel 2020/2021 online sul Journal of Palliative Medicine è quello di R.S. Morrison dal titolo “Advance Directives/Care Planning: Clear, Simple, and Wrong” che pone con una notevole forza polemica la domanda su “dove saremmo” se “anche solo la metà dei fondi spesi per le AD/CP fossero stati utilizzati per ricerche sul trattamento della dispnea, o sviluppare modelli di cura di comunità o per le zone rurali, o per le demenze, o per ridurre le disparità di accesso ai servizi, o per formare gli operatori sanitari alle conoscenze e alle abilità comunicative di base”. Tutto “chiaro” e “semplice”, ma potrebbe anche essere “sbagliato” come nella citazione del titolo.
Anche rilevanti per una discussione senza pregiudizi i risultati dello studio ACTION in un’ampia casistica europea: una ricerca sull’impatto di colloqui strutturati di Pianificazione condivisa condotto su un numero significativo di curanti di pazienti in fase avanzata non ancora “terminale” (quindi con attesa di vita prevista di almeno 3 mesi) di malattia oncologica. Interessante il dato che, a fronte dell’adesione della maggior parte dei clinici rispetto al tema generale, all’atto pratico sono stati molti i pazienti che hanno rifiutato di aderire alla ricerca (2/3 in Europa, 6/7 in Italia) e anche i ricercatori stessi hanno riconosciuto la difficoltà di “entrare” in modo esplicito e diretto su tematiche di questo genere, soprattutto nei vincoli necessariamente rigidi sia come tempistiche che come metodiche necessari in uno studio clinico. Rispetto alla casistica di controllo non si sono evidenziati benefici sostanziali sulla “qualità della vita e del morire” e limitato impatto sul rispetto delle scelte sui luoghi di cura a fine vita.
Tutti i temi di fine vita restano molto complessi, e in relazione dinamica fra loro, come evidenziato nel “corposo” lavoro della Lancet Commission on Value of Death di recente pubblicazione di cui si parlerà a lungo, certamente anche su questo blog. Mi ha colpito, in una delle ultime pagine il capitolo “Lezioni dal fallimento di un tentativo di migliorare l’esperienza del morire negli ospedali per acuti”: ricordiamo l’inebriante diffusione delle Liverpool Care Pathways anche nei nostri servizi alcuni anni fa? E le critiche e i dubbi che presto ne mostrarono anche i limiti (“more Care, less Pathways, please…)?
Concludono gli Autori: “”Non limitatevi a leggere la guida, e in particolare a usare solo checklist. Impegnate i vostri cervelli e i vostri cuori, leggete e implementate le linee guida basate sull’evidenza, e questo è ciò che migliorerà l’assistenza”.
Tutto opinabile e discutibile, ma indubbiamente quello della complessità è un tema che ci dovrà interrogare sempre di più.
Grazie infinite Ferdinando per questo tuo commento, che dall’interno dell’esperienza di medico palliativista, ci spiega l’enorme complessità di questo tema, come di tutti gli altri che riguardano la fine della vita.
LA RIFLESSIONE SULL’UTILIZZO DELLA DAT SOFFOCATA DA PANDEMIA E GUERRA
di Mauro Scarpellini Vice Presidente Associazione LIbera Uscita OdV
Il pensiero e le informazioni che Marina Sozzi esprime nel suo articolo “LE DAT ALLA LUCE DEL COVID” sono molto chiare, apprezzabili e convergenti con le riflessioni che il periodo pandemico ha suscitato in chi pone attenzione al tema del fine vita.
Dopo la fase più acuta della pandemia – che non è ancora ridotta a ragione, così come i numeri impietosi indicano ancora – l’attenzione si sarebbe dovuta porre su opportune riflessioni in merito alla diffusione delle disposizioni date dai cittadini per il loro trattamento nell’eventualità scongiurata, ma possibile, del manifestarsi della circostanza di bisogno. La percentuale dei cittadini che hanno usufruito della possibilità prevista dalla legge del 2017 è molto bassa. La ricerca commissionata nel 2021 dalla nostra associazione conferma i dati che Marina Sozzi riferisce.
Peraltro in questo periodo post acuto la scena e i pensieri sono stati, sono e saranno occupati, anzi sconvolti, dalla guerra contro l’Ucraina. Il pensiero corre là, alle situazioni e condizioni viste e udite e a quelle possibili, ancor peggiori e poco immaginabili se non con voli di fantasia preoccupata e sfiduciata.
Con questa realtà quotidiana, purtroppo e tristemente non di breve periodo, la difficoltà che le persone hanno avuto, durante la fase acuta di pandemia, a immaginarsi in una condizione di incapacità di decidere per sé stesse, non solo non viene superata, ma l’argomento è tolto dall’ordine del giorno del pensiero di tutti o quasi.
E’ opportuno pensare a come riprendere iniziative che inducano i cittadini a interrogarsi, scrivere il modulo, a indicare le loro volontà.
Trovo efficace lo slogan “Scelgo adesso perché posso”. Sintetico, percepibile, immediato. Quindi lo adotterei per una campagna fatta propria dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri che dovrebbe diffonderlo e illustrarlo con gli spot di pubblicità progresso diramati televisivamente. Non basta lasciare ad intelligenti iniziative individuali, necessariamente limitate negli effetti, il compito di raggiungere l’obiettivo di una crescita della percentuale degli italiani che usufruiscono dello strumento messo a disposizione dalla legge del 2017.
Quindi possiamo proporre alle organizzazioni che, come Libera Uscita, condividono questi punti di vista di scrivere al Presidente del Consiglio dei Ministri e al Ministro della Salute per realizzare l’iniziativa.
Cara Maria Laura, se pensate di fare un’iniziativa del genere, contate sull’adesione dell’associazione che dirigo, SAMCO, e di questo blog.