Che cosa è una doula? di Marina Sozzi
Sapete cosa è una doula? La parola deriva dal greco antico δούλη (in greco moderno δούλα), che significa serva, schiava; il termine è stato adottato per indicare una persona, di solito donna, che fornisce sostegno psicologico e assistenza fisica prima, durante e dopo il parto alla neomamma. Da alcuni anni nei paesi anglosassoni (Stati Uniti e Gran Bretagna) esistono nuove figure che accompagnano invece i morenti e le loro famiglie, che si definiscono Death doula o End of life doula. Una nuova professione, sulla quale vale la pena fare una riflessione.
Il loro punto di partenza è lo stesso delle cure palliative. Affermano che sovente le persone muoiono male, non nel luogo in cui avrebbero voluto morire. E spesso nelle realtà sanitarie non c’è sufficiente attenzione per la sofferenza, non tanto e non solo fisica, ma per le emozioni, per la realizzazione degli ultimi desideri di chi lascia la vita, per l’aiuto ai familiari e gli amici, per la dimensione spirituale, per l’organizzazione della ritualità. A volte, affermano alcune di queste persone dedicate all’accompagnamento, questa insufficiente attenzione esiste anche nelle istituzioni che si occupano di cure palliative.
Così, negli Stati Uniti alcune associazioni hanno cominciato a formare le Death doulas, e la professione va estendendosi.
Il lavoro di una doula è: pianificare il prima, durante e dopo la morte; fare riti o pratiche che portino conforto; aiutare il morente a riflettere sulla propria vita e sui propri valori; spiegare ai caregiver come avviene la morte. Ma la parte più importante del lavoro è intangibile, e sono solo le storie raccontate da chi resta che possono spiegare cosa faccia veramente una doula. Legge poesie, talvolta, o semplicemente garantisce una presenza tranquilla. L’obbiettivo è ridare senso alla fine della vita e restituire controllo alle persone sul loro fine vita. Affermano un nuovo modo di affrontare la morte, che incoraggia il morente e i suoi cari ad affrontare le loro paure, a infrangere il diniego e a impegnarsi in una esplorazione onesta e aperta della morte e del morire. Il che significa esplorare il significato della propria vita ed esprimerlo con strumenti a loro congeniali. Ad esempio, lasciando registrazioni, o lettere, cosa che fanno spesso le persone che hanno figli giovani.
La doula cerca anche di dare sacralità al processo del morire. Insegna strumenti quali il body scan o la visualizzazione guidata, la musica e il contatto fisico, per dare maggior conforto a tutti. È una sorta di coach della fine della vita, aiuta a gestire le emozioni, e a morire meglio.
Esiste anche un’International End of Life Doula Association (INELDA), fondata nel 2015, che ha come mission di supportare e formare le doulas che si occupano di fine della vita. Henri Fersko- Weiss ne è il fondatore e direttore: è un assistente sociale che ha lavorato anche nell’ambito delle cure palliative. Nel 2003 ha inaugurato il primo programma di formazione per queste figure e ha formato da allora più di 2000 doulas negli USA. Il libro scritto da Henry Fersko-Weiss, Gli ultimi giorni della vita. Rendere la morte un’esperienza significativa, del 2017, è stato tradotto in italiano nel 2019.
In Gran Bretagna ce ne sono circa cento: non sono operatrici sanitarie, ma spesso lavorano a fianco delle équipe di cure palliative in Hospice. O anche nella comunità, sul territorio.
Ci sono ottime cure palliative in Inghilterra, ma la presenza costante che garantisce una doula non è compatibile con il lavoro degli operatori sanitari, affermano queste professioniste (in gran parte donne, ma non solo).
La domanda è aumentata durante il Covid, e le doulas hanno dovuto arrangiarsi a interagire con pazienti e familiari da remoto. Molte di loro hanno cercato di sostenere i caregiver, quando non potevano fare molto altro per via del distanziamento sociale. È stato un lavoro essenziale, dicono le doulas, perché molti sono divenuti caregiver in modo inatteso, per caso, senza averlo scelto.
Il costo, che ho cercato su internet, è di circa 1200 sterline per un accompagnamento, mentre altre fonti parlano di un costo orario che può variare da 30 $ a 100 $ all’ora (negli Stati Uniti), a seconda delle esigenze del cliente.
Ora io mi chiedo e vi chiedo: abbiamo veramente bisogno di una professione come questa? Non possiamo migliorare le cure palliative e farle crescere ovunque? Affinare la formazione degli operatori sanitari e talvolta anche di quelli che si occupano di cure palliative, e combattere una battaglia culturale affinché la fine della vita possa essere accompagnata dalle famiglie, sconfiggendo i pregiudizi e le difficoltà di coping con la morte? Non è questa l’ennesima delega ad altri del processo del morire dei nostri cari?
Inoltre, parliamo di una professione, e dunque di un esborso di denaro per le famiglie. Non c’è il rischio che si crei un’ennesima spaccatura, un’altra diseguaglianza, anche nella morte, tra chi può permettersi di pagare una doula e chi no?
Attendo le vostre considerazioni e i vostri commenti.
Faccio un passo indietro nel tempo (neanche tanto) e sottopongo alla Vostra attenzione un vocabolo: ACABADORA. Nella tradizione della bellissima terra di Sardegna, ancora fino all’immediato secondo dopoguerra la figura della acabadora era presente nella vita della popolazione rurale della Sardegna degli anni ’40 e forse ’50. L’acabadora (contaminazione dal verbo spagnolo “acabar”, finire, morire) era una donna che entrava nelle case dove c’era un malato terminale per impartire quella che a suo tempo veniva chiamata la “buona morte”. Spesso utilizzava lo strumento del soffocamento ma anche un martello in legno con cui colpiva la nuca del moribondo fratturando la C1 o la C2 all’altezza del collo e procurando quindi una morte istantanea e – a mio modesto avviso – più serena dello spegnimento graduale delle funzioni corporee. Era una signora vestita ovviamente tutta di nero il cui viso era celato da un velo di trine o di tulle nero anch’esso in modo che non fosse riconoscibile di giorno per strada. Entrava da una finestra appositamente lasciata aperta dopo che tutti i parenti se ne erano andati dalla camera e dopo che ovviamente erano stati oscurati tutti gli specchi. Una volta eseguito il suo incarico, riusciva dalla stessa finestra da cui era entrata e si dissolveva nella notte. Si diceva anche che l’acabadora di solito fosse anche la levatrice del paese ma di questo non ho trovato conferme storiche e certe. Perchè mi sono permesso di fare questo preambolo? Perchè questa funzione di “accompagnamento” nel fine vita non è qualcosa di cui solo negli ultimi tempi se n’è parlato o è arrivato ad un livello di attenzione mediatica significativo. Da quel che ho avuto modo di studiare e leggere, è una funzione che di fatto è sempre esistita. In tal senso suggerisco la visione di un film assolutamente interessante e di ottimo livello interpretato da una bravissima attrice qual’è Jasmine Trinca: “MIELE”. Quanto all’opportunità di ricorrere ad una figura di accompagnamento verso l’ultimo ballo della nostra vita, io sarei personalmente favorevole per due motivi: in primis, in un mondo come quello attuale, dove il tasso annuale di divorzi è ben maggiore di quello dei matrimoni, la presenza sempre più numerosa di famiglie “mononucleari” acuisce sempre di più il livello di solitudine a cui una persona che sta lasciando questa terra è costretta ad andare incontro. Ne consegue che una presenza sorridente, di preparazione al grande passo, di assistenza pre e post potrebbe donare sollievo spirituale ad un’anima che si sta apprestando ad uscire dal proprio corpo. Il secondo motivo lo vedo dal punto di vista dell’operatore, di colui che offre questa assistenza. Quanti psicologi, quanti laureati in materie psicologiche e psichiatriche (persone a cui il percorso di studi ed il praticantato avrà sicuramente elevato la sensibilità, l’empatia, la cultura e la propensione ad “andare verso gli altri”) sono “a spasso” o di fatto non esercitano la professione o non trovano sbocchi per i loro studi, quante migliaia di “dottori dell’anima e della mente” potrebbero agevolmente indirizzare le loro conoscenze, la loro sensibilità, la loro esperienza, la loro cultura ed infine la loro umanità verso chi sta chiedendo ancora soltanto un sorriso prima di chiudere gli occhi per sempre? Ovviamente non sottovaluto il fatto che non tutte le persone sono così “facilmente” predisposte a dare assistenza ad una persona in fin di vita, ci mancherebbe altro. Credo tuttavia che il valore aggiunto che un’esperienza del genere potrebbe dare ad un giovane psicologo/a o simile sarebbe di assoluto valore e spessore, aiutandolo a conoscere meglio il mondo e se stesso. Da ultimo mi domando: e se anche questo “servizio” (absit iniuria verbo) dovesse avere un suo costo (ricordandoci che Papa Francesco ha detto che “il sudario non ha le tasche”), non credete che sarebbe un prezzo che la stragrande maggioranza dei moribondi pagherebbe senza esitazioni pur di avere un sorriso sulle labbra in “quel” momento?
Gentile Felix, grazie per il commento e rispetto naturalmente la sua opinione. Solo una precisazione. Qualche anno fa una giovane straordinaria studiosa sarda che avevo avuto come allieva ha condotto in Gallura un’indagine sulla figura dell’accabadora. Non è stato possibile dimostrare l’esistenza della figura così come lei la descrive. Pare piuttosto che si tratti di una leggenda, e che il vero ruolo dell’accabadora fosse simbolico (non dava cioè la morte).
Pienamente d’accordo con Felix. sono per una morte dignitosa, ancorché non necessariamente sorridente.
La doula? No, non credo che questa sia la soluzione per morire meglio, così come non credo che il Ministero inglese della solitudine possa migliorare gli ultimi anni di vita di molti noi anziani.
Lavorare per veder sorgere una famiglia diversa, antica e nuova, sostenuta da una rete sociale di aiuto concreto e diffuso su tutto il territorio capace di consentire alla stragrande maggioranza della popolazione di morire nel proprio letto con il conforto della vicinanza dei propri cari. Cure Palliative domiciliari certo ma poi anche la possibilità della morte volontaria assistita, del suicidio medicalmente assistito per tutti quei casi, e ci sono, che non possono trovare risposta dalle Cure Palliative.
Cara Maria Laura, grazie per le tue sempre pertinenti osservazioni. Direi che se parliamo di accompagnamento dobbiamo parlare di un miglioramento delle cure palliative, che è assolutamente necessario nel nostro paese (la realtà lascia ancora molto a desiderare, purtroppo). Poi, certo, ci sono situazioni sulle quali dobbiamo riflettere. Evitando però che la legge sull’eutanasia rallenti lo sviluppo delle cure palliative.
La morte va affrontata in vita come fatto culturale , come uno degli ultimi tabù da sconfiggere. Ben venga l’accompagnamento al morente in fine vita ma se essa non viene percepita come fine di una esperienza nella continuità di una Vita evolvente è difficile morire ed è difficile accompagnare…Se ne parla come di una cosa terribile ; è solo il dolore fisico e psicologico ad esserlo perché chi lascia e chi viene lasciato non intravede lo Spirito in questa opera di restituzione e di “richiamo” dell’anima .
Grazie Marianna, condivido il suo commento!
In pratica si tratta di una persona che fa quello che dovrebbe saper fare ogni cappellano/a o assistente spirituale adeguatamente formato e cioè pronto ad accogliere e accompagnare i bisogni umani e spirituali di chiunque, indipendentemente dalla fede di appartenenza o anche in assenza di una fede. È ciò che si impara a fare in varie parti del mondo seguendo i corsi di Clinical Pastoral Education, che si tengono negli ospedali e che sono molto diffusi negli Stati conducendo alla formazione della figura del cappellano clinico. Questa figura, purtroppo, è pressoché sconosciuta in Italia. Siamo veramente in pochi e, tra i pochi, c’è chi questo servizio lo svolge senza alcuna forma di remunerazione. Grazie, cara Marina, per questo interessante articolo. Sergio Manna
È così, caro Sergio. Credo che dobbiamo intensificare la formazione degli assistenti spirituali… più che creare una figura professionale privata, a pagamento, dovremmo dare battaglia per cure palliative ben fatte, per un accompagnamento degno di questo nome.
Quando ho letto l’introduzione al link ho pensato anch’io che potessero esserci analogie con l’Acabadora (figura reale o mitica? Molto discusso, ma non è questo l’argomento). In realtà mi pare che si tratti di qualcosa di completamente diverso, e che inoltre la questione specifica non sia garantire il suicidio medicalmente assistito (anche qui, tema estraneo ai contenuti del post, se ho capito bene), ma sia garantire buone cure palliative. La frase ” A volte, affermano alcune di queste persone dedicate all’accompagnamento, questa insufficiente attenzione esiste anche nelle istituzioni che si occupano di cure palliative” è una sollecitazione forte alla riflessione, soprattutto in questo periodo in cui si aprono nuovi hospice e nuovi servizi domiciliari, con il rischio non così remoto di abbassare il livello. Condivido in ogni parola gli interrogativi che Marina si pone, e ci pone, nelle ultime righe: questa figura piuttosto costosa dovrebbe essere inutile se le cure palliative in tutte le loro componenti (penso per esempio al ruolo insostituibile dei volontari adeguatamente formati) fossero semplicemente sé stesse. Gratuitamente per i malati e le famiglie, e adeguatamente riconosciute in tutte le componenti, come giustamente sottolinea Sergio Manna.
Caro Ferdinando, sottoscrivo ogni singola parola che hai scritto. Queste figure non hanno nulla a che fare con il suicidio assistito o l’eutanasia, e non sono figure sanitarie. Ma non c’è il rischio dell’ennesima delega di un ruolo che dovrebbe essere appannaggio delle cure palliative da un lato, e della famiglia dall’altro?
…infatti…
in un momento in cui si fa ancora molta confusione tra suicidio assistito, eutanasia, sedazione e cure palliative, in cui al riguardo vedo grossolaneria comunicativa tra politici, giornalisti, comunicatori ed opinion leader, credo si debba insistere sul diritto ad una morte ben accompagnata sia nei bisogni fisici che in quelli psicologici e spirituali. In questo senso le cure palliative sono uno strumento molto efficace, ma ancora non così conosciuto e valorizzato. C’è molta strada da fare per continuare a diffonderne la cultura, e la figura della Doula, che pur si inserisce in spazi lasciati vuoti dalle cure palliative stesse, credo possa aumentare ulteriormente la confusione.
Del tutto d’accordo, Domiziano… infatti qualcuno l’ha subito paragonata all’accabadora!
Molto interessante l’articolo e, per me, assolutamente nuovo, ma condivido l’opinione che forse sarebbe meglio e più equo incrementare la formazione di operatori sanitari in cure palliative e di volontari già coinvolti in questo campo. Probabilmente sarebbe necessario anche “lavorare” di più sulla famiglia creando un maggiore coinvolgimento. Grazie
Grazie a te, Franca, sottoscrivo…
La pervicace specializzazione che attraversa da tempo le società contemporanee affida a saperi esperti, a figure specializzate, processi sociali e culturali, vecchi e nuovi. Ciò credo sia ineluttabile e, per alcune valide ragioni, auspicabile. Questa delega mi pare essere in tensione però con l’indicazione, la richiesta anch’essa auspicabile di riappropriarsi delle ritualità e delle “funzioni sociali” ritenute troppo preziose per essere delegate. Anche questo, forse, è un altro elemento ineluttabile. La coesistenza, la tensione tra queste due forze genera un paradosso, uno dei numerosi delle società ad economia avanzata. La soluzione semplice, veloce e indolore molto probabilmente non esiste o comunque io non la conosco. La vita sociale è complessa e la semplificazione non sempre consente di comprendere e agire nel rispetto delle differenti visioni, valori, desideri.
Le cure palliative rappresentano un modo di organizzare una parte delle pratiche attorno al morire, non l’unico, ma restano a mio avviso una parte fondamentale della soluzione. Morire “male”, morire “bene”, morire “ragionevolmente bene” però non dipende solo dalla presenza di cure palliative – fortemente eterogenee in Italia – che grazie al lavoro e all’impegno di molti oggi sono fortunatamente un diritto, colpevolmente non sempre e non ovunque esercitabile. La morte non è una questione medica, con una valenza sociale. Morte e morire sono questioni sociali, con una valenza medica. Le équipe di cure palliative non potranno mai, da sole, rispondere a bisogni complessi, quantitativamente enormi, molto eterogenei e socialmente/culturalmente molto caldi. Non intendo giudicare le posizioni di alcuno, ma credo che auspicare un ritorno a un passato che oggi può apparire desiderabile oppure identificare figure iper-specializzate che risolvano quasi per incanto i nostri problemi non consenta di apprezzare la complessità delle questioni. Non si tratta di scegliere una soluzione o l’altra. Credo si tratti di parlarne, in luoghi diversi, con molte persone differenti, a lungo. Il tuo blog, Marina, è parte della soluzione. Grazie.
Grazie a te, Matteo. La complessità è indubbia, quando, come nel processo del morire umano, si intrecciano elementi relazionali, sociali, spirituali, medici, psicologici. Le cure palliative non sono la panacea di tutti i mali, ma certo sono anch’esse parte (fondamentale) della soluzione.
Buonasera,
entro in punta di piedi senza aver letto tutti i commenti. L’articolo sì, l’ho letto. Sono una doula allieva, mi sto perciò formando in quella che in tutto e per tutto è una professione normata non sanitaria. Fino ad ora ho praticato solo i tirocini previsti obbligatoriamente dalla scuola, ignara dell’esistenza della doula “della fine della vita”. La doula è quella figura che sta sulla soglia: dal buio uterino alla luce della nascita; è un passaggio-perno questo, attorno al quale ruota tutto il suo lavoro di sostegno alla madre affinché si faciliti il “bonding” con la sua creatura. Perché non avvalersi di una doula anche nell’inverso processo di ritorno, dalla vita alla morte? Perché non avere l’opportunità di creare uno spazio sacro da cui poter lasciare questo mondo allentando gradatamente i legami, raccogliendo gli ultimi doni? Sarebbe forse meno importante rispetto alle sole cure mediche? Trovo che questo compito sia una vera missione di vita. Non escludo di avvicinarmi a questo specifico ambito in futuro partendo dal lutto perinatale. Grazie
Buongiorno Miria, grazie per la sua testimonianza. Certo che accompagnare verso la fine della vita è cruciale…io non ho nulla in contrario sull’esistenza delle doule, non vorrei essere stata fraintesa! Ma un buon accompagnamento è un diritto per tutti i cittadini, come stabilito dalla legge 38/2010, e non dovrebbe essere a pagamento. Le ricordo che le cure palliative non sono solo assistenza medica, ma anche sostegno psicologico, sociale e spirituale… detto questo, se qualcuno volesse avere una “propria” figura di riferimento… perché no. Auguri per la sua professione.