Narrare la fine, di Cristina Vargas
Nel 2019 venne diagnosticato un mieloma multiplo a Marilyn Yalom, studiosa di letteratura francese e autrice di numerosi libri sulla storia delle donne. Nonostante fosse sofferente tanto per causa della malattia che la affliggeva quanto per gli effetti collaterali della chemioterapia, Marilyn, conscia di avere solo alcuni mesi di vita, chiese a suo marito (il noto psichiatra e psicoterapeuta esistenziale Irvin Yalom) di scrivere un libro insieme per documentare le difficoltà di quei mesi finali. I due coniugi ottantasettenni cominciarono a scrivere spinti dal bisogno di trovare significato e soccorso nella scrittura, ma anche dalla speranza di essere utili ad altri che, come loro, stavano lottando contro una malattia terminale. Nacque così il volume “Una questione di morte e di vita” (Neri Pozza, 2022) che, alternando i capitoli fra i due autori, raccoglie in modo profondo e intimo le riflessioni, le emozioni, i pensieri e le sofferenze di ciascuno dei due lungo il percorso di cura. Nelle pagine finali, Irvin, ormai vedovo, si rivolge a Marilyn dicendo “Sei stata così saggia a invitarmi a scrivere questo libro con te… no, no, non è corretto: non mi hai invitato; hai insistito perché mettessi da parte il libro che avevo iniziato e, piuttosto, scrivessi queste pagine insieme a te. E ti sarò per sempre grato per la tua insistenza: questo progetto di scrittura mi ha tenuto in vita da quando sei morta, centoventicinque giorni fa.”
Meglio di qualsiasi riflessione teorica, queste parole colgono con vivida chiarezza il ruolo della narrazione nelle fasi finali della vita e nel lutto. Byron Good, antropologo e pioniere nel campo della medicina narrativa, descrive il narrare come “uno sforzo di dare forma al dolore, di dare nome alle sue origini nel tempo e nello spazio”. Raccontare è proprio questo, non tanto (o non solo) un modo per registrare o ripercorrere gli eventi vissuti, ma soprattutto un atto che conferisce significato all’esperienza, costruendo una trama che aiuta a integrare la sofferenza e la perdita nella propria autobiografia.
Nel fine vita e nel percorso di elaborazione del lutto la narrazione è infatti una risorsa importante, che ha lo straordinario potere di restituire, quantomeno parzialmente, un senso a un tempo sovente percepito come vuoto, caotico, incerto e disorientante.
La narrazione, e in particolare la narrazione autobiografica, è uno strumento terapeutico che integra e arricchisce il lavoro degli operatori sanitari. Si pensi, ad esempio, alle numerose esperienze di medicina narrativa nelle cure palliative e nell’assistenza ai pazienti affetti da malattie cronico-degenerative; oppure alla terapia della dignità di Harvey Max Chochinov, un intervento psicologico che aiuta il malato a soffermarsi sulle cose che per lui contano di più sul piano esistenziale e che vorrebbe fossero ricordate dalle sue persone care, per aiutarlo a produrre una testimonianza scritta da lasciare ai suoi parenti e amici.
La narrazione è anche una straordinaria risorsa nelle mani di chiunque abbia il desiderio e la motivazione di dare parola al proprio vissuto. Christine Valentine, ricercatrice dell’Università di Bath, ha mostrato come le bereavement narratives siano un modo per preservare il legame con le persone scomparse e per socializzare il dolore del lutto, affrontandolo senza tuttavia patologizzarlo.
Nella mia esperienza di lavoro nel campo del fine vita ho incontrato molte persone che hanno trovato forza e conforto nella scrittura e in altre forme di narrazione. Per alcuni il bisogno di raccontare la propria esperienza è molto forte. Nelle riunioni dei gruppi di Auto Mutuo Aiuto, una delle donne ricordava come nei primi mesi si sentiva quasi soffocata dall’urgenza di parlare della malattia e della morte di suo figlio. Aveva quindi deciso di cominciare a scrivere un diario e, sulle pagine, aveva riversato le parole che premevano per uscire dalle sue labbra e che non sempre poteva pronunciare. Un uomo, invece, aveva usato la scrittura per riorganizzare la memoria di sua moglie scomparsa. Nei primi mesi, egli era attanagliato da timore di dimenticarla e, simultaneamente, faceva un’enorme fatica a ricordare: guardare le foto di lei era straziante e le uniche immagine che gli veniva spontanee erano quelle degli ultimissimi giorni in ospedale. Con sforzo, un giorno come tanti altri si era messo davanti al computer e aveva intrapreso il compito di scrivere i ricordi della vita trascorsa insieme. Gradualmente, egli era riuscito a ricontattare momenti felici, piccoli aneddoti, persino liti e discussioni finite con un abbraccio. Scrivere, inoltre, lo stimolava a “fare” delle cose: telefonare un vecchio amico per ricostruire insieme un episodio di un passato molto lontano; aprire e riordinare i cassetti con i documenti della moglie, che per mesi erano stati intoccabili tanto era doloroso il solo pensiero di avvicinarsi.
Questi due esempi sono eloquenti del ruolo terapeutico della narrazione. Quando raccontiamo si attiva un processo mentale diverso rispetto a quello del pensiero individuale, che sovente assume la forma di un monologo interiore. Raccontare, per quanto si faccia in solitudine, presuppone un atto comunicativo: c’è sempre un “altro” – un lettore, un ascoltatore, un osservatore/osservatrice – al quale “dire” qualcosa. Questo comporta la necessità di spiegare ogni passaggio per renderlo comprensibile al nostro interlocutore; obbliga a trovare le parole giuste per esprimere sensazioni ed emozioni che sovente sono confuse e soverchianti; spinge a esplorare la propria interiorità, a cercare di comprenderla, per poterla condividere con altri.
Che si tratti di storie orali, di scrittura autobiografica oppure di narrazioni che usano altri linguaggi artistici, il narrare è un movimento all’insegna dell’incontro, dell’apertura e della condivisione; un viaggio dentro il sé che, simultaneamente, avvicina all’altro, sostenendo chi soffre nel lungo processo di riconnettersi con la vita.
Voi avete mai usato la scrittura autobiografica o la narrazione in momenti di sofferenza? quale ruolo ha avuto per voi l’esperienza di raccontarvi?
IL VALORE DELLA NARRAZIONE DI UN PROFONDO VISSUTO CONDIVISO
Di tanto in tanto, o forse un po’ più spesso, attraverso testimonianze dirette o indirette si vengono a conoscere esperienze in merito ad un vissuto di sofferenza a causa di gravi dispiaceri, ma soprattutto per aver contratto una malattia importante il cui exitus lo si dava più o meno per scontato. Sono testimonianze che dire toccanti pare essere un eufemismo, ma a ben considerare immergersi ed immedesimarsi in esse non può che richiedere sensibilità, e al tempo stesso delicatezza per il rispetto della dignità e della privacy, sia della persona colpita dall’esperienza che dai suoi più intimi famigliari. La volontà-desiderio di narrare da parte degli interessati, come ad esempio della studiosa di letteratura francese Marilyn Yalom, colpita da mieloma multiplo (e poi deceduta), io credo che sia uno stimolo per dar maggior valore alla comprensione-accettazione dell’esperienza in corso, ma anche quale invito per i lettori a riflettere sul fatto che il fine vita è una tappa ineludibile, ma al tempo stesso un invito a “riconsiderare” i molti preziosi valori della vita, oltre naturalmente (ma senza censo) alla particolare dedizione di quanti si sono prodigati e si prodigano per le lenire le sofferenze umane. Il fatto, inoltre, come nel caso della dr.ssa Yalom, ci sia stato il desidero-necessità di dare corso, congiuntamente al marito, alla stesura della sua esperienza, è un valore aggiunto ma anche la massima espressione di una maturità interiore che, probabilmente, a mio avviso, ha avuto una funzione “lenitiva” dal punto di vista psico-fisico. La delicatezza con la quale il marito Irvin, psichiatra e psicoterapeuta, si sia espresso nei confronti della moglie attribuendole saggezza perché invitato a scrivere insieme un’opera “auto-riflessiva” dal titolo Una questione di morte e di vita), è stato un gesto di “merito” letterario ma anche di riconoscenza, in quanto ha contribuito a tenerlo in vita nei giorni a venire… È evidente che la narrazione in questi casi ha un incisivo potere coinvolgente, e il fatto di redarre a due mani, ne conferma la consistenza spirituale, magari rapportata ad un credo (qualunque esso sia) peraltro non privo di effetti terapeutici… Ecco che utilizzare la narrazione, il far sapere e il coinvolgere anche i più “distratti” del pianeta, può (o potrebbe) in taluni casi consolidare i rapporti umani, ancorché intimi e famigliari. Vorrei concludere prendendo a “prestito” ciò che sosteneva William Shakespeare (1564.1616): «Date parole al dolore: la sofferenza interiore che non parla, sussurra al cuore troppo gonfio fino a quando si spezza». Mi scusino i lettori amanti di questo sito che mi ospita, non solo perché mi sono limitato a recepire uno stralcio della pubblicazione degli autori citata, ma il modesto contributo di queste sintetiche riflessioni, non esula certo dalla mia volontà di comprendere ciò che i miei simili ci hanno voluto trasmettere.
Ernesto Bodini (giornalista e biografo)
Mia moglie, nell’ottobre di nove anni fa, fu vittima di un investimento mentre era in bicicletta. Venne salvata dall’intervento provvidenziale di un medico, che era nei paraggi per caso. Dopo una delicata operazione e una settimana di coma iniziò un lungo percorso di recupero, che le restituì la vita di prima, sia pure con alcune menomazioni irreparabili. Nata due volte, in qualche modo. Di quel periodo ricordo soprattutto due cose: alcuni piccoli episodi, legati soprattutto alle prime fasi del percorso di cura e riabilitazione, e poi il fatto che sembrava che il tempo si fosse fermato. Ho cercato di tradurre in parole queste due circostanze: qualche volta ci sono riuscito, altre volte mi sono come bloccato. In entrambi i casi non si è trattato di un’analisi oggettiva (non avrebbe avuto senso: non per me, non in quel momento o nei momenti successivi nei quali volevo mettere ordine in quello che era accaduto), né di un diario, perché quello che premeva per uscire era l’urgenza di dare un senso a qualcosa che un senso non lo aveva.
Mi permetto anche di segnalare un lavoro di un sociologo dell’Università di Trento, Luca Fazzi: Il lavoro con gli anziani in casa di riposo (Maggioli, 2013). Il tiolo è ingannevole, perché sembra un manuale per operatori socio-sanitari o un’analisi organizzativa. In realtà, se da un lato riporta episodi che contribuiscono a fare luce sulla divergenza tra finalismi dichiarati e finalismi effettivi di queste strutture, è soprattutto il tentativo di raccontare, di “liberarsi” dalla fatica di accompagnare una persona cara verso la fine.
Grazie mille Giorgio, credo che il senso della narrazione si a proprio questo: non tanto ricostruire un momento in modo oggettivo, ma dare senso ad un’esperienza dolorosa.
Il valore della narrazione, il suo ruolo terapeutico e di cura, così come i vari benefici connessi, sono dati ormai ampiamente conosciuti e validati ovunque. Quello che invece manca o al massimo è appena accennato, riguarda tutta l’altra faccia della medaglia: i limiti, i pregiudizi, le fragilità, i dubbi relativi appunto alla narrazione. E’ difficile parlarne, da un lato perché tutto ciò che funziona e ha successo diventa inviolabile, inattaccabile e certo, dall’altro perché i pensieri fuori dal coro spesso turbano l’ordine e l’equilibrio precostituito e quindi creano ansia e irrigidimento.
Personalmente mi affascina di più ‘il lato oscuro’ della narrazione nel lutto e nelle esperienze di malattia rispetto a tutto ciò che si trova ormai ovunque in libri, convegni, percorsi di formazione, video, condivisioni di esperienze… perché ritengo che evidenziare tutto ciò che costituisca in generale un limite o una carenza, non indebolisca ma rafforza ciò di cui parla, in questo caso le varie tipologie narrative; permette infatti di circoscriverle con più precisione, di capire quando siano efficaci e quando meno, quali i punti di forza e quali di debolezza, perciò da considerare per evitare errori.
Sottolineo solo brevemente alcuni di questi limiti che ho sperimentato in prima persona in tante attività narrative nel lutto in questi trent’anni (tramite autobiografie, corrispondenze scritte, gruppi di auto aiuto, incontri individuali) e che ho trovato sia in altri operatori sul campo sia in studiosi e teorici:
– le narrazioni autobiografiche contengono spesso omissioni, tagli, modifiche, semplificazioni o al contrario generalizzazioni, i racconti sono sovente narcisistici, retorici, si presentano come paradigmatici, i contenuti non sono quindi (ovviamente non sempre) né veri né veritieri
– la narrazione come scambio tra due o più persone non è di per sé curativa né terapeutica: è molto presente almeno in Italia questo ‘pensiero magico’ che attribuisce al narrare, per il solo fatto che accade, un potere ricostituivo dell’esistenza dopo una perdita. Serve senza dubbio a diminuire il dolore, alleggerire l’ansia, trovare contatti umani più profondi ma non attiva un processo rigenerativo che ha bisogno di ben altro: è di sicuro di grande efficacia per chi è triste dopo una perdita, non per chi è disperato
– il linguaggio verbale e scritto della propria condizione esistenziale, non modifica il pensiero e le azioni individuali solo perché è esplicitato e donato ad altri; magari fosse così, magari bastasse questo per riprogettare la propria vita: deve essere specificato, accompagnato, modificato, collegato al suo interno, analizzato e ridetto.
E’, per provare a dirlo con altre parole, il processo che si attiva attraverso la narrazione che può incidere in maniera significativa, non il fatto che le persone semplicemente narrino del loro dolore o angoscia. Per chi si occupa di questo ambito, che sia un professionista nella relazione d’aiuto, un volontario, un operatore sociale o medico, un amico o un famigliare, un cerimoniere funebre…, guidare questo processo narrativo, non il suo contenuto, significa offrire a chi vive un lutto una possibilità in più per riprogettare la sua esistenza devastata.
Grazie mille Nicola, mi sembrano riflessioni molto utili ad integrare le riflessioni che ho voluto proporre a partire da esperienze positive di uso della narrazione. Condivido l’idea che evidenziare i limiti degli approcci narrativi sia necessario, specialmente per chi è nel ruolo di operatore. Forse potrebbe anche essere uno spunto utile per futuri articoli!
Poco dopo la morte di mio marito ho cominciato ad annotare in maniera quasi maniacale ogni mio pensiero, le forme che via via prendeva il mio inesauribile dolore, tutti i dettagli dei pochi minuti in cui lui moriva per infarto a 43 anni senza lasciarmi il tempo di chiamare l’ambulanza, e soprattutto i ricordi, per paura che scivolassero via troppo presto. Credo che darsi la possibilità di mettere in parola il dolore sia uno strumento terapeutico molto efficace, perché consente, per dirla molto banalmente, di dare un nome a quello che si prova e di poterlo così “maneggiare” senza farsene sopraffare. Dopo qualche anno, quel mio diario, scaturito dal bisogno di placare l’angoscia che mi attraversava, è diventato un romanzo, ho cioè dato una nuova forma alla narrazione che, da autobiografia e autoterapia, è diventata racconto per altri. In questo ulteriore passaggio ho compreso come, grazie alla distanza resa possibile da una scrittura più organizzata, un evento tanto doloroso sia diventato qualcosa che poteva effettivamente essere raccontato, qualcosa che non apparteneva più soltanto al regno dell’indicibile. Magnifico in questo senso è il racconto del proprio lutto che Julian Barnes fa in “Livelli di vita”.
Grazie mille Sabina! È stato un piacere incontrarti e conoscere il tuo lavoro e la tua storia.
Grazie davvero Ernesto per questo contributo!