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“Get ready with my boyfriend’s funeral”. Il lutto su Tik Tok, di Davide Sisto

Recentemente, durante un mio incontro pubblico sui temi della morte digitale, una partecipante mi ha chiesto un parere riguardo alla versione funebre del celeberrimo acronimo GRWM usato su Tik Tok, YouTube e Instagram. L’acronimo sta per “Get Ready With Me”, “preparati con me” o “prepariamoci insieme”, e indica l’abitudine – da parte soprattutto degli utenti social più giovani – di creare dei tutorial relativi al make-up e al look da indossare durante specifiche circostanze, per lo più solari e disimpegnate. Siamo oramai tutti consapevoli di quanto sui social media vada di moda questo tipo di tutorial, per mezzo dei quali gli influencer sponsorizzano o, comunque, consigliano abiti, modi per fare la perfetta skin care e cose simili. Non immaginavo, però, che spopolasse anche la seguente versione dell’acronimo indicato: “get ready with me for my boyfriend’s funeral” o “get ready with me for my mom’s funeral”. Dietro queste sigle si nascondono centinaia, se non addirittura migliaia, di video in cui vediamo persone molto giovani che si truccano o si vestono davanti alla telecamera in vista della partecipazione al funerale del proprio partner o genitore. I video durano uno o due minuti, hanno generalmente un sottofondo musicale malinconico e contengono qualche concisa frase di spiegazione. In realtà, il funerale solitamente ha già avuto luogo. Il video è, dunque, una specie di messinscena per sottolineare un momento particolare del lutto appena avvenuto, su cui spesso si pone poca attenzione: appunto, il momento preciso in cui ci si deve vestire e truccare per andare al funerale di una persona amata, quindi una situazione di estremo dolore legata a una perdita appena avvenuta. I video, generalmente, uniscono atmosfere drammatiche con altre più ilari o ironiche, guadagnando milioni di visualizzazioni e di like, nonché centinaia di migliaia di commenti di coetanei che raccontano esperienze luttuose simili o che condividono il proprio calore virtuale alla persona immortalata.

Ne cito un paio: Karine, una ragazza che ha appena perso la madre, la quale in un minuto di video mostra il tipo di make up e di abito nero che ha indossato per il suo funerale. Gli hashtag usati, oltre a GRWM, sono #funeral #fyp #foryoupage #foryou. Il video, in cui vediamo la ragazza a tratti in lacrime a tratti con un sorriso disincantato, conta quasi diciotto mila commenti, nonché più di due milioni di like. Ancora più significativo è il video dell’influencer Paige Gallagher che si è truccata davanti alla telecamera per la morte del suo compagno. Durante il video chiede a chi ha vissuto un lutto significativo se ha avuto, durante la fase del rito funebre, la sensazione simile alla sua di essere dentro un gioco in realtà virtuale, in cui si perde il contatto con la tangibilità del reale. Tra i milioni di followers che hanno visto il video alcuni la ringraziano per dare testimonianza a questa particolare situazione del lutto, altri invece la condannano radicalmente. Costoro ritengono, infatti, che sia di cattivo gusto ridurre il necessario raccoglimento per la perdita patita all’ennesima esposizione narcisistica di sé, dando rilievo a cose del tutto futili come l’abito o il make up per andare al funerale.

Durante gli ultimi giorni ho osservato numerosi video simili su Tik Tok per cercare di farmi un’idea sul valore di questa particolare scelta. Da una parte, mi sembra che la versione funebre del GRWM sia parente di tutte quelle iniziative che hanno finora segnato la presenza della morte sui social media, come – per esempio – i selfie ai funerali condivisi su Instagram qualche anno fa o i video narrativi sulla perdita di un genitore condivisi su YouTube. Queste iniziative, per lo più portate avanti da persone molto giovani, tendono a creare narrazioni in parte drammatiche in parte ironiche, cercando quindi di condividere pubblicamente il proprio dolore mediante scelte stilistiche agrodolci. La condivisione pubblica del dolore, unito a una qualche forma di ironia, nasconde l’esigenza di parlare insieme ai propri coetanei del lutto, di mostrarne i segni, di invitare a ritrovare nel tempo la risata e dunque di eliminare quel carattere di riservatezza che, almeno per alcuni, genera più sofferenza che sollievo. Inoltre, va detto che la scelta del look per la partecipazione al funerale richiama alla mente svariate ritualità funebri, ciascuna con le sue regole e le sue abitudini. Ci sono, come sappiamo, culture che danno un’importanza fondamentale al modo di presentarsi al funerale. Dunque, non c’è niente di particolarmente offensivo né di inusuale nel dare spazio visivo, sui social, a questo tipo di preparazione, magari determinando una riflessione collettiva sul tema. Inoltre, è sempre molto difficile dover giudicare in maniera radicalmente netta registri comportamentali e stilistici spesso molto differenti, come quelli che separano le generazioni pre-social da quelle abituate a usarli quotidianamente. Se questo tipo di iniziativa è una scusa per affrontare il lutto in pubblico e per ragionare sul dolore che accompagna il rito funebre, allora non mi pare che ci sia nulla di male.
Dall’altra parte, ovviamente, il dubbio che la messinscena a funerale avvenuto nasconda, dietro un proposito positivo, la mera capitalizzazione del like e della visibilità è altrettanto plausibile. Quando qualcosa diventa tendenza, rischia molto spesso di creare atteggiamenti superficiali o tesi semplicemente a trarre vantaggi dalla fragilità ostentata. E se l’essere umano di per sé è abile a mostrare il peggio di sé anche nelle circostanze in cui si richiede empatia, raccoglimento e calore reciproco, allora non c’è da stupirsi se qualcuno si approfitta della versione funebre del GRWM per trarre vantaggi economici o di mera visibilità.

Da studioso dei meccanismi che caratterizzano le relazioni sui social in presenza di un lutto riesco a vedere gli elementi positivi di questa nuova iniziativa, che spinge le persone più giovani a mettere in discussione una certa riservatezza, a volte ipocrita, a volte figlia dell’imbarazzo relazionale, che caratterizza i primi momenti di una perdita. Per me il bicchiere è mezzo pieno, non mezzo vuoto. Ovviamente, occorre fare attenzione affinché non si banalizzi un momento così delicato come quello relativo al rito funebre. Ma questa attenzione vale sia dentro che fuori i social media.

Voi cosa ne pensate? Vi sembra una scelta inopportuna? Oppure, trovate un aspetto positivo in questo tipo di iniziativa? Ancora: cogliete in cose del genere un distacco generazionale piuttosto marcato? Attendiamo le vostre risposte.

La doppia morte degli indigeni wayuu, di Ana Cristina Vargas

Come antropologa mi sono a lungo interrogata sul tema della morte e sui diversi modi in cui le varie società umane conferiscono significato e ritualizzano il fine vita. Uno dei primi popoli presso cui ho avuto l’opportunità di svolgere ricerche etnografiche sono i wayuu, una delle più grandi comunità indigene della Guajira Colombiana e del Venezuela.

Quando giunsi per la prima volta nella Guajira, più di quindici anni fa, il mio obiettivo prioritario era quello di documentare la storia del massacro di Bahía Portete, avvenuto nell’ambito del conflitto armato colombiano. Questo massacro fu uno dei più drammatici eventi di violenza estrema ai danni dei wayuu durante l’espansione dei gruppi paramilitari nell’Alta Guajira, il loro territorio ancestrale. Il bilancio delle vittime non è mai stato chiarito ufficialmente, ma si parla di oltre cinquanta persone uccise, sottoposte a brutali mutilazioni e torture. Il cimitero, inoltre, fu brutalmente profanato e le ossa furono dissotterrate. Nel clima di negazione che caratterizzava quegli anni, la commissione che curò l’indagine escluse ogni responsabilità dello Stato e identificò come causa del massacro le dispute interne fra le famiglie indigene, coinvolte nella lotta per il controllo del traffico di benzina, droga e armi. Le vittime, insomma, vennero colpevolizzate in virtù della loro storia di regolazione autonoma dei conflitti interni e il governo – più volte sotto accusa non solo per la sua incapacità di proteggere i popoli nativi dalla violenza paramilitare, ma addirittura per la loro collaborazione con questi gruppi – se ne lavò le mani. Per contrastare questa lettura, nel mio lavoro (come in quello di altri studiosi e attivisti che si sono concentrati su questo caso), divenne prioritario conoscere l’organizzazione sociale wayuu e, nel farlo, ho realizzato che i riti funebri erano una vera e propria chiave di volta per comprendere la cultura e la storia di questo popolo.

Il ciclo della ritualità funebre wayuu è molto lungo ed è articolato in due grandi riti.

Subito dopo il decesso si svolge il primo funerale, che dura sette giorni e sette notti. Seduta sulla sua amaca Maria Apushana, una delle anziane del piccolo villaggio dove alloggiavo, descriveva questo rito come una grande celebrazione, con duecento, trecento invitati. Con orgoglio, l’anziana raccontava il grande funerale che era stato organizzato in onore di suo nonno; del suo viaggio per raggiungere il villaggio in cui si sarebbe svolta la veglia; delle amache che ognuno appendeva per dormire; delle moltissime capre che erano state sacrificate e mangiate dagli ospiti (e che avrebbero accompagnato lo spirito del defunto nell’aldilà); dei liquori – la chicha e il chirrinchi – che bevevano gli uomini mentre raccontavano aneddoti e ricordavano il defunto e, soprattutto, dei pianti cadenzati e ritmici che lei e le altre donne avevano intonato ininterrottamente, per non lasciare mai da solo il nonno nel suo viaggio. Al termine, come è consuetudine, il cadavere era stato temporaneamente seppellito in un cimitero vicino al luogo del decesso.

Il primo funerale è un evento importante della vita sociale di tutto il gruppo familiare. Nei funerali, più che in qualsiasi altra occasione, è essenziale dimostrare la generosità della propria famiglia e invitare qualcuno al proprio funerale futuro è ritenuto un gesto di cortesia, ospitalità e amicizia.

Dopo un lasso di tempo che può variare da due a sei – sette anni, quando si sono conclusi i processi di decomposizione e sono stati radunati i soldi necessari, viene realizzato il secondo funerale. Le ossa  vengono riesumate, lavate con cura e, dopo una veglia di nove notti a cui partecipa solo il gruppo familiare ristretto, vengono trasferite al cimitero del clan matrilineare o apushi. Questo luogo ha un’importanza fondamentale perché non solo sancisce sul piano simbolico il legame fra il clan e il suo territorio, ma ne attesta l’effettiva proprietà al pari di un documento catastale. Quando un defunto viene seppellito in un luogo lontano da quello del proprio clan, cosa molto frequente data l’elevata mobilità del popolo wayuu, è un dovere sociale portare via i resti dal cimitero in cui erano state temporaneamente deposte per ricollocarle nel cimitero del suo apushi: se non lo si fa, “qualcuno” potrebbe pensare che si stia cercando di avanzare delle pretese su quella terra. La distruzione del cimitero e la profanazione delle tombe che ebbe luogo nel drammatico momento del massacro aveva quindi un significato ben preciso: si è trattato di un’aggressione contro la sfera simbolico-culturale e contro il legame fra questo popolo e il territorio.

Il doppio funerale è un tema classico dell’antropologia della morte. Robert Hertz, allievo di Émile Durkeheim e uno dei primi antropologi a occuparsi in modo sistematico delle rappresentazioni collettive della morte, analizzò il rito della doppia sepoltura in area indonesiana, soffermandosi in particolare sulle tradizioni dei Dayak del Borneo. Hertz osservò che mentre nel mondo Occidentale la morte era per lo più intesa come un evento puntuale, collocabile nel preciso istante dell’ultimo respiro, per questo popolo la morte era invece pensata come un processo piuttosto lungo, che si sovrapponeva solo in parte al momento della morte biologica.

Anche nel ciclo funebre wayuu la simbologia e la ritualità rimandano a un’idea di transito, di viaggio, di trasformazione. Le due fasi del ciclo rituale infatti rispecchiano l’idea di una morte che avviene in due fasi. La morte fisica è considerata la “prima morte” del soggetto, durante la quale si verifica una separazione dello spirito dal corpo del defunto. Poche ore dopo il decesso, lo spirito diventa yoluja e inizia a percorrere il “sentiero degli indiani morti” che porta a Jepirra, il luogo dei morti. Sebbene “sopravviva” alla separazione dal corpo, l’anima, per i wayuu, non è immortale. La “seconda morte” o la “morte definitiva” della persona, come in molte culture di area Mesoamericana, corrisponde al sopravvento dell’oblio. Il yoluja (ovvero l’anima, lo spirito) muore quando nessuno fra i vivi ricorda più quella particolare persona e si sono dunque perse le tracce della sua individualità. Il secondo funerale e il sopravvento dell’oblio sono due eventi che non coincidono a livello temporale, ma che hanno un significato sociale per certi versi simile, nel senso che in entrambi i casi hanno a che fare con l’individualità che scompare per dissolversi in una dimensione collettiva.

Poiché il yoluja può comunicare con i vivi attraverso i sogni, ed è considerato per molti versi ancora parte attiva e presente della comunità, potremmo dire che per i wayuu la morte fisica e la morte sociale sono due cose ben diverse. La permanenza, per questo popolo, è saldamente ancorata alla memoria: ricordare, e tramandare il ricordo di chi muore è l’unico modo per prolungare l’esistenza e per preservare la presenza simbolica dei defunti.

Cosa ne pensate di questo modo di coltivare la memoria e di permettere l’oblio?

La vita nel rito funebre Bororo, di Elisabetta Gatto

bororoI riti di morte, oltre alla celebrazione del defunto, sono una risposta all’irrefrenabile pulsione vitale dei vivi. Il rito funebre può, infatti, essere identificato come un rito di passaggio, che celebra la morte come avvenimento di transizione non solo per il defunto, ma anche per i vivi: la morte produce di fatto una crepa all’interno dell’armonia del gruppo sociale, e il rito funebre permette alla comunità di integrarla, di rigenerarsi e di prepararsi all’inizio di un ordine nuovo. Il funerale diviene l’occasione per la comunità di riaffermare, attraverso una socialità più intensa, la propria identità e di mettere in scena nella cornice delle pratiche tradizionali la forza vitale del gruppo.

Tra i Bororo del Mato Grosso, in Brasile, il rito funebre è il più carico di significati simbolici e quello che meglio esprime la loro identità culturale. Quando un Bororo muore, il suo cadavere viene deposto al centro del villaggio in una fossa di circa mezzo metro di profondità e coperto con una foglia di palma. È questa la prima sepoltura, che inaugura un periodo di lutto, osservato per circa tre mesi, durante i quali il tumulo viene bagnato varie volte con acqua e erbe per accelerare il processo di decomposizione della carne. Dopo tre mesi, infatti, vengono riesumate solo le ossa, considerate la parte più duratura del corpo umano, alle quali è riservata una particolare cura: vengono ripulite, dipinte con un pigmento rosso (urucù, anatto), decorate con piume di uccello e poi disposte in una grande cesta funebre dipinta con i colori distintivi del clan del defunto e ornata con la visiera e il pariko, il diadema di penne di pappagallo ara che è simbolo dell’identità bororo, infine deposta fuori dal villaggio. È curioso che gli stessi ornamenti usati dai Bororo per rivestire il teschio del defunto siano usati nel rito di nominazione – un potente rito di vita – al momento della foratura del labbro dei bambini. Il funerale, inoltre, è l’occasione per celebrare un altro rito di passaggio: l’iniziazione dei ragazzi del villaggio. Si intende in questo modo celebrare, insieme alla morte, la rinascita.

Dopo la sepoltura, gli abitanti del villaggio intonano canti accompagnati dal suono del bapo, un sonaglio ricavato da una zucca riempita di semi duri o piccole pietre, e danzano attorno al tumulo, impersonando gli antenati con pitture facciali e ornamenti. Le donne in lutto si strappano i capelli, raccolti poi in una treccia da portare avvolta al braccio sinistro o attorno alla testa come ornamento rituale che attesta la condizione di lutto.

Gli uomini partono per la caccia in onore del defunto. La famiglia in lutto dona al cacciatore più abile la treccia di capelli e un powari, una zucca forata, rivestita di penne di uccello con i colori distintivi del clan del defunto: si crede che il suono che produce sia il canto dello spirito del morto. Con questa consegna il cacciatore riceve l’incarico di vendicare il defunto, uccidendo un giaguaro, ritenuto l’incarnazione dello spirito maligno e la causa di quella morte. Uccisa la belva, il cacciatore ne consegna la pelle alla madre del defunto come risarcimento per la perdita perché la usi come tappeto. Vengono utilizzati come ricompensa rituale anche i denti e le unghie del giaguaro, con cui si realizzano rispettivamente una collana e una corona. L’offerta dell’animale riparatore al clan del defunto assume la funzione di ristabilire i giusti rapporti tra gli uomini.

Negli ultimi tre giorni del rito funebre nella capanna centrale gli uomini del villaggio, indossati gli ornamenti tradizionali, intonano un lungo canto lugubre, cadenzato al suono del bapo.

Un anziano è incaricato di richiamare lo spirito del defunto perché si manifesti un’ultima volta: rivestito con un lungo perizoma di foglie di palma, una cavigliera di unghie di cinghiale, il pariko in testa e un tessuto a larga trama davanti al viso, si dirige danzando verso il cortile del villaggio insieme a un corteo, si avvicina a un fuoco e vi getta tutto ciò che apparteneva al defunto quando era in vita. Si crede infatti che il suo ricordo sarà mantenuto vivo non attraverso ciò che possedeva, ma attraverso i suoi insegnamenti. Vengono poi richiamati gli spiriti della natura: questo è un rituale al quale è concesso solo agli uomini partecipare. Il rito funebre è dunque un tempo collettivo, a cui il gruppo partecipa a difesa di se stesso e della propria continuità.

 

L’importanza del Commiato

Ieri sono stata al cinema, a vedere il bellissimo e delicato Still Life, storia di un dipendente comunale inglese che ha il compito di trovare i parenti di coloro che sono morti soli. Il film parla di solitudine e di morte, ma soprattutto dell’importanza del commiato.
Anche se non resta nessun vivo a piangere un essere umano scomparso, ricordare chi ha attraversato la vita, anche se la traccia che ha lasciato è lieve, fa parte dell’umanità dell’uomo. E il protagonista del film, il signor May, prende sul serio il suo compito, fa ricerche accurate sui suoi defunti, scrive per loro orazioni funebri e sceglie musiche appropriate.
«Il funerale si fa per i vivi, i morti se ne fregano», gli dice il suo capo quando decide di licenziarlo.
Ma è proprio così? Siamo legittimati a smaltire velocemente un cadavere se non ci sono parenti addolorati? Credo di no, e forse è per questo che il film ha commosso moltissimi spettatori. Nel gesto di ricordare e salutare un uomo morto c’è il rispetto per l’umano, per la vita vissuta, c’è la comprensione per le vite sfortunate o cattive e l’ammirazione per quelle buone, c’è la pietà per la mortalità dell’uomo, c’è il sentimento della nostra fragilità, c’è la consapevolezza del mistero.
E d’altra parte noi, in questo inizio di terzo millennio, siamo in bilico, per quanto riguarda i riti funebri. Da un lato quelli del passato sono spesso stanchi e vuoti (recentemente mi è purtroppo accaduto di assistere al funerale di un familiare, e dal parroco visibilmente annoiato ho sentito solo triti luoghi comuni); dall’altro c’è l’esigenza di inventare nuovi modi, condivisi, di celebrare i nostri morti.
Chi di noi non ha qualche volta immaginato di vedere il proprio funerale? Chi non si è rappresentato le persone che potrebbero venire a darci l’ultimo saluto, a raccontare qualcosa di noi? La nostra immaginazione può nutrire, credo, le proposte che un po’ in tutta Italia si stanno facendo per il rito del Commiato laico.
E voi, se doveste compilare un modulo in cui vi è richiesto di descrivere come vorreste il vostro funerale, cosa scrivereste?

Risalendo alle origini del rito laico

Se amate la storia, non perdete il libro, uscito da poco, di Piero Pasini, Venezia in gramaglie. Funerali pubblici nel lungo Ottocento, Il Poligrafo 2013, introdotto da Dino Mengozzi.

I funerali pubblici sono quelli che coinvolgono nel lutto non solo la stretta cerchia di parenti e amici, ma l’intera collettività. Sono funerali che s’intersecano con la dimensione politica, e proprio per questo sono spesso rivelatori dei cambiamenti sociali e culturali in corso.
I funerali pubblici, in età liberale, assumono un significato e un valore pedagogico: i nuovi concetti di Nazione, Patria, Italia, Popolo, Democrazia trovano i loro simboli nella dimensione funeraria, celebrando martiri risorgimentali e uomini politici.

Pasini descrive, come “archetipo” del funerale liberale, quello di Angelo Toffoli, ministro nel primo governo Manin (1848/49), morto nel 1877: il funerale fu finanziato e programmato dall’autorità municipale in ogni dettaglio. Il corteo (laico) si riunì davanti alla casa del defunto alle 9,30 del mattino: pompieri e guardie municipali, banda cittadina, rappresentanze di società politiche e operaie e di mutuo soccorso; solo dopo i sacerdoti, e il feretro, seguito da autorità politiche e sociali, alunni delle scuole e parenti e amici dello scomparso. Alle 10 il corteo s’incamminò verso la chiesa, dove ebbe luogo la cerimonia religiosa. Subito dopo, il corteo riprese il suo cammino, accompagnato dalla banda municipale, per raggiungere il luogo della cerimonia civile: qui sono pronunciati i discorsi sulla bara, posta a terra vicino all’acqua, volti a porre l’accento sulla probità e l’amor patrio del defunto. La bara viene poi posta sulla barca delle pompe funebri, e il corteo si snoda sull’acqua fino all’isola di San Michele. Qui, dopo la benedizione dei padri benedettini, il corteo prosegue verso il sepolcro.

I sacerdoti, scrive Pasini, sono “declassati” in questo funerale, non aprono più il corteo: “La loro funzione consiste nel compito ‘tecnico’ dell’ufficio funebre e dell’assoluzione, ed è solo in chiesa che affermano il loro ruolo sociale”. Il corteo prima della funzione e il rito laico che la segue, e in generale i momenti all’esterno, scanditi dalla musica della banda, sono i momenti centrali del funerale, in cui assumono il massimo rilievo gli stendardi delle associazioni, e la grande folla di veneziani che celebrano un loro patriota.

Il libro di Pasini colma un vuoto storiografico a proposito della riflessione sulla secolarizzazione del rito funebre. Dell’Ottocento erano note le cerimonie rivoluzionarie (prevalentemente in Francia) e quelle dissidenti (socialiste e repubblicane) della seconda metà del secolo. Pasini segue tutto il lungo Ottocento (dal 1797 alla vigilia della Prima guerra mondiale) a Venezia, e aggiunge un tassello importante, dimostrando l’importante ruolo dei funerali pubblici per l’affermarsi della religione civile della Patria e della Nazione operata dai nazionalismi. Il libro è corredato da belle illustrazioni dei funerali veneziani ottocenteschi.

La morte buddhista in Sri Lanka


Cari amici, il silenzio delle ultime settimane è dovuto a un interessante viaggio che ho fatto in Sri Lanka, lussureggiante e affascinante isola a sud est dell’India, con una popolazione a maggioranza buddhista (di tradizione Theravada, la più antica, risalente all’insegnamento del Budda), e con meravigliosi siti archeologici e templi.

Siccome mi è parso che apprezziate le descrizioni dei modi di celebrare la morte diversi dai nostri, vi racconto quel poco che ho potuto vedere e capire in questo primo viaggio singalese, accompagnato dagli scatti che è stato possibile fare. Procedendo faticosamente con uno sgangherato pulmino per le strade dell’isola, scorgevo lungo il tragitto diversi gruppi di semplici tombe, a volte simili, a volte diverse l’una dall’altra. Ho scoperto che in Sri Lanka, nei villaggi, si seppellisce vicino alla propria casa, o in zone identificate come cimiteriali da piccole comunità, senza particolari vincoli. Solo nelle città di maggiori dimensioni ci sono veri e propri cimiteri. In genere, i gruppi religiosi separano le proprie aree da quelle appartenenti a altre confessioni, ma non è raro vedere accostate tombe di defunti di credo differenti.
I cristiani raggruppano le loro semplici croci intorno alle chiese, i buddhisti ornano di drappi bianchi i mucchi di terra fresca che ricopre il corpo dei loro morti. Non tutti i buddhisti, infatti, cremano. La cremazione è costosa e sovente il corpo morto è semplicemente inumato; altre volte, invece, sono le ceneri a essere sepolte e non disperse (nei fiumi, o nella foresta, o nel mare).

E il funerale? Sono riuscita a vederne due di sfuggita, affollati, entrambi buddhisti, che si svolgevano nella casa del defunto, addobbata con bianchi paramenti a lutto. Alcune letture sul buddhismo in Sri Lanka e qualche parola con la nostra guida (un cristiano sposato con una donna buddhista) mi hanno dato qualche elemento in più per comprendere quello che avevo visto. Quando qualcuno muore, la famiglia si reca nel tempio e informa i monaci, invitandoli al funerale. Il corpo resta in casa per un paio di giorni, perché parenti e compaesani possano far visita al defunto. Sri Lanka è un paese prevalentemente rurale, e ha mantenuto tradizioni comuni a molte culture, non ultima anche la nostra in epoca moderna. La famiglia è sostenuta dai vicini, che portano cibo, caffè e the non solo per i familiari, ma anche per i visitatori. Né il defunto né la famiglia vengono lasciati soli. La strada verso il crematorio o il luogo di sepoltura, percorsa a piedi con la bara in spalla, è decorata con foglie di palma da cocco. La cerimonia funebre si svolge prima, in casa.

Dopo la cremazione comincia il periodo del lutto, durante il quale i membri della famiglia indossano semplici abiti bianchi (il colore preposto al cordoglio), non guardano la televisione né ascoltano la radio.
Sette giorni dopo la morte, ci si riunisce nuovamente tutti nella casa del defunto, dove un monaco pronuncia un sermone sul tema buddhista dell’”impermanenza” (il flusso continuo e il cambiamento di tutte le cose) e della morte. Descrive che cosa accade dopo la morte e perché è importante prestare ascolto all’insegnamento del Buddha ed essere generosi in memoria del defunto. I buddhisti ritengono che morire con pensieri sereni crei un’energia positiva che accompagna il defunto nella reincarnazione successiva. Anche la liberalità della famiglia verso gli altri aiuta il defunto a non mancare del necessario nella sua vita futura.

Ciò che caratterizza l’approccio buddhista alla morte è inoltre la pratica della piena consapevolezza di cosa sia veramente la vita, cui ci si allena fin da bambini mediante l’educazione e la meditazione. Buddha ha insegnato la dottrina delle quattro nobili verità. La prima è la constatazione che l’esistenza umana è segnata da insoddisfazione, disagio, dolore: “Questa, monaci, è la nobile verità del dolore, la malattia è dolore, la morte è dolore, l’unione con ciò che non è caro è dolore, la separazione da ciò che è caro è dolore, non ottenere ciò che si desidera è dolore”. La seconda nobile verità individua la causa della sofferenza: l’attaccamento, il desiderio. La sofferenza è provocata dalla brama di godere degli oggetti dei sensi, dalla brama di esistere, o anche dalla brama di cessare di esistere. La terza nobile verità descrive la cura contro il dolore: l’estinzione di questa stessa brama, l’abbandono e il distacco dal desiderio e dall’attaccamento. La quarta verità illustra il sentiero impervio per raggiungere la cessazione della sofferenza: mantenere la giusta visione, la retta intenzione, la retta parola, l’azione giusta, perseguire i corretti mezzi di vita, adottare il retto sforzo, la giusta attenzione e la giusta concentrazione.
La morte, quindi, nella dottrina buddhista, è la più evidente prova dell’impermanenza delle cose e dell’uomo stesso: la migliore medicina contro il dolore che essa provoca è la piena consapevolezza della sua ineluttabilità. Non esiste, infatti, nel buddhismo, un principio personale che persista oltre il cambiamento incessante: nessuna sostanza, nessun io immutabile. L’io dell’uomo è soltanto un’identità convenzionale per attraversare l’esistenza, ma, di fatto, è totalmente mutevole. La saggezza consiste nel “lasciar andare” ciò che è sottoposto alla legge eterna del cambiamento.
Credete che possiamo trarre spunti, noi occidentali, da questa prospettiva? La consapevolezza del continuo mutare di tutti gli esseri possono aiutare, nel tempo del dolore, a non fuggire, e ad accogliere la morte con maggiore naturalezza?

Il lavaggio rituale ebraico


Cari amici, mi prendo una pausa da questa eterna e un po’ vuota discussione sull’eutanasia e il suicidio assistito, per parlarvi di tutt’altro, andando alla ricerca delle mie radici ebraiche un po’ dimenticate. A puntate, se vi interesserà, vorrei raccontarvi il pensiero ebraico di fronte alla morte e al lutto.
Sapete che cosa è la Chevra Kadisha? E’, nell’ebraismo, la sacra confraternita che si occupa di preparare il corpo dei defunti per la sepoltura (formata da membri dello stesso sesso del defunto). Soprattutto in passato, era ritenuto un onore e un privilegio far parte della Chevra Kadisha, riservati a donne e uomini osservanti e pii. La cerimonia di preparazione del corpo si chiama Tahara, e ha tre funzioni: lavare il corpo fisicamente, purificarlo spiritualmente e avvolgerlo nel sudario per poi porlo nella bara.
Dio ha creato l’uomo a sua immagine, e il corpo è dono di Dio: pertanto il corpo, nel pensiero ebraico, possiede dignità e valore, e anche il cadavere è sacro, avendo accolto l’anima. E’ pertanto importante seppellire il corpo nella sua integrità. Qualora vi sia stata una morte violenta, si cerca di raccogliere il sangue versato al di fuori del corpo e seppellirlo insieme a esso. Se gli abiti sono insanguinati, si posano ai piedi del corpo morto, nella bara.
La santità del corpo morto rende intellegibile la complessa cerimonia che si celebra per pulirlo e purificarlo.
Quando qualcuno muore in una comunità, i membri della Chevra Kadisha si recano anonimamente nella casa del defunto, svolgono in silenzio la Tahara, con la massima reverenza nei confronti del defunto, rispettandone il pudore e la dignità, quindi se ne vanno, sempre anonimamente. Il coordinatore della confraternita è responsabile del corretto svolgimento della cerimonia, assegna a ciascun membro il suo compito, controlla se le circostanze richiedano di modificare la normale procedura. Tutti gli accordi vengono presi precedentemente, mai in presenza del defunto, di fronte al quale occorre mantenere il silenzio.
Quando entrano nella stanza della Tahara, i membri della confraternita lavano le mani in modo rituale, e insieme danno inizio alla cerimonia, recitando preghiere in cui si chiede a Dio di perdonare i peccati del defunto e di dargli eterno riposo. Il lavaggio rituale fa parte dei doveri fondamentali richiesti dalla legge ebraica.
Il corpo viene posto supino, con i piedi rivolti verso la porta e coperto con un lenzuolo, i suoi occhi sono chiusi. Di volta in volta è scoperta solo la parte che deve essere lavata, senza mai esporre completamente il corpo allo sguardo, e in particolare il volto e le parti intime del defunto. Il lavaggio comincia dalla testa, prosegue con la mano destra e poi la parte destra del corpo, dall’alto verso il basso. Successivamente, nello stesso ordine, si passa al lato sinistro. Il corpo non è mai messo bocconi, ma solo inclinato, per lavare la parte posteriore. Infine, se il numero dei membri della Chavra Kadisha è sufficiente, il corpo viene tenuto in piedi, e circa ventiquattro litri d’acqua vengono versati sul suo capo.
Quindi il corpo è rivestito con il sudario, uguale per tutti (in nome dell’uguaglianza degli uomini dinanzi a Dio), di lino o cotone bianco, composto da più parti, aggiunte secondo una precisa sequenza, e infine avvolto nel suo scialle di preghiera. La bara viene quindi chiusa: il funerale, che dovrebbe aver luogo prima possibile dopo la Tahara, può avere inizio.
Conoscevate questa usanza ebraica? Che ne dite di una confraternita che si occupi dei defunti?
Non vi nascondo che, nella nostra società, non sono molte le persone che si rendono disponibili per essere membri della Chevra Kadisha. Gli ebrei non sono immuni dalle difficoltà contemporanee nei confronti della morte, specie se vivono in occidente…

Applausi ai funerali?

Avendo in animo di riflettere sull’usanza, che si va diffondendo, di applaudire ai funerali, ho dato un’occhiata al web, e sono rimasta sbalordita. In un paese dove eminenti accademici fanno gesti scaramantici se si nomina la morte, vi è un dibattito acceso sugli applausi ai funerali, pro e contro. Ogni post su questo argomento trascina con sè molti commenti (cfr. www.distantisaluti.com, www.ilpost.it, mysterium.blogosfere.it, www.unavoce-ve.it, eccetera). Perfino una pagina Facebook, “Sostegno per eliminare gli applausi ai funerali o spiegarne l’utilità” (41 mi piace, poi abbandonata). Le posizioni sono contrapposte e viscerali. Chi è contro considera l’applauso una barbarie tutta italiana, un segno del degrado del paese, e ne attribuisce la responsabilità alla televisione, alla spettacolarizzazione della vita e della morte in stile reality, o all’incapacità di reggere il silenzio, o alla fuga di fronte all’angoscia per la morte.
Ho provato a intervistare gli amici. Qualcuno dice: “Nella nostra cultura l’applauso ha tre funzioni: approvazione, incitamento e/o giubilo, o accompagnamento di un ritmo musicale. Cosa hanno a che fare con un funerale? L’approvazione per l’operato del morto si esprime nel pensiero, col silenzio. Se non dovessimo condividere le sue azioni, fischieremmo?”
Ma non tutti sono d’accordo: per alcuni l’applauso è un modo per esprimere ossequio, per rendere onore al defunto, o addirittura riconoscenza e ammirazione, come quando a essere applaudito è un uomo che si è sacrificato per la patria, come il giudice Giovanni Falcone.
C’è anche chi abbozza una sorta di storia dell’applauso. La prima volta che si è applaudito è stato ai funerali di Anna Magnani, 1973:l’ultimo tributo a una grande attrice.
Allora, come vogliamo riflettere su questo applauso?
A me viene in mente innanzitutto Freud. Nelle Considerazioni attuali sulla guerra e la morte (1915), scriveva che di fronte a un morto “assumiamo un atteggiamento del tutto particolare, manifestandogli quasi una sorta di ammirazione, come se avesse compiuto qualche cosa di assai difficile. Ci asteniamo dal criticarlo, gli perdoniamo i suoi eventuali torti, sentenziamo: de mortuis nil nisi bene,e troviamo giusto che nell’orazione funebre e nell’epitaffio non si celebrino che le sue lodi”.
Mi pare che nell’applauso ci sia molto di quest’atteggiamento, che peraltro Freud attribuiva alle convenzioni sociali: atteggiamento del tutto diverso dal crollo da cui siamo colti quando la morte colpisce una persona davvero prossima (ecco perché i parenti non applaudono).
Questo costume funebre può piacere o meno. E certo, per quanto riguarda i riti funebri, ci troviamo in una situazione complessa, come fossimo in mezzo a un guado. Quelli della tradizione sono poco seguiti e non ci coinvolgono più molto. Ma non vediamo l’altra sponda del fiume. In questi decenni, esiste una sorta di fase di sperimentazione rituale: la personalizzazione del rito, le musiche, i discorsi, le letture poetiche o letterarie, i nuovi gesti della cerimonia del Commiato (ad esempio toccare la bara alla fine del rituale, o distribuire agli astanti rose tolte dal cuscino di fiori posato sul coperchio), o anche l’applauso. Ignoriamo quali, tra questi tentativi rituali, si depositeranno a loro volta in tradizione. Siamo, saremo noi a stabilire cosa sparirà, cosa resterà, cosa altro inventeremo. Ma occorre che ci impegniamo in una riflessione più profonda, non basta dichiarare i nostri gusti in fatto di applausi, in un paese dove è ancora difficilissimo organizzare un rito laico. L’applauso, in fondo, è un dettaglio, a fronte della mancanza complessiva di riti socialmente condivisi.

Quale rito funebre laico?

Nella loro forma tradizionale, i funerali cattolici lasciano spesso freddi i partecipanti e inappagati e delusi i familiari di chi non c’è più. Gli operatori funebri e i parroci spesso affermano di essere scandalizzati da quanto i presenti chiacchierino tra loro sottovoce, senza seguire la cerimonia.
Cosa è successo?
Soprattutto in aree urbane e secolarizzate, la fede nell’immortalità dell’anima è scemata, e spesso ai riti funebri ci sono persone che non frequentano la messa e non conoscono il rito (leggete il bel libro di Marco Marzano, Quel che resta dei cattolici, Feltrinelli 2012): il rito cattolico è consolante per chi ha fede nell’aldilà, mentre è vuoto e insensato per chi non crede.
Occorrono alternative. Deve essere accessibile a tutti la celebrazione di un rito laico, che metta al centro la vita del defunto e il suo lascito affettivo, culturale, etico. Musica, discorsi, silenzi, gesti sono gli ingredienti di questo rito personalizzato. Un po’ dappertutto in Italia stanno sorgendo sale del Commiato multiculturali, atte a ospitare funerali laici o di altre religioni.
Purtroppo lo spazio da solo non è sufficiente. Il rito funebre ha diverse funzioni: onorare il defunto, consolare i vivi, riaffermare che la vita della comunità continua nonostante la ferita inferta dalla morte. Per essere efficace, deve avere una struttura e un celebrante. Colpite dal dolore della perdita, spesso le famiglie faticano a organizzare un rito. E spesso il dolore, durante i funerali laici privi di rituale, viene aggravato da un’insopportabile afasia.
Come far capire alle amministrazioni pubbliche che è doveroso non lasciare la ritualità funebre in mano ai privati? Che deve esistere uno spazio comunale per il commiato laico e dei celebranti che lavorino per la municipalità? Se vogliamo far crescere il rispetto per ciò che è pubblico e recuperare il sentimento della cittadinanza attiva e della responsabilità civile, occorre anche esprimere un rimpianto collettivo per un cittadino che muore.

Riti africani

In questo breve racconto, so che non riuscirò a comunicarvi ciò che ho vissuto nella sua totalità, perché le cose paradossalmente muoiono nel momento in cui si scrivono, eppure dalla scrittura nasce sempre del nuovo ed eccomi quindi a voi con la mia storia.
Mi trovavo con mia moglie presso alcuni amici in un paese dell’Africa occidentale, i nostri abitavano in città e ci portarono al villaggio dove continuavano a vivere le rispettive famiglie di origine, lì abbiamo trascorso un periodo di squisita ospitalità.
Un giorno in particolare capitò un evento che coinvolgeva tutta la comunità: una giovane donna era appena deceduta, la sera si sarebbe celebrato il funerale. Parlando io poco il francese e per niente la lingua della zona non so descrivervi i dettagli e le ragioni di quel fatto, ma questa fu un’opportunità più che un limite, ne capirete il perché.
Quella sera quindi m’incamminai con mia moglie e i miei amici su una strada di campi, man mano che procedevamo apparivano dall’oscurità altri compagni che si univano al nostro viaggio, parlavano e ridevano, molto e veloce, per cui faticavo a capire i discorsi, percepivo invece il clima di quel momento, qualcosa stava per succedere.
In poco tempo, eravamo già un centinaio di persone radunate davanti al porticato di una casa isolata; non mi soffermerò sul rituale funebre, che per quanto ricordo è stato molto semplice, vi racconterò piuttosto la parte dominata per tutta la notte dal canto.
Sotto il portico si cominciò a suonare strumenti a percussione, un cantante guidava guardandoci, fui subito rapito dalla bellezza di quei suoni, le struggenti melodie del cantante costruivano armonie sapienti e sorprendenti con i controcanti, danzando gioiosamente sulle percussioni.
Il pathos del cantante ci attraversava tutti e mi ritrovai all’istante travolto da un inarrestabile fiume di lacrime.
Non conoscevo quella donna eppure mi sentivo intimamente unito a queste persone, il dolore della loro perdita abbracciava i dolori delle mie perdite, per qualche ignota magia avevo perso me stesso.
Nei giorni successivi quei canti continuarono a risuonarmi dentro e sentivo che questo era un medicamento che dava senso alla morte, proveniva da una sapienza non intellettuale molto evoluta che parlava un linguaggio comprensibile, questo sì, anche a uno straniero come me.