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Le DAT alla luce del Covid, di Marina Sozzi

Le DAT, ovvero le Disposizioni anticipate di trattamento, la cui validità giuridica è stata stabilita dalla legge 219/2017, sono un tema molto importante, che questo blog ha già trattato in passato. Ad oggi, nonostante siano passati quattro anni dall’approvazione della legge, meno dell’1% della popolazione italiana ha testato. Forse negli ultimi due anni hanno avuto un peso le difficoltà create dalla pandemia ad accedere agli uffici comunali preposti, specialmente nelle grandi città. Tuttavia, la percentuale di testatori è irrisoria.

Le persone faticano a immaginarsi in una situazione in cui non siano più in grado di decidere per sé, e spesso non sono sicuri su cosa sia opportuno scrivere su quel modulo di Disposizioni anticipate di trattamento, o non sanno a chi dare il ruolo di fiduciario.

La pandemia, certo, non ha semplificato le cose.

Alcuni avevano ben chiaro di non voler essere attaccati a ventilatori meccanici, quando pensavano che la respirazione artificiale potesse venir loro applicata a seguito di un gravissimo incidente, ad esempio, col rischio di restare in stato vegetativo permanente, come è accaduto a Eluana Englaro. Non ci aspettavamo, però, che potesse colpirci una malattia infettiva gravissima, che ha compromesso la nostra capacità di respirare, ma dalla quale vi era una possibilità di uscire guariti, perfettamente ristabiliti.

E, d’altro canto, invece, in questa epidemia di Covid, in certi casi aver testato sarebbe stato importante per salvaguardare la propria capacità di scegliere, anche nella situazione convulsa in cui versava la sanità nei momenti di diffusione più rapida del virus.

Non siamo tutti uguali, e ci sono persone, magari molto anziane, o un po’ stanche di vivere, che non avrebbero voluto finire in terapia intensiva qualora si fossero ammalati di Covid, ma solo essere accompagnate da buone cure palliative. Invece, nella maggioranza dei casi, hanno deciso i medici, e sappiamo peraltro dai loro racconti quanto sia stato difficile scegliere tra i pazienti malati di Covid che si recavano in ospedale.

Diceva una dottoressa intervistata da Open nell’aprile 2020: «All’inizio avevo paura. Ora no. Ti abitui alle regole di un ospedale in guerra, ti abitui al terremoto, a prendere una decisione al minuto». Tra cui quella più difficile: «Chi puoi salvare e chi no. Io l’ho fatto e devo conviverci ogni notte». «Marzo è stato il mese peggiore della mia vita, lottavamo contro l’invisibile. I letti in terapia intensiva non bastavano mai. E così capitava che dovendo scegliere tra un paziente settantenne, pieno di complicanze, e un altro che poteva farcela, sceglievi di intubare il secondo, lasciando andare il primo». Una decisione in cui ci si consultava tra colleghi, spiega la dottoressa, «ragioni, rifai i calcoli cento volte, litighi. Ma alla fine decidi».

Alcuni di noi si sono scandalizzati (a mio modo di vedere erroneamente) quando, all’inizio di marzo 2020, la SIAARTI, società scientifica degli anestesisti e dei rianimatori, ha pubblicato un documento in cui dava istruzioni ai colleghi che si trovavano di fronte a una scarsità di risorse in rapporto alla quantità di malati. Scrivevano gli intensivisti che lo squilibrio tra necessità cliniche e disponibilità effettiva delle risorse, li obbligava a utilizzare i criteri tipici della medicina delle catastrofi: «Come estensione del principio di proporzionalità delle cure, l’allocazione in un contesto di grave carenza delle risorse sanitarie deve puntare a garantire i trattamenti di carattere intensivo ai pazienti con maggiori possibilità di successo terapeutico: si tratta dunque di privilegiare la “maggior speranza di vita”. Il bisogno di cure intensive deve pertanto essere integrato con altri elementi di “idoneità clinica” alle cure intensive, comprendendo quindi: il tipo e la gravità della malattia, la presenza di comorbidità, la compromissione di altri organi e apparati e la loro reversibilità.»

Sarebbe cambiato qualcosa se la popolazione avesse in maggioranza testato, esprimendo ad esempio le proprie preferenze riguardo alla ventilazione meccanica? Si sarebbe potuto tener conto di quelle disposizioni, sapendo che erano state scritte in una situazione molto diversa, nella quale le malattie letali erano prevalentemente croniche, e la morte come evento improvviso ce la si sarebbe potuta aspettare soprattutto come conseguenza di gravi incidenti?

Credo che sia giunto il momento di ripensare alle DAT, alla luce del Covid, per fare una campagna rilevante, nazionale, di divulgazione. In questi mesi passati l’ha fatta VIDAS, fondazione milanese che si occupa di cure palliative, che ha promosso l’idea di testare con spot su diversi canali, tv, radio, stampa e digitale, che sono stati fruiti da oltre 23 milioni di utenti. Circa 6.000 persone hanno voluto approfondire, e scaricato la guida presente sul sito VIDAS e il modulo per la stesura delle proprie DAT, messo a punto con la collaborazione della bioeticista Patrizia Borsellino. Lo slogan è stato: “Scelgo adesso, perché posso”. La linea telefonica di prima informazione gestita da volontari ha ricevuto tra ottobre e dicembre decine di richieste da parte di persone interessate e desiderose di approfondire. C’è stato anche un servizio di sportello che ha accompagnato alla redazione del proprio biotestamento, valorizzato come un atto di libertà e autodeterminazione. Sarà poi interessante, a campagna conclusa, capire quanti sono stati i testatori in più, e se nell’area del milanese, dove è stato possibile accedere allo sportello di consulenza, ci sia stato uno spostamento interessante delle percentuali di persone che hanno lasciato le proprie disposizioni.

Se dovesse essere così, si renderebbe evidente che occorre una consulenza per indurre le persone a testare, come dimostrano anche i casi dei paesi dove una campagna nazionale seria è stata fatta, come il Canada (12% della popolazione ha scritto il proprio living will) e gli Stati Uniti (25%).

Ma soprattutto, ritengo che il Covid debba indurci a lasciare le nostre volontà dando non tanto precise indicazioni su ciò che si accetta e ciò che si rifiuta, quanto fornendo la nostra visione filosofica della vita e della morte, delle limitazioni della nostra salute che siamo in grado di accettare, e di quelle che invece renderebbero la nostra esistenza non più meritevole per noi di essere vissuta. E per arrivare a questa visione, occorre che ci vengano poste le giuste domande, che ci facciano riflettere, andando in profondità, sul nostro rapporto con la vita e con la morte.

Che cosa ne pensate? Avete riflettuto sulle DAT durante la pandemia? Secondo voi un medico avrebbe potuto, o dovuto, tener conto del testamento biologico eventualmente presente nel contesto dell’epidemia di Covid-19?

Intensiva.it, di Marina Sozzi

Prima del Covid19, le terapie intensive erano luoghi del tutto sconosciuti alla maggioranza delle persone. Si sapeva, magari, che sono luoghi in cui vengono praticate complesse cure salvavita, talvolta nella più grande incertezza del risultato. Sono luoghi che fanno paura. La mente va a Eluana Englaro e a tutti coloro che la biomedicina ha lasciato sospesi tra la vita e la morte, in stato vegetativo. Per questo nelle disposizioni anticipate di trattamento, rese cogenti in Italia per i medici dalla legge 219/2017, i cittadini che testano lasciano spesso l’opzione di non essere sottoposti a rianimazione cardio-respiratoria, né ad alimentazione artificiale.

La conoscenza delle terapie intensive non è molto migliorata con il Covid, a parte i numeri che vengono forniti quotidianamente, e che quantificano il grado di saturazione delle terapie intensive in Italia. Si sa che all’inizio della pandemia erano presenti circa 5179 posti letto in terapia intensiva, e che durante questo terribile anno sono stati portati a 6.458. Ma poco sappiamo di cosa accade in una terapia intensiva. Da quando c’è la pandemia, chi viene ricoverato in ospedale e poi magari in terapia intensiva sparisce quasi nel nulla, a parte le telefonate che i familiari ricevono dai curanti.

Parlando con i rianimatori, sappiamo che la mortalità in terapia intensiva prima del Covid si aggirava tra 22 e 25% circa, mentre con il Covid è brutalmente salita al 50%, con grave disagio e angoscia degli stessi operatori.

È bene tuttavia essere al corrente di un mutamento in corso: come è già accaduto in altre branche della medicina, anche i rianimatori si stanno interrogando sul proprio operato e sull’appropriatezza delle terapie e degli interventi, e stanno lavorando per migliorare la comunicazione con pazienti e familiari, nell’ottica di un’umanizzazione di questi reparti.

Mi fa piacere segnalare un gruppo di intensivisti, sostenuti dalle loro società scientifiche e dai sindacati (SIAARTI, ANIARTI, AAROI-EMAC) sparsi negli ospedali di tutta Italia che da anni stanno conducendo un lavoro eccellente (cominciato ben prima del Covid e portato avanti indipendentemente dall’epidemia) per modificare le prassi delle terapie intensive, a beneficio di pazienti, familiari e operatori. Hanno costruito un sito, www.intensiva.it,  che in Home page porta queste parole:

“La Terapia Intensiva (o Rianimazione) è una realtà molto dura, difficile da accettare. Ma in certi casi è l’unica possibilità per poter continuare a vivere. Quando una persona ha un incidente, una grave malattia, una grossa operazione chirurgica… quando c’è un organo vitale che non funziona, si viene ricoverati qui. Ci sono macchinari e medicine molto potenti che hanno bisogno di un controllo continuo e di personale specializzato. Lo scopo è quello di dare tempo a una persona gravemente malata, perché possa iniziare a guarire da una malattia acuta.
Avere un proprio caro in Rianimazione molto spesso cambia il modo di vivere, di considerare la vita. Naviga su questo sito per capire razionalmente cos’è la Rianimazione e ancora di più, per comprendere meglio le tue emozioni. E per non sentirti solo.”

Navigando, si trovano spiegazioni su come è organizzata un’unità di cura, e a cosa servono i macchinari che si trovano intorno al letto; c’è un filmato con le interviste ai pazienti che sono guariti, che raccontano le loro sensazioni e le loro emozioni; c’è una pagina in cui viene data voce ai familiari, una in cui parlano gli operatori. Un’altra pagina, dedicata alla morte in terapia intensiva, spiega in parole semplici anche la morte cerebrale: “In alcune malattie, invece, accade che il cervello muore, mentre il cuore continua a battere se sostenuto da medicine e da macchine. Nonostante sia presente il battito del cuore, questa condizione coincide con la morte dell’individuo: è forse più difficile comprendere e accettare che il tuo caro è morto, ma quando il cervello muore, tutto l’individuo muore.” Non manca una sezione dedicata alla donazione di organi, vista dalla parte di chi ha perso un congiunto. Tutto questo, insieme ad alcuni poster da appendere nelle sale d’attesa delle terapie intensive italiane, e ad alcune brochure dedicate ai familiari, completano il progetto di cui il sito internet è il perno centrale.

Ci sono due punti che mi preme ancora sottolineare di questo rilevante progetto. Il primo è la convinzione, che anima i promotori, che le terapie intensive debbano essere aperte, e che i familiari siano alleati degli operatori, e non ostacoli nelle procedure di cura. Questo aspetto è di primaria importanza, e occorrerebbe forse allargare questa riflessione, e chiedersi se sia corretto impedire l’ingresso ai familiari anche per i pazienti Covid, naturalmente con le medesime protezioni impiegate dagli operatori.

Il secondo è che occorre far maturare in tutti, nei medici come nei familiari, la consapevolezza che anche gli straordinari mezzi delle terapie intensive possono diventare futili, qualora sia chiaro che non è più possibile salvare la vita, o una qualità di vita accettabile per il paziente. Di quali siano le volontà del paziente, bisogna informarsi, mediante le DAT qualora siano presenti, o attraverso il dialogo con i familiari. E bisogna rispettarle. Occorre  quindi desistere, utilizzare ottime cure palliative e accompagnare il nucleo familiare del paziente alla fine della vita.

Cosa ne pensate? Avete esperienze dirette o indirette di terapia intensiva?

Fare ricerca in cure palliative, intervista a Simone Veronese, di Marina Sozzi

Troppo spesso in Italia si pensa alle cure palliative con un significato simile a quello dell’italiano “è un palliativo”, serve a poco, non serve. O addirittura i più giovani ignorano il senso della parola. Abbiamo intervistato il dottor Simone Veronese, medico palliativista e ricercatore di Fondazione Faro, per comprendere meglio l’alto livello di scientificità delle cure palliative, e l’esigenza di una loro ampia diffusione.

Che cosa vuol dire fare ricerca in cure palliative?

 La ricerca in cure palliative è tutta da costruire in Italia: i centri di ricerca in cure palliative ci sono, ma sono molto localizzati, non sono universitari, e quindi bisogna andare a studiare all’estero. Inoltre, ci sono poche risorse e molto bisogno di clinica, così è difficile che qualcuno ti offra lo spazio e le risorse per fare ricerca, e per questo sono molto grato a Fondazione Faro, che mi ha supportato moltissimo. Io ho fatto un PhD in Inghilterra, dove ho avuto un’ottima formazione su cosa è e come si fa la ricerca in cure palliative.
In Italia anche il master universitario, che dovrebbe già essere un percorso di ricerca, è invece un percorso formativo, che si fa per diventare “più bravo” a fare il medico, l’infermiere o lo psicologo. Il master in Italia è come una scuola di specializzazione, dà delle competenze per fare i clinici, mentre, secondo me, questo non dovrebbe essere l’obiettivo principale di un master. Per di più, dopo il master non c’è più nulla in Italia, non esistono dipartimenti di cure palliative.

Raccontaci questa tua esperienza in Inghilterra: tu sei stato un precursore, sei stato forse il primo a parlare di cure palliative per i malati di malattie neurologiche.

 E’ stata la più bella esperienza che io abbia mai fatto dal punto di vista formativo e di ricerca. Sono andato in Inghilterra dopo avere fatto un master all’Università di Torino. Ho avuto la fortuna, prima di iniziare il dottorato, di partecipare a un corso residenziale in cure palliative, sempre in Inghilterra, con i massimi esperti inglesi. Lì ho conosciuto dei veri ricercatori, tra cui anche il mio mentore, David Oliver, dell’University of Kent, che è stato allievo di Cicely Saunders, e si è occupato di cure palliative nella SLA e poi in neurologia; e Irene Higginson, direttrice del Cicely Saunders Institute al King’s College di Londra, che è il centro più avanzato nel trovare le evidenze e le prove di efficacia in cure palliative. A me interessavano le cure palliative non oncologiche, eravamo all’inizio del 2000, quindi prima della legge 38 del 2010. Allora le cure palliative erano solo per i malati di cancro. La domanda era: le cure palliative sono efficaci nei malati non oncologici? Mi sono focalizzato sulle malattie neurodegenerative. Abbiamo fatto il primo studio randomizzato mondiale per vedere se le cure palliative fossero, anche in quel contesto, in grado di migliorare la qualità della vita, il controllo dei sintomi, il supporto ai familiari.

Al congresso della Società Italiana di Cure Palliative, quest’anno, hai portato un lavoro sulla valutazione della qualità delle cure palliative. Come si fa questa valutazione della qualità e perché è importante?

 Questo è un aspetto che mi interessa tantissimo. Ci sono alcuni “indicatori”, ossia parametri che dovrebbero essere oggettivi e confrontabili, attraverso i quali valutare la qualità di ciò che si sta facendo. Il più importante è il cosiddetto outcome, in italiano esito: significa che dobbiamo misurare la differenza che le cure palliative fanno rispetto ai loro obiettivi: la miglior qualità della vita possibile per il malato e per la famiglia e il minor carico possibile di sintomi e di problemi che siamo in grado di controllare. Per tutto questo occorrono strumenti di misurazione validi e affidabili, cioè in grado di cogliere i cambiamenti che avvengono nel paziente, e non dipendenti dall’operatore che li usa. In Italia ci accontentiamo troppo spesso della soddisfazione dell’utente per valutare la qualità, ci basta sentirci dire che siamo “angeli”.
Ma c’è una scienza su cui fondarsi. Abbiamo validato uno strumento che si chiama IPOS (Integrated palliative outcome scale) che è il più completo strumento di valutazione dei bisogni in cure palliative e consente di quantificare i bisogni di un paziente e della sua famiglia e di fare un programma (c’è bisogno di cure palliative in hospice? di cure specialistiche? o bastano le cure palliative di base?).  Questo strumento è validato a livello internazionale, e ci aiuta a capire quanto il servizio che stiamo fornendo riduca o meno il carico di bisogni, e quindi abbia un impatto sulla qualità della vita. Naturalmente è necessario un percorso di formazione per capire come si usa, come si valutano i risultati e come si passa da questi ultimi alla pianificazione dell’assistenza (PAI, pianificazione individuale dell’assistenza). E’ uno strumento che va somministrato la prima volta appena si conosce un paziente, se si vuole valutare l’impatto del servizio sui bisogni di quel paziente. Successivamente, quando si fa un intervento, occorre valutarlo. Siccome i bisogni si dispongono su vari livelli, secondo la piramide di Maslow (prima quelli fisiologici e poi gli altri), è normale che chi ha dolore, mancanza di fiato, non dorma di notte, sia focalizzato su questo. Sembra magari che non ci siano problemi relazionali o di tono dell’umore. Invece si scopre che ci sono, ma sono nascosti, ed emergono solo dopo che abbiamo controllato il dolore: ciò significa che c’è ancora bisogno di cure, ma bisogna cambiare il tipo di intervento.
Noi in Piemonte lavoriamo ancora con una delibera regionale che dice che in hospice si accede se l’aspettativa di vita non è superiore a 4 mesi: invece le cure palliative devono essere fornite in base ai bisogni, non alla diagnosi o alla prognosi. Se un paziente ha un’aspettativa di vita lunga ma ha molti bisogni, occorre offrirgli cure palliative, anche in hospice, magari solo per 15 giorni. Ma in quei 15 giorni dobbiamo fare la differenza.

Quali sono le prospettive e le priorità in Italia?

 In Italia vi sono diverse sfide per il futuro. C’è un indice mondiale di qualità della morte. L’Italia è sotto la metà, a livello di paesi dell’Africa, che hanno risorse completamente diverse: dobbiamo fare molta strada.
La prima sfida è lo sviluppo delle cure palliative di base, che di fatto non esistono. Le équipe di cure palliative specialistiche, come la Faro, dovrebbero supportare e formare gli operatori in tutti i setting di cura. In primo luogo nelle case di riposo, che sono luoghi dove le persone vivono e poi muoiono. Occorre immaginare quali pazienti moriranno nei successivi sei mesi, e pianificare con gli operatori delle RSA il percorso da farsi, seguendo le Direttive Anticipate di Trattamento qualora ci siano, e parlando con il paziente, e con i familiari, soprattutto se vi sono demenze. Occorre lavorare sull’empowerment degli operatori, affinché sappiano cosa devono fare. Dove è stata fatta questa esperienza, si è ridotta drasticamente la morte in ospedale, e sono migliorati il controllo dei sintomi e il lutto dei familiari. Inoltre si è ridotto il turnover degli operatori, che erano meno stressati e lavoravano meglio. Ad esempio, sei mesi prima che una persona smetta di deglutire, occorre spiegare che questo succederà, ma non significa che la persona morirà di fame, e quindi non si dovrà mettergli un tubo per alimentarlo, e inoltre non è obbligatorio trattarlo in modo aggressivo se avrà un’infezione. Per gli operatori di cure palliative specialistiche è una grande sfida, perché sono abituati a lavorare con i pazienti, meno a lavorare con questo stile collaborativo, facendo la supervisione di altre équipe. Le cure palliative specialistiche non possono raggiungere tutte le persone, ma occorre fare in modo che tutti possano morire bene. A tale scopo, occorre anche che le istituzioni impongano alle case di riposo di fare questo tipo di formazione per essere accreditati.

Altra sfida è l’integrazione con altri specialisti. La Società Italiana di Cure Palliative sta lavorando con altre società scientifiche, e i risultati sono notevoli. Abbiamo pubblicato un documento di consenso con la Società Italiana di Neurologia, e questo sta avendo un importante impatto, i neurologi stanno cominciando ad autoimporsi una formazione in cure palliative. Con gli pneumologi anche, stiamo facendo un grande lavoro: anni fa non sapevano nulla del controllo della dispnea con la morfina. Oggi tutti i pazienti pneumologici che arrivano a noi hanno già la morfina. Anche i rianimatori hanno capito che si devono concentrare su pazienti che hanno buone possibilità di recupero, mentre gli altri non devono neppure entrare in rianimazione, devono avere percorsi di palliazione.

E’ anche questione di cambiare la mentalità. Dato che la mortalità riguarda il 100% degli esseri umani, la qualità della vita e la qualità della morte devono essere al centro dell’attenzione. Il che è difficile finché rimuoviamo la morte.

Riflessioni sulla morte di Vincent Lambert, di Marina Sozzi

E’ morto Vincent Lambert, ieri mattina. Il suo caso ha sollevato un dibattito bioetico in Francia sul fine vita, con notevoli ripercussioni anche in Italia.

Riassumiamo i termini della questione, per come è possibile dedurla dai giornali, italiani e francesi, per poi fare alcune riflessioni a margine (perché sono convinta che per esprimere opinioni sulla vita di un uomo occorre: a) una competenza medica specialistica approfondita, b) una competenza giuridica, c) e soprattutto una conoscenza profonda della persona (non solo del caso) e della sua storia biografica e psicologica.

Vincent nel 2008 faceva l’infermiere e aveva 32 anni, era sposato e aveva avuto da poco una bambina. Le conseguenze del grave incidente stradale di cui fu vittima sono descritte in due modi dai quotidiani on e off line. C’è chi ha parlato della tetraplegia e di una lesione cerebrale definita “sindrome della veglia non responsiva”, interpretando quindi Vincent come un disabile, poiché respirava senza ventilatore, il suo cuore batteva, e non era in stato di morte cerebrale.

Altri hanno definito la sua situazione come stato vegetativo, come fecero nel novembre 2018 gli esperti incaricati dal Tribunale amministrativo di Châlons-en-Champagne: “stato vegetativo irreversibile cronico”.  Le due definizioni sono simili, e tuttavia lasciano spazio a diverse letture etiche: infatti, intorno a questo caso penoso, si è combattuta per dieci anni una battaglia non solo legale, ma anche intrafamiliare. E questo è, se vogliamo, l’aspetto più triste di questa vicenda.

Le considerazioni che mi vengono spontanee sono le seguenti: e sono interrogativi e auspici piuttosto che certezze.

1) Credo che la medicina dovrebbe essere molto più prudente e guardinga nei suoi tentativi di rianimazione, e che dovrebbe considerare un fallimento grave produrre un vivo/non vivo come è accaduto a Vincent, o ad Eluana, (e oggi pare ci siano in Italia tremila persone che si trovano in una situazione analoga, estrema). Nel suo bellissimo libro, Quando il respiro si fa aria, il neurochirurgo indo-americano Paul Kalanithi scrisse: “Di pari passo con le mie competenze aumentarono anche le responsabilità. Per imparare a valutare quali vite si possono salvare, quali no, e quali non si dovrebbero salvare, serve una capacità di prognosi inarrivabile. Commisi anch’io i miei errori. Come trasportare d’urgenza un paziente in sala operatoria solo per salvargli abbastanza cervello da fargli battere il cuore, anche se non avrebbe parlato mai più, avrebbe mangiato attraverso un sondino e sarebbe stato condannato a un’esistenza che non avrebbe mai voluto… Arrivai a considerarlo un fallimento ancora più madornale rispetto alla morte”.

Si tratta di una riflessione che ogni rianimatore dovrebbe aver modo di apprendere e discutere all’università. L’etica comporta in questo caso, al contempo, esperienza e tecnica: evitare di trasformare una vita umana nell’esistenza di un metabolismo inconsapevole. Fermarsi prima. Rinunciare. Accettare che subentri la morte.

2) Una volta che un medico o un’équipe medica abbia creato, per inesperienza o per fatalità, un’esistenza di questo tipo, si entra evidentemente in un terreno minato, perché qualunque sia la decisione che si prende, si rischia di farlo contro il volere che avrebbe avuto il paziente quando era cosciente. Le Dichiarazioni anticipate di trattamento, o testamento biologico, diventano a questo punto fondamentali. Non depositarle ci espone al pericolo di subire un’esistenza che mai avremmo voluto: non solo, ma rischiamo anche di creare situazioni estremamente penose di litigio tra le persone a cui abbiamo voluto bene, come è successo per Vincent. La moglie contro i genitori e viceversa, parole terribili invece del lutto comune. Anche in Italia, vi ricordo, abbiamo finalmente una legge sulle DAT (legge 219/2017) che dà loro una certa cogenza sulle scelte mediche. E tuttavia, mentre scrivo questo, sono consapevole della lunga strada ancora da percorrere nel nostro paese affinché la compilazione delle DAT diventi una scelta maggioritaria.

3) Inoltre, occorre finirla con l’uso improprio delle parole, come troppi giornalisti hanno continuato a fare anche per il caso Lambert. La parola “eutanasia” non ha nulla a che fare con quanto è successo, perché nessuna sostanza letale è stata somministrata a Vincent. Sono state sospese delle cure, che nel suo caso riguardavano l’alimentazione e idratazione artificiale. Che queste ultime siano da considerarsi cure mediche è stato ampiamente riconosciuto dalla comunità scientifica. E il fine vita di Vincent è stato accompagnato da cure palliative (da una sedazione palliativa profonda), per accertarsi che non soffrisse.

Chi ha scritto che il caso di Vincent è paragonabile a quello dell’anziano non più capace di nutrirsi da solo o del bambino disabile ha fatto un’operazione che non condivido, quella di utilizzare un caso estremo e generalizzarlo, per colpire la mente e la pietas di chi legge. Ma, come non bisogna applicare tecnologia medica sproporzionata, sia per gli anziani sia per ogni altra persona, qualunque sia la sua età, così non bisogna generalizzare. Ogni caso ha la sua specificità, e deve essere pensato nella sua singolarità, mentre le leggi fungono da quadro di riferimento.

4) Mi è subito venuto in mente, vedendo lo strazio della madre, che è rimasta accanto a Vincent per più di dieci anni, che questi genitori vadano aiutati e sostenuti a elaborare il lutto e a dare un senso diverso alla propria vita. Altrimenti, si sarà responsabili del deragliare di altre vite, vite che rischiano di frantumarsi senza lo scopo di tenere in vita il figlio.

Voi come la pensate? Come avete visto questa storia?

La legge 219 parte seconda / le DAT, di Marina Sozzi

Speaker at Business Conference and Presentation. Audience at the conference hall.Continuo il ragionamento sulla legge 219/2017. Non è un caso che il tema del consenso informato e quello delle dichiarazioni anticipate di trattamento siano stati riuniti in un’unica disposizione di legge. L’idea del testamento biologico (decidere cioè, ora per allora, a quali trattamenti vorrei o non vorrei essere sottoposto qualora dovessi perdere la lucidità e la coscienza) non avrebbe potuto emergere se non fosse stato messo in dubbio il paternalismo medico. Nel contesto di una cultura che pratica il paternalismo medico, una legge sulle dichiarazioni anticipate di trattamento sarebbe priva di senso. Infatti, se si dà per scontato che sia il medico a dover prendere le decisioni sulla salute del suo paziente quando quest’ultimo è vigile e lucido, a maggior ragione sarà il medico a stabilire il da farsi se il paziente non è cosciente. I primi articoli della legge sono così un’imprescindibile premessa per l’art. 4 e seguenti. E’ stato lungo e difficile ottenere questa legge, proprio perché di fatto la nostra cultura medica, ma anche la nostra cultura in generale, sono ancora impregnate dal paternalismo.

In Italia, solo nel 1992 la Consulta di Bioetica aveva approvato una Carta dell’Autodeterminazione, che affermava il diritto dei pazienti a prendere decisioni sanitarie sul proprio corpo. Il testamento biologico, living will, o dichiarazioni anticipate di trattamento prendono forma come idea solo alla fine del secolo scorso, e sono tema ricorrente nel nuovo millennio.
In Italia ha contato molto la battaglia di Beppino Englaro per la figlia Eluana, che ha smosso le coscienze su quei casi, creati dalla medicina contemporanea (nel caso di Eluana lo stato vegetativo permanente), di persone tenute sospese tra la vita e la morte, perché qualcosa era andato male in una rianimazione, e non si poteva più tornare indietro e lasciar scivolare nella morte il malcapitato. Con questa legge, se Eluana avesse lasciato le sue disposizioni anticipate, non si sarebbero dovuti attendere diciassette anni prima di poterle sospendere l’alimentazione artificiale.

La legge 219 è dunque indubbiamente un considerevole passo avanti: la legge permette, oltre che la stesura delle proprie dichiarazioni anticipate, anche la nomina di una persona di fiducia, il cosiddetto fiduciario, che faccia le veci del paziente privo della capacità di autodeterminarsi e lo rappresenti nelle relazioni con i medici e le strutture sanitarie.
Tuttavia, anche in questa seconda parte della legge vi sono lacune che rischiano di inficiarne l’efficacia, e prima tra tutte l’assenza di ogni stanziamento in denaro per raccogliere adeguatamente i testamenti, far conoscere la legge e facilitare i cittadini che vogliono testare.

Diamo un’occhiata al resto del mondo, dove le Dat erano già legge diversi anni o decenni prima che in Italia. I dati non sono molto numerosi, né facili da reperire. Tuttavia, una ricerca in questo senso è stata condotta dall’Istituto di etica biomedica dell’Università di Zurigo nel 2008.
In Olanda, paese considerato molto avanzato per la legislazione sul fine vita, è presente una legge sulle Dat dal 1995. Nel 2008, cioè circa due decenni dopo la promulgazione della legge, testavano il 10% degli anziani tra 61 e 90 anni; mentre il resto della popolazione tra i 20 e i 60 anni ha lasciato disposizioni anticipate nel 3% dei casi. Solo il 7% delle persone con demenza aveva steso un testamento biologico. Se questi dati vi sembrano deludenti, sentite questi altri. In Austria la legge è presente dal 2006. Due anni dopo, dice la ricerca, avevano testato 3000 persone, meno dell’1% della popolazione, e si trattava di persone con malattie terminali, persone che rifiutano alcuni trattamenti per ragioni religiose, come i Testimoni di Geova, e alcuni anziani.
In Belgio la legge è stata promulgata nel 2002. Nel 2008 non esisteva un registro nazionale, e meno del 5% dei pazienti ricoverati in ospedale (non dei cittadini) aveva testato. Dati analoghi abbiamo per la Finlandia.
Per quanto riguarda la Spagna, possediamo dati più recenti grazie a un articolo scientifico di Pablo Simon Lorda, bioeticista spagnolo che collabora anche col Pais. I cittadini spagnoli vedono la legge (del 2008) di buon occhio, ma solo 23.000 hanno lasciato dichiarazioni anticipate, una percentuale di cittadini inferiore all’1%.
Non faccio altri esempi per quanto riguarda l’Europa. E’ evidente che in mancanza di un investimento rilevante in termini di informazione della popolazione e di supporto ai cittadini che desidererebbero lasciare le loro dichiarazioni anticipate, nulla si muove.

Interessanti, da questo punto di vista, i dati che riguardano il Canada. Nel paese ci sono state moltissime iniziative pubbliche per promuovere la pianificazione delle cure e la nomina di un amministratore di sostegno. Nel 2008 è anche stato fondato anche il National Framework and Implementation Project, al fine di fare educazione su questo tema sia per gli operatori sanitari sia per i cittadini. Risultato: il 96% dei cittadini ritiene che sia importante parlare con i propri cari di questa pianificazione, ma solo il 13% ha testato. E’ una percentuale comunque diversa dai paesi citati prima, ma che ci indica quanto lungo e paziente debba essere il lavoro culturale per arrivare a un cambiamento concreto di mentalità e quindi di prassi.

Un caso a sé, che andrebbe meglio indagato, è rappresentato dagli Stati Uniti, dove ha testato il 26% della popolazione (dati raccolti nel 2014 dall’American Journal of preventive Medicine). La legge è presente dagli anni Novanta nella maggior parte degli Stati. Testare è reso facile in quasi tutti gli USA, perché è possibile prendere un appuntamento per lasciare, in presenza di due testimoni, le proprie volontà. Questo 26% è formato da pazienti anziani, con uno status sociale tendenzialmente alto e con un rapporto continuativo con un medico di “primary care”, l’equivalente del nostro medico di famiglia.

Due considerazioni su questi ultimi dati. La prima: ritengo che sia stato un errore non dare ai medici di famiglia la responsabilità di raccogliere le Dichiarazioni anticipate. Sarebbe stato un modo per farli riflettere (anche sul consenso informato), e si sarebbero evitati i numerosi casi che mi sono stati raccontati, di pazienti che chiedono consiglio al loro medico per la compilazione delle Dat e si sentono rispondere che non è compito suo. Inoltre, si sarebbe evitata la situazione dell’Italia a macchia di leopardo, dove alcuni Comuni si sono attivati per raccogliere i testamenti e altri no. Infine, si sarebbero resi i testamenti più facilmente reperibili. Vi immaginate una realtà ospedaliera che deve ricuperare le vostre Dat negli uffici del vostro Comune, magari in una situazione di relativa urgenza?

La seconda considerazione. E’ noto che compilare le proprie dichiarazioni anticipate comporta andare con il pensiero a un futuro nel quale non vorremmo mai trovarci: una situazione eventuale in cui avremo perso la lucidità e la capacità di autodeterminarci, e saremo massimamente vulnerabili ed esposti all’ubris della biomedicina, per quanto benintenzionata. Lasciare il proprio testamento biologico è pertanto operazione anche emotivamente non facile, in cui i cittadini andrebbero accompagnati. Altrimenti la legge servirà a pochi privilegiati, a una élite culturale e sociale, mentre la grande maggioranza della popolazione resterà subordinata al volere altrui. Qualcuno penserà forse che la correttezza di un diritto, come quello stabilito da questa legge, non si misuri dal numero di persone che decidono di esercitarlo. E siamo d’accordo.

Tuttavia, ritengo che una legge come la 219/2017 contenga in sé eccellenti potenzialità per il cambiamento della prassi medica e della relazione medico/paziente, per la riduzione degli sprechi in sanità determinati dalle ultime inutili indagini diagnostiche, dagli ultimi interventi, dall’accanimento terapeutico che rifiuta di vedere nel malato non più un paziente grave ma un uomo che muore. Sarebbe valsa la pena di fare un investimento su questa legge.

Voi come la vedete?

Punti interrogativi e silenzio, di Ferdinando Garetto

imgresRiceviamo e con piacere pubblichiamo la riflessione del dottor Ferdinando Garetto, medico palliativista della Fondazione Faro e Consulente del Servizio di Oncologia del Presidio Sanitario Gradenigo di Torino

La notizia meriterebbe rispetto e silenzio: un uomo di trentanove anni, Fabiano, reso gravemente invalido da un incidente,  perfettamente lucido e con un’attesa di vita probabilmente non diversa da quella di altri suoi coetanei nelle sue condizioni, disperato per la terribile invalidità, decide di suicidarsi. Viene accompagnato in uno Stato che approva il suicidio assistito, e con un’ “approfondita” valutazione (durata meno di 24 ore) è aiutato a morire. Cioè viene ucciso (o messo nelle condizioni di uccidersi), per pietà. Questa la definizione dal punto di vista della bioetica: e lascio volutamente da parte le polemiche estremiste sugli interessi economici, ben noti, delle società organizzate che provvedono a tali procedure.

Vuoto, disperazione, dolore, compassione, astensione dal giudizio sono le uniche parole autenticamente umane che meriterebbero di essere utilizzate.

Intanto, i mass media collegano il “caso” di Dj Fabo alla legge sulle Disposizioni (o forse Dichiarazioni, vedremo…) Anticipate di Trattamento in discussione in Parlamento. Occorre assolutamente sottolineare che tale legge, anche se fosse già stata approvata, non avrebbe certo permesso al giovane uomo di concludere in questo modo la sua vita… vita che non era “alla fine”. La legge in discussione non prevede l’eutanasia, per essere chiari. Né “attiva” né passiva” se proprio vogliamo usare una terminologia ambigua e confondente che non avrebbe più molto senso di essere usata: tutt’altro è la sedazione intenzionale profonda, ma non è questo l’ambito in cui approfondire il tema.

Fabiano aveva un “male dell’anima” oltre che del corpo ferito, che –forse- avrebbe potuto essere in altri modi curato. Chissà… Chi può dirlo? Quel che è certo, è che non sono i ritardi della legge ad “averlo sulla coscienza”, come è stato detto da qualcuno.

Piuttosto, la Società intera forse dovrebbe farsi un esame di coscienza, ma siamo ancora capaci di coscienza? Di vicinanza? Di Senso e Significato? Di Società? Lasciateci il diritto, in questo momento, di rimanere in silenzio, con nella mente e nel cuore le infinite storie quotidiane che nelle case e nelle famiglie vanno diversamente: ma sarebbe un oltraggio, anche per queste tante storie diverse, “sbandierarle” e “urlarle”, come in uno stadio dove il tifo acceca e toglie lucidità.

I tuttologi spaventano per le loro certezze. Se ne vedono tanti, alcuni particolarmente prestigiosi e molto presenti. E un uomo è morto. “Con una procedura durata circa mezzora”. Musica di sottofondo. Pubblicità.

Rimanere, in silenzio, dicevamo, senza risposte, ma “rimanere”, “stare”, “stare accanto”… Da qui si aprirebbe il grande capitolo delle cure palliative, il grande diritto “a non soffrire” che è uno dei diritti più dichiarati (senza bisogno di altre leggi), ma al tempo stesso misconosciuti.

Non varrebbe la pena di unire le forze per questo? La legge 38/2010 prevede questo diritto per ogni cittadino italiano, ed è una legge fra le più avanzate d’Europa. La legge sulle DAT in discussione in Parlamento ci pone in linea con le posizioni delle articolate legislazioni europee, come quella francese. E ci porta avanti in questo cammino.

Invece i “casi limite” sanno di forzatura, di tentativo di “spallata”, e finiscono solo per frammentare, accendere gli animi, e in definitiva ritardare l’approvazione della legge o forse rovinarla: qualche risultato deteriore in tal senso sembra lo stiano già ottenendo… Ma è questo ciò che si vuole?

A che punto siamo con le DAT? Intervista all’avv. Giulia Facchini Martini

Last Will and Testament form with gold jewelry, close-up

Il 27 febbraio arriverà in aula alla Camera il provvedimento sulle Dichiarazioni anticipate di trattamento (DAT) o testamento biologico. Che cosa si intende esattamente per “Dichiarazione anticipata di trattamento” e a che cosa serve?

Premetto che mi riservo l’esame del progetto di legge unificato quando verrà approvato, dato che l’argomento è “sensibile” e le modifiche potrebbero essere di pregnante rilievo. Il termine “testamento biologico” deriva dall’inglese “Living Will” ed è meglio definito come “Direttiva anticipata di trattamento”, una formula che esprime più chiaramente l’inderogabilità della volontà del paziente. Per mezzo della direttiva anticipata di trattamento ogni individuo può chiedere, qualora si trovasse in una situazione di incapacità a manifestare il proprio consenso informato alle cure, di non essere sottoposto a trattamenti medici che non accetta o che considera lesivi della propria dignità sulla base delle sue personali convinzioni etiche o religiose.

Da un punto di vista legale, che cosa differenzia la dichiarazione anticipata di trattamento dall’eutanasia?

Con il testamento biologico la persona compie una scelta, proiettata nel futuro, e fondata sul diritto di ricevere o rifiutare determinati trattamenti sanitari, anche qualora questi trattamenti si rivelassero indispensabili per la sopravvivenza. Con l’eutanasia invece, senza qui entrare nel merito delle ulteriori distinzioni tra eutanasia attiva e passiva, si richiede a un soggetto, normalmente un medico, la prescrizione di una sostanza letale che, se somministrata al richiedente, ne provoca la morte e che, quindi, non può essere in alcun modo paragonata a un trattamento sanitario.

Su quali fondamenti normativi si basa la direttiva anticipata di trattamento?

La Cassazione, in base alla normativa nazionale e sovranazionale, ha sviluppato questo ragionamento: nessuno può essere sottoposto a cura se non presta il suo consenso. Vivere non è obbligatorio. Le cure possono essere accettate ma possono essere anche rifiutate. In particolare la Cassazione, che è il nostro giudice supremo, afferma espressamente: “Il consenso informato costituisce, di norma, legittimazione e fondamento del trattamento sanitario. Senza il consenso informato l’intervento del medico è sicuramente illecito, anche quando è nell’interesse del paziente; la pratica del consenso libero e informato rappresenta una forma di rispetto per la libertà dell’individuo e un mezzo per la realizzazione dei suoi migliori interessi” (sentenza 21748/2007). In altre parole, sul paziente in grado di esprimere il consenso o il dissenso informato, perché capace di intendere e volere,  non è possibile praticare alcun trattamento sanitario contro la sua volontà.

Ma se nel momento in cui dovrebbe esprimere il consenso informato il paziente è incosciente cosa accade?

La risposta ci viene sempre dalla citata sentenza della Cassazione. Questa analizza anche il caso di chi, non più in grado di esprimere la propria volontà a causa di una totale incapacità, non aveva indicato – nel pieno possesso delle sue facoltà mentali – quali terapie avrebbe desiderato ricevere e quali invece avrebbe rifiutato, se si fosse trovato in uno stato di incoscienza. In questo caso specifico la sentenza afferma che è il suo rappresentante (tutore o amministratore di sostegno) a provvedere all’espressione del consenso informato, seguendo le istruzioni precedentemente fornite o ricostruendo la presunta volontà del paziente incosciente. Tale ricostruzione deve tener conto dei desideri da lui espressi prima della perdita di coscienza, considerando la sua personalità, il suo stile di vita, i suoi valori e le sue convinzioni etiche, religiose, culturali, filosofiche.

Senza una legge sul fine vita questa dichiarazione anticipata di trattamento si può validamente esprimere?

 Sì. Nel Codice Civile c’è l’istituto dell’amministrazione di sostegno, introdotto dalla legge 9 gennaio 2004, n. 6. Si tratta di un istituto di protezione dei soggetti deboli. Un istituto snello, agevole, che garantisce molti diritti e facoltà. L’amministratore di sostegno può essere nominato dal giudice tutelare per la persona non più capace di intendere e di volere (o soggetta a tipi di limitazione fisica o psichica, tali da rendere necessario un suo affiancamento). Non tutti sanno, però, che l’articolo 408 del Codice Civile permette a chiunque, e in qualunque momento della sua vita, di indicare e scegliere una persona come suo amministratore di sostegno, nel caso di una futura menomazione fisica o psichica. Tale norma è stata ulteriormente elaborata da un gruppo di magistrati e avvocati dell’Emilia-Romagna. Questo gruppo ha pensato di estendere la norma di modo che a tale persona si possano dare indicazioni sulle cure da adottare, sul fine vita e sull’amministrazione dei propri beni.

Ma allora, secondo lei, c’è bisogno di una legge sul fine vita?

L’unica ragione per la quale io riterrei utile una legge sul fine vita è la seguente: chiarire una volta per tutte che la dichiarazione anticipata di trattamento si può fare attraverso la designazione preventiva di un amministratore di sostegno. Ciò per evitare che le indicazioni, precedentemente espresse nella dichiarazione anticipata di trattamento, vengano messe in discussione da qualche magistrato, quando non si è più in grado di intendere e di volere.

Le faccio una domanda un po’ tecnica. Nei progetti di legge sino ad oggi presentati – poi in gran parte riuniti nel testo unificato di discussione – quali sono secondo lei i problemi?

I progetti pendenti nella XVII legislatura, iniziata il 15 marzo 2013, sono almeno nove. I temi e i problemi evidenziati possono così riassumersi:

CONSENSO INFORMATO: evidentemente nella prassi medica il vero consenso informato non è affatto praticato dato che moltissimi progetti di legge si dilungano nella dettagliata previsione del consenso informato e nella modalità di raccolta.
MODALITA’ DELLA DICHIARAZIONE ANTICIPATA DI TRATTAMENTO: è un tema che torna in modo più o meno dettagliato in tutti i progetti con la previsione che la dichiarazione anticipata di trattamento vada effettuata o in via estremamente ufficiale o in via orale e confermata da testimoni.
AMPIEZZA DELLA DAT: la questione è se con la direttiva anticipata di trattamento ci si possa o meno spingere sino a chiedere l’eutanasia attiva o passiva e si possa rifiutare l’alimentazione e l’idratazione forzata.
CONSERVAZIONE DELLA DAT: altro problema sul quale i progetti di legge si dilungano è la conservazione della direttiva anticipata di trattamento con soluzioni varie che vanno dalla conservazione informale, all’allegazione alla cartella clinica, alla conservazione in un registro nazionale informatico.
DURATA DELLA DAT: altro tema è l’efficacia nel tempo della direttiva anticipata di trattamento, e quindi l’attualità del consenso informato prestato oggi per il futuro.
EFFICACIA DELLA DAT: c’è poi la questione di quanto la direttiva anticipata di trattamento vincoli i medici e il personale sanitario, e le connesse responsabilità in caso di mancato rispetto della volontà espressa dal paziente nella DAT.
NOMINA DEL FIDUCIARIO: che è il soggetto a cui il paziente conferisce il compito di esprimere il proprio consenso informato. Su questo occorre sottolineare che nessun progetto di legge si preoccupa di regolamentare il rapporto tra il fiduciario e l’amministratore di sostegno o il tutore.
Molti progetti pendenti si occupano del tema delle CONTROVERSIE TRA IL PAZIENTE E/O IL FIDUCIARIO E IL MEDICO SUI TRATTAMENTI DA PRATICARE O DA NON PRATICARE, prevedendo le soluzioni più fantasiose, dall’istituzione di un comitato etico per ogni struttura di ricovero al ricorso al Giudice tutelare con o senza preventiva segnalazione al Pubblico Ministero.
Un elemento che anche nei progetti di legge crea evidenti problemi è la REGOLAMENTAZIONE DELL’EMERGENZA: quando il paziente è in fase acuta e non in grado di esprimere il proprio consenso informato cosa fa il medico?
Infine ci sono molti progetti che si dilungano sul tema della RESPONSABILITA’ MEDICA, soprattutto in caso di eutanasia.

Quali sono secondo lei le difficoltà ad arrivare a un testo condiviso dai due rami del Parlamento e da tutte le forze politiche che ivi siedono?

Mi pare che le aporie dei progetti di legge, che ho esaminato, siano almeno tre:

  • Un’evidente difficoltà di dialogo in Parlamento – e forse anche al suo esterno – tra medici e giuristi. I vari progetti di legge sembrano scritti, infatti, o dagli uni o dagli altri senza che si sia arrivati a un accordo comune.
  • Il rischio di non coprire tutte le possibili evenienze nei contenuti delle direttive anticipate di trattamento, a causa di un numero eccessivo di norme.
  • Alcune difficoltà riguardanti i rapporti familiari, tema che conosco molto bene, in quanto avvocato familiarista quotidianamente impegnato nelle conflittualità familiari. In vari progetti di legge, infatti, si invocano condivisioni delle decisioni sanitarie con familiari di vario tipo, senza tenere conto che a volte le famiglie sono un groviglio di conflitti. Ci sono invidie e rancori tra famiglie legittime successive nel tempo o tra famiglie nate da convivenze, le quali oggi hanno un rilievo giuridico pregnante. Ci sono, al contrario, casi in cui le persone sono completamente sole o in balia di personale prezzolato e di lontanissimi parenti.

In conclusione, alla luce dei progetti di legge che sono pendenti nei due rami del Parlamento, se dovessi essere io a decidere preferirei che nessuno fosse trasformato in legge. Le persone che lo desiderano dovrebbero poter continuare a formulare le loro direttive di fine vita nell’atto di designazione preventiva di amministratore di sostegno, con le modalità che ho indicato sopra.

Come si comportano gli altri paesi europei in materia  di autodeterminazione individuale alla fine della vita?

Sarebbe lungo – e forse anche noioso per chi ci legge – esaminare la scelte dei vari paesi europei, la maggior parte dei quali si è già dotata di leggi sul fine vita. Mi piace, però, richiamare il caso della Spagna, dove una legge sul fine vita c’è da tempo e dove le dichiarazioni anticipate di trattamento, previste dall’articolo 11, sono state pochissime. L’inclusione delle direttive anticipate ha generato, in alcuni settori sociali, un grande entusiasmo. Ma a tale entusiasmo non è poi corrisposto un equivalente utilizzo di questo strumento nella pratica. Dai dati forniti dalle Comunità Autonome, infatti, emerge che il numero di documenti concessi e registrati è inferiore all’1% della popolazione. È opportuno sottolineare che la categoria di persone che maggiormente ha fatto ricorso all’istituto delle direttive anticipate di trattamento è quella delle donne, in una fascia di età compresa fra i 45 e i 60-65 anni. Questo dato mi ha fatto riflettere: fare delle scelte sul proprio fine vita vuol dire assumersi la responsabilità di se stessi, per se stessi e per i propri familiari. E, in effetti, questo è un compito che le donne sanno fare da sempre e fanno anche molto bene.

L’Alzheimer e le Direttive Anticipate di Trattamento, di Marina Sozzi

imagesL’Alzheimer e le altre forme di demenza senili sono tra le patologie che pongono più problemi di ordine etico, per via della perdita della competenza cognitiva da parte dei pazienti, e della lunga durata della malattia stessa (da tre a dieci anni circa). Oggi, con l’impennata epidemiologica di questa malattia (malattia del benessere per eccellenza, legata com’è all’allungamento dell’aspettativa di vita, oltre che a numerosi fattori relativi agli stili di vita e all’ambiente), non ci si può più esimere dal rifletterci: cosa vogliamo che accada di noi qualora dovessimo perdere le competenze cognitive, alterare i nostri comportamenti consueti, perdere la memoria e il senso dell’orientamento spaziale e temporale? Non dovessimo più riconoscere i nostri cari, saper gestire le nostre quotidiane incombenze?

E’ il tipico caso in cui aver dato direttive anticipate di trattamento può essere dirimente, per sé e per i propri familiari: non si tratta di un incidente stradale o di un’emergenza, casi in cui i rianimatori agiscono d’ufficio (per così dire), senza avere il tempo di informarsi su ciò che avrebbe desiderato il paziente, e spesso senza poter esattamente prevedere gli esiti del loro intervento sanitario, né nel bene, né nel male.

Si tratta, invece, di una patologia che procede lentamente, erodendo poco per volta la consapevolezza e le abilità, ma lasciando intatta la percezione delle emozioni, con tutto il disorientamento, la sofferenza, la depressione, la paura, che possono insorgere sentendosi venir meno le consuete competenze mentali.

Nella demenza e nell’Alzheimer siamo costretti ad affidarci completamente ad altri, a dipendere dal loro affetto e dalle loro cure, dalla loro capacità empatica nel comprendere i nostri bisogni, poiché non sappiamo più a esprimerci verbalmente e razionalmente. Non è facile rappresentarsi cosa vorremmo in una situazione del genere, ma se riusciamo ad andare oltre alle resistenze interiori, per immaginarci malati, potremo comprendere il valore della comunicazione familiare e amicale su temi come questi. E anche il valore che potrebbero avere le Dichiarazioni Anticipate, stilate in collaborazione con il proprio medico di medicina generale (deputato a tirare le fila della nostra salute) e condivise con la famiglia. Questa sarebbe infatti, secondo me, la modalità migliore e più saggia per raccogliere il testamento biologico, l’unica davvero efficace. Promosse e raccolte in tal modo, le DAT potrebbero anche servire a far maturare una nuova generazione di medici di base, capaci di fare davvero il mestiere che oggi, nel nuovo sviluppo della biomedicina, è pensato come loro proprio: ricomporre i vari specialismi, restando aderenti al proprio paziente, che è persona e non insieme di organi funzionanti o da riparare. Persona con desideri, progetti, paure e limiti.

Personalmente, se mi dovessi ammalare di demenza, vorrei rifiutare le cure (anche quelle salvavita) per ogni altra patologia dovesse insorgere, più o meno annessa e connessa, e essere accompagnata da cure palliative. Ho provato a chiedermi come mai desidero questo, e la domanda è servita anche a chiarirmi il valore fondante che attribuisco alla mia vita: la crescita personale, l’arricchimento dell’esperienza e dell’eticità, della saggezza e del sapere. In mancanza della possibilità di sviluppare la mia vita in questa direzione, l’esistenza perderebbe per me il suo fascino. Ma, attenzione, questi sono i valori fondanti per me, e sarebbe impensabile volerli estendere a chiunque altro, che può trovare la propria gratificazione in aspetti completamente diversi della vita.

In questo senso, quindi, credo che riflettere sull’Alzheimer possa aiutare ciascuno a comprendere quali siano le condizioni compatibili con l’attribuzione di senso alla propria esistenza: condizioni, peraltro, che dobbiamo immaginare come interiormente negoziabili, non date una volta per tutte: perché questo è l’umano, complesso, sfaccettato, mutevole. Per questo occorre che le DAT siano un discorso aperto con un interlocutore, facilmente modificabili, aggiustabili, come e più di un documento testamentario notarile.

Parlarne con il proprio medico, inoltre, può aiutare lui a capire chi siamo, e quindi a consigliarci nel modo migliore sulle scelte riguardanti la nostra salute: scelte che non sono sempre necessariamente morire o vivere, ma operarsi o no in certe circostanze, fare o no una terapia oncologica invasiva, magari “cautelativa”, e moltissime altre. Credo sia bene riflettere su un fatto, che dovrebbe essere l’unico assioma della laicità, quella vera e profonda, praticabile da credenti e non, religiosi e non: non esistono modelli esistenziali assoluti, e quindi non esistono scelte etiche universalmente valide.

Cosa ne pensate? Vedete il rapporto tra “epidemia” di Alzheimer (un milione e duecentomila persone in Italia) e l’esigenza di lasciare Dichiarazioni Anticipate di Trattamento? Siete d’accordo che a raccogliere le DAT siano i medici di medicina generale?