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Il Dìa de Muertos: la festa messicana dei morti, di Cristina Vargas

La parata a Città del Messico, il 29 ottobre (AP Photo/ Ginnette Riquelme, foto pubblicata su Il Post)

Il primo e il due novembre, i popoli indigeni del Messico si riuniscono per celebrare il ritorno temporaneo dei morti. Questa festa, centrale nella vita cerimoniale e spirituale di queste comunità, oggi è condivisa in tutto il paese: ovunque si preparano degli scheletrini di zucchero e cioccolato; si inforna il pane dei morti e si cucinano i tamales, un piatto tipico che ha come base un impasto di mais, nel quale si avvolgono le verdure, le spezie, la carne e altri ingredienti. Le strade di tutto il Messico si coprono di festoni di carta ritagliata e di fiori di cempoalxúchit (Calendula americana). I cimiteri e le case si riempiono di candele e altari con cibi e bevande, e persino chi vive all’estero si adopera per costruire un luogo con tutto l’occorrente per accogliere i defunti.

Questa commemorazione, dichiarata dall’UNESCO Patrimonio Orale e Immateriale dell’Umanità il 7 novembre 2003, esprime una concezione ciclica della vita e della morte che ha profonde radici nell’immaginario mesoamericano. Per i popoli nahua, maya, zapoteca e mixteca, chi muore non scompare completamente. Il corpo è animato da un principio vitale che permane dopo la fine biologica: è il tonalli, un termine che in spagnolo può essere tradotto come alma (anima) o ánima (spirito). Gli spiriti degli antenati e dei defunti, finché vengono ricordati, dimorano nella terra dei morti e, in un certo periodo dell’anno, possono transitare verso il mondo dei vivi, incontrare le loro famiglie, mangiare, bere e condividere con loro un frammento di vita. Per usare le parole dell’antropologo messicano José Eric Mendoza Lujàn:

La morte non ci può raggiungere mentre ci sia una persona che ci commemora, che ci ricorda. È per questo motivo che in questa celebrazione non c’è il cordoglio, non c’è lutto, non c’è dolore. Non puoi ricevere un parente, un amico, un antenato con le lacrime agli occhi. È un tempo per festeggiare.

L’incontro con gli antenati, tuttavia, non è semplice sotto il profilo simbolico. Incontrare i defunti, da un lato, è un evento atteso e desiderato, che esprime l’affetto per chi non c’è più; dall’altro è un contatto temuto, che richiama le incertezze dell’ignoto e la necessità di mantenere la separazione fra ciò che è “di là” e ciò che è “di qua”. Nella festa dei morti i richiami visivi espliciti, che a tratti sconfinano nel macabro, uniti a un certo “eccesso” di convivialità hanno la funzione di esorcizzare l’angoscia del contatto con la morte. La paura non è assente, anzi, essa emerge con chiarezza in una delle narrazioni orali raccolte da Miguel Ángel Rubio e Metzli Yolosochitl Martinez, che hanno documentato i riti legati a questo giorno in varie regioni del Centro e Sud del Messico:

… alcune persone dicono che i morti non arriveranno, che non sono più come noi vivi, che non esistono più. Ma loro esistono. Quando gli anziani pregano l’aria è ferma, non c’è nessun vento, nulla, e tu preghi con loro. E, a un certo punto, senti una folata di vento, un’ombra che ti passa a fianco: sono loro che arrivano. (…) Chi non crede, invece, è raggiunto dai defunti di notte, mentre dorme: vengono a infestare le loro case, a spaventarli.

Oltre agli altari familiari, in molte regioni del Messico si offrono dei cibi e delle bevande alle “anime solitarie”, ovvero quelle dei defunti che non avevano legami significativi quando erano in vita. Questi altari, volti ad accogliere e a placare anche gli sconosciuti, testimoniano il carattere comunitario di questa festività, che non è solo un’occasione di incontro fra i vivi e i morti, ma è anche un momento di aggregazione fra i vivi.

Contrariamente a quanto spesso si pensa, l’origine del Día de Muertos non è preispanico: si tratta di una festività sincretica, che nasce dall’incontro fra le concezioni precolombiane dell’aldilà, il cattolicesimo che fu imposto durante la conquista e la colonizzazione e un insieme di simboli, pratiche e credenze contemporanee (non ultimo Halloween), che man mano si sono mescolati per produrre la festa come oggi la conosciamo.

Fra Diego Durán, missionario e storico spagnolo del XVI secolo, descrisse nella sua Historia de las Indias de Nueva España due feste dedicate ai morti. La prima era Miccailhuitontli, ovvero la festa dei “piccoli morti”, che si celebrava nel nono mese del calendario nahua (che corrisponde all’incirca al mese di agosto). La seconda era la Festa Grande dei Morti, che veniva celebrata nel mese di ottobre. Entrambe queste date coincidono con il periodo di crescita e raccolta del mais, che fin dall’epoca preispanica rappresentava la principale fonte di sostentamento dei popoli nativi. Si trattava dunque di riti collegati alla stagionalità agricola. Temendo tutti gli eventi che avrebbero potuto ostacolare il buon andamento del raccolto, gli indigeni interpellavano gli antenati e invocavano la loro protezione offrendo doni, oblazioni e sacrifici. La ciclicità della natura e la ciclicità della vita si intrecciavano simbolicamente a partire da un principio di reciprocità fra i vivi e i morti: i primi erano chiamati a condividere i doni del raccolto con i loro antenati, mentre i secondi dovevano farsi garanti della generatività della terra.

Parallelamente, dato che nei regni cattolici di Leon, Aragon e Castilla era diffusa la tradizione di preparare dei dolci che imitavano la forma delle reliquie per la festa di Ognissanti, nel mese di ottobre giungevano nel Messico cinquecentesco delle dolcissime caramelle al miele a forma di ossa, crani e femori; insieme a deliziosi scheletri di pasta di mandorle da consumare il primo novembre. Questo dolci, però, erano troppo cari perché il popolo potesse gustarli, così, in breve, gli indigeni e i creoli messicani cominciarono a “inventare” le loro versioni usando il cacao, i semi e altri prodotti tipici americani. Gradualmente, le comunità indigene spostarono le loro celebrazioni dei morti – osteggiate dalla chiesa cattolica, in quanto pagane – ai giorni dedicati alle commemorazioni di Tutti i santi, e incorporarono ai doni tradizionali (a base di mais) i dolci ispirati alla festa spagnola.

I significati originari e nuovi si mescolarono, dando luogo a una religiosità popolare sincretica, che aveva come oggetto di devozione e di culto tanto i santi quanto gli antenati. Rito e festa si mescolano in molti modi nel Día de Muertos. La vitalità e il significato di questa commemorazione stanno proprio nel suo carattere ibrido, meticcio quanto lo è l’anima dell’America Latina, che le ha consentito di trasformarsi di volta in volta, attraversando le vicissitudini storiche e sociali messicane, per dare forma a un’espressione culturale molto sentita e partecipata, che tiene insieme l’amore e il timore, il visibile e l’invisibile, la morte e la vita.

Le parole personalizzate del ricordo, di Davide Sisto

In giugno a Bologna ho avuto il piacere di partecipare in qualità di relatore a un convegno che si è svolto all’interno della fiera “Devotio. Esposizione internazionale di prodotti e servizi per il mondo religioso”. Questo convegno, che ha coinvolto sociologi, esperti di storia delle religioni e di architettura sacra, nonché importanti esponenti del mondo cristiano, si è soffermato sulla metamorfosi contemporanea degli spazi e delle parole della memoria cristiana nei cimiteri. In particolare, i vari interventi hanno cercato di comprendere se il tema della Risurrezione sia ancora presente negli spazi e nelle parole che caratterizzano i luoghi dei defunti, analizzando le trasformazioni rituali e culturali del XXI secolo. L’aspetto certamente più interessante che ne è emerso, rappresentando di fatto il filo rosso dell’intero convegno, è l’ineludibile incidenza delle tecnologie digitali attualmente in uso sulle ritualità funebri cristiane.

L’iperconnessione, se da una parte è diventata una questione di natura intergenerazionale, dall’altra intercetta il fine vita sotto molteplici punti di vista. Lo abbiamo più volte evidenziato all’interno di questo blog, partendo – per esempio – dal fatto oggettivo che sono decine di milioni i profili social attivi degli utenti deceduti. Ora, l’abitudine a disporre di spazi personali tramite cui esporre pubblicamente le caratteristiche e le passioni della propria vita intercetta e condiziona la dimensione del ricordo.

Detto in altre parole: più viviamo all’interno di un contesto pubblico in cui si antepongono i bisogni del singolo individuo a quelli della collettività, qualunque sia il modo in cui venga intesa, più si cerca di personalizzare il rito funebre. Questo lo possiamo constatare, per esempio, quando visitiamo le nuove sezioni dei cimiteri cittadini. Vi è un evidente incremento di lapidi che non si limitano a fornire solo indicazioni canoniche riguardo alla vita del defunto (data di nascita e di morte, a volte l’attività lavorativa e poco altro). Si tende, cioè, a mettere il visitatore del cimitero nella condizione di conoscere meglio le prerogative del defunto: pertanto, sono sempre più numerose le lapidi con sciarpe o magliette della squadra del cuore, macchinine in miniatura per ricordare la passione dell’automobilismo, addirittura bottiglie di birra o immagini relative a località geografiche particolarmente amate.

Non è un caso che ciò succeda nell’epoca dei social media e in una fase del tutto peculiare della secolarizzazione. L’antropologo Louis-Vincent Thomas, nel suo libro Antropologia della morte (1976), sosteneva con encomiabile lungimiranza che l’evoluzione tecnologica, con la conseguente personalizzazione degli spazi digitali a disposizione, avrebbe determinato la nascita di vere e proprie mnemoteche elettroniche della memoria. “Autentici monumenti psichici” che, situandosi perfettamente entro la linea tradizionale, ravvivano il ricordo del morto, “attualizzandone ininterrottamente le informazioni da lui lasciate in eredità”, perfezionano quindi il rispetto dei resti corporei e permettono una democratizzazione della memoria: “fanno entrare il più umile degli uomini e il più eminente nello stesso monumento comune, poiché entrambi sono partecipi della stessa struttura, simbolo del corpo mistico dell’umanità”.

Non stupisce pertanto il collegamento stabilito dalle parole del ricordo tra le lapidi nei cimiteri e i profili social: è ormai capillarmente diffuso il bisogno di parlare con i morti sia all’interno dei loro profili pubblici sia in quelli privati. Le parole utilizzate in questi spazi ibridi riproducono molto spesso le formule e le immagini canoniche della tradizione cristiana: ricorrenti, per esempio, sono i riferimenti alla collocazione in Paradiso o le immagini degli angeli associate al caro estinto.

Questo particolare processo di digitalizzazione delle parole della memoria si accompagna alla trasformazione dei luoghi cimiteriali. Come è stato evidenziato durante il convegno, la trasposizione simbolica del cimitero nei social va di pari passo con nuove forme di architettura cimiteriale, le quali rispecchiano le esigenze individuali. Ecco, quindi gli spazi cimiteriali che includono le urne biodegradabili su cui vengono piantati degli alberi, le vesti funebri che nel tessuto ospitano le spore di vari tipi di funghi, le urne in bioplastica, ecc.

Questo cambiamento, amplificato da iniziative come la digitalizzazione dei cimiteri portata avanti dalla Church of England, di cui ho parlato nel blog recentemente, solleva numerosi interrogativi che riguardano la relazione tra i singoli individui e la fede religiosa. Non volendo addentrarmi in questo territorio, mi limito a sottolineare come sia importante tener conto della metamorfosi relazionale tra i vivi e i morti all’interno di una società che si concentra – nel bene o nel male – sull’esigenza individuale. È importante affinché non vi sia uno scollegamento tra i bisogni dei dolenti e le autorità e le comunità adibite alla gestione delle ritualità funebri.

Voi cosa ne pensate? Ritenete sia doveroso favorire la dimensione individuale e personalizzata del ricordo a prescindere dai riti canonici e tradizionali? Attendiamo, come sempre, i vostri commenti.

La casa come luogo dei fantasmi. Una breve riflessione sulla presenza spettrale dei morti, di Davide Sisto

Recentemente mi è capitato di vedere su Netflix il film “Storia di un fantasma” (2017), scritto, diretto e montato da David Lowery. Il protagonista è il silenzioso e invisibile fantasma di un uomo morto in un incidente stradale che, coperto dal classico lenzuolo bianco, vaga senza meta per la casa in cui ha vissuto. Egli osserva inerme, senza poter essere a sua volta visto, l’iniziale dolore lancinante della compagna, mutatosi nel corso del tempo in una inevitabile nuova vita (con un nuovo fidanzato). Una scena fa decisamente effetto: pochi giorni dopo il decesso, vediamo il fantasma in piedi davanti alla compagna la quale, seduta per terra, ingurgita in modo scomposto una torta. Nel silenzio tombale della casa, questa scena si prolunga per diversi minuti, fino a quando la donna corre in bagno a vomitare.

Il tema della presenza spettrale del morto nella casa in cui ha abitato non è certo originale, per usare un eufemismo. Mark Fisher, nel libro Spettri della mia vita, ci ricorda che la parola haunt in inglese significa sia luogo di residenza sia ciò che lo invade o lo disturba. «L’Oxford English Dictionary indica come uno dei primi significati del termine haunt quello di ‘fornire di una casa, una dimora’», osserva Fisher. Dall’epoca della letteratura gotica a quella dei film horror sono ricorrenti, se non addirittura quotidiane, le narrazioni delle case infestate dai fantasmi. Al tempo stesso, chiunque abbia letto e amato il romanzo Domani nella battaglia pensa a me di Javier Marìas avrà memorizzato, senza dubbio, l’immagine delle gonne stropicciate e poggiate accanto al letto di una donna morta all’improvviso: in quelle gonne viene simbolicamente collocato il rapporto continuativo tra la vita e la morte, quasi come se – da un momento all’altro – potessero essere di nuovo indossate dalla loro proprietaria.

Di fatto, è la particolare dialettica tra presenza e assenza propria dello statuto del morto a determinare la sua vita spettrale tra le mura domestiche. Come ci insegna il tanatologo Thomas Macho, il morto rappresenta sempre l’incarnazione della presenza di un assente; una specie di doppio, che continua a essere presente tra i vivi nonostante la sua assenza fisica e che – di fatto – ispira ogni innovazione tecnologica. Dall’invenzione della scrittura alle tecnologie digitali odierne non facciamo altro che tentare di dare una forma fisica alternativa al morto svanito per sempre, cercando di mettere a frutto la dialettica tra presenza e assenza, all’interno di cui egli è collocato, per limitare le sofferenze della perdita. Ogni invenzione tecnologica, consapevole del legame inscindibile tra gli spettri dei morti e i vivi, cerca – in definitiva – di dare un nuovo corpo ai fantasmi.

«Cancellando una traccia – osserva tuttavia Aleida Assmann – la sopravvivenza di una persona o di un evento nella memoria dei posteri diventa altrettanto impossibile che la scoperta di un delitto». Lo scienziato Desmond Morris, all’indomani della morte della donna con cui ha vissuto sessantasei anni, cerca di applicare il pensiero di Assmann, eliminando tutte le sue tracce. Prima le migliaia di libri, i dipinti e gli oggetti di antiquariato comprati insieme alla moglie nel corso di oltre mezzo secolo di matrimonio. Poi i semplici utensili – una tazza, per esempio – in cui sono conservati simbolicamente i più naturali gesti quotidiani di una vita condivisa. Quindi, l’intera casa. Si è infatti reso conto che solo abbandonando quel deposito materiale e simbolico di ricordi condivisi è possibile non sentire l’opprimente presenza dello spettro della moglie.

Non sempre, in altre parole, è salutare il desiderio di dare un corpo al fantasma del morto. Anzi, può essere profondamente utile unire ai riti funebri, che determinano la separazione della vita insieme al morto da quella senza il morto, una scelta personale radicale: il totale cambiamento della propria quotidianità, di modo da non rimanere prigionieri dei ricatti dei fantasmi. Esattamente come ha scelto di fare Desmond Morris.

Quali sono le vostre esperienze legate alla presenza invisibile dei morti nelle vostre abitazioni? Cosa avete affrontato i loro spettri? Attendiamo le vostre storie.

 

A che punto siamo con la negazione della morte? Prima puntata: i riti, di Marina Sozzi

A che punto siamo con la negazione della morte? E’ una domanda che un tanatologo, di tanto in tanto, deve porsi. Questa volta l’interrogativo è stato stimolato anche dalla lettura dell’ultimo libro del sociologo Marzio Barbagli, Alla fine della vita, che afferma che la società moderna non nega e nasconde la morte più di quelle che l’hanno preceduta. Non sono per niente d’accordo con lui, e ho l’impressione che il libro voglia essere una provocazione, ma non sia del tutto equo nei confronti del profluvio di studi e riflessioni che, in tutto il mondo occidentale, hanno esaminato i molteplici significati dell’impasse dei nostri contemporanei non solo di fronte al morire, ma anche dinanzi al soffrire. Sembra che Barbagli voglia un po’ “liquidare” la tesi della negazione della morte, più di quanto non intenda riesaminarla.

Io vorrei, invece, affrontare la domanda sulla negazione della morte come se fosse una domanda nuova, senza dare per scontate le risposte che ho dato in passato. Sono ormai venticinque anni che mi occupo di questi temi, e vi propongo di guardare a ciò che è accaduto nell’ultimo ventennio. La situazione è migliorata? E’ peggiorata? Il discorso è lungo, e comincio oggi proponendovi un tema specifico, quello dei riti funebri.

I riti funebri sono semplicemente cambiati, come dice Barbagli, o c’è una povertà rituale oggi in Italia? Che le modalità di sepoltura siano cambiate è un dato: nel 2016 (ultimi dati disponibili) è stata scelta la cremazione dal 23% delle persone, l’inumazione dal 33% e la tumulazione dal 44%. La scelta cremazionista cresce, per ragioni in parte culturali e in parte economiche. Non credo né ho mai creduto che l’aumento della cremazione, in Italia come in altri paesi, sia sintomo di una deritualizzazione.
Al contrario, nei luoghi in cui è stato proposto un rito del Commiato per accompagnare l’affidamento della salma al crematorio, si è fatta un’importante operazione culturale: far riflettere i familiari sull’esigenza di un addio che abbia una struttura rituale, ma che corrisponda anche al desiderio di personalizzazione molto diffuso in Occidente: una poesia, una musica, qualche parola in memoria del defunto pronunciata da chi lo ha amato. Nei crematori dove c’è stata l’offerta di un rito, la popolazione ha maturato anche la capacità di celebrarlo a immagine e somiglianza del morto. Stiamo parlando, però, di una minoranza. C’è un’altra minoranza che pensa per tempo al rito funebre: quella di coloro che, avendo avuto accesso per tempo a buone cure palliative, hanno potuto conciliarsi con la propria morte e hanno dato istruzioni ai loro cari sulla cerimonia che desiderano.

La maggioranza delle persone, invece, si trovano in una situazione di impoverimento rituale. Pensano al rito funebre quando la morte di un congiunto è già avvenuta o sta per sopraggiungere. Allora chiamano le onoranze funebri e delegano loro quasi ogni decisione.
Così accade che molti non credenti si trovino impelagati in un rito cattolico. E forse anche la Chiesa cattolica si sta rendendo conto di quanti problemi ci siano nella celebrazione dei funerali religiosi con persone non religiose o blandamente credenti. I sacerdoti si accorgono che gli astanti non conoscono le formule di rito, non sanno quando alzarsi e sedersi, non conoscono le preghiere. Gli stessi operatori funebri si scandalizzano, inoltre, nel constatare che i partecipanti a molti funerali non riescono a sentire la solennità della morte, e si comportano in modo inappropriato.
Un problema a parte è costituito dalla scarsa offerta di spazi interculturali, dove sia possibile celebrare riti di altre culture o religioni. Ne ho parlato in alcuni miei libri e non vorrei dilungarmi su questo. Certo le cose non vanno meglio di qualche anno fa, né il clima di intolleranza che si va diffondendo nel paese fa presagire nulla di buono su questo fronte. Un’unica notazione positiva: la possibilità (che si sta cominciando a proporre) di assistere in streaming a funerali che si svolgono a migliaia di chilometri dal luogo dove si vive può essere uno strumento importante in un mondo globalizzato, anche se non sostituisce la presenza di persona.

Non è vero, come afferma Barbagli, che tutti i riti hanno perso terreno, e non solo quelli funebri. Forse in alcune nicchie intellettuali della mia generazione di baby boomers c’era un atteggiamento antiritualista, ad esempio ci si sposava in tono minore: era considerato più di buon gusto.
Oggi però i giovani sono tornati con entusiasmo al matrimonio tradizionale, anche quando si sposano civilmente, abito bianco, banchetto e torta nuziale, album di fotografie, bomboniere, (a testimonianza del loro/nostro bisogno di riti), e organizzano feste per il battesimo dei figli. Ma lo stesso non si può affermare per i funerali. Nessuno pensa di onorare la memoria di un defunto con un funerale importante.

Per quanto riguarda i cimiteri, continuano a essere luoghi poco frequentati, con l’esclusione delle persone in lutto e delle celebrazioni dei primi di novembre. Certo, nell’ultimo ventennio sono stati molto valorizzati i cimiteri monumentali, ma soprattutto dal punto di vista artistico-museale.
Invece le proposte innovative, che dovevano modificare il volto ai nostri luoghi dei morti (ad esempio i cimiteri arborei e altri progetti di parchi cimiteriali) non sono riusciti a sfondare, nonostante l’idea piaccia molto a tanti cittadini. Fiacchi i cimiteri virtuali, che pareva dovessero rappresentare il futuro, ma che non esistono quasi più. L’idea codice del Qr da mettere sulle tombe, per accedere a una realtà aumentata, e poter conoscere la storia della persona sepolta, benché interessante, ancora ha fatto poca strada. Intanto, continuiamo a avere cimiteri di loculi.

La commemorazione viaggia soprattutto sui social, Facebook in primo luogo. E’ accaduto che la rievocazione si sia spostata nel mondo virtuale, abbandonando parzialmente quello reale. Ma non mi spingerei a parlare di una nuova cultura funebre. Perlomeno, non ancora. La memoria veicolata dai social network è una memoria troppo carica di informazioni, troppo privata, e che privilegia l’aspetto della consolazione dei vivi rispetto a quello della memoria storica e sociale. E anche da questo punto di vista, manca l’aspetto concreto della presenza fisica degli altri nella vita di chi ha perso un congiunto. Certo, la presenza su Facebook è meglio di nulla. Ma è un succedaneo.

Non abbiamo, a mio modo di vedere, ancora trovato un rito che possa essere condiviso in una società complessa e plurale come la nostra. Cosa ne pensate? Vi sembra invece che nuovi riti si stiano sedimentando? Come vorreste che fosse il vostro rito funebre? I cimiteri sono ancora importanti?

Quando i corpi dei morti continuano a vivere insieme a noi, di Davide Sisto

images-2Secondo Hans Belting, noto storico dell’arte tedesco, la ragione principale per cui poniamo sulla tomba dei nostri cari una loro fotografia – meglio, la migliore fotografia a nostra disposizione – è la seguente: fornire di un “corpo immortale” la persona deceduta, di modo che i vivi dimentichino in tutta fretta il processo di lenta decomposizione a cui si sottopone il suo “corpo mortale”, oramai privo di vita, dentro la tomba. Quella fotografia, in altre parole, assorbe in sé l’esistenza – perduta – della persona morta, la quale non ne “sente” più il bisogno una volta fermatosi il suo cuore, e ci permette di mentire dolcemente a noi stessi: la nostra mente associa infatti, per sempre, a chi non è più con noi un’immagine serena e solare, piena di vita, tenendo alla larga il pensiero dolorosissimo di quel corpo familiare che, lontano dal nostro sguardo, non può che disfarsi progressivamente. Come, d’altronde, richiede la natura stessa, trasformando il nostro bel fisico in un rifiuto organico. Il ragionamento, lo sapete bene tutti, è di questo tipo: già è lancinante la sofferenza per il distacco, figurarsi cosa vorrebbe dire concentrare la propria attenzione sui processi organici che hanno luogo all’interno della bara.

Molteplici sono le riflessioni che si possono fare, a partire da questa osservazione di Belting, sul nostro rapporto con la morte e, in particolare, con il corpo del morto, soprattutto tenendo conto del ruolo particolarmente complesso che svolge la corporeità in Occidente fin dagli albori dei tempi. Un tema delicato di cui, in futuro, torneremo a parlare su questo blog.

Ciò che, invece, ora mi interessa è porre l’attenzione su un rituale funebre radicalmente opposto a quello a cui siamo abituati: la cerimonia Ma’nene degli abitanti di Tana Toraja, sull’isola indonesiana di Sulawesi, che può essere tradotta – in modo più o meno corretto – come “la cerimonia della pulizia dei cadaveri”. Ogni tre anni o poco più, a seconda dei villaggi, gli abitanti (sia adulti sia bambini) costruiscono delle scale con il bambù per accedere alle tombe dei loro cari, spesso conservate anche a quindici metri da terra, all’interno di cavità rocciose. Le prelevano, le aprono, sopportano – a fatica – l’odore certo non piacevole che proviene dal loro interno e tirano fuori i cadaveri, ben conservati e mummificati grazie a una particolare soluzione di acqua e formaldeide. Giunti a questo punto, puliscono e lavano con attenzione i corpi, rivestendoli quindi con abiti nuovi, sostituendo i loro occhiali, là dove vi sia la necessità di farlo, e riparando attentamente le loro bare. Quando queste sono eccessivamente marce, le sostituiscono; quando, invece, sono i cadaveri a non essere rimasti intatti, i familiari li avvolgono semplicemente in un telo bianco. Spesso, prima di riseppellirli, li riportano per un po’ di tempo a casa e li mettono in posa, con i loro abiti nuovi e ben pettinati, per farsi fotografare insieme. I vivi con i morti. Una volta consumato il rituale, le tombe vengono nuovamente sigillate e ricollocate all’interno delle cavità rocciose. Vengono sacrificati maiali e bufali indiani per il pranzo e, in seguito, ha luogo una forma tradizionale di combattimento. In attesa di ripetere la cerimonia, trascorsi tre nuovi anni, al punto che gli abitanti di Tana Toraja mettono da parte costantemente le loro ricchezze per potersi permettere il rinnovo del rituale.

Cosa ci insegna la cerimonia Ma’nene? Innanzitutto, che per gli abitanti di Tana Toraja il corpo del defunto non “svanisce” definitivamente, una volta chiusa la bara e sotterrata (va, tra l’altro, specificato che spesso i cadaveri non vengono immediatamente seppelliti ma rimangono per qualche settimana nelle case dei parenti). Ogni tre anni questo corpo ritorna, in qualche modo, a “vivere” in mezzo alle persone che lo hanno amato quando il suo cuore batteva. Non c’è, in altri termini, un muro che separa radicalmente la vita dalla morte, la quale non è intesa come un evento di rottura definitiva. Vi è una continuazione dell’esistenza spirituale tra il prima e il poi, per cui il confine tra vivere e morire è più sfumato e il distacco è meno traumatico rispetto alle tradizioni occidentali. I morti continuano a vivere, perché il decesso è solo un momento di passaggio, da cui nasce una nuova forma di legame con le persone. La morte è sottile sottile, una sfumatura della vita. Come dimostrano simbolicamente le fotografie che immortalano i bambini, a loro totale agio, con i cadaveri dei nonni o dei genitori, vestiti in modo elegante e ricercato.

Provate a ripensare alle osservazioni di Belting: noi proviamo un senso di angoscia così profondo nel vedere con i nostri occhi un corpo senza vita, da non volerlo nemmeno immaginare con la mente. Quasi tutte le pagine giornalistiche che descrivono la cerimonia Ma’nene avvertono prima i lettori: state attenti, il servizio contiene immagini che possono disturbare la vostra sensibilità. Vedere con gli occhi quei cadaveri riesumati e rivestiti, in mezzo a bambini e adulti indonesiani assolutamente a loro agio, per noi è tanto assurdo quanto disturbante.

Credo che abbiamo molto da imparare su come affrontare la morte e su come superare certi traumi legati al pensiero dei corpi che gradualmente si dissolvono. Certo, le nostre tradizioni sono differenti e si rischia di banalizzare l’interpretazione di questi rituali, se ci limitiamo a osservarli dal nostro specifico punto di vista occidentale. Tuttavia, non ritenete anche voi, come me, che questo modo di vivere il corpo del defunto sia tutt’altro che macabro e abbia, invece, un significato educativo e spirituale veramente profondo? Cosa ne pensate?

 

 

 

Al Qarafa, Il Cairo: dove morti e vivi vivono gomito a gomito

Voglio raccontarvi una storia, che parla al contempo di una donna e di un cimitero. Sabato pomeriggio Anna Tozzi Di Marco, un’antropologa romana conosciuta vari anni fa, si trovava a Torino, e si è offerta di farmi da guida per vedere la mostra delle fotografie relative al suo soggiorno nella Città dei morti del Cairo: luogo di sepoltura che, poco per volta, è divenuto una delle zone più popolose della capitale egiziana. Case e tombe, vivi e morti, convivono gomito a gomito.
Luogo della mostra (che è rimasta aperta dal 27 giugno a oggi, 4 giugno), sono i famosi Bagni Pubblici di via Aglié, a Torino, in occasione del mese di attività culturali dedicato all’Africa. I Bagni sono un luogo affascinante: hanno mantenuto la loro funzione originaria, divenendo inoltre un vivace centro culturale e interculturale.
Anna ha vissuto quasi dieci anni all’interno di Al Qarafa, la Città dei morti del Cairo, un’area di circa dodici kmq, divisa in diciassette quartieri, oggi luogo di vita e commercio da un lato, e di sepoltura dall’altro. Anna è rimasta dieci anni nel cimitero per cogliere dall’interno le dinamiche dell’inurbamento in quel luogo, ed esaminarle anche in rapporto ai rituali funebri e religiosi.
Le prime fotografie della mostra (documenti fortunosamente ricuperati da Anna) risalgono ai primi del Novecento, e mostrano uno spazio vuoto, con alcune sepolture qua e là. Da inizio Novecento ad oggi, l’area di Al Qarafa è completamente cambiata: si sono costruite le case, e oggi la densità di popolazione è molto alta, ma non per questo si è smesso di seppellire.
Anna ha già scritto un libro su quest’esperienza unica: Egitto inedito. Taccuini di viaggio nella necropoli musulmana del Cairo, acquistabile su un sito dedicato al Centro di ricerche e documentazione di tanatologia culturale, da lei fondato e diretto, eccellente per chi voglia approfondire il suo punto di vista antropologico, www.lacittadeimorti.com. Anna pratica infatti un’antropologia militante, come lei la definisce: “la prospettiva antropologica deve essere acquisizione di consapevolezza del contesto in cui si andrà a operare, e fornire gli strumenti per muoversi nel territorio interagendo con i locali. Deve gettare le basi di una cooperazione allo sviluppo sostenibile che veda coinvolti gli abitanti nei processi di decisione”.
Le foto, in parte scattate da lei, in parte da altri antropologi, giornalisti o fotografi professionisti, sono eccellenti testimonianze di questa prospettiva: l’obiettivo è restituire una rappresentazione dignitosa degli abitanti del cimitero cairota (più di un milione), valorizzandone la vita quotidiana, i mestieri (spesso legati alle sepolture), le espressioni religiose e culturali, e facendo piazza pulita delle immagini stereotipate, negative e esotizzanti. Gli scatti rappresentano interratori e scultori del marmo, venditori di verdura e di tappetini, interni di case, coloratissimi, e bambini che giocano, donne che cucinano, tombe situate nei cortili, becchini, visite alle tombe, facciate dipinte per testimoniare l’avvenuto pellegrinaggio alla Mecca, perfino una cerimonia in cui una donna entra in trans per placare gli spiriti.
La mostra sarà itinerante, continuerà a viaggiare in Italia, e magari potrà fare una seconda puntata torinese. E Anna Tozzi? Sta per ripartire, verso Cipro e la Turchia, per studiare la leggenda dei Sette Dormienti, pronta per nuove esperienze.
Se la storia di Al Qarafa vi ha interessati o incuriositi, guardate anche il documentario di Alessandro Molatore: http://vimeo.com/18992377, e su flickr, ricercate Al Qarafa. Vedrete splendide fotografie, tra le quali alcune sono di Anna.

Cremazioni rituali a Varanasi (India)


Passeggiando per le contorte anguste e affollatissime viuzze di Godaulia, la parte vecchia della città sacra per gli induisti, Varanasi (Benares), tra botteghe della seta e dei gioielli, venditori di spezie, the e yogurt, templi seminascosti tra le abitazioni, negozi di noce di betel e pasticceri, mucche e motociclette che suonano il clacson per passare facendo lo slalom tra i pedoni, di tanto in tanto si sente risuonare un mantra ripetuto in modo cadenzato, rama nama satya hai, (il nome di Ram è verità). Nessuno si sposta, né interrompe la propria attività o compie alcun gesto, neppure quando, poco dopo, si vede passare un breve corteo di uomini, alcuni dei quali portano sulle spalle una lettiga, su cui giace un cadavere avvolto in coloratissime rilucenti sete, giallo arancio, rosso, oro e argento. I bambini continuano a giocare e gli adulti a occuparsi dei loro affari. I morti vengono portati per la cremazione rituale al Ghat di Manikarnika, il più antico, o a quello più nuovo di Harishchandra, alle spalle del quale esiste anche un moderno crematorio elettrico, poco usato.
Il rito deve svolgersi secondo la tradizione induista, e occorre seguirne scrupolosamente ogni passaggio. Non ho visto nessuno piangere nei luoghi della cremazione, e neppure nei cortei funebri. Ho chiesto come mai al bramino che mi ospitava, e sia lui che la moglie parevano concordare sul fatto che il rito richiede una grande concentrazione, non è il momento per lasciarsi andare al dolore. Avvicinandosi a Manikarnika, l’atmosfera si fa densa e oscura, pare di essere piombati in un aldilà mitologico, tornano in mente le rive dello Stige e i gironi di Dante. S’incontrano venditori di legna, di sacchetti di polvere di legno di sandalo, di burro chiarificato, di serici sudari funerari, di urne di terracotta. L’odore dei corpi bruciati e il fumo nero che si leva dalle pire fa bruciare gli occhi e tossire. Ma qui vita e morte sono strettamente intrecciate, e morire fa parte della quotidianità come vivere, gioire e soffrire. Un paio di volte, nel traffico soffocante e rumoroso della città, ho visto passare, fissato con corde sul tetto di un tuk tuk, tipica vettura pubblica indiana (un’ape a tre ruote gialla e verde, chiusa sopra e aperta ai lati) un cadavere diretto ai crematori, sulla sua lettiga.
In alto, salendo una ripida scala del Ghat Manikarnika, vi è un edificio che conserva un fuoco sempiterno, e sempre alimentato: è da questo fuoco che viene tolta la scintilla con la quale si dà fuoco ai corpi. La legna costa cara, soprattutto quella di sandalo, che generalmente è utilizzata solo per personaggi importanti. Altrimenti, si usano altri tipi di legna, più a buon mercato: l’importante è saper calcolare il peso della legna che occorre per bruciare completamente il corpo, operazione che richiede almeno quattro o cinque ore.

Quando ci si affaccia sul Ghat pare di essere stati trasportati in un tempo antichissimo. Le pire, soprattutto la sera, sono impressionanti, e rivelano parti di corpi scuriti e deformati dal fuoco, mentre colossali mucche nere camminano incuranti nella cenere e nel fango. Accanto, uomini e donne lavano i panni su pietre poste sul Gange. Continuamente arrivano nuovi corpi addobbati e scintillanti, che stanno in attesa del loro turno di cremazione. Quando il corpo arriva al Ghat, per prima cosa viene lavato nel Gange, immergendolo fino alle ginocchia. Poi è adagiato sulla pira, con la testa a nord e i piedi a sud. Parte della legna viene posta sopra al corpo, che viene cosparso di polvere di legno di sandalo, di burro chiarificato, il ghi, e di qualche goccia di acqua del Gange. Il figlio maschio maggiore, che è la persona deputata a condurre il rito, compie cinque giri intorno alla pira e poi l’accende, a partire dai capelli. La testa e il volto del defunto sono scoperti.
Quando la cremazione è terminata, si getta acqua per spegnere il fuoco e il figlio raccoglie le ceneri nell’urna, che poi devono essere restituite al Gange.