Come sostenere il bisogno spirituale alla fine della vita? di Marina Sozzi

Sono convinta che alla fine della vita la dimensione della spiritualità divenga più rilevante. L’homo faber, infatti, che generalmente ha avuto un ruolo preponderante durante la maggior parte della vita, va esaurendosi. A questo punto della storia biografica delle persone la ricerca di senso è uno snodo inevitabile. La malattia e la morte fanno emergere gli interrogativi sul senso sia nelle persone sia negli operatori, che sono a contatto ogni giorno con il morire degli altri.

Inevitabilmente, il confine tra la vita e la morte interseca la dimensione del sacro, del mistero, del trascendente (inteso in senso lato, come ciò che va oltre la quotidianità dell’esperienza). Per questo è fondamentale che le équipe di cure palliative siano consapevoli che il terreno su cui si muovono è costituito anche dalla dimensione spirituale.

Tuttavia, ho cercato anche di pormi un altro interrogativo, che mi pare serpeggi nelle istituzioni che offrono cure palliative, ma al quale non è ancora stata data una risposta definitiva. La questione è: la dimensione spirituale è propria dell’équipe nel suo complesso, oppure è utile, e magari opportuno, che esista una figura di assistente spirituale laico che si occupi di questo versante dell’esperienza della fine della vita? Non entro invece nel merito della presenza di assistenti spirituali religiosi, delle varie confessioni, che possono essere presenti oppure essere chiamati dall’équipe, una volta individuato il bisogno del paziente o del familiare. Per scrivere questo articolo mi sono confrontata con alcune persone, che desidero ringraziare, perché mi hanno permesso di entrare nel merito del loro lavoro: Caterina Giavotto, assistente spirituale in Vidas, a Milano; Claudia Cavegn, assistente laica (cattolica) al Regina Margherita, ospedale pediatrico a Torino, e infine Guidalberto Bormolini, sacerdote della comunità dei Ricostruttori, e promotore della scuola di assistenza spirituale. E mi è stato inoltre utile, per chiarire le mie idee, leggere il  in assistenza spirituale della Società Italiana delle Cure Palliative, del 2019, che potete consultare qui, e che offre una riflessione molto ricca, problematica e sfaccettata.

In questo periodo, peraltro, molte istituzioni si sono concentrate sul tema della spiritualità, costruendo corsi (ad esempio quello dell’Unione Buddisti Italiani, ma soprattutto la Scuola di Alta Formazione per l’assistente spirituale in cure palliative di Ricostruire la Vita, promosso da Fondazione Luce per la Vita, Associazione TuttoèVita ETS, Federazione Cure Palliative, Società Italiana di Cure Palliative).  Il Core Curriculum della SICP esordisce affermando che l’obiettivo del documento non è tanto di formare figure di assistenti spirituali, quanto di definire quali competenze debba acquisire l’équipe, nel suo complesso, per poter aiutare i pazienti e le famiglie ad affrontare le complesse domande di carattere spirituale che si affacciano alla fine della vita.

In effetti, molti degli aspetti citati come parte di un’ipotetica formazione dell’assistente spirituale sono, senz’altro, elementi propri di una cura di qualità: la compassione, (in senso etimologico di cum patior), l’ascolto, la comunicazione non giudicante, eccetera.

Da questo punto di vista, mi pare che ci sia una certa sovrapposizione tra la figura dello psicologo (che alla fine della vita si occupa proprio del senso e delle relazioni) e quella dell’assistente spirituale: sovrapposizione che le persone che ho intervistato, ad esempio Caterina Giavotto, confermano essere presente. Anzi, ribadisce Claudia Cavegn, “non si tratta di una frontiera”, c’è lo spazio comune dell’ascolto. E Bormolini sottolinea che non dobbiamo circoscrivere gli ambiti, perché dobbiamo mantenere la logica della “persona integrale”: “se spezziamo, frammentiamo”.

Tuttavia, ciascuno di loro sottolinea un aspetto specifico del proprio lavoro, non comune con l’operato dello psicologo. Bormolini ha subito chiara la specificità della dimensione spirituale, che ha a che fare, per lui, con il trascendente (in senso ampio: se non hai qualcosa per cui morire non hai qualcosa per cui vivere), il mistero, l’orientamento (avere una direzione) e il senso di comunione con qualcosa di più grande.

Caterina Giavotti mi racconta invece di una signora che aveva chiesto di vedere un frate (non un prete). Voleva una figura con un ruolo trasversale nella chiesa. Perché? Le ha chiesto Caterina. La signora aveva, nella sua biografia, due aborti, ed era terrorizzata che “Gesù non l’avrebbe perdonata”. Insieme hanno costruito (inventato) un piccolo rito, con la meditazione, una preghiera, e con una scatolina in cui lasciar andare l’accaduto e il rimorso, un rito che ha alleggerito molto la signora in questione.

Anche Claudia Cavegn mette l’accento sull’aspetto rituale: nella sua esperienza c’è una famiglia Rom con una bimba vicina alla fine della vita, una famiglia nella quale il marito è musulmano e la mamma ortodossa. La mamma, quando ha saputo che la speranza di guarigione non c’era più, ha chiesto che la bimba fosse battezzata. Quando ha saputo che Claudia poteva battezzarla, non le è importato che fosse cattolica. La rilevanza simbolica del rito l’ha fatta andare oltre i confini della propria confessione religiosa.

La dimensione del rito (e di un rito non religioso in senso stretto) è interessante. La morte, come scriveva Van Gennep, e molti altri antropologi con lui, è un rito di passaggio. Per chi resta, naturalmente. Ma talvolta anche chi se ne va ha bisogno di una dimensione rituale, un’azione che simbolizzi qualcosa che non si riesce a dire altrimenti, o ad elaborare altrimenti (come la signora che aveva abortito).

Questa dimensione è interessante anche perché sono convinta che le invenzioni rituali possano avere un ruolo rilevante in una società molto secolarizzata come la nostra. Per molti, la scatolina è più efficace dell’unzione dei malati.

Il core curriculum di SICP propone inoltre che la formazione preveda una cultura di massima sulla dimensione rituale e culturale delle religioni. Il che può senz’altro essere utile, mantenendo però la consapevolezza della complessità e della pluralità delle modalità di abbracciare uno stesso credo. Di fronte a una persona, non ci basta sapere, ad esempio, che è musulmana. Diverso è l’islam in diverse parti del mondo e, anche all’interno di una medesima area geografica, in vari strati sociali, e in famiglie diverse. Inoltre, talvolta può accadere che le persone in terra d’accoglienza modifichino l’atteggiamento religioso che avevano in patria. La formazione in “assistenza spirituale” va dunque usata per avere un inquadramento di tipo generale, e non per incasellare i bisogni dei pazienti o dei familiari.

Non ho naturalmente una risposta definitiva alla questione del ruolo dell’assistente spirituale, e concordo con il documento SICP che non è possibile avere la preparazione necessaria a espletare questo ruolo attraverso un corso, perché si tratta di qualcosa di più di una competenza: piuttosto è un atteggiamento nei confronti del mondo e della vita, che si nutre di esperienze reiterate, dalle quali si apprende e si affina la propria spiritualità, indispensabile per confrontarsi con quella degli altri.

Volevo solo portare alcuni punti alla riflessione, e sono naturalmente in ascolto delle vostre considerazioni, risposte ed esperienze. E grazie come sempre per il fruttuoso dibattito che sempre emerge da queste pagine!

21 commenti
  1. Claudia Palmas
    Claudia Palmas dice:

    Grazie per questo interessante articolo. Io non posso entrare nel merito della materia in modo approfondito, perché mi mancano “le basi”. Posso, però, esprimere un mio pensiero sull’argomento frutto di molti anni vissuti in Hospice, come volontaria e di alcune vicende personali sul fine vita.
    Intanto mi chiedo cosa potrebbe essere un assistente spirituale per me e come potrebbe essere, invece, percepito da un malato terminale. Per me l’assistente spirituale è tutto ciò che non è un prete, uno psicologo, un frate…insomma una persona con alte doti di empatia e gentilezza, che si siede accanto al paziente, qualora lui lo desideri, e ne diventi CURA discreta. Per cura discreta intendo lo stare lì, accanto a lui, anche senza parlare. Il silenzio a volte ci dice molto e rispettarlo è la prima forma di spiritualità. È come fosse preghiera senza testo. Stiamo in silenzio insieme. Ecco INSIEME è, a mio avviso, la più alta forma di spiritualità . Sono due spiriti uniti dal silenzio. Assicuro che il fine vita vissuto insieme fa meno paura. Questo l’ho vissuto personalmente. Poi ci sono tanti pazienti terminali che, invece, hanno bisogno di parlare, di raccontarsi e raccontare la propria vita. In questi casi, il senso della vita sono proprio loro che lo riconoscono dai loro racconti. Hanno bisogno solo di ricordarselo. E il racconto diventa conferma di dignità personale. In questo caso, l’assistente spirituale, sarebbe fantastico se fosse in ascolto attivo, curioso, facesse domande, sempre nel limite del rispetto della privacy del paziente.
    Assistente spirituale è una figura molto utile anche per i caregiver…
    Mi fermo, perché ci sarebbero tante cose da dire. Spero di non essere andata fuori tema.
    Grazie e un caro saluto
    Claudia Palmas

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    • sipuodiremorte
      sipuodiremorte dice:

      Gentile Claudia, grazie per il suo commento. Senz’altro l’ascolto e il silenzio sono importanti elementi dell’assistenza spirituale. Tuttavia, proviamo ad andare oltre. Questi elementi sono propri di ogni membro dell’équipe, anche del volontario, come lei ben sa, avendo fatto volontariato in hospice. Non è facile invece capire se occorre una figura specifica di assistente spirituale, che non sia una figura religiosa. Peraltro, a volte ci sono cappellani che sanno fare assistenza spirituale (e capiscono che le domande che si fanno alla fine della vita non sono domande teologiche…) e altre volte ci sono cappellani rigidi e dogmatici. Le domande sono tante: quale cultura è necessaria per occuparsi di questo aspetto della cura? Quale formazione? Quali caratteristiche personali?

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  2. Marianna
    Marianna dice:

    Ringrazio per l’articolo e condivido la riflessione della signora Palmas. Non possiamo parlare di spiritualità se non abbiamo fatto esperienza diretta nella nostra sfera transpersonale. Ruoli e corsi
    ci possono agevolare per inserirci nelle strutture che richiedono un certo accreditamento ma possiamo fallire miseramente se non mettiamo in gioco noi stessi con gli aspetti e attributi da lei indicati. L’accompagnamento di un sacerdote può essere spirituale o non esserlo così come può esserlo o meno quello di una persona cara o di una figura che sappia o non sappia entrare nel “qui e ora” del paziente come spazio tempo e accoglienza. INSIEME è la chiave , se desiderato, e si può pregare o meditare in in silenzio o in tutte le lingue se il nostro spirito sottende alle forme .
    Tutti potremmo saper accompagnare se non ce lo fossimo dimenticato.
    Grazie
    Marianna

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    • sipuodiremorte
      sipuodiremorte dice:

      Condivido la sua opinione, Marianna, la prima condizione per accompagnare qualcuno è di avere una vita spirituale, di saperla nutrire e accrescere.

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  3. Patrizia Fonda
    Patrizia Fonda dice:

    Grazie per la riflessione. Certamente la base è l’empatia e l’ascolto. Per riconoscere i bisogni spirituali a volte occorre del tempo proprio perchè sono in un’area mista con i bisogni psicologici. Non sempre si riesce ad arrivarci ma proporre qualche spunto e vedere se arriva… certo il tempo da dedicare è notevole

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    • sipuodiremorte
      sipuodiremorte dice:

      Grazie Patrizia, certo l’empatia è importante, se sappiamo usarla. Potrebbe aiutarci a capire se esiste nella persona che assistiamo uno “spazio” per la spiritualità, il desiderio di ripercorrere la vita, le cose buone e quelle cattive, gli affetti e le occasioni mancate… e se sentiamo che lo spazio c’è, allora certo abbiamo bisogno di tempo per ascoltare, fare domande, sostenere la riflessione. Ma questo non è il lavoro degli psicologi di cure palliative? C’è qualcosa di veramente specifico della figura dell’assistente spirituale (posto che una figura del genere serva)?

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  4. Ilaria
    Ilaria dice:

    Buon pomeriggio Gentilissime/i,

    Sono riconoscente a una trasmissione su Radio3 di qualche giorno fa che faceva menzione di questo blog e alle signore che han condiviso le proprie opinioni e i propri sentire, prima di me.

    Da fine marzo ’22 quando ho scoperto il mio terzo cancro, al quarto stadio…
    Ho chiaramente pensato in maniera più viva alla sorellina Morte… Tant’è che ho abbandonato la mia Vita spagnola e mi sono trasferita in Toscana, nel mio paese natale… Vicino alla mia Famiglia, perché più loro che io si possa aver RICORDI, attraverso quest’ultimi si vuol bene.

    Navigo a vista con la mia malattia, come veliero tra i marosi e io al timone… Finché…

    Sono grata di avere questo TEMPO, anche se nel bel mezzo della clessidra e di Spirito resto ilare…
    Non c’è miglior ode per la Vita che esserlo.

    Spessissimo vivo il mio prezioso e instabile Tempo in varie sale d’attesa ospedaliere… E lì mi confronto con altri pazienti… Che sono spesso chiusi in sé stessi per la paura che impera o la rassegnazione che incalza…

    Quel che avviene, non con tutti eh, è di aprire INSIEME per pochi minuti una finestra, affacciata sulle nostre reciproche vite, parlando di altro, personale o non… La malattia trascolora.

    I volti si distendono e mi corrispondono il sorriso che all’inizio avevo loro indirizzato…
    E la cosa buffa è che spesso la scintilla di “attacca bottone” sono le mie scarpe colorate!! Benedette siano!!

    Conservare quell’albero verde nel cuore è il mio mantra.
    Sono atea, ma credo profondamente all’empatia tra gli esseri e alla mirabolante bellezza dell’Universo tutto.

    E il motivo per cui ho scritto questi miei pensieri… È perché desidero semplicemente condividere il mio sentire pacifico con chiunque voglia aprire quella finestra… In salute o meno che sia.

    Non avevo dato un nome al mio desiderio… Ma è proprio quello di assistente spirituale.

    GRAZIE!
    Saluti allegri,

    Ilaria

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    • sipuodiremorte
      sipuodiremorte dice:

      Gentile Ilaria, grazie di cuore per la sua meravigliosa testimonianza, che parla più di mille considerazioni teoriche… e che mi è arrivata dritta al cuore, perché anche io ho un dialogo sempre aperto, nella mia pelle, con la malattia e la morte…

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    • Lucia Ientile
      Lucia Ientile dice:

      Grazie Ilaria per le Sue parole. “Conservare l’albero verde nel cuore” è una visione poetica e dolcissima. E come le sue scarpe, ha dato colore anche a me. Saluti allegri anche a Lei

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  5. sman
    sman dice:

    Grazie di cquesto articolo. Per quanto riguarda la conclusione direi che è assolutamente vero che non basta un corso, ma val la pena di prendere in considerazione il fatto che esistono delle formazioni specifiche che aiutano a sviluppare delle compentenze in questo campo e che comportano un profondo lavoro su se stessi. I corsi di Clinical Pastoral Education (CPE) vanno in questa direzione.

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    • sipuodiremorte
      sipuodiremorte dice:

      Certo caro Sergio, e la tu con la tua meravigliosa capacità di formare in questo ambito ne sei la tangibile dimostrazione…

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  6. Arbuffi Maura
    Arbuffi Maura dice:

    Grazie Marina ! Come sempre hai toccato le corde del mio cuore. La spiritualità del fine vita e nel fine vita assume un’importanza enorme nel compimento del ciclo biologico. L’aspetto antropologico e del rito non può che allargare gli orizzonti…

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  7. Giovanni Sanvitale
    Giovanni Sanvitale dice:

    Cara Marina,
    anch’io ringrazio e saluto innanzitutto Ilaria per il suo toccante intervento.
    Riguardo il tema da te proposto, onestamente il concetto di “spiritualità” mi appare da tempo sfuggente, se non aleatorio e, magari ,“divisivo”: esiste una spiritualità univoca per tutti, che prescinda dalle religioni? Premetto, sono laico e agnostico – diciamo un agnostico pessimista, che non crede in un “dopo”-, ma, per dire – in quanto a religoni -, mi sento più vicino alla spiritualità dell’estremo Oriente (Induismo e soprattutto Buddhismo), mentre non amo i monoteismi con il loro Dio onnipotente e i paradisi promessi. Tuttavia è chiaro che anch’io, negli anni del tumore che mi accompagna da quasi 20 anni, mi sono a lungo interrogato sul nostro bisogno d’infinito, in quanto esseri “finiti”: bisogno che ha prodotto meraviglie in filosofia, nell’arte, nella letteratura, ecc., ma non ha mai trovato una riposta certa e univoca.
    Forse, nel concreto, dovremmo limitarci a concetti più vicini all’essere umano e alle sue capacità: innanzitutto l’empatia, che negli interventi è stata spesso citata. E la psicologia: uno psicologo dovrebbe essere innanzitutto empatico, pur mantenendo l’equilibrio necessario per la sua persona e per il suo lavoro: è vero che la psicologia si occupa innazitutto della vita, ma dovrebbe essere capace di accogliere e aiutare anche chi sta affrontandone la fine. Rimane infine il bisogno del rito: la ritualità legata alla morte rimane a tutt’oggi, pur in una società sempre più laica, delegata alla Chiesa spesso anche persone laiche: manca ancor oggi – salvo che per personaggi famosi – un rituale laico, e credo che ognuno debba inventarselo per sé e per i propri cari, escogitando qualcosa di creativo e di pacificante: personalmente ci sto lavorando. In definitiva, penso che più semplicemente ognuno debba assere aiutato nel fine-vita a trovare una propria strada per una pacificazione con la morte e – cosa ancor più ardua – per il distacco dai propri cari. Un saper accogliere il tutto che ci tocca. Un così sia, un “let it be”.
    Un caro saluto.

    Rispondi
    • sipuodiremorte
      sipuodiremorte dice:

      Caro Giovanni, che piacere leggerti. In realtà, gli psicologi in cure palliative si occupano proprio di aiutare le persone a “concludere” nel migliore dei modi la propria vita, a dare importanza alle relazioni che sono state importanti, e talvolta (quando è possibile) ad accettare la morte. Ma occorre ricordare anche che, per chi opera in cure palliative, c’è vita fino alla fine, e si parla quindi della vita oltre che della morte. Per questo c’è molta spiritualità anche nel lavoro degli psicologi, e le aree non sono nettamente distinguibili.
      Per quanto riguarda il rito, io ricordo sempre l’esperienza del crematorio di Torino, dove un rito laico (rito del Commiato) c’è, dagli anni Novanta, che segue le orme dei riti dei paesi anglosassoni (musica, discorsi, letture, saluto). Occorrerebbe, in Italia, continuare la battaglia per avere in ogni città luoghi per il rito laico e, possibilmente, cerimonieri per aiutare le persone a organizzarlo.
      Tuttavia, io qui parlavo di rito non tanto come rito funebre, per chi rimane, ma per chi ha bisogno di un’azione simbolica che rappresenti una chiusura, la risoluzione di un sospeso… piccoli riti (possiamo anche non chiamarli riti, perché manca la dimensione della condivisione) che aiutano chi sta lasciando la vita a essere più sereno.

      Rispondi
      • Giovanni Sanvitale
        Giovanni Sanvitale dice:

        Cara Marina, confermi quello che intendevo dire io: è nello psicologo che dovrebbero concentrarsi le esigenze del morente, qualsiasi siano le sue esigenze, anche nel campo spirituale. Quanto ai riti, mi sono soffermato solo sui funerali (anche a Milano esistono spazi laici, ma, francamente, piuttosto squallidi: sta a noi ravvivarli, per quanto possibile), ma quando dicevo che ognuno dovrebbe inventarsi un qualcosa, intendevo includere anche quello che tu chiami “un piccolo rito” anche nel fine vita. Immagino che negli hospice sia presente soprattutto un prete, per chi desidera paralargli: tu hai raccontato di una persona che ha chiesto un frate; io per qualche tempo ho vagheggiato un monaco buddista: Da poco ho strappato una promessa di commiato a uno psicogo famoso – non faccio nomi – che, pur a distanza, è diventato un amico prezioso: e lui ne è rimasto commosso. Penso che occorra non subire, ma essere creativi fino alla fine, per quel che si può, per essere più sereni, come dici tu. Grazie.

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  8. Domiziano Lisignoli
    Domiziano Lisignoli dice:

    Pensare di formare un assistente spirituale “sui banchi di scuola” è un miraggio, ma la direzione credo sia corretta, e lo sforzo va fatto, perchè così facendo si va a sottolineare questo bisogno, e contestualmente si prende maggior coscienza del fatto che spiritualità e religione sono due realtà distinte, con tutto ciò che consegue. Il punto, a mio avviso, sta proprio qui, nella necessità di spezzare questo legame culturale tra spiritualità e religione che ancora oggi è fonte di confusione, e liberare la strada a figure capaci di ascoltare, di stare, di non giudicare. Figure che siano percepite come tali dalle presone coinvolte nella sofferenza.

    Domiziano Lisignoli

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    • sipuodiremorte
      sipuodiremorte dice:

      In effetti, Domiziano, la cosa più interessante del tuo intervento a mio modo di vedere è questa: parlare di assistenti spirituali può aiutarci a legittimare (ce n’è ancora bisogno) una spiritualità non legata alle religioni?

      Rispondi
  9. Fabrizio Dalla Villa
    Fabrizio Dalla Villa dice:

    Buongiorno, il tema della morte da diverso tempo mi interessa, forse anche perché essendo pensionato, ho più tempo da dedicare a ciò che veramente conta: capire chi sono, da dove vengo, perché sono qui ed ora, ecc… Inoltre, avendo io più passato che futuro, ho iniziato a tirare i remi in barca, come si suol dire. Un po’ in questo mi ha aiutato la mia vita, decisamente fuori dal comune. Non temo la morte, anche perché credo che siano il dolore e la sofferenza a fare male. Nel mio caso, la morte sarebbe la fine di ogni dolore e sofferenza. Ecco, mi piacerebbe approfondire l’argomento, innanzitutto per me, poi anche per aiutare il prossimo. Grazie.

    Rispondi

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