I gruppi “condotti” di supporto al lutto: una risorsa nel lutto complicato, di Cristina Vargas
I gruppi di supporto sono una risorsa fondamentale nell’accompagnamento alle persone in lutto. In questo blog ci siamo più volti soffermati sull’Auto Mutuo Aiuto, evidenziando la validità di questo approccio, che punta sul reciproco supporto fra pari, sulla condivisione e sulla (ri)costruzione di una rete sociale intorno ai dolenti. Esistono, però, altre tipologie di gruppo: ci sono quelli a orientamento analitico o psicodinamico; quelli sistemico-relazionali; quelli psicodrammatici; quelli a orientamento gestaltico, esistenziale o cognitivista e molti altri ancora. Queste diverse metodologie sono accomunate dalla presenza permanente di uno psicoterapeuta di gruppo che conduce il percorso. Infatti, non a caso, essi spesso vengono chiamati informalmente “gruppi condotti”.
In questo articolo vorrei soffermarmi sulle caratteristiche e sulle potenzialità di questi gruppi, partendo dal ruolo del conduttore o conduttrice. La parola “ruolo” non è casuale: essa sta a indicare una specifica posizione di responsabilità verso i partecipanti e un funzione ben precisa, di cura e coordinamento, rispetto al gruppo.
Nei gruppi condotti, il terapeuta ha innanzitutto la funzione di costruire e mantenere un gruppo coeso, in cui tutti i membri provino un senso di appartenenza, accettazione e valorizzazione. Secondo Irvin Yalom, la coesione del gruppo è uno dei principali fattori che permettono il verificarsi di un cambiamento individuale nei percorsi di terapia di gruppo.
La morte di una persona cara, in particolare in una società come la nostra, che tende a confinare il lutto nella sfera individuale, genera un forte senso di isolamento e un dolore profondo di cui non sempre si può parlare. Un gruppo coeso permette il confronto autentico con gli altri e attiva la possibilità di riconoscersi nelle esperienze comuni, cosa che è essenziale per sentirsi meno soli e sperimentare un senso di condivisione e reciprocità.
Il conduttore ha inoltre il compito di garantire un clima di sicurezza, che permetta a ciascuno la libera espressione di sé. A tal fine, egli stabilisce un “patto” che fonda il lavoro del gruppo: la riservatezza, il rispetto della verità soggettiva, l’ascolto reciproco e il non giudizio sono alcuni degli ingredienti essenziali di questo accordo, che consente di lavorare insieme verso il comune obiettivo di stare meglio. Talvolta succede che le persone portino con fatica vissuti carichi di un angosciante senso di colpa (quella volta che, sopraffatta, ho strattonato mio marito malato; quella volta che a mio figlio ho detto “vattene”), e che provino un grande sollievo quando nel gruppo si attiva una modalità orientata al non giudizio e, anziché puntare il dito accusatore o dire “avresti dovuto…”, gli altri partecipanti colgono l’occasione per condividere i loro momenti di rabbia e i loro sensi di colpa.
Il ruolo del conduttore si differenzia da quello dell’osservatore; da quello dell’esperto tematico (che può portare informazioni ed esperienze al gruppo sulla base delle sue competenze in uno specifico ambito) o da quello del facilitatore. Quest’ultima figura è forse quella con cui ci sono maggiori ambiti di sovrapposizione, ma, in essenza, un facilitatore (soprattutto quando non è un professionista in ambito psicologico) dovrebbe avere il compito di agevolare i processi comunicativi e relazionali, senza però intervenire direttamente sul piano terapeutico.
Un ulteriore aspetto che contraddistingue i gruppi condotti è la costante attenzione che il terapeuta rivolge alla dinamica gruppale. Prendendo spunto dalla teoria dei sistemi complessi possiamo affermare che un gruppo è sempre qualcosa in più della somma dei singoli individui che ne fanno parte. Un gruppo si trasforma con il tempo in una sorta di microcosmo sociale. Fra le persone che appartengono al gruppo si creano relazioni, si intrecciano legami, si sviluppano vicinanze e lontananze: è compito del conduttore monitorare e gestire al meglio queste dinamiche, restituendole quando opportuno al gruppo, in modo che gradualmente ognuno possa diventare più consapevole delle proprie modalità relazionali.
Nella mia esperienza di ricerca o di lavoro con diversi tipi di gruppi di supporto al lutto, mi è capitato di imbattermi in numerosi fraintendimenti relativi alla figura del conduttore. A volte si teme si teme che il suo sguardo possa essere giudicante e orientato a stabilire ciò che è “normale” e ciò che è “patologico”. Sul versante opposto, può nascere l’aspettativa irrealistica che il terapeuta sia una sorta di figura messianica che, in qualche modo, “risolverà” le difficoltà dei partecipanti. Credo invece sia importante ricordare che ogni storia personale è unica e che non esistono modalità prestabilite per elaborare un lutto. Il compito del terapeuta è dunque quello di mettere la propria competenza e la propria esperienza al servizio di ciascun particolare gruppo, in modo da poter ascoltare i bisogni (espliciti e impliciti) dei partecipanti e proporre di conseguenza stimoli che possano favorire il percorso di elaborazione della perdita.
Il lutto non è una patologia, ma un’esperienza esistenziale che ognuno di noi è chiamato ad affrontare. Proprio per questo, con o senza l’intervento di uno psicoterapeuta, ogni gruppo in cui c’è un clima accogliente e orientato alla condivisione, in cui membri possono sentirsi ascoltati e aiutarsi a vicenda, può dimostrarsi un efficace strumento di supporto.
Tuttavia, ci sono situazioni in cui il lutto può complicarsi, destabilizzando l’assetto identitario della persona; il progetto di vita può destrutturarsi; possono slatentizzare disturbi psichici pregressi oppure possono comparire sintomi gravi di disagio psicologico.
In questi casi la presenza di uno/una psicoterapeuta di gruppo rappresenta una risorsa fondamentale per consentire un’adeguata attenzione alle parti più problematiche dei partecipanti e creare un contesto in cui è possibile lo svelamento e la successiva integrazione delle angosce più intime e terrificanti, come il desiderio di morire oppure i pensieri ricorrenti che fanno temere di impazzire.
Infine, una potenzialità spesso trascurata, dei gruppi condotti, è che essi permettono l’uso di metodologie attive, che coinvolgono il corpo e la comunicazione non verbale. Lo psicodramma, per esempio, si avvale dei fattori terapeutici tipici del gruppo, ma anche di quelli dell’azione e della scena teatrale e a mio avviso ha notevoli potenzialità nel campo del lutto.
E voi, avete avuto esperienze l’interno di gruppi condotti? Che ne pensate di questa metodologia di lavoro?