Articoli

Quando a scuola c’è un lutto, di Caterina di Chio e Cristina Vargas

Per i bambini e i giovani, scrive la psicoterapeuta Sofia Massia, la scuola rappresenta la prima casa-altra rispetto alla famiglia; un luogo in cui, parafrasando Rodari, ciascun allievo ogni giorno “fa la punta alle matite e corre a scrivere la propria vita”. In essa, infatti, si  apprendono saperi e competenze, si intrecciano legami importanti, si provano emozioni profonde, si trascorrono molte ore e si fa esperienza di comunità. A scuola dunque si affrontano tutte le sfide della crescita, comprese quelle più difficili come l’incontro con la morte e il lutto. Talvolta, l’incontro è indiretto e avviene attraverso il commento a letture condivise o a racconti che un singolo alunno porta nel contesto classe, ad esempio relativamente alla morte di un animale domestico, di un nonno o di un genitore. Talatra, invece, si verificano esperienze che toccano direttamente e da vicino l’intero gruppo: la morte di un compagno o di un insegnante, di un membro della comunità scolastica.

In questa prospettiva, possiamo considerare la scuola un ambiente ottimale per attuare interventi di prevenzione primaria nell’ambito dell’educazione alla morte. Autori come Stephen Strack, Robert Neimeyer e, in Italia, Ines Testoni, hanno strutturato e promosso progetti che si soffermano sia sul pensiero e sulla riflessione (attivando quindi la sfera cognitiva), sia sulla dimensione affettiva-relazionale, con l’obiettivo di rendere la morte un tema “dicibile”, qualcosa su cui è possibile confrontarsi, ascoltarsi e ascoltare.

Ci sono situazioni in cui gli interventi di prevenzione primaria sono sufficienti, ed altre in cui la prevenzione (qualora ci sia stata) non è sufficiente. Risulta necessario occuparsi di lutti veri e propri.  Gli scenari possono essere molteplici, ma nel presente articolo vorremmo soffermarci in particolare su ciò accade quando è un membro del gruppo classe a morire. In questi casi, la morte irrompe in modo spesso traumatico nella vita scolastica, coinvolgendo allievi, insegnanti e, più in generale, tutta la comunità.

In situazioni di questo tipo gli insegnanti si trovano davanti un compito complesso, e hanno un elevato grado di responsabilità rispetto  al  gruppo classe. Nel corso delle esperienze di supporto a docenti ed educatori che abbiamo avuto modo di seguire negli ultimi anni sono emerse numerose domande e preoccupazioni, che in molti casi si esprimono intorno a un grande quesito: come posso in qualità di docente gestire al meglio la situazione, ed essere di supporto, senza oltrepassare i confini e il mandato del mio ruolo, rischiando di sconfinare in territori non di mia competenza?

Un primo nodo importante, su cui può essere utile proporre alcune riflessioni, è quello di conoscere e comprendere le caratteristiche del lutto nelle varie fasi di età.

Il lutto è collegato a emozioni intense e difficili. Accanto al dolore,  in genere si sperimentano vissuti di rabbia, di senso di colpa, oltre che di confusione, di paura, di angoscia… Mentre nell’adulto queste emozioni tendono ad avere un carattere persistente, nei bambini e nei ragazzi esse hanno un andamento altalenante: in alcuni momenti possono arrivare con forza dirompente, mentre in altri possono attenuarsi, o addirittura sparire. Per un adulto può essere sconcertante vedere quanto siano diverse le modalità di reazione degli allievi e come nel gruppo si passi da un comportamento “come se niente fosse” al manifestarsi del pianto o a scatti di rabbia (apparentemente) eccessivi o ingiustificati. È importante considerare queste oscillazioni come del tutto normali. Esse si presentano con maggiore intensità in chi era più legato al compagno o alla compagna deceduti. Allenarsi a riconoscere queste emozioni aiuta a comprenderle e a gestirle con maggior sensibilità, a tollerare meglio i momenti di crisi senza andare sulla difensiva e a bilanciare accoglienza e contenimento nel rapporto con ciascuno dei propri studenti.

La morte di un membro del gruppo porta  gli altri a confrontarsi con  la consapevolezza della propria morte: “se è accaduto al mio compagno o compagna vuol dire che anche i bambini (o i ragazzi) possono morire e, quindi, può accadere anche a me”. Questo pensiero può essere formulato ad alta voce, oppure può essere espresso in modo indiretto: i più piccoli possono manifestare inquietudine o paura nel momento di addormentarsi, ad esempio, o mostrare preoccupazioni per il proprio stato di salute e sintomi psicosomatici. In ogni caso è importante intervenire tenendo insieme onestà e sensibilità. A seconda dell’età è possibile cercare fiabe, racconti, testi letterari o filosofici e altre suggestioni culturali che aiutino ad affrontare il tema. Molte discipline scolastiche, infatti, offrono vie e strumenti che possono essere utili nel percorso di elaborazione (come la scrittura o il disegno) e che possono rappresentare un canale espressivo per i singoli e per il gruppo.

Offrire uno spazio e un tempo per condividere i propri vissuti intorno alla perdita  è un compito prezioso del docente che, nel suo ruolo, può creare le condizioni affinché nel gruppo le persone possano parlare, essere ascoltate, sentirsi meno sole e avvertire che l’evento viene accolto dalla comunità di appartenenza.

Nei momenti di particolare difficoltà, si può fare riferimento allo sportello di ascolto psicologico, che rappresenta una risorsa importante quando si coglie la necessità di un supporto specifico.

Per quanto riguarda il gruppo classe, un  ambito di grande importanza è quello della comunicazione. Curare il modo in cui si trasmette la notizia alla classe, per quanto non esista  “il modo giusto”,  è essenziale.  Ogni insegnante può trovare le parole che sente più coerenti con il proprio carattere e con il tipo di relazione che ha con la classe, tuttavia, pur mantenendo il proprio stile, l’esperienza di lavoro in setting gruppali insegna che è d’aiuto usare un linguaggio chiaro, empatico e adeguato all’età. La parola “morte” non va temuta: pronunciarla aiuta il gruppo a prendere atto della drammatica irreversibilità di quanto accaduto, facilitando la comprensione di un concetto che, soprattutto per i più piccoli, può essere ancora astratto e difficile da afferrare nel suo pieno significato. Se si tratta di una situazione improvvisa o inattesa è probabile che ci siano delle domande, collegate a un normale bisogno di sapere che cos’è successo. A questo proposito ci sembra di poter dire che è necessario parlare dell’accaduto con tatto,  senza entrare in lunghe descrizioni e senza condividere dettagli intimi per soddisfare a tutti i costi la curiosità, ma fornire, in modo rispettoso e discreto, quelle informazioni essenziali che permetteranno ai compagni di comprendere l’accaduto. In genere, in alcuni casi in particolare, soprattutto se si tratta di morti violente, atti anticonservativi o incidenti, può essere opportuno concordare con la famiglia di chi non c’è più i contenuti da trasmettere.

Infine un tema su cui ci si sofferma poco, ma che invece è fondamentale, è quello degli oggetti. La scuola è piena di tracce del passaggio di ogni allievo o allieva. I quaderni, i disegni, le parole scritte, i compiti in classe, il banco stesso sono l’ancoraggio concreto alla memoria del gruppo e sono testimonianza della vita che in quel luogo ha trascorso chi l’ha lasciato. In quanto tali, tutti questi oggetti d’uso quotidiano, su cui di norma  sorvoliamo, acquisiscono un’importanza significativa sul piano simbolico. Come trattarli allora? Sapendo che sono preziosi per favorire l’integrazione dell’esperienza della perdita, il gruppo stesso può trovare la risposta a questa domanda, decidendo cosa tenere in aula, cosa valorizzare e come utilizzare gli oggetti stessi per creare una memoria condivisa. L’importante è che quest’opportunità  venga offerta, e che si dia la possibilità ai ragazzi stessi di scegliere il da farsi. Decidere insieme qual è il momento migliore per togliere il banco o per raccogliere il materiale da restituire alla famiglia offre l’occasione di condividere le emozioni e i pensieri che stanno circolando nel gruppo, trasformandoli in un gesto significativo. È possibile anche trovare forme condivise per ricordare: creare una scatola in cui ognuno può depositare un pensiero o, ancora, piantare un albero in onore del defunto sono atti che si avvicinano alla dimensione rituale, nel senso che permettono di dire addio attraverso l’azione e creano un senso di vicinanza e condivisione fra chi resta.

Cosa ne pensate? Avete esperienze che potete condividere? Grazie, come sempre, del vostro contributo.

Estate, lutto e solitudine di Cristina Vargas

Il mese di luglio è trascorso. Agosto è alle porte. Anche se meno di quanto capitava in passato, le città si svuotano e molti partono per godersi il mare o la montagna anche solo per qualche settimana. Tuttavia, l’estate, che associamo a un tempo di luce, di vita e di vacanze, non per tutti è un momento gioioso: per le persone anziane, per chi assiste un caro in condizioni di malattia grave o per chi ha vissuto una perdita importante, questo tempo può essere connotato da un profondo senso di solitudine. In un mondo vacanziero che ha poca voglia di soffermarsi sul dolore altrui, la sensazione di avere una coloritura emotiva dissonante, che appesantisce gli altri, rende più acuto il senso di isolamento. Può capitare di  dover vivere in sordina le proprie sofferenze, di mettere a tacere i propri bisogni o di far finta che le cose vadano meglio, per non preoccupare i propri cari.

In questa cornice emotiva, il tema di come trascorrere le settimane delle ferie è stato oggetto di molte riflessioni nei nostri gruppi di sostegno al lutto. Anche se ognuno dei partecipanti ha fatto scelte diverse, per tutti – soprattutto per chi si trova a vivere la prima estate dopo la morte del proprio caro – è stata forte l’angoscia su come attraversare questo periodo dell’anno.

Per alcune persone la solitudine è un dato materiale, una realtà inesorabile che può rendere impossibile  progettare una vacanza: a volte, semplicemente, non si ha la possibilità di viaggiare perché l’età, le condizioni fisiche, gli impegni di cura o fattori economici lo impediscono.

“Ricordo l’estate scorsa…”, raccontava pochi giorni fa una donna che è stata a lungo caregiver di suo marito, “lui stava malissimo e io passavo giorno e notte a stargli accanto. Era seguito a casa e io non sapevo più come fare per aiutarlo a sopportare il caldo tremendo che faceva. Ricordo che lo giravo, gli passavo i panni di acqua, avevo messo due ventilatori, ma non bastavano. Mi aggiravo per la casa come un’anima in pena. I figli e nipoti erano al mare, ed era giusto così. Solo che io ero sola, e mi sentivo sprofondare”. Ora che il marito non c’è più potrebbe fare un po’ di vacanza, o almeno andare a trovare i parenti, ma proprio non se la sente…

Nonostante le buone intenzioni di chi invita e suggerisce di “cambiare aria”, per molte persone in lutto  partire è del tutto impensabile. Non si tratta di un “lasciarsi andare” – come a qualcuno dei membri del gruppo è capitato di sentirsi dire – ma di una vera e propria impossibilità psichica. Chi vive un lutto sovente sperimenta una perdita di interesse per il mondo esterno, a cui si unisce un profondo svuotamento interiore, come se una parte importante del proprio essere fosse morta con il proprio caro. Questo stato d’animo, nelle fasi più acute, impedisce di vivere, di fare progetti, di pensare a qualsiasi cosa che non sia l’assenza. In queste situazioni l’ascolto di se stessi è importante: un viaggio compiuto prima di esserne pronti, o al quale si acconsente controvoglia, può dimostrarsi controproducente e può generare sensi di colpa, risentimento o rabbia.

Chi rimane, tuttavia, si ritrova a dover gestire l’afa, il caldo, la difficoltà a dormire, la disidratazione, l’affaticamento fisico e molti disagi legati al clima, che possono rendere estremamente faticose le settimane estive, in particolar modo per chi è in condizioni di vulnerabilità e non ha una adeguata rete di supporto familiare. Una ricerca pluriennale condotta da Leonardo Palombi, Professore di Igiene, Epidemiologia e Sanità Pubblica dell’Università Tor Vergata di Roma, ha mostrato infatti un aumento della mortalità fra gli ultrasettantacinquenni durante le ondate di calore che si registra quasi tutti gli anni dal 2003 ad oggi. È importante quindi non limitarsi nel chiedere aiuto quando necessario e, per chi ha un genitore o amico che sta attraversando un lutto, mantenere alta la vigilanza rispetto al benessere del proprio caro.

Nel gruppo, comunque, altri hanno scelto di partire.

Alcune partenze sono vie di fuga. Una delle donne che seguo in terapia individuale ha colto l’occasione per fare le valigie e andare il più lontano possibile dai ricordi che ingombrano una casa in cui si sente soffocare. Quando il dolore è così intenso, è umano tentare ogni percorso, perché non esiste un “modo giusto” di vivere il lutto.

Qualcuno, invece, ha trovato la forza di fare un po’ di vacanza nella famiglia: “perché i figli ne hanno bisogno” o “per far piacere ai nipoti”. Una rete familiare solida è una risorsa importante nel percorso di elaborazione, perché in molti sensi rappresenta una motivazione ad “andare avanti” e un ancoraggio alla vita. In questi casi si può avere un’oscillazione fra il senso del dovere (che a volte può essere gravoso), e il piacere di condividere dei momenti con delle persone amate. Contattare questa seconda dimensione non è semplice e avviene in modo graduale e discontinuo, ma lentamente nella vita del dolente si affaccia nuovamente la possibilità di giocare con i nipoti, di cogliere la bellezza di un paesaggio o di godersi le piccole cose che un tempo erano fonte di gioia.

Altri viaggi sono soprattutto ritorni, temuti o desiderati, ma in ogni caso costellati da paure e domande. Una figlia, per esempio, ha scelto di tornare nel paese di origine del padre deceduto qualche mese fa: un luogo del cuore, che evoca le lunghissime estati dell’infanzia, i profumi della cucina della nonna e molte altre immagini piene di bellezza e nostalgia. La sua scelta è un tentativo di riscrivere una relazione che poi divenne conflittuale e rabbiosa, e che venne ritrovata solo negli ultimi mesi della malattia.

Un vedovo, insegnante al liceo, è tornato con un misto di piacere e dolore nel loro paese del Sud dove è nato: lì aveva conosciuto la moglie e l’aveva sposata; lì avevano molti parenti e amici storici; lì c’è la loro piccola seconda casa, in cui sognavano di trascorrere gli anni della pensione. Come mi sentirò, in quel posto che era nostro, senza di lei? Come sarà incontrare tutti, soprattutto le persone che non sono salite per il funerale e che non ho ancora visto? Questo viaggio sarà per me un momento di chiusura, o sarà invece una ferita che si riapre? Queste e molte altre domande si affastellavano nella sua testa nei giorni precedenti al viaggio.

L’estate, quindi, è un momento di fatica e solitudine, ma pian piano, quando il dolore non è più travolgente e incontenibile come nelle prime fasi, può anche essere un’occasione per (ri)contattare luoghi della memoria o per ritrovare spazi vitali e una tappa significativa nel processo di  riorganizzazione della propria esistenza che caratterizza il lutto.

Volete condividere la vostra esperienza?

Il pensiero magico e le parole immutabili nel lutto, di Nicola Ferrari

Riceviamo e pubblichiamo volentieri questo articolo di Nicola Ferrari, responsabile del servizio di sostegno al lutto dell’associazione Maria Bianchi. (Le immagini sono di Catrin Welz-Stein).

Le tre amiche salgono sul pulpito, alla fine del funerale.

Sono coetanee della ragazza di 20 anni morta nel sonno, di notte, nella casa dei genitori del suo fidanzato. Verrà trovata cadavere la mattina successiva dalla mamma del suo compagno, uscito presto senza svegliarla per andare a lavorare. Una ragazza atletica, appassionatissima di ballo moderno, che non aveva mai manifestato problemi fisici.

La chiesa del piccolo Comune è ovviamente gremita: c’è tutto il paese, sento dire da un vigile che cerca di gestire la viabilità davanti al sagrato. La bara, di legno semplicissimo e chiaro, è ricoperta di frasi scritte da tutte le persone sue amiche: ora balla lassù, ti amerò per sempre, insegnami a vivere, prenditi cura di noi, il cielo ora ha un’altra stella, quando ci rivedremo sarà meraviglioso, nell’attesa piango. 

L’emozione, come accade ogni volta nella fase conclusiva del rito funebre, è palpabile tra la folla che riempie la chiesa e chi è rimasto fuori per mancanza di spazio. Una dopo l’altra le sue amiche leggono i pensieri che nei giorni successivi al decesso hanno affollato i loro cuori e le loro menti.

Sono al 90% le stesse parole che si leggono o si ascoltano in casi simili: cielo, stelle, cuore, amore, per sempre, ogni giorno, destino…; l’amica è stata fonte di gioia e affetto ineguagliabili, un essere umano meraviglioso e amabilissimo, i difetti e i limiti erano un niente se paragonati al resto, i ricordi sono indimenticabili, le esperienze vissute hanno indissolubilmente segnato la vita che c’è stata e tutta quella che verrà, l’aiuto ricevuto non sarà mai paragonabile a nessun altro, lo strazio della perdita resterà sempre dentro.

Non si tratta, ovvio, né di valutare né di mettere in discussione quello che ognuno di noi sente e pensa quando vive un lutto; ma è altrettanto ovvio che le parole che utilizziamo per esprimere quello che ci accade fanno la differenza. E la fanno nella misura in cui sono più o meno cor-rispondenti alla nostra personalissima vita interiore. Narrare ad esempio il dolore intimo con un linguaggio che è lo specchio fedele (o il più fedele possibile) di ciò che proviamo, significa riuscire a definirsi, a dare confini e caratteristiche al tormento e iniziare così ad affrontarlo.

Purtroppo è ancora molto presente in Italia un pensiero magico che attribuisce totale verità, assoluta immodificabilità a ciò che una persona in lutto narra scrivendo o parlando, come se da un lato fosse mancanza di rispetto per il suo dolore aiutarlo a trovare espressioni che comunicano con più precisione ciò che vive e dall’altro sostanzialmente inutile perché le parole sono, appunto, solo parole. Sperimento direttamente invece, da alcuni decenni, quanto una vera, precisa, dettagliata, approfondita scelta dei termini che si usano per raccontare, e quindi raccontarsi, durante il lutto crei una reale possibilità di cambiamento. Ciò che può fare la differenza è la correlazione tra vissuto e linguaggio che deve essere appunto vero, preciso, dettagliato e approfondito non per chi lo riceve ma per chi lo esprime.

Quando la forma, che tutto è meno che involucro, prima somiglia poi coincide con le emozioni profonde, può diventare poi un’opportunità importantissima per ridefinire la personale condizione senza la persona amata e attivare una riprogettazione esistenziale.

Ma perché tutto questo accada, serve interagire con il linguaggio che la persona in lutto utilizza considerandolo passibile di modifiche e approfondimenti.

Non posso più sentirti, non posso più vederti, non posso toccarti, dichiara a voce alta una delle sue amiche dal pulpito continuando a leggere quello che aveva scritto per l’occasione.

E allora cosa posso fare perché tu non te ne vada da me? Me lo sono chiesta tante volte in questi giorni, continua, e ho capito una cosa: posso vivere io la vita al posto tuo.

Dopo queste frasi ho visto nettamente dal fondo della chiesa dove avevo trovato posto, la reazione della folla che gremiva ogni spazio: teste che improvvisamente si alzavano, un’aggiunta di silenzio al silenzio già imperante, coppie e amici vicini che si toccavano lievemente e si scambiavano sguardi complici; all’esterno poi, in attesa dell’uscita della bara, quell’espressione era diventata il primo argomento di scambio. Ecco, a volte basta davvero poco: parole cor-rispondenti, sostantivi, aggettivi e verbi che restituiscono ciò che si sta provando e/o si desidera che accada perché, in queste come in tante altre situazioni della vita meno dolorose, si apra una sorta di nuova visuale, all’inizio incerta, appena accennata ma che può diventare in seguito una méta da perseguire.

Nella pratica però è molto più complesso da realizzare: ci sono pregiudizi e ostacoli di natura intellettuale, abitudini radicate dall’esperienza individuale, regole sociali non scritte assolutamente attive in tanti di noi che convergono tutte verso un unico centro: quello che una persona esprime durante la sofferenza è intoccabile, sacro, immodificabile.

Eppure esiste un’altra strada da perseguire: avvalersi delle situazioni che si incontrano nella vita, impegnarsi in un’attività costante di sensibilizzazione, creare occasioni formative, diffondere con strumenti diversi l’importanza e la straordinarietà di un approccio specifico al linguaggio che non si rifugia, come purtroppo accade, nelle analisi generiche, non si esaurisce nelle riflessioni esistenziali di natura filosofica, antropologica e sociale, non si limita a registrare e analizzare i fenomeni ma cerca di appartenere totalmente e fedelmente al suo proprietario. Perché il linguaggio, quando è la reale e certa espressione di ciò che siamo e vogliamo che accada, non solo consente alla sofferenza di evolversi ma incentiva e sostiene le azioni concrete da mettere in campo per continuare a vivere, non a sopravvivere.

Opporsi al pensiero magico, cioè al tabù che impedisce di intervenire sul linguaggio di chi soffre, è certamente arduo e per molti versi di scarsa efficacia immediata se paragonato a ciò che è dominante, ma ne vale la pena; vale la pena, con tutte le conseguenze annesse, dedicarsi a ciò che aiuta l’amore ad esserci quaggiù.

Cosa ne pensate?

Il lutto delicato per gli animali domestici, di Davide Sisto

Cinque anni fa ho pubblicato sul blog un articolo sul lutto per gli animali domestici, partendo da un mio racconto personale. L’articolo ha generato una discussione – tutt’oggi in corso – che conta diverse centinaia di interventi, a dimostrazione di quanto l’argomento sia sentito. Vorrei, pertanto, tornarci a partire da una mia nuova esperienza.

Da circa un anno ho in casa un gatto, di nome Apollo, che ha 18-19 mesi. Il suo arrivo è stato improvviso e non pianificato: io e la mia compagna lo abbiamo salvato da un abbandono da parte dei suoi precedenti proprietari. Tuttavia, la sua adozione è avvenuta in una fase per noi emotivamente delicata: solo dieci giorni prima ci era morta, di colpo, una gattina – Lagertha – di sette mesi a causa di una leucemia fulminante. Un’esperienza terribile e dolorosa, per come si è evoluta rapidamente la malattia e si è ridotto il corpo di quella cucciola, quasi quanto quella relativa alla morte di un essere umano.

Proprio le emozioni che abbiamo provato, oltre alla lettura dei tanti racconti lasciati dai nostri lettori sotto il precedente articolo, mi spingono a ragionare ulteriormente sul perché questo tipo di lutto sia percepito dalla collettività come importante e delicato. Un lutto che, perciò, non va sottovalutato né ridimensionato per non creare un surplus di sofferenza rispetto a quella che già di per sé produce.

Un primo elemento fondamentale è il senso di accudimento prodotto dall’animale domestico nell’essere umano. Ci si sente responsabilizzati nei confronti di un essere vivente che ci appare, in nostra assenza, privo di autonomia, dunque incapace di nutrirsi, di creare relazioni interpersonali, di vivere bene. Proprio come avviene con i bambini. Non rappresenta una semplice compagnia. Ci sembra proprio bisognoso di quell’insieme di cure che stimola il nostro spirito genitoriale. Questo rapporto non paritario chiama immediatamente in causa un secondo elemento importante: la proiezione. In altre parole, proiettiamo sull’animale domestico quanto non troviamo più o non abbiamo mai trovato nelle relazioni tra esseri umani. I gatti e i cani non ti giudicano. Basta che tu li nutra e che li tratti con attenzione e loro restituiscono immediatamente l’affetto. Ti fanno percepire quanto dipendono da te e quanto hanno necessità che tu ci sia. La relazione con loro è, dunque, l’esatto contrario dei legami intricati e complessi che sviluppiamo all’interno delle famiglie, del mondo lavorativo, delle coppie, tra amici, ecc. Questi non sono mai legami lineari di causa ed effetto. Non sono razionalizzabili, dunque comportano dinamiche imprevedibili che – il più delle volte – generano delusioni, sofferenze, amarezze, forme di disincanto. Gli animali domestici, pertanto, sembrano sopperire a quelle ripetute sensazioni di fallimento che si reiterano costantemente man mano che passano gli anni, rendendoci guardinghi o addirittura indifferenti nei confronti dei nostri simili. Un mese fa sono stato a Seattle e mi ha colpito moltissimo una contrapposizione: da una parte, la cura meticolosa da parte degli autoctoni nei confronti dei loro cani. Non c’è luogo cittadino in cui non si veda un umano che corre insieme al proprio cane, tenuto benissimo. La città è, inoltre, piena di asili lussuosi per i nostri amici a quattro zampe. Dall’altra, l’abbandono totale di migliaia di homeless per le vie cittadine nell’indifferenza generale.

All’accudimento e alla proiezione si aggiunge un terzo elemento su cui occorre riflettere: la solitudine. Le precedenti riflessioni sulle difficoltà relazionali tra esseri umani, all’interno di una società basata sulla performatività individuale e sempre più priva di legami sociali forti, non possono che spiegare l’empatia nei confronti di un gatto o di un cane che dorme insieme a te sul tuo letto, che ronfa o scodinzola se non lo trascuri, che ti tiene compagnia senza chiedere nulla in cambio, a parte le esigenze primarie per la sopravvivenza. La sua morte è, pertanto, drammatica perché spezza un legame percepito quasi come puro, come disinteressato, come immediato.

Riflettere sull’importanza del lutto per un animale domestico diventa, in definitiva, l’occasione per ripensare al nostro modo di vivere nelle società umane. Dunque, per ripensare a tutte le mancanze, privazioni e assenze che, nel corso della nostra vita, ci portano a preferire la compagnia di un animale non umano a quella di un nostro simile. Forse, senza sottovalutare in alcun modo la relazione con il gatto e il cane di casa, occorre anche chiedersi se non sia necessario un impegno collettivo per rifondare le basi dei legami intersoggettivi nello spazio pubblico. Quindi, è necessario domandarsi se sia veramente corretta la sproporzione emotiva e sentimentale che spesso viene a crearsi tra le due differenti forme di relazione.

Il tema è importante, dunque attendiamo le vostre riflessioni in merito.

#grieftok: il dolore di un lutto su Tik Tok, di Davide Sisto

Le irrefrenabili evoluzioni delle tecnologie digitali, quindi dei comportamenti sociali e culturali che ne seguono, ampliano costantemente i modi in cui le persone usano i social media per condividere le proprie esperienze relative al lutto e al ricordo.
Nel corso degli ultimi anni, le persone più giovani, dagli adolescenti ai ventenni, hanno cominciato a popolare in maniera sempre più massiccia Tik Tok, diventato un tale punto di riferimento per il discorso pubblico da spingere – incautamente – i politici italiani a usarlo nell’ultima campagna elettorale.
Ovviamente, anche la morte e il lutto sono diventati argomenti importanti su Tik Tok. Nell’ultimo periodo ha attirato la mia attenzione un particolare hashtag: #grieftok. Con oltre 340 milioni di visualizzazioni, questo hashtag comprende centinaia di migliaia di brevi video, registrati in ogni zona del mondo, mediante cui le persone comuni esprimono ciò che stanno provando o che hanno provato in presenza di un grave lutto. Il mix di immagini fotografiche, video, suoni e frasi scritte, concise e usando i caratteri più disparati, stimola la creatività e la fantasia dei singoli, i quali condividono il dolore per un lutto con modalità spesso complesse. C’è chi si limita a creare un collage di immagini di sé che seguono le varie fasi del lutto: un viso sorridente prima della morte del proprio caro, un viso disperato una volta che è avvenuto il decesso, un viso depresso e colmo di lacrime – magari appoggiato sul cuscino del proprio letto – nella delicata fase successiva, un viso vagamente sereno una volta che è avvenuta l’elaborazione del lutto. Le diverse immagini sono accompagnate da didascalie che riassumono brevemente i vari stadi attraverso cui è passato il dolore della persona. C’è chi costruisce una narrazione più corposa, incentrata sul morto. Il breve video mostra – per esempio – un giovane padre, che corre insieme al figlio e al cane su un prato. Quindi, l’immagine della sua tomba e successivamente quella del bambino e del cane rappresentati prima da soli sul prato e poi insieme alla madre, regista del video. C’è chi quindi si limita a raccontare, senza troppi fronzoli, quello che sta provando; chi celebra un compagno di classe con un collage di immagini e video registrati a scuola; chi, ancora, utilizza Tik Tok per parlare del proprio bambino deceduto. Ci sono anche numerosi video di psicologi che spiegano le fasi del lutto e offrono consigli su come affrontarlo. Va da sé che ogni video viene commentato da centinaia o addirittura da migliaia di utenti, i quali portano le proprie condoglianze o condividono esperienze simili.

L’hashtag #grieftok ha, in altre parole, prodotto una vera e propria comunità globale attorno all’esperienza del lutto e della morte. Vi sono anche altri hashtag utilizzati per la stessa finalità: dai semplici #grief e #rip al più articolato #griefjourney.

Credo che si possa cogliere un’evoluzione interessante del lutto online nel passaggio da Facebook a Tik Tok. Le caratteristiche stilistiche di quest’ultimo non solo vengono incontro all’esigenza, già esplicitata su Facebook, di parlare pubblicamente di morte e di lutto e di fare gruppo per sopperire al senso di solitudine, provato di solito dal dolente nella dimensione offline. Stimolando anche la creatività e la fantasia dei suoi utenti, queste caratteristiche spingono a compiere un passo in più che, a mio avviso, va nella direzione di un uso pedagogico e formativo del social media. In altre parole, Tik Tok mette il singolo dolente nella condizione di dare un senso al proprio dolore attraverso una sceneggiatura di cui è liberamente regista e che trascende l’uso della semplice parola scritta, predominante su Facebook. Non tutti sono abili scrittori né si sentono a proprio agio con la grammatica. Il collage di immagini, suoni, video e parole, all’interno di video assai concisi, mostra invece in modo tanto concreto quanto artistico la metamorfosi personale che ci investe quando subiamo una perdita. In alternativa, ci fa vedere gli effetti immediati nel quotidiano dell’assenza, dunque si spinge nella direzione della conservazione della memoria e dei ricordi. L’impatto visivo è certamente superiore rispetto ai meri contenuti scritti. Può determinare più riflessioni composite e catartiche, può attutite il proprio disorientamento in virtù di storie colme di simboli e metafore. Soprattutto, abitua le nuove generazioni a una certezza a cui le precedenti hanno fatto fatica ad abituarsi: la morte fa parte della vita, non va rimossa, può diventare un argomento prezioso all’interno di luoghi in cui si cerca l’approvazione altrui. Può, in definitiva, creare le condizioni implicite per far sì che gli adulti del futuro superino quella rimozione che ha segnato il secolo scorso.
Nel mentre, #grieftok può diventare un fenomeno a partire dal quale organizzare nuovi percorsi educativi nelle scuole e implementare i percorsi di supporto nell’elaborazione del lutto. Come spesso osservo, la dimensione online – che ci piaccia o no – è diventata parte integrante della nostra vita quotidiana. Usiamola pertanto per finalità che migliorano il modo umano di condividere lo spazio pubblico, soprattutto in riferimento a ciò che ci fa soffrire e che cerchiamo di nascondere o di eludere.
Voi cosa ne pensate? Avete presente cosa è #grieftok? Attendiamo i vostri commenti.

Narrare la fine, di Cristina Vargas

Nel 2019 venne diagnosticato un mieloma multiplo a Marilyn Yalom, studiosa di letteratura francese e autrice di numerosi libri sulla storia delle donne. Nonostante fosse sofferente tanto per causa della malattia che la affliggeva quanto per gli effetti collaterali della chemioterapia, Marilyn, conscia di avere solo alcuni mesi di vita, chiese a suo marito (il noto psichiatra e psicoterapeuta esistenziale Irvin Yalom) di scrivere un libro insieme per documentare le difficoltà di quei mesi finali. I due coniugi ottantasettenni cominciarono a scrivere spinti dal bisogno di trovare significato e soccorso nella scrittura, ma anche dalla speranza di essere utili ad altri che, come loro, stavano lottando contro una malattia terminale. Nacque così il volume “Una questione di morte e di vita” (Neri Pozza, 2022) che, alternando i capitoli fra i due autori, raccoglie in modo profondo e intimo le riflessioni, le emozioni, i pensieri e le sofferenze di ciascuno dei due lungo il percorso di cura. Nelle pagine finali, Irvin, ormai vedovo, si rivolge a Marilyn dicendo “Sei stata così saggia a invitarmi a scrivere questo libro con te… no, no, non è corretto: non mi hai invitato; hai insistito perché mettessi da parte il libro che avevo iniziato e, piuttosto, scrivessi queste pagine insieme a te. E ti sarò per sempre grato per la tua insistenza: questo progetto di scrittura mi ha tenuto in vita da quando sei morta, centoventicinque giorni fa.”

Meglio di qualsiasi riflessione teorica, queste parole colgono con vivida chiarezza il ruolo della narrazione nelle fasi finali della vita e nel lutto. Byron Good, antropologo e pioniere nel campo della medicina narrativa, descrive il narrare come “uno sforzo di dare forma al dolore, di dare nome alle sue origini nel tempo e nello spazio”. Raccontare è proprio questo, non tanto (o non solo) un modo per registrare o ripercorrere gli eventi vissuti, ma soprattutto un atto che conferisce significato all’esperienza, costruendo una trama che aiuta a integrare la sofferenza e la perdita nella propria autobiografia.

Nel fine vita e nel percorso di elaborazione del lutto la narrazione è infatti una risorsa importante, che ha lo straordinario potere di restituire, quantomeno parzialmente, un senso a un tempo sovente percepito come vuoto, caotico, incerto e disorientante.

La narrazione, e in particolare la narrazione autobiografica, è uno strumento terapeutico che integra e arricchisce il lavoro degli operatori sanitari. Si pensi, ad esempio, alle numerose esperienze di medicina narrativa nelle cure palliative e nell’assistenza ai pazienti affetti da malattie cronico-degenerative; oppure alla terapia della dignità di Harvey Max Chochinov, un intervento psicologico che aiuta il malato a soffermarsi sulle cose che per lui contano di più sul piano esistenziale e che vorrebbe fossero ricordate dalle sue persone care, per aiutarlo a produrre una testimonianza scritta da lasciare ai suoi parenti e amici.

La narrazione è anche una straordinaria risorsa nelle mani di chiunque abbia il desiderio e la motivazione di dare parola al proprio vissuto. Christine Valentine, ricercatrice dell’Università di Bath, ha mostrato come le bereavement narratives siano un modo per preservare il legame con le persone scomparse e per socializzare il dolore del lutto, affrontandolo senza tuttavia patologizzarlo.

Nella mia esperienza di lavoro nel campo del fine vita ho incontrato molte persone che hanno trovato forza e conforto nella scrittura e in altre forme di narrazione. Per alcuni il bisogno di raccontare la propria esperienza è molto forte. Nelle riunioni dei gruppi di Auto Mutuo Aiuto, una delle donne ricordava come nei primi mesi si sentiva quasi soffocata dall’urgenza di parlare della malattia e della morte di suo figlio. Aveva quindi deciso di cominciare a scrivere un diario e, sulle pagine, aveva riversato le parole che premevano per uscire dalle sue labbra e che non sempre poteva pronunciare. Un uomo, invece, aveva usato la scrittura per riorganizzare la memoria di sua moglie scomparsa. Nei primi mesi, egli era attanagliato da timore di dimenticarla e, simultaneamente, faceva un’enorme fatica a ricordare: guardare le foto di lei era straziante e le uniche immagine che gli veniva spontanee erano quelle degli ultimissimi giorni in ospedale. Con sforzo, un giorno come tanti altri si era messo davanti al computer e aveva intrapreso il compito di scrivere i ricordi della vita trascorsa insieme. Gradualmente, egli era riuscito a ricontattare momenti felici, piccoli aneddoti, persino liti e discussioni finite con un abbraccio. Scrivere, inoltre, lo stimolava a “fare” delle cose: telefonare un vecchio amico per ricostruire insieme un episodio di un passato molto lontano; aprire e riordinare i cassetti con i documenti della moglie, che per mesi erano stati intoccabili tanto era doloroso il solo pensiero di avvicinarsi.

Questi due esempi sono eloquenti del ruolo terapeutico della narrazione. Quando raccontiamo si attiva un processo mentale diverso rispetto a quello del pensiero individuale, che sovente assume la forma di un monologo interiore. Raccontare, per quanto si faccia in solitudine, presuppone un atto comunicativo: c’è sempre un “altro” – un lettore, un ascoltatore, un osservatore/osservatrice – al quale “dire” qualcosa. Questo comporta la necessità di spiegare ogni passaggio per renderlo comprensibile al nostro interlocutore; obbliga a trovare le parole giuste per esprimere sensazioni ed emozioni che sovente sono confuse e soverchianti; spinge a esplorare la propria interiorità, a cercare di comprenderla, per poterla condividere con altri.

Che si tratti di storie orali, di scrittura autobiografica oppure di narrazioni che usano altri linguaggi artistici, il narrare è un movimento all’insegna dell’incontro, dell’apertura e della condivisione; un viaggio dentro il sé che, simultaneamente, avvicina all’altro, sostenendo chi soffre nel lungo processo di riconnettersi con la vita.

Voi avete mai usato la scrittura autobiografica o la narrazione in momenti di sofferenza? quale ruolo ha avuto per voi l’esperienza di raccontarvi?

Normale e complicato, intervista a Sara Ancois, di Marina Sozzi

Abbiamo intervistato Sara Ancois, psicologa e psicoterapeuta, che ha appena pubblicato un volume dal titolo Normale e complicato, che parla del lutto attraverso illustrazioni, corredate da brevissime frasi, che sono squarci di luce e di consapevolezza sulle emozioni del lutto. Tutti possono ravvisare i tratti di un proprio lutto in questo delicato e bellissimo libro, che alla fine ha una ventina di pagine più teoriche che spiegano come funziona il processo del lutto, e una ricca bibliografia.

Hai avuto un’idea geniale: parlare del lutto attraverso delle vignette. Come è nato questo progetto e come l’hai realizzato?

Ho scritto quei testi per me: stavo male, e serviva una traccia per monitorarmi mentre il tempo passava (in teoria, sapevo quello cui sarei andata incontro. In pratica, no). Quando sono rientrata in studio, sono arrivati pazienti con sintomi psicosomatici e flessioni depressive collegati ad esperienze di perdita. Tutti lamentavano la passività del momento, e giravano attorno all’idea di essere stati condannati a “subire” qualcosa, mentre ogni terapeuta sa che la rielaborazione di un lutto è un processo molto attivo (anche a livello organico: si modificano le mappe neurali neocorticali, n.d.a). Ho proposto loro i testi, e ho cominciato a raccontare il funzionamento del processo mentale che stavano sperimentando proprio come fosse una storia: non il lavoro del lutto in senso generico, ma proprio “il loro Sig. Lutto al lavoro”. Funzionava. Dicevano di sentirsi partecipi di una dinamica umana, in compagnia, e soprattutto intervenienti, con qualcosa d’importante da fare. Pian piano s’è strutturato un metodo di lavoro. Grazie a Marina è fondato in senso medico e grazie a Danilo, ha un volto. Abbiamo costruito le tavole illustrate per usare meno parole possibili: le emozioni dolorose hanno poca voglia di ascoltare e, se cianci troppo, s’infastidiscono.

Hai fatto anche una ricerca, intervistando cento persone. Che metodo hai usato per le interviste e cosa hai imparato da questo lavoro?

Il questionario (inventato) è stato somministrato via e-mail a contatti reperiti da amici. Ad oggi, gli intervistati restano per me 100 generosi sconosciuti. Era importante costruire un campione anonimo (risposte non condizionate) e il più possibile significativo in senso statistico: ho valutato distribuzione (genere sessuale, età, natura della perdita) e target (esperienza verificatasi negli ultimi cinque anni). Era importante, anche, verificare/confermare quelle che mi sembravano le priorità: cercavo i denominatori comuni dell’esperienza, e non di esprimere opinioni personali.
Ho imparato che i lutti sono un tabù, specialmente per chi non ne ha ancora affrontato uno. Un’amica cui ho chiesto di distribuire il questionario m’ha tacciata di invadenza e ineducazione. È stato un momento triste. Non mi ha nemmeno concesso la presunzione d’innocenza.

Normale e complicato, è il titolo del libro, e tu sei una psicoterapeuta. Non hai scritto normale “o” complicato: si può tracciare una linea di demarcazione chiara tra lutto normale e lutto complicato?

Le due forme stanno – ovvio – ai poli opposti di un continuum. Tuttavia, distinguerle in senso diagnostico è possibile e doveroso. Per fare diagnosi è necessario delimitare i confini di un fenomeno, per quanto artificioso possa sembrare, e le variabili coinvolte in questo caso sono la durata temporale della sintomatologia acuta e la sua carica invalidante.
La mia “e” è un po’ irriverente, in effetti, ma ci tenevo proprio ad interporla.
Gli individui in situazioni francamente psichiatriche soffrono, certo, ma questo non significa che chi affronta un frangente di perdita soffra meno. Ci vuole grande impegno, e fatica, per continuare a far fronte alle proprie responsabilità (lavoro, famiglia, burocrazia: tutto ciò che le persone “normali” fanno) con il dolore addosso. Non è cosa da nulla.

La nostra mente ci protegge mettendo a disposizione un processo fisiologico che ci aiuta ad individuare e ad evitare i traumi secondari – ovvero i cosiddetti fattori “complicanti” il lutto – e l’obiettivo del nostro libro è mostrare in che modo lo fa. Esistono chilometri di letteratura sull’argomento (J. Bowlby , tra gli altri), non ci siamo inventati nulla. Resta il fatto che seguire tali indicazioni non è una passeggiata ed è, appunto, complicato nel senso dell’etimo del termine: cum plico (con piegature).

A partire dalla tua esperienza, cosa consiglieresti a chi vive un lutto?

Dipende. Qual è il genere di perdita che lo innesca? La gamma è ampia (decessi, diagnosi di malattia, relazioni naufragate, tracolli finanziari, perdita di status, animali domestici, migrazione, eccetera) e il processo che parte a protezione dell’individuo, sempre diverso.

Capisco che possa non essere così per altri ma per me, tenuto conto del lavoro che faccio, osservarlo è come assistere ogni volta a un prodigio: una persona viene privata di un pezzo fondamentale della sua esistenza ed è disperata: allora corpo e mente si riorganizzano, insieme, prendono in mano la loro sopravvivenza, e la trascinano in salvo.

C’è qualche altra cosa che vorresti dire e non ti ho chiesto?

Grazie, vorrei dirti. L’ho già fatto ma lo ripeto: grazie per l’aiuto che mi date. Non vedo l’ora di conoscervi di persona e poterlo dire, a voce.

Sono io che ti ringrazio. Quanti di voi vorranno dare la propria testimonianza? come avete vissuto le vostre perdite?

Quando la luce dell’estate incontra il buio del dolore, di Cristina Vargas

Abbiamo intervistato Maria Angelica Castelli, psicologa e psicoterapeuta di Torino, esperta nel tema del lutto. (immagine di Yaoyao Ma Van As)

La psicologia ci insegna che il lutto è un processo lungo, complesso e non lineare. Nella tua esperienza, ci sono momenti dell’anno che possono dimostrarsi particolarmente faticosi per chi sta attraversando un lutto?

Ti rispondo partendo da Irvin Yalom, un autore che trovo particolarmente interessante non solo per chi lavora nel campo della psicoterapia, ma anche per chi è interessato al tema del lutto. Come spiega Yalom, anche nel lutto fisiologico, in cui non ci sono elementi patologici di nessun genere, ci sono momenti di passaggio in cui il dolore si fa sentire di più. Questi passaggi sono le ricorrenze, gli anniversari, le date importanti a livello soggettivo, ma sono anche momenti più “oggettivi”, che riguardano tutti, come il Natale o le vacanze estive.

Infatti siamo in agosto… Che cosa comportano questi mesi “vacanzieri” per le persone che stanno affrontando un lutto?

Durante l’estate c’è uno scollamento tra la vita di chi è in lutto, che si è fermata o che è comunque pesantemente inficiata dal dolore, e le vite degli “altri” che invece tendono a diventare più allegre, più frivole e spensierate. La domanda “dove vai in vacanza?”, normalissima per tutti noi, può essere una violenza per chi è in lutto. Il sole stesso è in qualche modo un simbolo della dissonanza fra il buio che si prova dentro e la luce abbagliante che c’è fuori. Uno dei miei pazienti mi ha detto una volta “al funerale di mio padre c’era il sole, ma io avrei voluto che ci fosse la pioggia”. C’è dunque una grande distanza fra il “clima interiore” di chi va in vacanza e quello di chi è in lutto, e questo scollamento crea un profondo senso di solitudine.

Con l’estate, inoltre, la vita di chi lavora, in genere molto frenetica, rallenta. Il tempo aumenta e il lavoro, che è un potente stabilizzatore dell’umore, si ferma; la routine cambia e il contatto con il dolore si fa più diretto, più forte. È come se la pelle si facesse più sottile e la luce potente dell’estate mettesse in risalto la sofferenza interiore. C’è chi tende a mettere da parte il proprio dolore e a buttarsi nel clima vacanziero facendo fatica, e poi pagandone il prezzo. Oppure c’è chi fa il contrario, sentendosi molto distante da quella realtà, si isola ulteriormente e rinuncia anche a ciò che potrebbe alleviare il suo dolore.

Un pensiero, infine, va alle persone anziane in lutto, la cui vita quotidiana è fatta di ritualità: il giro del mercato, la farmacia, il negozio sotto casa, il caffè. In queste azioni c’è una dimensione relazionale importante, si incontrano persone, si compiono gesti e azioni che danno un senso alla giornata. Durante l’estate, seppur meno che in passato, le città si svuotano e la routine viene meno. Il rischio è che la solitudine si faccia più gravosa o si arrivi a un concreto isolamento.

Andare o non andare al mare (o in vacanza) quando si è in lutto… che cosa possiamo dire su questo tema?

Quando stiamo male è importante cercare di proteggerci. Ci sono situazioni che emotivamente possono ferirci, ed è bene dosarle per evitare di ritrovarsi in vacanza, magari in un luogo bellissimo, con l’unico desiderio di ritornare il prima possibile a casa. Un viaggio comporta dei cambiamenti: se stiamo bene le novità stimolano e vengono vissute con entusiasmo, ma se stiamo male esse possono acuire il senso di malessere.  Credo che sia importante rispettare il bisogno – proprio o dei propri familiari in lutto – di stare nei luoghi in cui ci si sente più sicuri. La casa è un luogo che ci protegge, una tana in cui rifugiarsi nei momenti di dolore.

Che ruolo possono avere i parenti e gli amici della persona in lutto? In che modo possono supportare al meglio il loro caro?

A me viene da pensare a cosa non fare, perché cosa fare è un campo molto ampio. A volte ci sono delle rassicurazioni che non aiutano, dei tentativi di “alleggerire” minimizzando la portata del dolore. Questo toglie alla persona in lutto la possibilità di stare nella propria condizione, ma è necessario attraversare la sofferenza per poter stare meglio. Dietro questi tentativi di rassicurazione sovente si nasconde la fatica di amici e parenti rispetto al tema della morte: la morte degli altri ci fa paura perché ci ricorda che è qualcosa che può accadere a noi.

Frasi come “era una persona anziana”, “ha smesso di soffrire”, “ha avuto una vita dignitosa” magari hanno un razionale. A un certo punto del percorso può essere di conforto pensare che il proprio caro ha avuto una lunga vita, o una buona vita, ma sono parole che non andrebbero pronunciate quando il lutto è recente. In quel momento l’unica cosa vera che possiamo fare è stare con… semplicemente accompagnare, far sentire la propria vicinanza, passare del tempo insieme alla persona in lutto. Più che le parole sono proprio le cose fatte insieme che permettono di attraversare i momenti più dolorosi. Mi capita di vedere dei pazienti anziani che mi dicono: “mio figlio (o mia figlia) fa di tutto per me. Mi porta l’acqua, mi fa la spesa, mi porta alla visita medica, ma non sta mai con me.”  Nel tentativo di fare delle cose per l’altro può capitare di perdere di vista l’importanza di fare le cose con l’altro.

Credo che un ruolo importante possano averlo anche gli amici. Un’idea può essere quella di organizzarsi per dare un aiuto concreto. Le persone in lutto, soprattutto nelle prime fasi, non si preoccupano dei loro bisogni primari – mangiare, dormire, sistemare la casa, fare la spesa – in questo gli amici possano essere di supporto, fare rete intorno alla persona che è in lutto

In questo, ma anche in altri periodi dell’anno, esistono dei campanelli di allarme che ci segnalano che è il momento di cercare aiuto?

Dipende molto dal momento del lutto. Quando un lutto è recente non ci sono regole, il dolore si può manifestare nei modi più diversi ed è difficile identificare dei campanelli di allarme.

Quando invece i mesi passano, ci si muove verso il trascorrere dell’anno e nulla cambia, anzi, sembra che le cose siano del tutto ferme e lo spazio vitale si riduca sempre più; quando si sprofonda in una condizione di apatia; quando la giornata è tempestata da pensieri intrusivi che inficiano la capacità di funzionare, quando c’è un vissuto depressivo, il pianto è costante e non è liberatorio, ma è disperato e lascia la persona ancora più avvolta nella sofferenza, è bene cercare aiuto.

Un altro segnale importante è l’assenza del desiderio. Non c’è uno spartiacque, ma a un certo punto del percorso di elaborazione del lutto dovrebbero lentamente fare capolino dei desideri, come se fossero dei semini di qualcosa che deve ancora germogliare. Questo non vuol dire che la sofferenza scompaia, ma che pian piano dovrebbero nascere delle spinte vitali che si alternano al dolore. Può essere il desiderio di qualcosa da mangiare; di andare al cinema; di fare delle piccole cose: in qualsiasi forma si presenti, il desiderio è un segnale di ancoraggio alla vita. Quando invece il desiderio manca del tutto, può essere il segnale che qualcosa si è bloccato e che il lutto si sta complicando.

Può succedere, però, che la persona non riesca a cogliere i propri campanelli di allarme: in questi casi è importante che chi è intorno colga dei segnali: la trascuratezza, l’isolamento, la poca voglia di parlare o, al contrario, l’impossibilità di distogliere la mente dal tema del lutto nonostante oramai siano trascorsi parecchi mesi possono indicare che qualcosa non va e che è il momento di intervenire.

A chi ci si può rivolgere in queste situazioni?

Credo che la prima figura di riferimento sia il medico di medicina generale, a cui è possibile chiedere un consiglio sull’opportunità di chiedere aiuto e delle indicazioni sulle risorse del territorio. Credo sia utile anche confrontarsi con altre persone che hanno vissuto problemi simili. In molte città ci sono dei gruppi di sostegno condotti con diverse metodologie, anche se purtroppo alcune esperienze si sono interrotte con il Covid. Nel nostro caso, a Torino, i servizi di cure palliative offrono un supporto psicoterapeutico ai familiari delle persone che sono state seguite nelle ultime fasi, e nell’autunno sarà avviato un gruppo di sostegno. Credo che intervenire tempestivamente sia importante, anche perché più passa il tempo più è difficile farsi aiutare.

Voi avete esperienze in proposito? Volete condividerle?

After life, una salubre rappresentazione del lutto, di Davide Sisto

Il 14 gennaio scorso è uscita la terza stagione di After Life, la serie tv Netflix scritta e diretta da Ricky Gervais, uno dei comici britannici attualmente più noti al mondo per la sua geniale irriverenza. Il successo mondiale di After Life è riconducibile al modo in cui, nel corso delle tre stagioni, è stato raccontato un lutto, quello vissuto dal protagonista Tony – interpretato dallo stesso Gervais – nei confronti della moglie Lisa, morta prematuramente a causa di un tumore. Sotto i video dei trailer su YouTube e nelle pagine social dedicate alla serie e ai suoi protagonisti si contano decine, se non migliaia, di commenti da parte di persone di tutte le età le quali ringraziano di cuore Gervais per l’aiuto dato attraverso la serie tv, raccontando a loro volta le proprie personali perdite. In particolare, molti utenti sostengono che i contenuti narrativi delle tre stagioni sono dotati dell’encomiabile capacità di trasmettere un gigantesco senso di liberazione e di emancipazione. In parte, ciò dipende da una sceneggiatura che dosa sapientemente i momenti drammatici con gli istanti scanzonati, questi ultimi al limite del politicamente scorretto. Un mix che, nel delineare i contorni della tipica dark comedy britannica (in stile Funeral Party), riesce a risultare convincente nella descrizione di quel carattere agrodolce che caratterizza ogni evento della vita. In parte, dipende dal legame tra Tony e la perdita: Tony soffre e non vuole razionalmente smettere di soffrire, vuole essere libero di soffrire come e quanto vuole. La rappresentazione del lutto elude qualsivoglia semplicistica chiave di lettura volta a una riappacificazione con le dinamiche della vita che spesso, nelle sceneggiature cinematografiche, risulta stucchevole, moralistica e irreale. Tony è lucidamente consapevole del carattere irrimediabile della perdita e del significato radicale della morte, quindi della fine ultima del mondo in cui ha vissuto insieme a Lisa. Non pretende un suo ideale ritorno, si limita ad accettare le dure leggi della vita, sentendosi libero di provare dolore, di tener conto della possibilità del suicidio, senza necessariamente rendere conto agli altri. Generoso ed empatico verso le persone della sua cittadina di provincia ma totalmente autocentrato per quanto riguarda i suoi sentimenti, egli si perde amaramente nella visione ripetuta dei video registrati insieme a Lisa o, in alternativa, dei video che Lisa gli ha preparato prima di morire per sostenerlo, conoscendo il suo carattere autodistruttivo. È ferreo, al limite della pedanteria, nel non voler trasformare un’amicizia in una nuova relazione sentimentale, perché semplicemente non vuole avere un mondo diverso rispetto a quello che ha avuto con Lisa. Le sue uniche vie di fuga sono le lunghe passeggiate solitarie con il suo adorato cane e i dialoghi filosofici con un’anziana vedova che incontra ogni giorno al cimitero e che cerca di fargli vedere la realtà da un’altra prospettiva. Nel corso del tempo le persone che vogliono bene a Tony riusciranno – almeno, in parte – a scuoterlo, a mutare la sua generosità innata in una nuova ragione esistenziale, benché il suo disincantato nichilismo non riesca mai del tutto a nutrire il barlume della rinascita.

Ora, ciò che rende brillante After Life, a mio avviso,non è certamente l’idea che non ci sia speranza di superare la sofferenza per un lutto importante e che non si debba cominciare a vivere in un nuovo mondo senza il proprio caro. Semmai, è la capacità di non reprimere in alcun modo il legittimo e autonomo bisogno di sentirsi disperati all’interno di una società che, totalmente votata alla performatività e alla forza psicofisica di stampo machista, vede il dolore come un negativo segno di debolezza. Tony accoglie con lucidità il carattere radicale della morte e l’irrimediabilità della perdita. Il suo legame con Lisa, nella dimensione successiva al lutto, non si traduce nell’infantile non accettazione, aspetto che ritroviamo in molte narrazioni o riflessioni sulla perdita dei propri cari (mi vengono in mente Elias Canetti con il suo libro incompiuto contro la morte o alcune riflessioni contenute in Dove lei non è di Roland Barthes). È invece un legame che tiene conto in maniera razionale che non si può tornare indietro, che le regole del gioco sono queste. Le soluzioni sono allora due: voltare pagina adattando a sé – il più velocemente possibile – il fastidioso motto the show must go on o rinunciare a farlo, per un certo lasso di tempo o addirittura per sempre. Tony sceglie la seconda soluzione, convinto che sia lui a dettare i tempi alla sua sofferenza e alla sua eventuale ripresa. Se nessuno di noi può reclamare dei diritti nei confronti della vita mortale e se è una favola da cartone animato l’idea che l’amore più puro renda immortale nel qui e ora un legame sentimentale, allora ogni singolo individuo ha il diritto di fare della propria sofferenza ciò che vuole, a prescindere dal bon ton produttivistico delle società in cui viviamo. Si può anche decidere di non essere positivi, di non essere forti. Ma questo non è un inno alla debolezza, al suicidio, alla fragilità, è semmai la consapevolezza che ci sono tempi e modi diversi per affrontare la sofferenza soggettiva. E l’aiuto altrui diventa fondamentale rispettando questo bisogno di far proprio il dolore, non prevaricandolo. Semmai, trovando il percorso che meglio aderisce al carattere di chi sta soffrendo. In questo senso, si capisce perché le persone che hanno apprezzato After Life parlino di senso di liberazione e di emancipazione. Il tema è certamente delicato e può anche essere letto come una nociva individualizzazione del lutto che toglie peso al benevolo sostegno dello spazio pubblico. Ma, come sempre, si possono trovare delle vie di mezzo tra ciò che impone la società per il bene del singolo, spesso non rispettando i suoi bisogni, e ciò che pretende il singolo di contro alla società, rimanendo intrappolato nel labirinto dell’autodistruzione. Gervais mira, durante le tre stagioni di After Life, a cercare questa mediazione tra due vie che risultano entrambe fallimentari. E lo fa evidenziando quanto sia difficile raggiungerla.

Dal mio punto di vista, si tratta di una narrazione molto matura per quanto concerne la perdita. Voi cosa ne pensate? Avete apprezzato After Life? Fateci sapere.

Lutti non riconosciuti, di Marina Sozzi

Stanno arrivando le vacanze estive, e come sempre si tratta di un momento particolarmente difficile per chi ha perso una persona cara e si trova immerso nel dolore. Quest’anno, chi ha perduto un congiunto a causa del Covid o durante il Covid, ha un peso ulteriore da sopportare, l’angoscia di non aver potuto accompagnare, salutare, celebrare le vite concluse, o purtroppo talvolta spezzate, con riti funebri degni di tale nome. Abbiamo già scritto molto a tal proposito su questo blog.

Ma vogliamo rivolgere il pensiero anche a quei lutti che nella nostra società sono meno riconosciuti o non sono riconosciuti affatto.

Esiste infatti, in ogni cultura, una sorta di gerarchia della gravità dei lutti, stabilita in funzione dell’importanza attribuita a ogni relazione. Siamo naturalmente, nell’ambito delle norme non scritte, e anche non dette, che tuttavia condizionano gli individui. Per fare un esempio, nel Seicento – quando la mortalità infantile era molto elevata e la rilevanza della famiglia di origine molto forte (la famiglia non era ancora nucleare) – la perdita di un bambino entro i dieci anni era considerata un evento avverso ma tollerabile; oggi, in una società in cui si fanno pochi figli e la mortalità infantile si è fortunatamente quasi azzerata, la morte di un bambino è vissuta come l’esperienza più insopportabile che si possa attraversare. Non si tratta solo di affermare che il dolore per la perdita di un figlio non era espresso nel Seicento, mentre può essere manifestato ai giorni nostri. È proprio la percezione del dolore che è diversa, perché, come è spiegato nel bel libro di David Le Breton, Antropologia del dolore, tale percezione non è né universale né atemporale: anzi, è culturalmente determinata.

Ora, la nostra società, fondata sulla famiglia ristretta, considera lutti gravi e gravissimi la perdita dei figli e dei coniugi, dei genitori (specie se avviene quando i figli sono ancora giovani), dei fratelli e delle sorelle, e legittima emozioni di grande dolore per questi lutti.

Invece, ritiene che la morte di una persona al di fuori di questa cerchia di “soggetti importanti” nella nostra vita non dovrebbe dar luogo allo sviluppo di un vero e proprio lutto, inteso come quell’insieme di processi psicologici, consci o inconsci, suscitati dalla perdita di una persona amata (così Bowlby definiva il lutto).

Il lutto per i nonni è il primo ad essere misconosciuto nella nostra cultura. Si cerca di proteggere i bambini dal dolore della perdita, e si mente frequentemente sulla morte dei nonni. Una morte che viene sovente dapprima occultata (non si permette ai bambini di dare un ultimo addio e non li si porta ai funerali) e poi sottovalutata, da genitori che spesso non sono in grado di sostenere il dolore dei bambini. E si tratta di una trascuratezza che può dare esiti problematici, specialmente quando la relazione con i nonni era stretta e quotidiana. I bambini si trovano così ad affrontare da soli la perdita dei nonni, con un malessere che non riescono a interpretare. In questi mesi, con la morte di molti anziani per Covid 19, abbiamo perso molti nonni. È importante non nascondere l’accaduto ai bambini, non dissimulare il proprio dolore: facendolo, si impedisce ai bambini di riconoscere e processare la propria sofferenza.

Anche la perdita di un amico si inscrive nel novero dei lutti poco riconosciuti: per quanto stretta sia stata la relazione amicale, la perdita non gode dello stesso riconoscimento di quella di un membro della famiglia. Ben diversa era la considerazione della perdita di un amico nella cultura greca e romana, ad esempio, dove l’amicizia godeva di uno status di particolare importanza. Si pensi all’Etica Nicomachea di Aristotele, due libri della quale sono dedicati all’amicizia; o al De Amicitia di Cicerone, opera nella quale Lucio tollerava la morte dell’amico Scipione solo in nome della memoria: “mi godo il ricordo della nostra amicizia, così che mi sembra d’aver vissuto felicemente, perché sono vissuto con Scipione, col quale ho condiviso le cure pubbliche e private, col quale ho avuto in comune la casa e la vita militare, e, cosa in cui è tutta l’essenza dell’amicizia, il massimo accordo delle volontà, delle propensioni, delle opinioni.”

Un altro lutto non ancora del tutto culturalmente accolto è quello della cosiddetta “morte perinatale”, la morte del feto o del neonato: è un tema delicato, di cui talvolta abbiamo parlato in questo blog. Accade ancora che i ginecologi, le ostetriche, in generale i curanti che stanno intorno alla donna che ha perso il figlio minimizzino, e dicano: “ma lei è giovane, può farne un altro”. Lentamente, sta emergendo un altro tipo di comportamento, che prevede la sepoltura del bambino morto, e interpreta la perdita perinatale come lutto. Ma è una sensibilità ancora poco diffusa. Erika Zerbini, una mamma che ha deciso di occuparsi di lutto perinatale a partire dalla propria esperienza, afferma in un’intervista : “Molto raramente si hanno le parole per poter spiegare questo tipo di lutto e quasi mai si hanno le parole legate alla morte. Non ci viene mai detto: “tuo figlio è morto”. Ci viene detto: “il battito non c’è più”. Le parole sono importanti per identificare chiaramente quale sia la situazione e per poter mettere in atto quelle dinamiche utili ad accettarla. Le faccio un altro esempio: il parto del nostro bambino morto viene chiamato “espulsione”.

L’esempio più eclatante di lutto non riconosciuto è la morte dell’amante, etero od omosessuale, in quanto i legami clandestini non godono di quel riconoscimento sociale che è essenziale, essendo gli umani animali sociali, per rielaborare la perdita e condividere il dolore.  Una relazione non riconosciuta con il defunto rende difficoltoso il lavoro del lutto, compromettendo quindi il benessere psico-sociale della persona, a breve e lungo termine.

Ma, come abbiamo visto, a essere private del diritto a un lutto pienamente riconosciuto socialmente non sono solo le relazioni irregolari o segrete. La nostra cultura fatica ad accogliere diversi lutti, che si fondano su legami del tutto “alla luce del sole”, come quello dei nonni con i nipoti o dei genitori con il nascituro. La cultura condiziona, certo, ma la consapevolezza culturale è in grado, seppure lentamente, di cambiare le cose.

Quello che è accaduto col Covid è che tutte le persone in lutto hanno dovuto sostenere la mancanza di condivisione che è solitamente caratteristica dei lutti non riconosciuti. Tutti non hanno potuto dire addio, non hanno potuto organizzare riti, hanno dovuto elaborare la perdita nell’isolamento.
Questa esperienza può forse portarci a ripensare i nostri stereotipi culturali riguardanti il lutto, cercando di esserne consapevoli, e immedesimandoci nel dolore di chi ha perso qualcuno che amava, a prescindere dal ruolo che il defunto aveva nella vita di chi resta.

Cosa ne pensate? Avete fatto esperienza di lutti non riconosciuti? O potete raccontare esperienze di altri? Grazie, come sempre, se vorrete condividerle.

Lutto e crescita, intervista a Giuliano Grossi, di Marina Sozzi

Abbiamo intervistato Giuliano Grossi, psicologo e psicoterapeuta, membro dell’Associazione  “Lutto e Crescita – GRIEF & GROWTH” di Roma.

Perché avete voluto dare questo nome alla vostra associazione, lutto e crescita? Qual è il pensiero che sta dietro a questa scelta? Come interpretate il lutto?

La perdita di una persona cara è un’esperienza che tutti gli esseri umani vivono nella loro esistenza e si configura come un’esperienza molto complessa da definire. Basti pensare che la cultura anglosassone ha ben tre terminologie diverse per riferirsi al lutto: “grief” per indicare le reazioni emotive, cognitive e comportamentali dopo una perdita; “mourning” ossia le modalità espressive socioculturali, i riti e i comportamenti diversi tra culture e religioni; “bereavement” che indica per lo più il periodo doloroso che precede un riadattamento della persona dopo la perdita.

Esistono vari modelli di lettura del processo di elaborazione del lutto, che mostrano come questo determini dei cambiamenti nella percezione di sé (come più forti e resilienti), nella propria filosofia di vita, nella relazione con gli altri; e inoltre un maggior apprezzamento della vita, un cambiamento spirituale. Tutti questi aspetti indicano che c’è stata una crescita definita “post-traumatica”. In altri termini, dopo un evento luttuoso, è possibile che si inneschino una serie di adattamenti dal punto di vista emotivo e cognitivo necessari a dare un senso alla perdita.

Abbiamo voluto, quindi, mettere in luce sia l’aspetto della perdita sia quello della ricostruzione, evidenziando come l’elaborazione del lutto sia una continua altalena di vissuti: nella disperazione vi sono “pause” dal dolore che consentono di attingere a  preziose riserve di energia.

Quindi crescita, in che senso? Umano, spirituale, religioso?

Sicuramente tutti e tre. Lo studio e l’esperienza clinica dei processi di elaborazione normale e patologica del dolore mostrano come coloro che affrontano una perdita significativa inneschino un profondo processo di ristrutturazione personale. Ciò implica la messa in discussione delle proprie credenze e valori, delle rappresentazioni mentali e delle modalità comportamentali. È certamente un processo complesso e influenzato dall’azione di vari fattori, come la tipologia di perdita, le differenze di genere nelle modalità di fronteggiarla e gli stili di attaccamento.
È chiaro che il lutto solleva un’enorme domanda di senso, alla quale l’individuo è chiamato a rispondere rivedendo tutte le sue conoscenze ed esperienze. La ricerca di senso smuove la persona verso la ristrutturazione delle proprie certezze e rappresentazioni relative al mondo, all’esistenza e all’essere con gli altri. È inevitabile che la ricerca di tali risposte elevi l’individuo al piano spirituale e religioso, inteso come l’insieme dei valori che possono orientare e fornire una soluzione al dilemma esistenziale.

Dare un senso alla perdita richiede la scoperta di quelle capacità intuitive, di sensibilità mistica che superino le cristallizzazioni dei dogmatismi, dei pregiudizi religiosi, delle limitazioni mentali e dei fanatismi.
In tal senso, la religione e la fede possono rappresentare un prezioso contenitore degli interrogativi, delle angosce e dei sentimenti di perdita scatenati dalla morte. Le religioni offrono uno spazio per il dialogo sulla e con la morte, spesso ostacolato in altre dimensioni del sociale. Inoltre, qui la domanda di senso relativa alla scomparsa sembra trovare una risposta nelle teorie sull’aldilà, o nella preghiera come strumento di relazione, veicolando l’idea che un legame si mantenga lo stesso. In definitiva, nella spiritualità e nella religione è possibile trovare un luogo sicuro in cui l’animo e il cuore tormentati possono finalmente riposare, trovare pace e risposte.

Nella ricerca sul lutto si parla molto di “continuing bonds”. Un termine che avete usato anche voi. Perché ritenete importante mettere l’accento sui legami che continuano con il defunto?

La brusca interruzione di una relazione con il proprio caro costituisce uno degli aspetti più complessi e traumatici del lutto. Tuttavia l’amore, le fantasie, le aspettative e tutto ciò che è stato investito nella relazione con l’altro sembrano sopravvivere alla morte, per cui potremmo dire che quest’ultima interrompe l’interazione con l’altro, ma non il legame.

Certamente la riorganizzazione del rapporto con il defunto costituisce una tappa importante del processo di elaborazione del lutto. Klass e i suoi collaboratori (1996) hanno proposto una nuova lettura del distacco e della continuità del legame con il defunto. L’autore si propone di spiegare gli intricati processi emotivo-affettivi per cui gli individui costruiscono un forte legame con i defunti.

La presenza e l’intensità del legame con il defunto si indagano attraverso i comportamenti e le esperienze individuali relative alla perdita: ad esempio si verifica quanto sia sentita la presenza del defunto, se ne vengano conservati gli oggetti e quanto si sia attaccati ai ricordi.

Klass distingue due tipologie di legame, il continuing bond esternalizzato e internalizzato. Il primo indica quei processi cognitivi ed emotivi che caratterizzano il rapporto con il defunto, per cui l’individuo si illude che quest’ultimo sia ancora vivo. Ad esempio, la persona può riferire di averne sentito il tocco o di averne ascoltato la voce, oppure di aver immaginato che potesse apparire da un momento all’altro. Tale fattore sarebbe da ricondursi ad un lutto irrisolto, non elaborato. Quello internalizzato, invece, allude ad una relazione con il defunto che è stata interiorizzata, assumendo la valenza di “base sicura”, per cui egli è parte della vita dell’individuo. Ad esempio, quest’ultimo può considerarlo come una guida, un rifugio sicuro, indicando un processo di elaborazione adattivo del lutto. Qui si allude ad una vicinanza mentale ed emotiva, piuttosto che fisica.

Certamente il mantenimento di un legame con il defunto non rappresenta una novità, chiunque può imbattersi in testimonianze a riguardo parlando con persone in lutto. Inoltre, in tutto il mondo si possono riscontrare diversi culti e riti volti ad onorare il rapporto con chi non c’è più, dagli spazi riservati nelle case (piccoli altari votivi) o nelle città (il cimitero delle anime pezzentelle a Napoli),  alle feste in onore dei defunti (il dìa de muertos nella tradizione messicana). Ancor prima delle teorie, dei costrutti scientifici le persone hanno trovato da sole una soluzione all’enigma del “non posso più vederti, ma sento che ci sei”, dimostrando come un legame possa trasformarsi ma non distruggersi.

Definire ed enfatizzare il costrutto del legame che continua consente di restituire una valenza preziosa, ai fini del processo di elaborazione del lutto, a tutti quei tentativi di ridefinire il rapporto con chi non c’è più. Da un punto di vista clinico, ciò fornisce un importante indicatore del lutto “normale”, non complicato e di quello patologico.

Inoltre, avete organizzato un incontro sul tema “Il corpo accusa il lutto”: in quali modi il lutto coinvolge il corpo?

Per introdurre il discorso sul rapporto tra lutto e corpo, si può partire dalla definizione stessa del Disturbo da Lutto Persistente nella quale è specificato che esso si associa ad un aumento dei rischi per la salute, come «i disturbi cardiaci, ipertensione, cancro, deficit immunologici e ridotta qualità della vita», a causa degli elevati livelli di stress ad esso conseguenti.

L’incremento della mortalità sembra essere dovuto allo stato depressivo, al peggioramento dello stato di salute e ad un cambiamento negativo degli stili di vita, delle condizioni economiche e dei legami sociali, in seguito al lutto. Molti studi hanno mostrato le ripercussioni dell’episodio del lutto sulla salute fisica e mentale. Si pensi che dopo la perdita, in particolare durante il primo periodo, è più probabile andare incontro a disabilità, ospedalizzazioni e ad un maggior uso di medicinali. Altre ricerche hanno evidenziato una correlazione tra l’episodio del lutto e un aumento dell’incidenza di cancro e di infezioni sessualmente trasmissibili.

Tra i principali correlati morbosi successivi ad un lutto, si può dedicare un capitolo a parte all’aumento dell’incidenza di malattie cardiovascolari. Ad esempio, uno studio di Mostofsky e colleghi (2012) ha mostrato come chi subisce un lutto abbia il 21% di probabilità in più di subire un attacco cardiaco, il 6% in più durante la settimana che segue la notizia, a causa degli scompensi provocati dallo stress emotivo.

I fattori correlati all’insorgenza di disturbi cardiovascolari dopo il lutto sono la predisposizione ad uno stato protrombotico e le alterazioni della pressione arteriosa, dell’attivazione piastrinica, dei livelli di coagulazione del sangue e di cortisolo (l’ormone dello stress). Quest’ultimo aumenta del 3% e può persistere anche oltre i sei mesi, incrementando il rischio cardiaco e determinando una riduzione della funzione immunitaria, oltre che della qualità di vita. Le modificazioni immunitarie conducono ad una riduzione della risposta delle cellule T-linfociti e delle Natural Killer, accanto ad un aumento dei neutrofili e delle cellule infiammatorie non specifiche. Un altro fattore da indagare è quello relativo alla variazione della frequenza cardiaca, che può incrementare il rischio cardiovascolare.

C’è qualcosa che vorresti ancora dire e che non ti ho chiesto?

Penso sia prezioso sensibilizzare gli operatori medico-sanitari, non solo della salute mentale, all’importanza di acquisire specifiche capacità di tollerare e gestire i problemi riguardanti la morte, il morire e il lutto. In altri termini di sviluppare un’adeguata Death Competence: parlare della morte senza trattarla come un tabù.

Essere competenti rispetto alla morte richiede un alto livello di monitoraggio e autoregolazione emotiva, che assicuri al consulente una tolleranza rispetto alle narrazioni e ai vissuti che emergono dai pazienti, necessaria ai fini dell’efficacia dell’intervento terapeutico. Agli operatori è, dunque, richiesto di accogliere i propri vissuti relativi alla perdita e di integrarli adeguatamente nell’immagine di sé. L’ansia e la paura, correlate alla scarsa maturità dell’operatore nel gestire il tema della morte, possono costituire un ostacolo all’interazione con il paziente.

A tal proposito, si pensi all’importanza per il medico di acquisire delle competenze specifiche nell’ambito della comunicazione delle cattive notizie (breaking bad news). Quest’ultima conduce i familiari e i caregiver verso la presa di coscienza di un evento potenzialmente destabilizzante. Il percorso di elaborazione del lutto e la ridefinizione del legame con il morente hanno inizio nel momento in cui si riceve la comunicazione della diagnosi infausta. Per cui è fondamentale curare le strategie comunicative della diagnosi e non lasciarla ad improvvisazioni creative del momento.

 

Ripartire dal dolore. L’esperienza di Luke, un americano a Roma, di Di Luke Lombardo, traduzione di Claudio Cravero

Può la perdita del proprio amato trasformarsi in una forma di rinascita? A prescindere dal credo religioso, dal tipo di unione, matrimonio o coppia di fatto (ancora da normare in molti comuni italiani), che cosa significa perdere la propria dolce metà?Un incontro inaspettato con Luke, uno straniero di mezza età in visita a Torino di recente, continua a echeggiare con le sue parole: Riavviare, ripristinare e resettare. La lista degli input potrebbe proseguire, ma per Luke l’elenco si ferma a Rinascimento. Luke ha deciso di trasferirsi e reiniziare la sua vita proprio in Italia, culla della rinascita umanistica. Il blog Si può dire morte diventa un’occasione per osservare il tema della morte tenendo in considerazione il melting-pot culturale, ossia la cultura di provenienza o di adozione; il dolore della separazione dal punto di vista di una coppia omosessuale attraverso le parole di ‘Un americano a Roma’. Dopo 23 anni trascorsi con Darin, il marito di Luke morto a causa di un tumore nel 2018, Luke ha deciso di riscrivere la storia della sua vita. Si tratta di un passaggio, che dal biologico (la morte del corpo) diventa biografico. Il suo viaggio è iniziato con un biglietto di sola andata Los Angeles-Roma ed é in-progress nel suo blog The Spaghetti Diaries (Claudio Cravero)

La mia storia di perdita non è unica rispetto al lutto di chiunque altro perda una persona cara. Ciò che potrei considerare unico é l’insieme delle scelte che sto facendo non solo per affrontare il dolore, ma per dare una risposta alla domanda esistenziale che, dalla notte dei tempi, l’essere umano si pone costantemente: “Dove sto andando?”.

Quando subiamo una perdita traumatica, tra queste la morte del proprio compagno, credo sorga spontaneo interrogarsi sul senso di quanto successo e cercarne un significato. Qual è stata la ragione della fine? Che cosa tutto questo ha a che fare con me? Che cosa la morte mi insegna e quale lezione posso imparare da qui in poi?

Dopo la morte di mio marito nel 2018, la mia passione per i viaggi, il desiderio di conoscere culture e persone diverse, unite al mio amore per l’Italia, nonché paese di mio nonno, sono stati di conforto per aiutarmi a scoprire ciò che la vita aveva in serbo per me. La vita di un essere umano non può fermarsi all’esperienza biologica della morte del proprio amato, per quanto lacerante questa possa essere. Credo che il mondo non sia che un piccolo punto, a prescindere dalle dimensione esplorabile del nostro pianeta, rispetto alla grandezza della vita stessa. Adesso più di prima, quindi, la sperimentazione del viaggio e la mia destinazione.

Inizialmente, ho anch’io opposto resistenza ad una possibile fase di rinascita biografica. Per resistenza, intendo il desiderio di non voler cambiare nulla e lasciare tutto esattamente com’era prima che mio marito morisse. Questo avrebbe significato tentare di replicare una vita di fatto non replicabile. La mia resistenza, quindi, era nei confronti di una vita vista in prospettiva. L’aspetto retrospettivo della resistenza, al contrario, mi permetteva solo di stare nel dolore per averne un’esperienza profonda. Ma questo atteggiamento non mi aiutava a uscirne, a guarire. Ho ritrovato questa attitudine più e più volte anche mentre frequentavo gruppi cosiddetti ‘del dolore’. Il mio centro a Palm Desert, in California,  è stato il primo luogo nel quale ho iniziato a dare una forma collettiva e diversa al dolore. Sebbene abbia trovato conforto nel raccontare la mia storia personale e il mio rapporto con la morte, ho visto molte altre persone del centro stagnare e opporre resistenza al cambiamento di prospettiva: non riuscivano a vedere la loro perdita da un’altra angolazione.

Ho ascoltato storie di persone che combattevano da anni contro il proprio dolore, e cercavano continuamente di riconnettersi con quel punto nel quale la morte le aveva separate dai loro cari. Non credo che il tempo guarisca le ferite, come comunemente si è soliti rincuorarci. Il dolore non diminuisce nel corso del tempo. Quello che cambia è l’atteggiamento rispetto alle possibilità di una vita più ampia, proprio lì, al di là del dolore. Il dolore è una forma di crescita per permettere alla vita di chi resta di espandersi. In un certo senso, la nostra biografia si amplifica proporzionalmente allo spazio che decidiamo di dare alla vita stessa, sperimentando così una trasformazione del dolore in qualcosa di più grande e inaspettato. Ho così compreso che l’espansione della mia biografia fosse l’unica opzione per vivere una vita ‘con’ e non ‘senza’.

Con la morte di Darin ho deciso di salutare 30 anni incredibili e colmi di ricordi in California, donando e vendendo quanto possedevo. Al tempo stesso, ho espresso quanta gratitudine possibile rispetto a quanto ricevuto sino ad allora e sono ripartito dalla mia esperienza per creare un nuovo e più profondo valore per la mia stessa esistenza. In questa direzione, il cambiamento ha corrisposto alla mia comprensione, fisica, emotiva ed intellettuale, di una vita da vivere in modo più autentico e profondo, volta alla creazione di valore – ovunque mi trovi.

Essendo italo-americano, sebbene cresciuto negli Stati Uniti, le mie esperienze familiari mi facevano pensare che dopo la morte del proprio coniuge si dovesse convivere con il lutto per il resto della vita, definendo un prima (con) e un dopo (senza); due tempi precisi ma in ogni caso riempiti e definiti dalla perdita. Nonostante i cambiamenti culturali in corso, mi sono scontrato con abitudini sociali alle quali non avevo mai prestato attenzione prima. Ad esempio, non mi ero mai accorto di quanto siamo propensi a catalogare e classificare il nostro status con etichette. Dopo la morte di Darin, mi sentivo continuamente chiamare ‘vedovo’.  Confesso che, a 47 anni, ho rifiutato questa definizione, poiché sarebbe rimasta tale a meno che non mi fossi risposato. È vero, di fatto sono vedovo, ma questa classificazione mi rimanda sempre e solo alla situazione dell’“assenza” di mio marito.

Inoltre, in una relazione gay, credo che l’etichetta ‘vedovo’ porti con sé ulteriori complicazioni ancora da sciogliere. Sebbene i diritti delle coppie omosessuali siano avanzati in modo significativo nell’ultimo decennio, solo ora si inizia a sentire parlare di ‘vedovi’o ‘vedove’ tra le coppie dello stesso sesso. A livello socio-culturale, anche questo aspetto diventerà inevitabilmente sempre più comune e mi auguro che presto sia affrontato anche a livello politico e civile. Infatti, mi sento ancora chiedere come sia morto il mio ‘amico’.

La perdita di un amico è una cosa, la perdita del tuo compagno o della tua compagna é ben altra. Quindi rispondo in genere che “ho perso il compagno di una vita, non ho perso un amico”. Mi sembra ci sia ancora molta confusione in questo senso. Il diritto al lutto del proprio amato è lo stesso a prescindere dalla sessualità dei partner.

Durante questo processo iniziato con la morte di Darin, ho trovato che la scrittura sia a pieno titolo una forma di terapia. Ora capisco perché gli scrittori scrivono, quasi come mossi da un’urgenza comunicativa. Anche se non so ancora dove il mio blog The Spaghetti Diaries mi porterà nei prossimi mesi, vorrei che le persone che leggono i miei post capissero l’importanza delle scelte che facciamo per la nostra vita, indipendentemente dalle circostanze. La mortalità, si sa, é un aspetto della vita, ma la morte del tuo amato non è la morte di te. È, anzi, lo stimolo per ripartire e continuare a cercare il proprio scopo, il più grande possibile.

 

Il dolore degli altri: l’esperienza di un cerimoniere. Intervista a Stefano Colavita, di Marina Sozzi

Come hai deciso di diventare cerimoniere al tempio crematorio di Torino?

Non è stata una vera e propria decisione. Direi più semplicemente che è successo, in modo del tutto casuale e inaspettato. Verso la fine del 2013 un caro amico – ai tempi impiegato alla Socrem come cerimoniere – mi chiese se fossi disposto a sostituirlo, visto che stava progettando di trasferirsi all’estero per motivi familiari. La sua decisione di andarsene era stata piuttosto improvvisa, e c’era questo posto vacante da coprire con una certa urgenza. Io avevo appena concluso, in modo non del tutto indolore, quel genere di iter universitario all’insegna della precarietà più disperata che dottorandi e assegnisti di ricerca purtroppo conoscono bene, e l’idea di tentare nuovi percorsi non mi dispiaceva. Il mio curriculum era abbastanza in linea con il profilo richiesto perché, fra le altre cose, durante gli anni universitari mi ero occupato di tanatologia e avevo discusso una tesi di dottorato sugli eufemismi luttuosi. Inoltre mi trascinavo dietro un discreto bagaglio di cultura generale e avevo anche una certa esperienza nell’ambito della lettura performativa. Qualche giorno dopo l’invio del curriculum, l’allora direttore del tempio di corso Novara mi contattò per un incontro conoscitivo. Probabilmente il colloquio andò bene perché di lì a poco mi richiamò proponendo di dare inizio al percorso formativo. Da allora sono passati cinque anni, e ancora non mi hanno cacciato.

Che cosa significa avere a che fare ogni giorno con il dolore e il lutto degli altri? Hai messo in atto qualche strategia per gestire questo difficile e delicato compito nella tua vita?

L’altrui dolore è una materia oscura e delicata, difficilissima da manovrare. Non la conosci, puoi solo intuirne le forme, entrare in contatto con il suo riverbero. Il tuo compito, come cerimoniere, è quello di gestire questa massa fluida senza appropriartene, sfiorandola appena, tentando l’intricatissima impresa di entrarvi dentro senza toccarla e soprattutto senza farti toccare. È un po’ come infiltrarsi in una grande bolla di sapone, restare lì dentro il tempo che serve, per poi uscire fuori con estrema cautela, in punta di piedi, evitando di farla scoppiare. All’inizio è arduo, il pericolo di lasciarsi coinvolgere è sempre dietro l’angolo. Ricordo che nei primi tempi l’idea di gestire cerimonie per bambini mi atterriva. Poi, un passo alla volta, impari a fare ordine, a collocare le cose nel posto giusto, soprattutto ad affinare la consapevolezza che un ruolo del genere impone disciplina, lucidità e un profondo autocontrollo. Ogni cerimoniere ha le sue strategie per evitare che il dolore degli altri lo colpisca, non esiste una regola, è tutto molto soggettivo. Certo non siamo macchine, non sono rari i casi in cui cerimonie particolarmente intense lasciano il segno. A volte si fatica perfino a trattenere le lacrime. Direi che il modo migliore per imparare a gestire gli aspetti più disturbanti sia quello di instaurare un dialogo continuo con gli altri cerimonieri, gli aiuto cerimonieri, i cremazionisti, gli operatori del settore, e così via. Parlare, raccontarsi, dedicare tempo al confronto con le esperienze emotive di chi osserva gli eventi dalla tua stessa prospettiva, è davvero molto importante. Così come è utilissimo ritagliarsi spazi per scherzare e prendersi in giro. Sembra brutto dirlo, ma se non trovassimo il modo di ridere ogni tanto fra un funerale e l’altro sarebbe tutto più difficile.

Il tuo è un punto di osservazione fondamentale per capire come le persone partecipino al lutto degli altri, per lo meno nella fase dei riti di morte. C’è qualcosa che hai osservato e che ti sembra importante comunicare?

Ogni giorno assisto agli effetti che il trauma della mutazione provoca nei dolenti. L’aspetto che mi colpisce sempre è il disorientamento dei superstiti di fronte al fatto che dentro quel feretro c’è un corpo e che quel corpo sta per diventare polvere. Sono convinto – lo sottolineo spesso – che il vero dramma non stia tanto nei dubbi su cosa succeda dopo la fine, ma nel senso di smarrimento che si prova al cospetto di un cadavere. Una delle domande che i partecipanti al rito funebre mi rivolgono con maggiore frequenza è se il defunto proverà dolore nel momento in cui verrà consumato dalle fiamme. Questo cruccio – molto più diffuso di quanto non si possa credere – restituisce bene la misura di quanto, per la nostra cultura, il corpo sia ancora una cosa viva anche quando smette di respirare. Anche il più devoto fra i credenti su questo terreno crolla, autodenunciando così, più o meno consapevolmente, un gigantesco irrisolto. Per spiegare meglio questo aspetto, che ritengo cruciale, uso spesso quello che chiamo il gioco del sassolino. Ecco, immaginiamo un mondo in cui il decesso di un uomo non preveda il progressivo disgregarsi dei tessuti biologici, ma l’immediata trasformazione in sasso, come un chicco di mais che diventa pop corn. Puff, ecco, signori: questa è la morte. Quali scenari aprirebbe una prospettiva del genere? Dal punto di vista dell’elaborazione del lutto, ne sono convinto, un ribaltamento completo. Il peso dell’evento traumatico si scaricherebbe in modo decisivo. Sicuramente affideremmo all’entità sasso un valore meno trascurabile, questo sì, il che consentirebbe l’apertura a nuovi orizzonti rituali. Immagino tasche piene di antenati da portare a spasso, e giardinetti pubblici lastricati di defunti irriconoscibili. Ma penso che non ci farebbero così tanta paura. Né loro, né la morte in sé.

È cambiato il tuo rapporto con la vita e con la morte da quando fai questo lavoro?

Apparirà scontato, ma quando la morte e i suoi effetti entrano a far parte della tua quotidianità, la consapevolezza di quanto la nostra esistenza sia appesa a un filo davvero sottile diventa lampante. È un costante memento mori che ti costringe a riflettere sul senso delle tue azioni, sul valore del tempo, sull’importanza di vivere ogni istante sapendo che potrebbe essere l’ultimo. Non solo l’ultimo tuo, naturalmente, ma l’ultimo delle persone che ami: amici, genitori, figli. Mi considero un agnostico orientato all’ateismo, non credo nell’aldilà, nella resurrezione dei corpi, nelle rassicuranti fantasie promesse dalle religioni, quindi il pensiero della mia morte non mi procura alcun senso di angoscia. Temo più la prospettiva di una malattia dolorosa, o dell’invalidità, e l’eventualità di andarmene prima che i miei figli diventino adulti. Inoltre trovo problematico gestire la prospettiva di una perdita irrimediabile, perché se muore qualcuno che ami, per come la vedo io, non avrai mai più occasione di incontrarlo. Allo stesso tempo avere familiarità con la morte ti aiuta a comprendere quanto sia importante ricondurla a una dimensione naturale, direi perfino ovvia. Fa parte di noi, confinarla nel nebuloso territorio degli spauracchi non ci aiuta a vivere meglio. Così come non ritengo sano vivere nell’ansia di essere dimenticati, perché a pensarci bene è proprio questo l’aspetto della morte che più atterrisce, l’idea di sparire per sempre. Eppure niente è eterno, non lo è il mondo, non lo è l’universo, non lo siamo noi. Che ci piaccia o no, siamo destinati all’oblio, forse l’unica strada percorribile per risolvere i nostri problemi con la Nera Signora è educarci a dialogare con il valore della dimenticanza. Per quanto mi riguarda, spero che quando morirò mi dimentichino in fretta. Faccio mia una frase di Montaigne che negli Essais scriveva: «Desidero che si agiscano e si allunghino gli affari della vita finché si può, e che la morte mi trovi mentre pianto i miei cavoli, ma noncurante di essa e ancor più del mio giardino non terminato». Ecco, lavorare al tempio crematorio mi ha aiutato a comprendere meglio il significato di queste preziose parole.

A che punto siamo con la negazione della morte? Seconda puntata, Il lutto, di Marina Sozzi

Prendo spunto da una lettera pubblicata recentemente su Famiglia Cristiana. Il titolo era: Mandata in vacanza per nascondere la morte di papà. È la storia di una famiglia che ha subìto la grave perdita di un giovane padre, morto in un incidente in montagna. La bambina è stata allontanata da casa e inviata da amici, per tenerla distante dal momento doloroso dei riti e della disperazione. Ora la bimba tornerà a casa, ignara, non troverà più il padre, e la madre, devastata dal lutto, non sa come parlare alla figlia. La lettera era di un’amica di famiglia, che chiedeva consiglio ad Alberto Pellai, medico e psicoterapeuta.  C’è infatti spaesamento sul comportamento da tenere in tragedie come questa, e l’esigenza di affidarsi a competenze psicologiche. Abbiamo delegato la gestione della morte alla medicina, e quella del lutto alla psicologia.

La bella risposta di Pellai è riassumibile in queste parole: “La mamma deve progressivamente sentirsi in grado di far arrivare alla sua bambina il messaggio: anche se ci è successa una cosa bruttissima, io e te abbiamo un futuro. La vita rimane aperta davanti a noi.”

Su questa storia triste resta però un’analisi da fare che non è psicologica: dobbiamo riflettere sulla difficoltà che abbiamo a condividere il dolore, la morte, il lutto, in famiglia e nella maggior parte degli ambienti sociali. La cosa che più colpisce è che sia stato ritenuto giusto impedire a questa bambina di salutare suo padre e di piangere insieme a sua madre, a causa di un malinteso sentimento di protezione, che forse ha creato a quella bimba ancora più sofferenza.

Ciò che ci interessa, però, al di là del caso specifico, è che lo spettacolo della morte sia ancora troppo spesso pensato come impossibile da sostenere, per gli adulti e a maggior ragione per i bambini. La situazione non pare migliorata negli ultimi vent’anni, a causa forse del processo di frammentazione sociale, o forse dei martellanti valori della nostra epoca, benessere, dinamismo, giovinezza, salute, spensieratezza.

Chi subisce una perdita continua a sentirsi molto isolato. Le relazioni precedenti spesso si allentano, e solo talvolta accade di costruirne di nuove. Tuttavia, chiedere aiuto è difficile, sia perché menzionare il tema della perdita è poco accettato, sia per il diffuso ritegno ad ammettere di non riuscire a superare da soli lo sconquasso che il lutto porta nella vita. Peraltro, l’aiuto disponibile è scarso, assente in molte realtà del nostro paese. Le poche associazioni che si occupano di sostegno al lutto, con gruppi condotti o di auto mutuo aiuto, difficilmente sono finanziate e non sempre riescono a offrire risorse di qualità. Erroneamente, i progetti sul lutto sono ritenuti a scarso impatto sociale sia dagli enti pubblici sia dalle fondazioni di erogazione. Eppure, non si tratta solo del dolore individuale (e non sarebbe irrilevante), ma di giornate di lavoro saltate, di maggiori rischi per la salute, di grave solitudine soprattutto per molti anziani.

Il nostro disagio nei confronti del lutto si rende evidente anche attraverso l’assimilazione del lutto a una patologia: chi non riesce a tornare al lavoro si fa scrivere dal suo medico un periodo di mutua (che è un’istituzione che copre gli episodi di malattia); il lutto è stato inoltre inserito nel DSM, ossia nel Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali. E, secondo uno dei paradossi da cui è attraversata la nostra cultura, il dolente viene visto come un malato, ma nulla viene fatto per prevenire i lutti bloccati o patologici.

C’è chi sostiene, come ad esempio Marzio Barbagli (Alla fine della vita), che oggi l’elaborazione del lutto avvenga attraverso i social network e i siti dedicati. Davide Sisto (La morte si fa social) si interroga sul significato e sull’utilità delle comunità virtuali di sostegno, e con cauto ottimismo segnala il forte incremento delle interazioni, sulla pagina Facebook dei dolenti, di messaggi volti a sostenerli.

Dal mio punto di vista, pur cogliendo questi segnali che provengono dal mondo virtuale, occorre comprendere perché si riesca a manifestare vicinanza a una persona in lutto solo da dietro lo schermo del proprio computer o smartphone, e che si provi invece un forte senso di inadeguatezza (cosa gli dico, come mi comporto?) quando si incontra per strada quello stesso dolente al quale si sono scritte parole di cordoglio e supporto.

Il fenomeno di una comunicazione che passa soprattutto attraverso il web e i social network è, mi rendo conto, generalizzato, e non è certo applicabile solo al lutto. E’ vero senz’altro che queste iniziative online possono essere utili, come succedanee delle comunità reali che si sono frantumate e non funzionano più. Purtroppo, nel dolore, nella solitudine di chi ha perso un congiunto, la modalità virtuale non è sufficiente, perché, al contrario, ciò che aiuta è la presenza fisica degli altri, i loro visi e sorrisi, il tempo dedicato, le emozioni, il contatto.

Occorre, probabilmente, un nuovo codice comunicativo, una sorta di nuovo galateo, che permetta agli individui l’incontro con chi soffre nella società reale, e riduca il timore di essere fuori luogo o di non avere nulla da dire. Bisogna infrangere l’idea che la sofferenza non sia affrontabile, sia esorbitante le capacità umane, perché tutti possano averne meno paura, e trovare un modo per stringersi l’un altro nella cattiva sorte, come richiede la nostra stessa storia evolutiva.

Cosa ne pensate? Vi è capitato di sentirvi particolarmente soli dopo una perdita? Avreste desiderato maggiore vicinanza dai vostri familiari o amici? Utilizzate molto i social network per fare le condoglianze? E per parlare del vostro lutto?