Elena, la Svizzera e la dignità della morte, di Marina Sozzi
In genere preferisco non parlare del tema dell’eutanasia e del suicidio assistito, su cui ho già in alcune occasioni espresso il mio pensiero.
Ma quando leggo sui quotidiani descrizioni approssimative e imprecise delle storie delle persone che scelgono di andare in Svizzera, mi viene il desiderio di commentare. Non intendo certo commentare la scelta della signora Elena, che si è recata a Basilea con Cappato a concludere la sua vita. Non si può e non si deve giudicare le scelte delle persone, che si sentono o non si sentono di vivere la propria malattia fino alla fine. Ciascuno sceglie in base alla propria storia, alle proprie risorse, a molti altri fattori della propria vita che non sono sindacabili.
Tuttavia, quando la storia di Elena, su Repubblica o sulla Stampa, è narrata come se l’alternativa di Elena fosse morire soffocata per via del suo microcitoma, non si può tacere.
Scrive Maria Novella De Luca su Repubblica: «Se n’è andata così Elena, con la voce sottile e il coraggio di un leone, lasciando un video che è un limpido testamento di amore per la vita. “Mi sono trovata davanti a un bivio. Una strada più lunga che mi avrebbe portata all’inferno, una più breve che poteva portarmi qui in Svizzera, a Basilea: ho scelto la seconda.”»
Ora, l’alternativa al suicidio assistito, nel caso di Elena, non è la sofferenza bruta a cui fa riferimento sia lei stessa che la giornalista: “l’inferno”.
E da questo punto di vista credo sia importante che, oltre a poter scegliere – e in Italia, dopo la sentenza della Corte Costituzionale, prima o poi una legge sul suicidio assistito si farà- si possa scegliere sulla base di buone informazioni.
E queste informazioni non le troviamo mai, o quasi mai, sui mass media nazionali: le cure palliative permettono di non soffrire dal punto di vista fisico, e di essere sostenuti dal punto di vista umano, psicologico e spirituale. Nel caso di Elena, se il microcitoma (tumore polmonare molto aggressivo) o le metastasi le avessero provocato dei sintomi cosiddetti “refrattari” (che non si riescono a contenere con i farmaci), o se la sua angoscia di morire soffocata fosse troppo forte, ci sarebbe stata l’indicazione per una sedazione palliativa. Questa sedazione non ha nulla a che fare con il suicidio assistito, perché non abbrevia né allunga la vita, e perché diverso è l’obiettivo (nel suicidio assistito i farmaci ingeriti sono volti a provocare la morte, mentre nella sedazione palliativa viene indotta una forma di sonno profondo che azzera la coscienza e anche la sofferenza, che sia fisica o mentale).
Quindi Elena avrebbe potuto finire la sua vita nella sua casa, circondata dall’affetto dei suoi cari, con una sofferenza tenuta sotto controllo. Quindi massimo rispetto per la sua scelta, ma l’alternativa non sarebbe stata “l’inferno”. E questo è importante dirlo per tutti gli altri innumerevoli malati di tumore che devono affrontare la fine della propria vita.
Ancora Repubblica: «Elena ha registrato un video – lucido e straziante – in cui testimonia la sua libera e inappellabile scelta, ma accusa anche il nostro paese di averla costretta ad emigrare per poter morire con dignità. “Avrei sicuramente preferito finire la mia vita nel mio letto, nella mia casa, tenendo la mano di mia figlia, la mano di mio marito. Purtroppo questo non è stato possibile e quindi sono dovuta venire qui da sola.» Ecco, no.
Nulla da eccepire sulla libera e inappellabile scelta di Elena, ma in Italia abbiamo due ottime leggi sul fine vita (la 38 del 2010 e la 219 del 2017) che le avrebbero permesso di morire nel suo letto, tenendo la mano dei suoi familiari.
Quando si decide che il malato non se la sente più di affrontare la malattia, l’équipe propone la sedazione palliativa, e la spiega accuratamente al paziente e alla sua famiglia, così che possano prendere insieme una decisione, e prima che la sedazione venga praticata la famiglia può riunirsi per un saluto, per le ultime parole d’amore. La sedazione non è sempre irreversibile, e talvolta è possibile programmare una sedazione intermittente, che permetta ad esempio al malato di riposare ma di essere ancora presente in alcuni momenti. La sedazione palliativa è uno strumento terapeutico duttile ed efficace, e, insieme a tutti gli altri, è volto a garantire la dignità alla fine della vita. Le cure palliative hanno come priorità la dignità del malato. Troppo spesso si rivendica la dignità come se la morte programmata fosse l’unica soluzione per garantirla.
Le storie che talvolta si sentono, di persone prese in carico troppo tardi, e che hanno sofferto, sono storie che dipendono prevalentemente dalla mancanza di cultura sulle cure palliative. Mancanza di cultura dei medici, che tardano troppo ad attivare le cure palliative; e anche mancanza di cultura dei cittadini, che ignorano i loro diritti (le cure palliative sono garantite a tutti come diritto dalla legge 38). Talvolta, certo, dipendono anche dalla cattiva organizzazione delle ASL e dai loro ritardi.
Ma anche di questo siamo tutti responsabili. Perché, oltre ad invocare il suicidio assistito e l’eutanasia, dovremmo informarci meglio e conoscere le possibilità che le cure palliative offrono di affrontare con dignità, con la tutela della qualità della vita, la propria morte. E dovremmo fare una battaglia civile perché le cure palliative siano estese a tutti i malati che ne hanno bisogno, in tutti i contesti di cura.
Sono ansiosa di sapere cosa ne pensate. Grazie in anticipo per i vostri commenti.
Condivido parola per parola! Sono infermiera palliativista, leggere che’alternativa al suicidio assistito sarebbe stato l’inferno mi rattrista davvero tanto. Quanta strada abbiamo ancora da fare prima di poter parlare di eutania e suicidio assistito in Italia!
Davvero, Martina, quanta strada! Ma dobbiamo cominciare a mettere i puntini sulle i tutte le volte che leggiamo un articolo come questi…
Condivido pienamente,dalla parte di chi ha accompagnato un proprio caro nell ultima parte della sua vita, beneficiando delle Cure Palliative, gratitudine immensa ,con la speranza che tutti possano accedervi- anche se purtroppo so bene che nn è cosi..
Che tutti possano accedervi: dobbiamo combattere affinché questo diritto (garantito dalla legge 38) diventi concreto.
Credo che il dibattito sia complesso e richieda che se ne discuta con rispetto e cognizione di causa. La malattia terminale è uno spazio in cui si muovono molte comparse ed un solo protagonista ed è da lì che si parte.
Ognuno di noi che abbia un’età non più giovane ha avuto occasione di fare pensieri sulla propria fine. Su come vorrebbe che finisse, in quali condizioni e a volte succede che la vita abbia altri progetti cui ci dobbiamo in parte uniformare. Se questo non è nelle nostre corde cerchiamo la soluzione che più si adatta alla nostra natura. Condivido ogni metodica che permetta di scegliere la propria fine tra differenti possibilità, in maniera che nessuno ne possa essere escluso a priori, tra sedazione palliative, suicidio assistito ed eutanasia. Purtroppo in Italia questo percorso non è stato ancora completato, in ogni caso la sedazione palliativa può essere un ausilio dignitoso negli ultimi momenti della propria esistenza. È chiaro che ci sono differenze fondamentali tra le varie scelte che riguardano il tempo, lo stato di coscienza, la determinazione.
Non spaventerei le persone che stanno vivendo questi momenti, passando un messaggio mediaticamente vivace ed efficace ma terrificante.
Certo, è proprio la complessità che va rispettata. Definire “inferno” un percorso di fine della vita è una semplificazione che si può perdonare alla persona malata, che deve affrontare la propria morte. Ma non si può perdonare ai giornalisti, che è tempo che comincino a informarsi.
Grazie per spiegare così chiaramente le possibilità di un buon fine vita.
Grazie a lei, Cecilia.
Concordo in toto.
Ascoltando le parole della signora Elena, di cui rispetto la scelta, ho pensato proprio a quanta strada si debba ancora fare per far conoscere le cure palliative; torniamo spesso sull’argomento, vuoi per marcare la distanza da eutanasia e da suicidio assistito, vuoi, come in questo caso, per ribadire che, anche in Italia, le cure palliative si possono attivare anche a livello domiciliare, e, fattore non secondario, sanno accompagnare anche gli affetti della persona malata. Mi auguro sia un’occasione per tenere aperto il dibattito, per diffondere la cultura delle cure palliative, perchè, anche da questi fatti, si capisce quanto bisogno ce ne sia.
Grazie Domiziano, parole preziose!
Buongiorno Marina, ho letto con interesse ed apprezzato il tuo ultimo articolo che analizza bene la situazione italiana attuale. è vero, c’è poca cultura legata alla sfera delle cure palliative, al fine vita, alle possibilità che si aprono una volta in cui non sono più attuabili percorsi di terapia attiva. Mi domando spesso cosa posso fare come medico in tale ambito; è importante che come cittadini consapevoli ognuno di noi si informi in maniera corretta su questi aspetti, sappiamo però che spesso, proprio perchè queste tematiche fanno parte di una sfera che finchè si è in salute si tende ad allontanare dai propri pensieri (la società stessa in cui siamo immersi è maestra in questo) è difficile che che si crei nelle persone comuni una cultura consapevole, soprattutto considerando che non tutti hanno le stesse capacità socio-intellettuali di riuscire a crearsi un pensiero consapevole attraverso un percorso di ricerca personale. Dall’altra parte lavorando noto come spesso siamo noi come professionisti sanitari che fatichiamo nell’ accompagnare correttamente i pazienti che in situazioni simili sono ancora più fragili, sotto molteplici punti di vista; manca una formazione di base anche nella nostra categoria, la facoltà che ho frequentato e concluso lo scorso anno non dà gli strumenti per poter essere formati e all’altezza di tali compiti, la disciplina delle cure palliative ancora non trova lo spazio che merita (e di cui abbiamo bisogno) nel percorso di formazione universitario. Troppe cose sono ancora lasciate alla sensibilità del singolo, manca la cultura del prendere precocemente in carico questa tipologia di pazienti (con le giuste informazioni al malato, ai familiari, con l’accorgersi quando può essere appropriato iniziare ad approcciare un discorso sull’ambito palliativo ed indirizzare l’assistito a chi è esperto in materia). A questo si aggiunge il fatto che non in tutte le zone gli hospice, i servizi di cure palliative sono distribuiti allo stesso modo, spesso non si riesce a coprire il reale fabbisogno e non poche persone con malattie in fase terminale finiscono per morire in ospedale, dove, per quanto si cerchi di rendere il tutto il più umano possibile, il setting continua ad essere non adatto (ancor più in questo periodo di pandemia) e il personale non sempre pronto (psicologicamente, professionalmente) e privo di quel tempo a disposizione in hospice per accompagnare il paziente, i familiari. Credo che la sfida nel futuro prossimo sia proprio quella di riuscire ad investire nella cultura di base a livello sanitario, passaggio imprescindibile affinchè si abbia qualche possibilità di creare quella cultura nella popolazione che renda capaci di leggere con spirito critico i titoli dei giornali.
Grazie Cristina, per il suo intervento. Dobbiamo continuare a divulgare, sia tra i medici sia tra i cittadini. A proposito di classe medica, è ad esempio particolarmente triste, e parecchio scandaloso, che, per ragioni di faide inter-accademiche, non avremo all’Università di Torino, quest’anno, la Scuola di Specialità di Cure Palliative.
A mio modesto parere il problema è molto più ampio e riguarda in primis il tema annoso dell’umanizzazione della Medicina. Tanti meritevoli medici e operatori sanitari si ritrovano totalmente sguarniti dinnanzi al dolore del morente e dei suoi cari. Sia in ambito intra che extra ospedaliero.
E credo, altresì, che il problema vada affrontato nella formazione degli operatori e non negli stili di divulgazione di massa (purtroppo in Italia troppo spesso fuorviante).
Se l’umanizzazione passasse attraverso lo studio della Psicologia e Sociologia Medica, oltreché dell’Antropologia e della Tanatologia, per citare alcune discipline cogenti, e approdasse a una maggiore capacità di cura della persona e della relazione (quindi della comunicazione) sarebbe già un buon esito. La normativa, senza una pratica sociale, ahinoi diventa lettera morta.
Grazie, Marina Sozzi, per il tuo post adamantino.
Grazie a te, Diego, e hai in parte ragione. Tuttavia, non sottovaluterei la divulgazione tra i cittadini. Se le persone sono correttamente informate, chiedono, anzi, pretendono. E anche le istituzioni hanno un maggior stimolo a cambiare e a mettersi al passo, per rispettare le due bellissime leggi sul fine vita che già ci sono.
Io, invece, non sono del tutto d’accordo.
Conosco da tempo le opinioni di Marina sul suicidio assistito, e so quanto stia dalla parte delle cure palliative, nell’ambito delle quali ora addirittura lavora (chapeau!). Ma non capisco perché il lavoro dell’associazione Luca Coscioni e di Cappato sia così osteggiato, tanto da essere ignorato (o apertamente censurato) su questo blog mentre la sua battaglia è costantemente all’ordine del giorno, con un’opinione pubblica che è in maggioranza a favore di una legge sul tema. Mi chiedo perché una cosa – le cure palliative – debba escludere l’altra – il suicidio assistito. Viene quasi da chiedersi se per chi, come Marina, abbia combattuto tanto perché la morte non fosse più un tabù, un tabù diventi invece la morte scelta, quando non c’è più speranza di una vita degna (considerando che la dignità della propria vita e della propria morte è una questione del tutto soggettiva).
Marina decanta da tempo le cure palliative (che siano benedette!), che tolgono il dolore fisico e psichico, quest’ultimo grazie ad assistenza umana, psicologica e spirituale: ma c’è da chiedersi – per chi non è credente – se queste ultime siano davvero onnipotenti tanto da regalare una morte serena. Promettono il paradiso anche per i non credenti?
Non è possibile ammettere, nell’Italia di oggi, il diritto di rifiutare di essere sedati e di levarsi di torno quando non c’è più speranza di vita? Farsi sedare deve restare un obbligo, forse? Marina cita anche la legge – ampiamente sabotata dalle destre – che chissà mai quando arriverà all’approvazione, se non viene affossata. Peccato che questa legge si limiti ad autorizzare il suicidio assistito (con quanta burocrazia e rimpallo di responsabilità si è visto di recente nelle Marche) solo per persone che sono tenute in vita da “sostegni vitali” (faccio notare, con Marina, che la sospensione delle cure era già ammessa per legge prima), ed escluda tutti i malati oncologici, fra i quali c’era Elena.
La battaglia è in corso e Repubblica è chiaramente schierata, questo è vero. Ma la parola “inferno” l’ha usata Elena. Vogliamo rispettare che considera tale una vita spezzata da una malattia devastante e decida autonomamente cosa fare della propria vita? Ricordo anche che Elena ha scelto di tenere lontani i suoi cari solo per proteggerli dal punto di vista giuridico (se non è coraggio questo…), ma che dj Fabo era stato accompagnato in Svizzera anche dai suoi cari, senza conseguenze per loro. Anche in Francia il tema è caldo, tanto che è stato trattato da due film: “Quelques heures de printemps” di Brizé (inedito da noi, ma esistono i sottotitoli italiani), e il più recente “Tutto è andato bene” di Ozon.
Infine, siamo come di fronte a un qualcosa come il diritto al divorzio o all’aborto. Chi sceglie il suicidio assisito nulla toglie a chi voglia seguire la strada dell’hospice e delle cure palliative. Due strade meglio che una sola, credo. Che poi queste ultime vadano maggiormente promosse, fra i pazienti, ma soprattutto fra i medici, non ci piove: ma cosa sia un hospice credo che ormai la stragrande maggioranza degli italiani lo sappiano.
Caro Giovanni, no, non è tabù per me il suicidio assistito. Ne ho parlato e ho già espresso il mio pensiero diverse volte. Cappato invece non mi piace, non mi piace il modo in cui conducono questa battaglia, a mio parere senza le giuste competenze, e utilizzando politicamente un tema delicatissimo, polarizzando le opinioni.
Sono d’accordo con te che non ha senso, nella legge, parlare dii sostegno vitale. La possibilità di rifiutare il sostegno vitale c’è già, ed è garantita dalla legge 219. Se una legge sul suicidio assistito dovrà esserci, dovrà – con le giuste cautele – permetterlo anche a malati che non sono tenuti in vita da macchine o da nutrizione artificiale. Però, voglio ancora una volta ripetere, in un paese dove le cure palliative sono davvero poco note, occorre sostenerle, e molto. Se due strade sono meglio di una, perché parliamo sempre solo, nei media, di suicidio assistito o di eutanasia?
Non è giusto mettere sullo stesso piano sedazione palliativa e suicidio assistito. Non sono alternative, né mutuamente esclusive. Il ricorso alla sedazione palliativa presuppone appunto l’instaurarsi di sintomi refrattari, non gestibili con terapie meno invasive. Ma il percorso per arrivare a questi sintomi, e quindi ad accedere alla sedazione palliativa, è spesso lungo e doloroso. Trovo invece legittimo che una persona come Elena, nel momento in cui venga a conoscenza di una diagnosi che, in tempi non predeterminati, la porterà a morte certa, possa scegliere di non iniziare a percorrere questa strada. A quel punto potrebbe essere ancora in buone condizioni generali, senza sintomi eccessivamente pronunciati, e nessuno si sognerebbe mai di offrire una sedazione palliativa perché del tutto controindicata. Eppure al contempo sarebbe una persona il cui cammino terreno ha compiuto un irrimediabile passo verso la fine e che, in pace con se stessa, decide di risparmiarsi un percorso che, per quanto ben gestito (anche dai migliori professionisti) non potrà mai essere del tutto privo di angoscia e sofferenza, proprie e di chi la circonda. E questo è il caso delle malattie oncologiche, dove spesso il tempo tra diagnosi e morte scorre veloce, e non consente neanche di prendere lucidamente una decisione come quella del sucidio assistito. Ma c’è tutto un mondo di malattie degenerative, ineluttabilmente mortali, ma con decorso anche artificialmente reso lungo e tortuoso, in cui la fase terminale che può giovarsi della sedazione impiega anni a materializzarsi. Perché negare il diritto di sottrarsi a tutto ciò?
Non ho mai detto che occorra negare questo diritto. E’ possibile che quando pacatamente si indicano alcuni problemi (nel mio caso soprattutto di comunicazione giornalistica), debba subito esserci una levata di scudi a favore della morte programmata? Perché il vostro cuore pulsa per questa soluzione? Non sarà perché la morte fa così paura che non si riesce neppure a pensare di affrontarla?
Buona sera e grazie per la sua iniziativa.
Quanto accaduto deve essere una provocazione per tutti
Come medico palliativista sintetizzo le mie riflessioni
Ancora oggi in Italia in molte regioni meno della metà dei pazienti oncologici accedono ai servizi di cure palliative.
In tante situazioni le richieste di presa in carico sono tardive
I professionisti dedicati alle cure palliative sono pochi rispetto ai bisogni di pazienti oncologici e non oncologici
Moltissimi medici ostacolano l invio alle cure palliative
Professionisti e cittadini esprimono idee confuse e improprie sulle cure palliative e anche tanti giornalisti
Ma il punto qual è:
Formazione conoscenza e ricerca
La fondatrice delle cure palliative europee Cicely Saunders ci ha trasmesso che una buona assistenza deve essere supportata da formazione competenze studio scientifico e ricerca.
Questo ci permette di stare nella realtà della vita e della medicina che prevede conquiste e limiti. Se noi professionisti non ci educhiamo a stare nel reale e concreto della vita e della medicina come possiamo aiutare malati e famiglie?
Altri punto: il coraggio di fare investimenti per migliorare competenze e servizi di professionisti dedicati. Il coraggio anche di chi può orientare risorse economiche ascoltando i professionisti dedicati alle cure palliative
Con progetti deboli a breve termine e con poche risorse economiche non si arriva lontano
Confido in dirigenti regionali e aziendali illuminati che non abbiano paura di affrontare a piene mani progetti per le cure palliative
Confido nel nostro desiderio di umanità, di ricerca scientifica e di attitudine all aiuto reciproco
Grazie
Caro Luigi confermo in pieno ciò che hai scritto. Anch’io medico Anestesista Rianimatore con master in Cure palliative. Purtoppo tra i colleghi di MMG c’è astio verso il nostro operato, paura di usare la Morfina, questa paura viene trasmessa al paziente e famigliari. C’è poca informazione in merito e poca collaborazione tra colleghi. Speriamo in una risvolta positiva.
Grazie a lei, dottore.
È giusto continuare a fare chiarezza su ciò che sono le cure palliative e che dovrebbero essere un diritto per ogni cittadino del nostro paese . Sappiamo che ancora non è così, ci sono enormi differenze tra regioni . Nel caso di Elena, persona che mi è apparsa consapevole, preparata e conscia dei suoi diritti in Italia credo sia stata una scelta di non ulteriore cura, di non accanimento.
Come ho già scritto, non è in questione la scelta di Elena. Ci mancherebbe.
Ancora una volta parto dall’apprezzamento per questa comunità virtuale. Posizioni in vivace dialogo, pacatezza rispettosa dei toni, approfondimento delle argomentazioni fuori da slogan e luoghi comuni.
Grazie, Marina: è il tuo stile che lo ha reso possibile.
Sul post mi trovo in sintonia completa, mancano del tutto in una certa narrazione mediatica 50 anni di cure palliative in Italia, il lungo cammino per superare anche a livello comunicativo l’equiparazione “cancro=sofferenze intrattabili”. C’è tanto da fare, ancora. Voci come quelle della giovane collega Cristina, che ha scritto uno dei commenti precedenti, ci incoraggiano a continuare.
E’ vero Ferdinando. Grazie e te, e grazie a Cristina.
Condivido le tesi dell’articolo. Ho l’impressione che la pandemia di Covid abbia rallentato la crescita della domanda e dell’offerta di cure palliative.
E’ così. Purtroppo gli enti che si occupano di cure palliative hanno un 20% di pazienti che vengono presi in carico negli ultimi 5 giorni di vita. E questo non è un problema delle associazioni, ma una carenza culturale delle ASL, dei medici di medicina generale, e di molti specialisti. Non è ancora chiaro, ad esempio, che una presa in carico precoce in cure palliative permette al SSN di risparmiare notevolmente.
Dietro la provocazione di Cappato c’è tutto una concezione della vita , in primis c’è il tema della libertà. la libertà, prima che possibilità di scelta, di ogni tipo di scelta deve riconoscere fattori oggettivi su cui lavorare e riflettere, il primo fattore oggettivo è che la vita di cui alla fine vogliamo essere padroni non ce la siamo data, la abbiamo ricevuta , l’idea di togliercela vuol sempre dire togliere qualcosa che abbiamo ricevuto e dunque non possediamo, la cosa è evidente in altri mille aspetti della vita che rivelano che non siamo padroni, siamo fragili e bisognosi. Questo dato , evidente in molti istanti della vita, non va negato, ma seguito , può portare ad una maggior verità , magari questa verità ci appare , trapela proprio quando la nostra fine si avvicina e magari gli altri ci possono aiutare. Ecco allora il valore delle cure palliative. Però c’è molta ignoranza in merito. faccio un esempio :c’è una università che fa un master per professionisti su questo e lascia il campo ad auditori, però la quota di partecipazione è ugualmente alta. Invito a diffondere informazioni, ad aprire incontri, a consigliare testi contro la ignoranza della questione. Innocenza Laguri
Gentile Innocenza, comprendo e rispetto il suo punto di vista. Io sono laica e non credo che la nostra vita non sia disponibile per noi. Penso però che questo culto di una libertà sconfinata sia un delirio di onnipotenza, conseguenza di una cultura superficiale e spiritualmente povera (intendendo il termine “spirituale” nella più ampia accezione possibile)
Sono pienamente d’accordo che le buone cure del malato e l’accessibilità e la conoscenza delle cure palliative sono essenziale per una società civile. Ma bisogno anche spiegare cosa è la sedazione profonda permanente. Il medico che somministra la morfina in una tale quantità che il malato è di fatto in coma artificiale. Il medico interrompe inoltre la nutrizione e l’idratazione lasciando che lentamente gli organi smettono di funzionare fine a che il cuore cede. Il processo può durare giorni. Alcune malati e i loro familiari non lo ritengono una morte dignitosa e scelgono l’eutanasia. Esempi sono Belgio e Olanda dove le cure palliative sono accessibili quasi al 100% per i malati e pure i malati scelgono l’eutanasia. Nel rapporto dello Stato di Californio per l’anno 2021 dei 486 decessi causati dalla somministrazione di un farmaco letale 91,6% era medicato con le cure palliative. Riguardo la signora Elena conosciamo la natura della malattia non della suo stato psichico, cioè la paura per il futuro. Significativo in questo contesto che in Olanda i 205 malati che soffrivano di demenza che hanno visto accolto la loro richiesta di eutanasia, erano ancora in uno stato vivibile .Alla base della loro sofferenza era la paura per il futura, la perdita di dignità finire la vita in uno stato di totale incoscienza.
Purtroppo non ho trovato risultati di ricerche perché, in presenza di adeguate cure palliative, i malati scelgono l’eutanasia. In ogni caso la cura palliativa non è la panacea per tutti i malati, anche se indubbiamente la loro applicazione si può suppore empiricamente diminuisce la richiesta di eutanasia.
Concludo con una nota. Ho organizzato tanti incontri nella mia zona per spiegare le leggi 218 e 38. Ne vorrei fare tanti altri ma mi scontro con la resistenza di associazioni per anziani e servizi sociali perché guai a rompere quel tabù di parlare del fine-vita. Comunque non mollo!.
E’ importante continuare a parlare delle due ottime leggi (219 e 38) sul fine vita che già esistono in Italia. Io non sono un medico (e credo neppure lei), e penso che i farmaci usati per la sedazione non siano una dose alta di morfina. Magari un medico palliativista ha voglia di entrare nel merito e spiegare quali farmaci vengono usati? Grazie mille.
Salve Marina, grazie per aver sollevato l’argomento, è importante poterne parlare serenamente.
Concordo con chi dice che l’impegno che l’Associazione Luca Coscioni sta compiendo a favore di una legge sul fine vita non è volto ad escludere le cure palliative. Evviva le cure palliative. Però, non si può attendere che il personale tutto si uniformi ai nuovi metodi per arrivare ad una soluzione. Quanto dolore (soprattutto psicologico) devono ancora sopportare le persone nei prossimi, tipo, 5 anni? In qualità di Celebrante laico umanista, Io ho già organizzato tutte le fasi della mia dipartita, a seconda degli eventi che si potrebbero manifestare, funerale compreso. Per quanto mi riguarda, non voglio per nulla al mondo far sopportare ai miei cari il dolore e l’angoscia di vedermi spegnere a poco a poco come una candela (non parliamo se mi dovesse capitare la sfortuna di trovarmi in una struttura o con medici che osteggiano anche le cure palliative!!!). Lo trovo crudele, viste le alternative che ci sono date di evitare sofferenze e dolore, stabilendo noi come e quando farle terminare. Certo, esiste anche il suicidio legale, se una persona vuole farla davvero finita. Ma chi si è arrogato il diritto di mettermi nelle condizioni di dovermi buttare dalla finestra dell’ospedale come Monicelli o altri? Sapere di avere una o, meglio, più scelte ci dà l’opportunità di essere più sereni tutti. Prendere una decisione con consapevolezza da soli e poi condividerla con i propri cari, consente di prepararsi a quel momento e anche di salutarsi con dignità. E quando, finalmente, sarà possibile farlo anche qui in Italia (perché anche la morte costa e non è per tutti andare in Svizzera), tutti saranno più sereni, anche i dolenti, consolati dal fatto di sapere che chi si ama ha sofferto un po’ di meno e se n’è andato come gli pareva. Una decisione così importante e “l’entità della dignità” che si vuol mantenere è assolutamente personale. Quello che mi lascia perplessa è che si debba far percepire alla gente che l’eutanasia o il suicidio assistito sia un obbligo. E’ esattamente come l’aborto: non sei obbligata ad abortire ma è giusto che tu abbia la possibilità di poter scegliere e le strutture ed il personale per poterlo fare. Per chi non crede che dopo la morte ci sarà il paradiso e che si debba giungere a dover esalare l’ultimo respiro per aver riconosciuta una morte giusta, è l’autodeterminazione il concetto che si dovrebbe considerare ogni volta che si trattano argomenti così personali e delicati. Un saluto cordiale
Buongiorno Lucia. Rispetto naturalmente le sue posizioni, che sono molto personali. Le chiedo solo: è proprio sicura che i suoi cari sarebbero contenti (o si sentirebbero “alleggeriti”) della sua scelta di andarsene in fretta, prima di “spegnersi”? Forse varrebbe la pena, specie per chi, come lei, si occupa di morte, lasciare aperto il punto interrogativo. Non pensa?
Che parole Marina!
Grazie grazie infinite io sono volontaria in un hospice da 12 anni e condivido pienamente tutto quello che hai scritto!
Grazie Patrizia!
Marina quanta amarezza nel constatare che a distanza di vent’anni e più non è ancora decollata la cultura delle cure palliative!! Ne abbiamo discusso a lungo , in tutti gli ambiti , però il messaggio non è ancora passato…
Continuiamo con tenacia e speriamo .. per il bene dei nostri pazienti.
Sì Maura, dobbiamo tenere duro.
Grazie per queste parole, che aiutano a fare chiarezza. Non si possono contrapporre il suicidio assistito e l’inferno: di fronte alla superficialità, o forse a informazioni ingannevoli, è giusto dire di no. D’altra parte, va anche detto che la vita che finisce è vita, rimane vita, ed è diritto di chi soffre poter decidere come viverla, con quale intensità, quale capacità di relazione. Insomma, l’alternativa non è tra suicidio assistito e sofferenza. In Italia abbiamo leggi che garantiscono la qualità del dolore, la dignità della sofferenza. Anche se, purtroppo, ci sono talora ritardi culturali e ritardi organizzativi (e anche normativi, certamente) che impediscono a una persona, e alla sua famiglia, di fare delle scelte e di renderle esigibili.
Grazie per il suo intervento: sottoscrivo ogni sua parola.
Ciao Marina….intanto, un caro saluto.
Abbiamo attraversato quella situazione: è esattamente come tu la descrivi. A distanza di dieci anni dalla morte di mio marito, che con LPV abbiamo affrontato, ha permesso a Marco e alla mia famiglia (bambini e suocera e cognate) vivere ancora in condizioni accettabili il tempo che rimaneva: un tempo sospeso certo, ma ricco di momenti belli e importanti, esperienze significative: un tempo capace di modificare il senso di una vita.
Con immutata gratitudine.
Grazie Daniela per la tua testimonianza. Un abbraccio.
Gentilissima signora Marina,
No. La signora Elena ha scelto. E non avrebbe potuto scegliere diversamente perché evidentemente per lei l’inferno era quello. Non è da rispettare una scelta…una scelta altrui non si rispetta, non siamo agenti attivi che determinano le scelte altrui, la scelta altrui si accetta. Trovo molto doloroso e giudicante anche per i familiari leggere che avrebbe potuto scegliere diversamente…immagino che le siano state prospettate vie diverse eppure ha scelto.
Apprezzo molto invece l’informazione che fornisce. Trovo insopportabile l’uso che la stampa fa di queste dolorosissime e intime vicende così come trovo insopportabile l’onda emotiva sulla quale si forzano processi legislativi che meritano tempi di maturazione ulteriori anche alla luce del fatto che, come lei fa osservare, esiste una buona legislazione in tema. Forse meno per quanto riguarda la possibilità di scegliere come porre fine alla propria vita: come se questa appartenesse prima ad un sistema e poi a se stessi. Bisogna conoscere ed informarsi il più possibile.
Ad ogni buon conto la ringrazio per le occasioni sempre preziose di riflessione.
Grazie a lei Giovanna. E ribadisco che non mi permetterei mai di giudicare una donna sofferente che ha fatto una scelta certo dolorosa, che per lei era la migliore. Non era questo il tema del mio articolo.
Ritorno sull’argomento non soltanto a difesa della tanto vituperata Repubblica che, si sa, è un giornale di cronaca (volta a vendere, specie in un periodo di crisi), ma soprattutto di opinioni preziose. Fra queste, mi è parsa davvero importante quella di Luigi Manconi (dal titolo “Di chi è la vita”), che da un lato risponde a chi da credente ritiene che la vita sia un “dono” intoccabile, dall’altro chiarisce cosa intendeva Elena per “inferno”: non tanto le cure mediche e/o palliative, quanto “la strada lunga” del suicidio assistito in Italia (tribunale, anzienda sanitaria, protocolli medici, procedure amministrative, resistenze brocratiche…).
Ma il punto saliente dl suo intrevento è un altro, dettato dal titolo dell’articolo. Lo riporto qui, scusate se è lungo, ma sono parole che meritano una attenta e sommessa riflessione.
“In ogni caso, al di là delle formule giuridiche, evidentemente essenziali, dalle sentenze dei tribunali, che ci si augura illuminanti, e di una legge sempre più urgente, resta la domanda: di chi è il mio dolore? E’ un interrogativo ancora più intimo e personale, nel senso che riguarda i primari fondamenti e sentimenti della soggettività umana. Il tema è quella della conoscenza e della dicibilità della sofferenza individuale: solo chi patisce può sapere la misura del proprio patimento e della sua intollerabilità. Ed egli solo può adottare una decisione in merito. Solo chi vive in prima persona il decadere del proprio corpo e della propria psiche e le pene lancinanti e non sedabili che comporta, e avverte la perdita di senso – ovvero di capacità di relazione e di esperienza – di una vita protratta artificialmente, è in grado di assumersi la responsabilità di porvi fine.
Qui siamo ancora prima di ogni questione di etica pubblica e di teologia morale: siamo nello spazio indicibile della più nuda soggettività, dove l’individuo è solo con se stesso e non può essere altrimenti. Non c’è, infatti, alcuna forma di affetto, coniugale o fraterno o amicale che sia, e alcuna forma di conforto, emotivo, intellettuale o religioso, che possano portare a condividere davvero quel dolore. Questo spazio, che può essere anche quello dell’angoscia più nera, precede ogni norma e ogni convenzione, ogni morale e ogni relazione, che non sia quella dell’individuo con se stesso e con la propria sofferenza. E’ questo il fondamento costitutivo dell’autodeterminazione che, prima di essere un concetto giuridico o un’opzione politico-culturale, è un tratto antropologico ineludibile. Il che non corriponde, necessariamente, a uno stato di abbandono o di solitudine familiare o sociale. In tutte le vicende diventate pubbliche, che hanno portato all’aiuto al suicidio medicalmente assistito, il paziente si trovava all’interno di un sistema assai fitto di relazioni, di scambi, di comunicazioni; e dentro “mondi vitali” che lo hanno assistito, sostenuto e consolato, per quanto la consolazione risulti possibile in situazioni che si sanno ultime. Perché anche questo va detto: l’eutanasia non è “la dolce morte”, come ancora sciattamente si continua a scrivere. E’, piuttosto, una scelta tragica che, in determinate circostanze, è inevitabile e profondamente umano assumere.
(Repubblica, 11 agosto 2022)
Grazie Giovanni. L’articolo di Manconi è un utile contributo a questa riflessione.
Mille grazie a te, Marina, per l’opportunità di questo confronto franco e diretto in cui, come dice Ferdinando Garretto, si propongono “posizioni in vivace dialogo, pacatezza rispettosa dei toni, approfondimento delle argomentazioni fuori da slogan e luoghi comuni”.
E’ proprio in virtù del mio lavoro (e purtroppo anche delle varie esperienze familiari) che lascio aperto ogni punto interrogativo. Sono convinta, però che si debba considerare l’argomento in modo laico. Etico, certo, ma laico, evitando ambiguità. Ognuno di noi possiede la libertà di scegliere ed io accetto e rispetto ogni scelta. E’ molto importante avere tutte le informazioni a disposizione ma poi la scelta ultima spetta al singolo e quello che pensano i parenti, dato che certe decisioni vengono condivise anche con loro, resta sempre un riflesso direttamente proporzionale alla “qualità” della morte del proprio caro. La sedazione profonda di mio padre è stata un grande sollievo ma l’ho dovuto salutare tre volte prima che morisse e le garantisco che il suo sguardo sorpreso nel rivederci non era certo felice, come il nostro…
Lucia, sono perfettamente d’accordo sulla laicità dello sguardo. Intendendo per laico uno sguardo davvero aperto, capace di confrontarsi con l’esperienza e di non fare appello all’ideologia ma perseguendo il maggior bene possibile per le persone. Grazie per la sua testimonianza.
Ho letto le riflessioni di Marina Sozzi ed ascoltato l’intervento a “Tutta la città ne parla”: bellissimo, complimenti.
Vorrei solo sottolineare un paio di aspetti.
Nel mio lavoro è capitato di gestire casi come quello di Welby anche in epoca precedente la 217/2019.
Con procedure che prevedevano una valutazione multidimensionale e la consultazione del comitato etico competente, è sempre stato possibile aderire al desiderio del malato anche quando veniva richiesta la sospensione della ventilazione polmonare, oppure di non procedere a tracheotomia quando la sintomatologia l’avesse richiesta, con adeguata sedazione terminale ed al domicilio della persona malata.
Procedure attuate sempre con discrezione, dando priorità alla difficile promozione di un’organizzazione basata sulla valorizzazione di relazioni (malati, famiglie, operatori….), trasparenza, pluralità di competenze e formazione continua.
Personalmente, sono sempre molto scettico sulla continua proposta di nuove normative particolarmente in questo campo, e nel contempo preoccupato delle carenze nella promozione della cultura e nell’organizzazione dei servizi, considerato che nel nostro Paese è precluso l’accesso alle cure palliative ad oltre la metà dei malati oncologici e più dei due terzi di quelli non oncologici.
Un saluto cordiale
Franco Figoli
Concordo. Il nostro paese è piuttosto carente nell’organizzazione dei servizi. Ed è un aspetto che va migliorato. Mio padre è morto di tumore al polmone nel 2004, curato e seguito, nell’ultima parte della sua vita, da un ottima equipe di cure palliative. Alla quale ha avuto accesso perché era un amico di famiglia del medico che la dirigeva. Nessuno all’ospedale dove è stato ricoverato, sapeva indicarci e dirigerci verso le cure palliative. Ci dicevano e,cosa più grave, gli dicevano di aspettare la morte. E allora è giusto fare come Elena andarle incontro con il coraggio della disperazione. Se invece le cure palliative e il prendersi cura delle persone fino all’ultimo divenisse davvero possibile per tutti ( anche agli affetti da altre patologie altrettanto gravi) allora forse si potrebbe pensare di rinunciare a una legge sull’eutanasia e sul suicidio assistito.
Grazie davvero dottore. Credo che occorra riflettere molto profondamente sul suo intervento. Condivido la sua preoccupazione.
Cara Marina, leggendo gli articoli su questa vicenda ho pensato esattamente quello che hai scritto in questo articolo più una considerazione, che mi permetto di aggiungere. Conosciamo tutti l’associazione che ha accompagnato Elena in Svizzera: un’associazione che sta lottando apertamente affinché i nostri diritti vengano garantiti, non solo in materia di fine vita. La loro è una lotta sacrosanta, però a volte strumentalizzano troppo le vicende dei malati e, pur di fare approvare una legge sul suicidio assistito, nei loro comunicati stampa mostrano una realtà italiana da “inferno”. Non lo trovo giusto. Se di diritti si occupano dovrebbero mostrare in modo più veritiero ed equilibrato le possibilità che l’Italia ha da offrire. Un abbraccio grande. Alice
Alice cara, che bello leggerti. Sono perfettamente d’accordo con te. E’ il maggior rimprovero che mi sento di rivolgere loro. Un abbraccio a te.
Al contrario di alcuni commenti, vorrei sottolineare che il dibattito su questo tema non è stato del tutto rispettoso e civile, soprattutto da parte di chi conduce questo blog, Marina, la quale, benché affermi il contario, osteggia sotto sotto il suicidio assistito e lancia bordate contro l’opera meritoria di Marco Cappato, che sì, forse strumentalizza le persone – ma del tutto consenzienti: inoltre lo fa, non senza rischi giudiziari, per raggiungere un scopo preciso:quello di una giusta legge in parlamento, o, in in subordine, la depenalizzazione del suicidio assisto anche per i malati oncologici, come nel caso di Elena.
Le frasi – che reputo avventate e del tutto irrispettose -, me le sono segnate e sono queste;
1. “Perché il vostro cuore pulsa verso questa soluzione (il suicidio assitito)? Non sarà perché la morte fa così paura che non si riesce ad accettarla?”. La mia riposta è che nessuno può giudicare il dolore altrui e le scelte che fa di fronte a una vita che va verso la fine. E poi, che contraddizione! Che paura può avere della morte una persona che l’abbraccia quando non c’è più speranza di una vita per lei degna? Per loro la morte fa così poco paura perché la vedono, giustamente per me, come una liberazione!
2. “Questo culto della libertà è un delirio di onnipotenza, conseguenza di una cultura superficiale e spiritualmente povera.”. Risposta: forse è utile ricordare che l’eutanasia è ammessa in paesi non barbari né arretrati come Belgio, Olanda, Svizzera. Ma chi si arroga il diritto di parlare di onniponteza e pretesa spiritualità? Marina, forse? Siamo fragili, e ci sono persone che di che questa fragilità fanno una forza. Perché ci vuole il coraggio della disperazione – non certo l’onnipotenza – per chiedere di farsi uccidere, sia pur per non soffrire più. Inoltre, la spiritualità altrui, da chi è sindacabile? Non è invece superficiale questo pre-giudizio?
3. “Sarebbe proprio sicura che i suoi cari sarebbero contenti (o si sentirebbero alleggeriti) dalla sua scelta di andarsene in fretta prima di spegnersi?”. Riposta: L’articolo di Luigi Manconi, sopra riportato dimostra invece il contrario, cioè che proprio nei casi più noti chi ha scelto il suicidio assistito aveva un’ampia “cintura” di parenti e di affetti, che condividevano la sua decisione. Si potrebbe chiedere a Marina: è più egoistico “voler morire in fretta” o pretendere che il proprio caro in fase di fine vita si sottopnga alla sedazione, se non vuole? Il confine è sottile… e il dilemma è etico, altro che onnipotenza!
Bisognerebbe, davvero, misurare le parole, ed essere meno prevenuti verso chi soffre e sceglie soluzioni drammatiche come questa.
Grazie comunque, non per i modi, ma per averne parlato, finalmente.
Gentile Carlo, mi spiace doverla contraddire. Il dibattito è stato rispettoso e civile. Anche qualora io fossi contraria alla depenalizzazione del suicidio assistito o dell’eutanasia, non mi sembra di aver mancato di rispetto a nessuno. Ma non è così. Mi sembra che lei fatichi ad accettare opinioni diverse dalla sua, invece.
Ma mi lasci chiarire ancora una volta il mio pensiero su questi temi, peraltro già diverse volte espresse su questo blog. Io sono laica, e ritengo che la vita sia disponibile per l’uomo. Non sono per nulla ostile a una legge sul suicidio assistito, che verrà approvata, prima o poi, anche in Italia, ne sono convinta. Il problema che sollevo è che nel nostro paese (a differenza di altri paesi in cui i diritti a cui lei fa riferimento sono già riconosciuti, come Olanda o Belgio, o Svizzera) le cure palliative sono poco note e non sufficientemente praticate. Quindi, quando un giornalista scrive che l’alternativa al suicidio assistito è l’inferno, a me vengono i brividi. Non tutti vogliono suicidarsi, gentile Carlo, ma tutti hanno il diritto a non soffrire e a essere accompagnati alla fine della vita nel migliore dei modi. Io voglio, prima di tutto, difendere questo diritto. Ecco tutto.
Cara Marina, cero che accetto opinioni diverse dalla mia: non accetto però i termini sprezzanti che lei ha usato nelle frasi riportate e che forse le sono sfuggite. Provi a rileggerele. Forse non si rende conto che lei è vittima di una proiezione, in questo caso? Cordialmente.
Gent.ma Marina,
sono una strenua sostenitrice delle cure palliative perché so quanto possano alleviare il dolore di chi se ne va per un male incurabile, e quello di chi, impotente, assiste la persona nel momento finale della sua vita. Mio padre è morto nel 2018 per un cancro del cavo orale diffusosi nella gola e con metastasi polmonari. Il suo destino era di morire soffocato. Quando fu ormai chiaro che le terapie antitumorali non stavano avendo successo, e lui si stava avviando alla fase conclusiva della malattia, in una condizione fisica sempre più precaria (era portatore di PEG e di tracheocannula, tra le altre cose), l’infermiere dell’ADI che ci seguiva venne una sera in compagnia del medico palliativista, che con delicatezza ci parlò della sedazione profonda come soluzione per un trapasso meno traumatico per tutti, e noi, io e mio padre, accettammo. Io, che da figlia lo accudivo da sola (essendo mio padre vedovo), chiesi al mio MMG se fosse il caso di fare le cure in casa, o in struttura. Lei mi disse: “No Paola, devi portarlo in struttura, non puoi affrontare da sola una gestione del genere del malato, con turnazione domiciliare di medici e di infermieri”. Così, insieme, e velocemente, ci occupammo di cercare il posto per lui, completamente a carico dell’ASL. Fu trasferito, io sempre con lui, e una volta nella RSA (non c’era ancora un hospice nel mio comune, all’epoca), i medici palliativisti studiarono la terapia di sedazione adatta a lui. Resistette una settimana, curato e accudito nel migliore e più pietoso del modo. Così, nella scelta consapevole, nella dignità, nell’accudimento, nell’amore, e nella non sofferenza, se n’è andato mio padre. Questa è la mia storia, uguale a tante altre. Non credo ci sia null’altro da aggiungere.
Vorrei solo aggiungere, gentile Paola: grazie per la sua testimonianza.
Mia madre affetta da microcitoma è stata amorevolmente accudita a casa fino alla morte grazie all’assistenza di una equipe di cure palliative che ha dato prova di grande competenza professionale e di infinita umanità. Io mia sorella e i miei fratelli l’abbiamo vegliata per due giorni e due notti durante la sedazione palliativa profonda che lei stessa aveva richiesto in più occasioni al medico dell’equipe.
Ringrazio che ci sia stata questa opportunità, tuttavia rimangono aperte due questioni per noi dolorose: mia madre ha chiesto per due mesi di essere sedata perché a 85 anni vissuti da donna attiva, intelligente, dinamica non riteneva più dignitosa la sua vita ormai allettata e totalmente consapevole della imminente morte. Tuttavia non essendo le sue sofferenze refrattarie ai farmaci e trattandosi “solo” di una profonda angoscia esistenziale, la sedazione è stata concessa soltanto quando era ormai sfinita e rifiutava di essere cateterizzata, dopo due mese di insistenti richieste da parte sua.
La seconda questione riguarda l’ipocrisia della sedazione profonda palliativa in sé: quei due giorni e due notti di totale incoscienza in cui il respiro si trasforma in atto automatico di un corpo già senza vita, quella attesa che l’organismo ceda alla mancanza dell’individualità che lo ha abitato sono risultati insensati e penosi: la persona è incontattabile, non può dare nè ricevere amore, il corpo ansima, tutto si condensa in una attesa amara…non sarebbe più umano che dopo l’abbraccio del saluto venisse concesso un addio senza la straziante ipocrita necessità di aspettare che l’organismo cessi le proprie funzioni meramente meccaniche?