Le parole che non abbiamo di fronte alla morte, di Cristina Vargas

Il linguaggio, il pensiero e le emozioni sono intrecciati in modo profondo e sovente inestricabile. Di fronte a un lutto le parole possono dare forma a sensazioni viscerali che non sempre sono facili da capire. Ogni lingua offre un repertorio lessicale che permette di dare nome a stati d’animo che talvolta sono difficili da definire (persino per chi li sperimenta) rendendoli riconoscibili e, nello stesso tempo, comunicabili. Il linguaggio ci aiuta a cogliere la differenza fra il dolore e nostalgia; separa il senso di colpa dalla rabbia. Una parola, inoltre, può conferire visibilità e riconoscimento sociale a un particolare tipo di condizione, evidenziandone la specificità. Nella lingua italiana disponiamo di due parole per parlare della sofferenza provocata per la morte di una persona cara: “lutto”, dal latino lūctus, deriva dal verbo lugere, che significa piangere; e “cordoglio”, che deriva etimologicamente dal latino cordŏlĭu(m), composto di cor ‘cuore’ e dolēre: dolore di cuore, ma forse anche cuore che duole per chi ci ha lasciato. Oggi, in italiano, si usa il termine “lutto” per parlare della sofferenza (psichica, intima, per lo più privata) che si prova per la morte di persona cara, mentre “cordoglio” è meno presente nel linguaggio quotidiano e viene per lo più usato in formule quali “esprimere il proprio cordoglio”, che ci proiettano in una dimensione pubblica e condivisa del dolore.  Anche in altre lingue romanze ci sono parole specifiche per dare nome alla sofferenza per la morte di un caro: deuil in francese e duelo in spagnolo (dal latino dolēre) sono entrambe traducibili con l’italiano “lutto”. Tuttavia, non tutte le lingue dispongono di parole equivalenti. Ruth Evans, geografa e antropologa, racconta che durante una ricerca sul rapporto fra lingua ed emozioni condotta in Senegal, in un contesto bilingue francese/wolof, ha riscontrato una forte difficoltà a tradurre la parola inglese grief , intesa appunto come la risposta emotiva alla morte di una persona significativa. I suoi interlocutori, infatti, usavano il termine wolof métite, il cui significato è più ampio e non strettamente collegato al fine vita, tanto che di solito veniva tradotto con il francese chagrin (dolore, sofferenza). Anche la parola usata per parlare della morte, niak, è più vicina nel suo significato all’espressione “perdita”, nel senso che non è specificamente riferita al decesso, ma può essere usata anche in molti altri ambiti, compreso quello economico. Per Evans quest’ampiezza semantica non è mera genericità, ma è coerente con la molteplicità di dimensioni – emotive, ma anche materiali e sociali – toccate dalla morte di un congiunto o di un amico in una comunità caratterizzata dalla forte interdipendenza reciproca. La connessione fra lingua e pensiero è stata a lungo oggetto di studio e di dibattito in ambito sociolinguistico, in particolare a partire dagli anni Cinquanta del Novecento quando vennero pubblicati i lavori sul relativismo linguistico dell’antropologo Edward Sapir e del suo allievo Benjamin Lee Whorf. Come spiega quest’ultimo, il mondo “si manifesta in un flusso caleidoscopico di impressioni che devono essere organizzate dalle nostre menti” ed è in grande misura grazie alla lingua che questo processo di classificazione può verificarsi. Nelle sue versioni più deterministiche l’ipotesi di Sapir e Whorf è stata oggetto di critiche fondate. Tuttavia, è innegabile che la lingua incida sulla nostra visione del mondo. Se da una parte abbiamo delle parole che nominano, e rendono socialmente visibili certi tipi di esperienza, dall’altra ci sono parole che “mancano”. Mentre nella lingua italiana disponiamo di “vedova” e “vedovo” per designare chi ha perso il proprio coniuge, non abbiamo dei termini che permettano di dare nome a chi è in lutto per una persona amata con la quale però non aveva un legame ufficiale. Non ci sono parole per designare chi ha perso un fratello o una sorella, e questo lutto di fatto viene spesso sottovalutato. Ci sono le parole “orfano” e “orfana” per chi ha perso la madre o il padre, ma non ci sono parole che descrivano un genitore che ha perso un figlio. Quest’ultima mancanza è forse la più sentita a livello pubblico, non solo in Italia, ma anche nei contesti anglofoni e francofoni. Nel corso degli anni ci sono state alcune proposte per colmare questo vuoto linguistico. La psichiatra e scrittrice marocchina Rita el-Kahyat ha usato il temine désenfantement (defigliazione) per parlare della morte di sua figlia Aïni. Karla Holloway, già professoressa di Letteratura Inglese alla Duke University, racconta che dopo la tragica morte di suo figlio aveva sentito a lungo la mancanza di una parola “a cui aggrapparsi”. Dopo aver cercato alternative in molte lingue, propose di usare la parola sanscrita vilomah: un dolore che è contro l’ordine naturale, che sovverte il modo in cui dovrebbe andare il ciclo vitale. Anche in Italia ci sono state proposte che, come le precedenti, hanno avuto un riscontro limitato, ma testimoniano un bisogno importante. Paolo d’Achille, che ha a lungo studiato la costituzione del lessico italiano, chiamato a rispondere a un quesito posto al Servizio Consulenza dell’Accademia della Crusca, ha ricordato sia l’uso letterario della parola “orbato”, sia il neologismo “disfigliato” che ha però storicamente ha una connotazione diversa poiché viene usata anche in riferimento a chi non ha figli. Una risorsa interessante sono quelle lingue che, invece, dispongono di termini ben precisi che raccontano il dramma della morte un figlio.  Sandro Veronesi, nel suo recente libro Il Colibrì, ce ne elenca alcuni: in ebraico shakul, dal verbo shakal (perdere un figlio); in arabo thaakil (thakla per la madre); nel greco moderno la parola charokammenos, “bruciato dalla morte”, che dovrebbe essere riferita a qualsiasi tipo di lutto, ma è usata quasi soltanto per indicare un genitore che perde un figlio. Anche la ricerca in ambito antropologico e psicologico ci offre degli esempi: in Cina, i genitori il cui unico figlio o figlia muore, o ha un livello di disabilità talmente grave da compromettere la sua possibilità di vivere senza supporto costante, sono Shidu. Questo termine è interessante perché accomuna due circostanze per noi diverse, ma che sul piano sociale vengono considerate dei lutti a tutti gli effetti. Non è facile stabilire in modo univoco perché in ogni lingua certe parole ci sono, e certe altre invece mancano. Le ragioni sono molteplici e affondano le loro radici in fattori sociali, economici, culturali e forse anche psicologici. Un “vuoto” linguistico non necessariamente segnala un tabù, ma certamente è collegato al minor riconoscimento collettivo di fatti che altrove vengono nominate. Le parole, infatti, illuminano o celano, evidenziano o negano, allargano o restringono un campo semantico e, in questa misura, fanno parte integrante del modo in cui ci occupiamo della morte e dei morti come individui e come collettività. Cosa ne pensate? Avete esperienza della mancanza di alcuni termini per designare una perdita subita da voi o da persone intorno a voi?

Riflessioni sulla buona morte, di Marina Sozzi

Scrivo questo post a partire da un interessante incontro al quale ho partecipato in Vidas, insieme a Carlo Casalone e Luciano Orsi, il 5 marzo 2024, sulla buona morte. Ringrazio pertanto Caterina Giavotto per questo invito, che mi ha indotto a riflettere su questo tema.

Dobbiamo innanzitutto chiederci che cosa significhi “buona morte”, ed evitare di dare per scontato questo concetto.

Occorre prima di tutto non mitizzarne il tema. L’obiettivo delle cure palliative è accompagnare, per ottenere la migliore qualità della vita possibile. Tuttavia, la buona morte non dipende solo dalla qualità delle cure, ma anche da come ciascuno di noi ha vissuto, e da come ha affrontato la domanda sulla morte nel corso della vita. Hans Küng, teologo cattolico della dissidenza, diceva che la buona morte è da un lato un compito, dall’altro un dono. Nella parola “dono” è espressa anche la parte di incontrollabilità che riguarda la buona morte, le caratteristiche e le evoluzioni della patologia. Nella parola “compito” c’è invece il ruolo della soggettività del paziente. E tuttavia, credo che la buona morte possibile non sia neppure un fatto individuale, ma risieda nella triangolazione della relazione tra paziente, familiari e curanti: un compito condiviso, quindi.

Ma la buona morte è buona per chi? Dobbiamo farci questa domanda, per evitare di proiettare, come curanti, la nostra idea di buona morte sul paziente, mettendo inconsapevolmente in sordina i suoi desideri. Ovviamente, la morte deve essere buona soprattutto per chi se ne va, ma è importante anche per chi resta (il lutto è influenzato dalla morte che ha avuto la persona cara, lo dico anche per esperienza personale). Questo non significa che il familiare possa prevaricare il volere del morente, ma che i curanti debbano sempre cercare di “portarlo con sé”, di non lasciarlo solo con i suoi timori o le sue fantasie. Un esempio potrebbe essere quello della richiesta, da parte del paziente, di sedazione palliativa, quando i familiari non sono pronti a separarsi dal loro caro. L’abilità dei curanti (Sonia Ambroset lo dice magistralmente nel suo libro sulla sedazione) consiste nella condivisione, nella spiegazione, nell’accompagnamento.

Talvolta ci si chiede se la buona morte possa essere un diritto. Io credo che ci siano diversi diritti da tutelare alla fine della vita. Primo tra tutti, garantito anche dalla legge 38/2010 (non ancora pienamente applicata), il diritto a ricevere cure palliative qualora ve ne sia l’esigenza. Poi la dignità delle persone, il rispetto della loro identità e unicità, malgrado la malattia e l’avvicinarsi della morte. Tutelare la dignità significa, per i curanti, rivolgere sguardi pieni di rispetto verso i malati. E significa anche, al contempo, preservare l’autodeterminazione, la capacità di compiere scelte. Vale la pena soffermarsi un attimo sul concetto di autodeterminazione. Benché spesso si pensi all’autodeterminazione come a un diritto umano, e come tale universale e già acquisito alla nascita (cosa peraltro vera), occorre tenere presente che non tutte le persone sono abituate a prendere decisioni per sé. L’autodeterminazione deve quindi essere un obiettivo concreto della cura, ossia le persone vanno accompagnate a prendere le decisioni migliori per sé, coinvolgendo le famiglie e le comunità (intese come reti di relazioni di ciascuno) e aiutandole a comprendere le scelte compiute dal loro caro.

Invece, non credo sia produttivo dare alla buona morte lo statuto di un diritto. Si rischia di scivolare in una vicenda analoga a quella della felicità. Definita la ricerca della felicità come diritto nel XVIII secolo, inserita come tale nella Costituzione americana, essere felici è poco per volta divenuto un dovere, o perlomeno una forte pressione sociale: se non hai saputo procurarti la felicità non vali nulla, se non sei felice sei un fallito. Non vorrei che toccasse la stessa sorte alla buona morte, se vogliamo definirla come diritto. C’è il rischio che si infiltri in questo concetto un elemento di giudizio (negativo) per chi, ad esempio, non riuscisse a conciliarsi con la propria morte.

Un altro punto importante è la preparazione alla morte: è importante al fine della buona morte, come afferma Küng?

Esiste una lunga storia dell’idea che sia necessario prepararsi alla morte per averne una buona. Scopo delle Artes Moriendi del 1400 era preparare il morente e coloro che lo assistevano, mediante la preghiera e il respingimento delle tentazioni. Erasmo da Rotterdam, nella sua celebre opera De praeparatione ad mortem del 1534, indica due “cure” contro la paura della morte: una invita il lettore a percorrere mentalmente le tappe della propria esistenza per rendersi conto della sua caducità e di quanto sia colma di preoccupazioni e di dolori; l’altra si incentra sulla fede in Dio, unica difesa atta a sconfiggere i limiti, le imperfezioni e la fragilità della condizione umana.

Ancora nel 1620 con il Cardinale Bellarmino indica come norma sicura del buon vivere, e anche del buon morire, il meditare spesso e seriamente che si dovrà rendere conto a Dio delle proprie azioni e del proprio modo di vivere, e cercare di non accumulare ricchezze in questa terra, ma di vivere semplicemente e con carità in modo da procurarsi beni celesti.

Che ne è oggi della preparazione alla morte in un contesto molto secolarizzato? Ha senso? E’ possibile?

Nel suo libro Morire all’italiana, Asher Colombo ha fatto otto domande molto concrete a un campione di italiani sulla preparazione alla morte: ha chiesto se avevano dato disposizioni sul destino delle proprie spoglie; comunicato ai familiari la collocazione dei documenti importanti; espresso la propria volontà sulla donazione degli organi; lasciato le proprie DAT; pianificato il proprio funerale; comunicato le password dei propri account e social network; stabilito a chi affidare la cura dei propri cari; fatto testamento. Dalle risposte a queste domande Colombo deduce che circa il 43% degli italiani non si è preparato affatto alla propria morte. Ha senz’altro un valore, soprattutto per chi rimane, trovare le cose in ordine.

Io però credo che sia necessario un approccio più complesso. E penso che ci siano vari modi, anche molto personali, per prepararsi alla morte: pensarci, ad esempio, trovare una consolazione alla finitezza, informarsi sulle cure palliative, familiarizzarsi con la propria vulnerabilità e mortalità. Cose che è difficile indagare con un sondaggio.

Non possiamo eludere, inoltre, a proposito di buona morte, la questione della morte volontaria. La buona morte può essere anche morte nel tempo ritenuto opportuno dal morente? Credo che andiamo verso il riconoscimento della possibilità di scegliere di abbreviare il proprio tempo, anche in Italia. Con una legge, non solo mediante la sentenza della Corte costituzionale. La caratteristica del mondo in cui viviamo è la pluralità: delle religioni, delle credenze, degli stili di vita, degli atteggiamenti nei confronti della vita e della morte: quindi la chiave di volta dell’etica contemporanea, in sanità, è per me il rispetto delle diverse prospettive.

Occorre però che l’opzione del suicidio assistito non ostacoli la crescita delle cure palliative, altrimenti si finirebbe non per aumentare, ma per ridurre le scelte possibili.

Io non credo neppure, però, che il mondo delle cure palliative debba tirarsi fuori da questa riflessione. Credo anzi che, essendo l’unico soggetto ad avere dimestichezza con il fine vita, abbia molto da dire. So che ci sono sensibilità diverse su questo tema nel nostro mondo, e che alcuni rifiutano decisamente ogni interruzione prematura della vita. E so anche che esiste il timore che le persone rifiutino le cure palliative perché vengono ancora confuse con pratiche di abbreviazione della vita. E tuttavia, penso che a tale riflessione occorra andare incontro, facendo chiarezza, con un lavoro culturale costante e paziente.

Cosa pensate voi della buona morte? Che esperienze avete fatto? Pensate che si possa preparare?

Vi ringrazio in anticipo per i vostri preziosi commenti.

La teoria della gestione del terrore, uno sguardo antropologico, di Cristina Vargas

Proposta per la prima volta nel 1986 da Rosenblatt, Greenberg, Solomon e altri autori, la Terror Management Theory (TMT) ha guadagnato molti consensi negli ultimi vent’anni e ha ottenuto un importante numero di convalide esperimentali in diversi paesi. Partendo da una descrizione sintetica dei principali postulati della TMT, nel presente articolo vorrei proporre alcune riflessioni critiche su questo approccio, che trovano fondamento in uno sguardo antropologico, caratterizzato dall’attenzione alla diversità e dall’apertura rispetto a modi “altri” di intendere la morte.

L’assunto di base della Teoria della gestione del terrore prende spunto dal lavoro dell’antropologo Ernest Becker, in particolare il volume The Denial of Death (1973). Partendo dalla rilettura di Freud, Otto Rank e altri psicanalisti, Becker sostiene che il terrore della morte e il desiderio di immortalità siano fenomeni universali, presenti in tutte le culture e in tutti gli esseri umani. La paura della morte è “il verme che ci divora dall’interno”, da cui scaturisce un profondo bisogno inconscio di negazione che ci porta ad allontanare difensivamente lo sguardo dal carattere precario e transitorio della nostra esistenza. Resi codardi dalla consapevolezza di dover morire, prosegue l’autore, abbiamo bisogno di aggrapparci alle religioni o alle strutture socio-culturali che ci offrono un’illusione di immortalità.

Le tesi di Becker ebbero una grande influenza in quel momento storico e contengono alcune riflessioni sulla condizione umana che, a mio avviso, a tutt’oggi meritano un’attenta considerazione.

Come evidenziato da altri antropologi, ma anche da filosofi, psicologi e neuroscienziati, siamo dotati di un sistema neurofisiologico che ha fra le sue funzioni primarie anche quella di garantirci la sopravvivenza di fronte alle minacce esterne (si pensi per esempio ai meccanismi di attacco e fuga). Nel contempo, siamo dotati di abilità cognitive che rendono inevitabile la consapevolezza della nostra mortalità. Siamo, dunque, biologicamente programmati per sopravvivere, ma sappiamo che in qualsiasi momento potremmo morire e che, di fatto, a un certo punto moriremo.

Partendo da questo nostro tratto specie-specifico, ci si potrebbe interrogare su come le varie società umane si siano confrontate con i grandi quesiti esistenziali della finitezza e del limite. Becker, e con lui gli autori della Terror Management Theory, rinunciano invece a soffermarsi sulla pluralità e scelgono invece di postulare l’esistenza di una “natura umana” immutabile, scollegata dalla cultura, astorica e non suscettibile all’influenza esterna.

In ogni caso, nella prospettiva della TMT, il terrore della morte genera un’intensa ansia, una sorta di angoscia latente, ma sempre presente, che deve essere costantemente tenuta a bada (managed) e condiziona in modo molto rilevante le nostre scelte e il nostro agire. Le due strategie più efficaci per contrastare la paura della morte sarebbero l’adesione a un sistema sociale in grado di provvedere una visione del mondo dotata di senso e il percepire sé stessi come persone di valore, qualcuno che può contribuire a preservare o a difendere il sistema di cui fa parte (aumentando quindi la propria autostima).

Partendo da queste premesse gli autori sostengono che, in situazioni che “ricordano” la mortalità (Mortality Salience), le persone innescheranno comportamenti orientati al rafforzamento delle strutture sociali e culturali a cui si sentono appartenenti e da cui traggono sicurezza. Esse inoltre compiranno maggiori sforzi di essere meritevoli di riconoscimento; le opinioni politiche o religiose si irrigidiranno e si polarizzeranno; si enfatizzeranno i simboli di appartenenza; aumenterà la possibilità di scontro con coloro che vengono percepiti come minacce e si cercheranno leader forti ed “eroi” che sottolineino la difesa del “noi”.

Negli anni, la presenza di alcune ricerche in cui non si ottenevano gli effetti sperati ha reso necessario raffinare questo modello originario, ed è stata adottata l’ipotesi di un processo duale, secondo il quale l’attivazione dei comportamenti difensivi non avviene quando il pensiero della morte è prevalente a livello conscio ed esplicito, ma solo quando esso ha un elevato di accessibilità a livello inconscio, ma non è il focus dell’attenzione.

Al di là di proporre una visione universalistica dell’umano, che si discosta in modo netto da quella di Geertz, Foucalt, Remotti e numerosi altri studiosi che hanno messo in discussione il concetto di “natura umana” e hanno adottato un approccio attento alla particolarità di ogni cultura, mi sembra interessante notare che la ricerca nel campo della TMT si basa quasi completamente su dati quantitativi sperimentali, quindi realizzati in situazioni artificiali, spesso in laboratorio e con campioni limitati. Questo tipo di studi ha certamente dei vantaggi – fra cui il rigore e la replicabilità – ma ha anche dei limiti rilevanti, soprattutto per quanto riguarda la validità al di fuori dei setting sperimentali.

Che cosa avviene in contesti sociali fortemente esposti alla violenza, in cui la salienza della morte è inevitabilmente elevata?

Nella mia esperienza di ricerca sul campo in Colombia, mi sono confrontata non con la paura della morte e con un’unica tipologia di risposta ad essa, ma con una pluralità di rappresentazioni del morire non riducibili a un’unica, universale, verità.

In numerosi casi il rischio costante innescava effettivamente reazioni orientate alla polarizzazione delle opinioni e alla percezione dell’altro come nemico, ma in altre occasioni la risposta era di segno opposto. Per esempio, ho avuto la grande opportunità di frequentare una rete di supporto reciproco creata in modo autonomo da un gruppo di donne i cui figli erano stati uccisi nel conflitto armato, che era in quel momento in una delle sue fasi peggiori. Si trattava di mamme di ragazze e ragazzi; alcuni di loro erano vittime civili, altri erano attori armati: guerriglieri, miliziani, galoppini dei narcos, paramilitari. Poiché la società era frammentata e non c’erano divisioni territoriali chiare fra gli armati in lotta, nel gruppo capitava di incontrare le mamme dei “nemici” e persino quella di chi aveva ucciso il proprio figlio. Questo però non le aveva scoraggiate, anzi, avevano capito che l’unica via per tornare a vivere era quella di perdonarsi e di supportarsi a vicenda. Si erano così organizzate senza appartenenze né distinzioni, unite dal dolore profondo del lutto e dalla consapevolezza della loro comune vulnerabilità.

Esperienze come che ho appena descritto non sono forse maggioritarie, ma esistono trasversalmente in molti contesti segnati dalla violenza e testimoniano la possibilità di un approccio all’angoscia di morte fondato non sul terrore, ma sull’incontro e la condivisione.

Come ci ricorda Francesco Remotti non tutte le società percorrono le stesse vie. Ci sono società – come la nostra – in cui il desiderio e la ricerca dell’immortalità vanno di pari passo con una concezione individualistica della persona. Ma esistono molte altre società che hanno una visione relazionale del sé; società in cui la persona è intesa non come individuo, ma come “con-dividuo” in permanente rapporto con gli altri e con l’ambiente: una visione di questo tipo favorisce l’idea che la vita e la morte non siano poli opposti e separati, ma aspetti integrati e necessari del ciclo vitale.

Sebbene la teoria della gestione del terrore possa offrire spunti interessanti di riflessione, credo sia importante evitare la sua tendenza all’universalismo e aprirsi al dialogo (scientifico e umano) con società che hanno una visione meno terrificante della morte e che la approcciano con strumenti diversi dallo scontro “noi” /“altri”.

Cosa ne pensate? Credete che la paura della morte sia universale e origini sempre le medesime risposte? Aspettiamo, come sempre, le vostre riflessioni, e vi ringraziamo in anticipo.

Quali foto per le cure palliative. Intervista a Domiziano Lisignoli, di Marina Sozzi

Abbiamo intervistato Domiziano Lisignoli, fotografo e teorico della fotografia, autore del volume Negli occhi di chi guarda. L’equilibrio di senso nella fotografia, tra testo e contesto, del 2023, che si interroga, tra l’altro, sul rapporto tra fotografia e dolore.

Se si cerca su Google immagini di “cure palliative” si trovano prevalentemente fotografie di scarsa qualità, che ritraggono in vari modi mani che si intrecciano, la mano del curante posata sulla mano del curato, mani che tengono un cuore rosso, eccetera. Per quali ragioni secondo te c’è così poca fantasia nel rappresentare l’operato di chi accompagna la malattia inguaribile?

Mi sono cimentato più volte in questa ricerca. Ciò che osservo è una visione statica: ormai da anni le cure palliative sono rappresentate da quell’intreccio di mani cui fai riferimento. Una cosa che mi colpisce è che in molti casi la mano del curante e quella del curato sono riconoscibili solo dalla posizione, talvolta dal gesto, ma sono mani molto simili tra di loro, e nessuna delle due mostra traccia della malattia o della sofferenza.

In alternativa, ci sono le metaforiche foto di tramonti e di “fiori soffioni” che hanno dominato la scena per molti anni: sono foto puramente evocative, che sottendono una certa paura di mostrare la persona e la sofferenza. Questo è un punto nodale: si ha paura.

Dei tre soggetti coinvolti nelle fasi di scatto (fotografo, soggetto, e struttura in cui si fotografa), ho notato che i timori che più facilmente portano ad un blocco si trovano nel personale della struttura, che spesso si erge anche a paladino dei diritti della privacy del morente; il quale invece, altrettanto spesso, è orgoglioso di essere coinvolto in un progetto fotografico.

Altre immagini frequenti sono quelle di agenzia: su questi siti cercando “cure palliative”, si trovano foto costruite, in cui il ruolo del malato è interpretato da un attore, una persona anziana e sorridente, ed il ruolo del curante da una figura rassicurante anche nell’aspetto: sono foto in cui non ci sono malati giovani e non ci sono medici/infermieri grassi, calvi o con le occhiaie. Tutto è perfetto. Esiste una ricerca al riguardo pubblicata sul Journal of Death and Dying, condotta in Svizzera da Gaudenz Metzger, dell’alta scuola d’arte di Zurigo, di cui cito un passaggio:

“È naturalmente problematico se tutto ciò che circonda la morte viene visto come qualcosa di terribile, ma è altrettanto problematico che venga abbellito. Queste immagini distorte suscitano aspettative che non possono essere soddisfatte nel mondo reale.”

Metzger si riferisce ad uno studio in cui sono state analizzate più di 600 foto utilizzate per promuovere le cure palliative, in cui si nota l’assenza del lutto e del dolore.

Quando non troviamo mani, spesso troviamo siringhe, aghi, flebo…. Terapia certo, ma non cura, non nell’accezione di cure palliative. Non c’è la cura intesa come relazione.

Oggi però alcune istituzioni del Terzo settore, che offrono cure palliative specialistiche gratuite, usano la fotografia per documentare il proprio operato e per creare nel pubblico la commozione necessaria per raccogliere fondi. Manca però, nella maggior parte dei casi, una riflessione (che vada oltre la necessità di avere una liberatoria) sull’utilizzo delle immagini. Cosa possiamo dire a questo proposito? C’è un tema etico di cui tenere conto?

Questo è verissimo, ci si ferma alla liberatoria, passaggio obbligato, che ci mette al riparo da eventuali problemi giuridici, ma non sufficiente. Bisogna andare oltre, anzi, è fondamentale lavorare prima con un progetto culturale, che porti a dare una prospettiva al discorso visivo: è necessario avere una strategia comunicativa, porsi delle domande a monte, la prima delle quali, “cosa vogliamo dire e fare con le nostre foto?” Naturalmente, le immagini destinate ad una raccolta fondi saranno diverse da quelle destinate alla sensibilizzazione sull’argomento. Va da sé che non è sufficiente avere foto “belle”, ma devono essere foto adatte al progetto.

Quando parlo di progetti, non penso necessariamente a qualcosa di faraonico, ma a qualcosa di strutturato, pensato e condiviso tra coloro che si occupano di diffondere la cultura del fine vita. Una sorta di equipe culturale sul tema, che stabilisca le linee guida del lavoro da svolgere, che definisca ad esempio se le foto dovranno esprimere il punto di vista del malato, dei suoi affetti, o quello dei sanitari o del fotografo. Senza una riflessione a monte, avremo foto difficili da leggere, ed in ultima analisi avremo foto inutili.

Visitando siti di associazioni che si occupano di cure palliative, se ne trovano ora alcuni che sanno usare la fotografia in modo diretto, senza nascondere la malattia, ma documentando con garbo il lavoro di operatori e volontari, le emozioni e gli stati d’animo dei pazienti. Sono foto che non vengono evidenziate dai motori di ricerca, ma sono il segno di qualcosa che inizia a muoversi. Si tratta delle realtà che sanno progettare e sanno gestire i timori di cui ho parlato sopra.

Ci sono state iniziative di concorsi fotografici sulle cure palliative. Hanno contribuito a rappresentare questo mondo?

Ho visto molte foto di concorsi fotografici proposti da associazioni legate alle cure palliative, e anche qui il grande assente è un progetto: non è sufficiente individuare un tema.

Ci sono foto interessanti, ma sono scatti singoli, e non ci danno una prospettiva, non emerge il punto di vista del fotografo. Mi sembra che si possano dividere in due blocchi le foto che negli anni hanno partecipato a concorsi di questo tipo: da un lato vediamo le foto più varie, spesso le mani, come abbiamo già detto, o scatti che, se non sono accompagnati da un testo, risultano poco comprensibili all’interno di questo contesto, dall’altro lato vediamo le foto che parlano di terapia (che mi sembrano in aumento).

Anche nel caso dei concorsi, bisognerebbe partire da un progetto culturale: in sua assenza emerge una notevole frammentazione, e non si riesce ad avere una visione di insieme. Il concorso poi va organizzato, vanno coinvolti fotografi esterni al mondo delle cure palliative, va curata la comunicazione, e soprattutto è fondamentale che la giuria sia qualificata e non si limiti a stilare una classifica, ma che sia chiara nelle motivazioni delle proprie scelte. Sembrano banalità, ma ho visto molti concorsi perdere efficacia proprio perché gestiti male nonostante mostrassero delle buone potenzialità iniziali. Tra l’altro, aprire a fotografi esterni a questo mondo, significa anche avere un feedback su come le cure palliative siano percepite.

Tu hai fatto foto in hospice. Ci vuoi raccontare come ti sei accostato alla sofferenza delle persone e che senso ha avuto per te scattare in quel contesto?

Il mio primo incontro con l’hospice risale a più di dieci anni fa, quando stavo lavorando a Di mano in mano, un progetto personale da cui sono nati un libro ed una mostra patrocinati dalla Federazione Cure Palliative. L’idea di fondo è che le mani ci accompagnano lungo tutta la vita, perché si nasce nelle mani dell’ostetrica, ed il malato terminale cerca conforto nel contatto con la mano di una persona cara. Quindi ho rappresentato anche io delle mani (era il mio progetto), ma ho cercato una mano consumata dalla malattia, e mi sono affidato anche ad altri piccoli particolari per rendere riconoscibili il ruolo del curante e quello del curato: il polsino di una camicia a quadretti, ed il polsino di un pigiama, vanno a connotare le mani rispettivamente del caregiver e del malato in modo inequivocabile,  coerentemente con le due mani raffigurate.

In quel periodo lavoravo già da tempo in ambito sociale e sanitario, in particolare avevo maturato una buona familiarità nel fotografare il lavoro delle ostetriche in sala parto, ma quando iniziai a strutturare il progetto, al pensiero di fotografare un morente reale, mi bloccai: non fotografare gli ultimi attimi di vita sarebbe stato ipocrita, ed il progetto sarebbe stato incompleto; ricorrere alle mani scarne di un anziano, e definirle di un morente, sarebbe stato scorretto nei confronti dei miei lettori,  ma chiedere ad un morente di posare, per quanto unica soluzione,  mi sembrava di difficile realizzazione.

Il primo passo è stato quindi quello di superare il mio timore, e contattare un hospice per capire se si potesse realizzare l’immagine che avevo in mente, di cui ho parlato in precedenza. Ricordo benissimo tutte le fasi, le paure di essere inopportuno, indiscreto, magari anche egoista nel puntare un obiettivo verso una persona cui chiedevo di partecipare ad un progetto, ma che sapeva benissimo di non avere il tempo per vederlo realizzato.

Tutte le paure si sciolsero quando i miei occhi incontrarono quelli di Franca, la persona che Katri Mingardi, psicologa dell’hospice cui mi ero rivolto, aveva individuato come adatta a questo progetto. Franca mi accolse con un sorriso, lucida, e ci fu un bel dialogo di preparazione senza alcuna maschera. Questa credo sia la chiave, evitare recite, ma essere sé stessi, trasparenti, discreti, in punta di piedi. Franca morì poche ore dopo, chiaramente non ebbe il tempo di vedere il libro pubblicato, ma quando vidi il marito ed i figli per consegnare la stampa della foto utilizzata, e ringraziarli nuovamente, mi sorpresero con le loro parole: “Franca ci ha fatto un bel regalo”.

Da quel momento ho realizzato altri servizi in hospice, ho quasi abbandonato il lavoro con il materno infantile, ed ho iniziato lavorare su progetti volti a sensibilizzare verso le cure palliative ed il fine vita. Il passaggio in hospice è stato quindi un punto di svolta per me, per la mia visione, non solo professionale. Perché fotografare la morte significa viverla, e viverla significa conoscerla un po’ di più.

Cosa ne pensate? Vi siete mai interrogati sulle immagini relative alle cure palliative? ne avete scattate?

Death information & Death education? di Nicola Ferrari

Riceviamo e pubblichiamo con piacere questa riflessione di Nicola Ferrari, che da molti anni, con l’associazione Maria Bianchi di Mantova si occupa di sostenere le persone in lutto.

Cos’hanno in comune, nell’ambito della Death education, eventi quali convegni, lectio magistralis, laboratori, tavole rotonde, spettacoli teatrali, concerti, reading di poesie, mostre di fotografie e pittura, rassegne letterarie, seminari, cineforum e poi passeggiate tra i cimiteri, cene in nero, escursioni di gruppo all’imbrunire, Death café, gala, dialoghi con autori, visite guidate, letture sceniche, performance, installazioni visuali e sonore, webinar, podcast, libri, video caricati in rete, live streaming, incontri sui social media, blog, forum e senza dubbio anche altro?

L’idea che educare corrisponda a informare, istruire, condividere esperienze, pensieri e vissuti; detto in altre parole: la Death education si basa sull’idea che aumentare le conoscenze specifiche su questo aspetto della vita, e narrarsi gli uni con gli altri, significhi educarsi (e forse prepararsi) alla morte.

Che cosa significhi nel concreto educarsi alla morte è un quesito complesso, che pone a sua volta molti altri interrogativi (cfr. in questo blog il contributo Death education? di Marina Sozzi, che li presenta in dettaglio). Ma, indipendentemente da questi problemi, che includiamo nell’ambito più vasto della tanatologia, nel significato della parola ‘educazione’ è connaturato, e continuamente ricercato, il cambiamento della persona coinvolta.

Non esiste autentica attività educativa che non preveda, come fine ultimo, la possibilità di una trasformazione, di uno sviluppo, in virtù del quale le potenzialità del soggetto vengano, nell’ormai classica e accettata analisi del termine, tirate fuori, estese, dilatate. È proprio per questo che trovo il termine Death education, declinato poi nelle varie attività citate all’inizio, piuttosto inappropriato: non basta, purtroppo, ascoltare persone esperte sul tema, che con le loro proposte fanno sorgere in noi nuove considerazioni, non è decisivo aumentare la conoscenza su aspetti psicologici, sociali, spirituali che non si possedevano prima, o confrontarsi e dialogare sui temi della mortalità, del lutto, del fine vita, così come non è sufficiente vivere emozioni ed esperienze individuali o in gruppo appositamente predisposte.

Il tema della morte, nostra e altrui, del lutto, della finitezza e tanto altro, non è una questione satellitare, non è trattabile come altri temi o situazioni della vita che ci riguardano ma in modo più tangente, rispetto ai quali le iniziative culturali citate sopra sarebbero strumenti utili e sufficienti per farci un’idea e prendere posizione.

Ciò non significa che gli incontri pubblici siano inutili: proporli significa coinvolgere e appassionare persone, ma si tratta in questi casi di Death information, non di Death education cioè di occasioni per avvicinarsi, per introdursi, per prepararsi a un cammino di ben altro spessore. Perché ognuno di noi possa vivere un percorso educativo rispetto alla morte occorre che gli accada altro, di più, di diverso rispetto al solo ascolto, lettura, confronto, dibattito.

Magari potessimo arrivare a fare i conti con la nostra fine, con la perdita di chi amiamo, con l’annuncio o il periodo di una grave malattia, così come vorremmo che accadesse, magari con quella forza, serenità, coraggio, consapevolezza che stiamo cercando e che costituiscono le ragioni per cui partecipiamo ad eventi, per cui leggiamo libri sul tema, eccetera.

Death information è quindi il termine secondo me più appropriato, corretto ed efficace da utilizzare, ben sapendo che una parola è molto più di una parola: stiamo parlando di ciò che è necessario per avvicinarsi al tema della morte, per potersi accostare con un primo livello di coinvolgimento emotivo, ampliando la nostra conoscenza, cominciando a conoscere altre persone con la loro storia, la loro ricchezza e la loro fragilità.

La Death education si pone invece al livello seguente, non per valore o qualità ma perché offre un percorso successivo che permette (o almeno tenta) di attivare un cambiamento dentro se stessi rispetto alla modalità di affrontare la questione cardine della morte. E questo percorso, che si può declinare in modi diversi, ha però delle caratteristiche ineliminabili che lo contraddistinguono e che si distinguono dalla prima fase di Death information:
– una durata temporale significativa, a differenza del momento puntuale da dedicare a un convegno, un evento, un incontro;
– il totale coinvolgimento della persona, che non si pone quindi solo in una modalità ricettivo-passiva, di mero ascolto;
– la disponibilità a mettersi costantemente in relazione con la propria esperienza di vita;
– la concentrazione sui cambiamenti concreti da attivare come conseguenza di uno sviluppo sulle questioni che vengono affrontate;
– la necessità di confrontarsi nel tempo quando, come può accadere, ci si trovi ad affrontare la morte reale, propria o altrui.

Non è semplice stabilire come realizzare ciò che definisco Death education; come strutturare i percorsi per indurre una più profonda consapevolezza, che integri e specifichi, la precedente; come affrontare i limiti intrinseci in qualunque cammino; come valutare gli esiti. Queste difficoltà non cambiano, a mio avviso, la questione di fondo: è necessaria una nuova espressione (Death information) per definire ciò che oggi facciamo intorno al tema della morte.

Cosa ne pensate? Il termine Death information vi sembra più appropriato? Cosa fate per accostarvi al tema della morte, e cosa ne ricavate? Grazie, come sempre, per il vostro contributo.

L’oblio oncologico, di Marina Sozzi

Il 7 dicembre 2023 è stata approvata anche in Italia, con l’accordo di tutte le forze politiche, la legge n. 193 sul diritto all’oblio oncologico, «Disposizioni per la prevenzione delle discriminazioni e la tutela dei diritti delle persone che sono state affette da malattie oncologiche», ed è entrata in vigore il 2 gennaio 2024.

La legge intende dare una risposta al fenomeno ricorrente per cui, nonostante l’avvenuta guarigione clinica, molte persone che hanno superato un tumore sperimentano discriminazioni nell’esercizio dei propri diritti. Cosa si intende quindi per oblio oncologico? Si tratta del diritto, per chi è stato malato di cancro, di non dover fornire informazioni sull’esperienza pregressa di malattia dopo dieci anni dalla fine delle terapie (qualora non si siano verificate recidive), nella stipulazione di qualunque contratto (assicurativo, bancario, finanziario o di investimento) e in ogni procedimento di selezione o concorso. I dieci anni diventano cinque per quei tumori che insorgono prima dei 21 anni di età.  Parallelamente, è fatto divieto alle altre parti che stipulano il contratto di informarsi con altri mezzi, e quindi di fatto di discriminare le persone che sono state malate di cancro.

L’Aiom (Associazione Italiana Oncologia Medica) e la Fondazione Veronesi stimano che gli ex malati di cancro che potranno beneficiare della nuova tutela siano un milione in Italia.

Ciò significa che queste persone potranno stipulare un’assicurazione sanitaria, chiedere un mutuo, ottenere un prestito, adottare un bambino, o partecipare a un concorso pubblico senza essere tenuti a segnalare l’esperienza di malattia. Sul piano bioetico, l’intento di questa legge è promuovere il rispetto dell’eguaglianza tra tutti i cittadini, riducendo ed eliminando possibili disparità di trattamento, che impediscono ad alcuni di esercitare e godere appieno dei propri diritti fondamentali.

Con l’entrata in vigore della legge si è anche data risposta a una sollecitazione della Commissione europea, che nel febbraio 2022, nell’ambito del Piano Oncologico Europeo, aveva auspicato che tutti gli stati membri si dotassero di una legge sul diritto all’oblio oncologico entro il 2025. La Francia è stata il primo paese ad approvare una norma, nel 2022, e in seguito lo hanno fatto anche Belgio, Lussemburgo, Olanda, Portogallo e di recente anche la Romania.

Nel nostro paese, a questa legge si è arrivati anche grazie a una campagna lanciata da Fondazione Aiom, con il contributo di buona parte del Terzo Settore che si occupa di malattia oncologica, tra cui LILT, AIL, ANDOS, che hanno utilizzato l’hashtag #iononsonoilmiotumore (che riecheggia il titolo del mio libro sul cancro!), con il quale sono state raccolte più di centomila firme.

La società scientifica degli oncologi (Aiom) ora prevede, inoltre, che, con procedure da definire attraverso un tavolo tecnico del Ministero della Salute, sia possibile istituire tabelle che consentano di ridurre ulteriormente i tempi stabiliti dalla legge in base alla differente patologia oncologica.

Si è trattato di un’importante battaglia di civiltà, tutti affermano, ed è senz’altro vero. Occorre aggiungere che questa legge, come la 219 del 2017 «Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento», oltre a tutelare dei diritti, ha un profondo significato culturale. È evidente che la legge è divenuta possibile perché la diagnosi di cancro, un tempo considerata una sentenza di morte, grazie agli importanti progressi che sono stati fatti in questo ambito dalla medicina, oggi si riferisce a una malattia che, seppure grave e pericolosa, può guarire. E anche nei casi in cui non sia possibile parlare di guarigione, è una patologia con la quale molti cittadini riescono a convivere per molti anni, con una buona qualità della vita.

Ma questa consapevolezza non è ancora sufficientemente diffusa nella popolazione. Proprio per questo, non possiamo considerare concluso il cammino che ha portato alla legge: occorre la promozione di una nuova “cultura della guarigione”, che divulghi i nuovi risultati terapeutici e offra una nuova interpretazione della patologia.

E’ noto infatti che la mentalità cammini più lentamente delle scoperte scientifiche. Oggi gli oncologi riferiscono di avere problemi non solo a comunicare le cattive notizie, ma anche le buone notizie, perché i pazienti stentano a credere di potersi considerare guariti.

Segno di una mentalità ancorata a vecchie immagini e vecchie metafore: il cancro alieno che invade e colonizza il corpo per succhiargli la linfa e ucciderlo, la gramigna infestante, la cellula pazza. Nel suo bestseller sul cancro del 2007, Anticancro, David Servan-Schreiber aveva scritto che dopo la sua diagnosi di tumore al cervello anche i colleghi medici lo evitavano, come se fosse già morto, un fantasma inquietante, un morto che cammina.

Anche la retorica della lotta, così efficacemente criticata da Michela Murgia nei suoi ultimi mesi di vita, deve essere superata. La dimensione bellica radica proprio l’idea del tumore come nemico esterno, alieno, da combattere in una battaglia all’ultimo sangue. Sappiamo quanta fatica comporti per i malati questa logica, che li spinge nell’arena, proprio quando avrebbero bisogno di trovare la pace necessaria per conciliarsi con l’esperienza di malattia. E quanto comporti il rischio di colpevolizzare chi muore, che può essere visto come colui che non ha combattuto abbastanza.

Le leggi a volte anticipano, a volte rilevano i cambiamenti sociali e culturali in corso. Questa legge in parte prende atto dei progressi scientifici avvenuti, in parte induce a ripensare le interpretazioni del tumore e i modi in cui ne parliamo socialmente.

Quindi richiede, affinché possa essere davvero applicata, un grande lavoro culturale, che probabilmente sarà portato avanti nel paese, come sempre, dal Terzo Settore.

Cosa ne pensate? Come avete preso l’approvazione della legge sull’oblio oncologico? Quali pensieri ha sollecitato in voi?

Instagram e le influencer della morte, di Davide Sisto

Da alcuni anni, in Italia, i social network sono diventati testimoni di un significativo numero di influencer piuttosto particolari: i cosiddetti “tanato-influencer” o “influencer della morte”. In altre parole, come succede in Gran Bretagna e negli Stati Uniti, ci sono alcune persone – per lo più di genere femminile e di età relativamente giovane – che utilizzano i social media (soprattutto, Instagram) per parlare colloquialmente di morte, di lutto, di riti funebri con i propri followers. Ciascuna di loro ha un seguito di decine di migliaia di followers, a dimostrazione dell’interesse nei confronti del tema e della loro attività. Il primo nome che mi viene in mente è quello di Giulia Depentor, creatrice di contenuti digitali per aziende e brand, dunque non tanatologa in senso proprio. Tuttavia, è divenuta alquanto nota per il podcast Camposanto, dedicato agli amanti dei cimiteri e a chi è interessato a conoscere le storie e le immagini fotografiche più curiose delle lapidi. Depentor gira per il mondo alla ricerca dei cimiteri più peculiari, ricostruendo le storie degli abitanti delle città e dei piccoli borghi che sono passati a miglior vita. L’attenzione per Camposanto è stata tale che oggi possiamo leggere un sunto delle sue esperienze nel libro “Immemòriam. I cimiteri e le storie che li abitano”, edito da Feltrinelli. Un secondo nome che merita menzione è quello di Lisa Martignetti, il cui nickname su Instagram è “la ragazza dei cimiteri”. Martignetti è una funeral planner, cioè aiuta le famiglie a organizzare i funerali dei propri cari. Ha circa 25.000 followers e utilizza Instagram per parlare dei principali temi che riguardano la morte: il tabù e il processo di rimozione sociale e culturale, il ruolo dei riti funebri e dei cimiteri nelle nostre vite, nonché ogni aspetto che permetta di razionalizzare la paura della morte e di prendere così coscienza della propria mortalità. Tanatolady, alias Irene Nonnis , è invece una tanatoesteta intenta, anche lei, a servirsi dei social media per raccontare storie legate al suo lavoro, al nostro rapporto culturale con la morte e con i riti funebri. Cito ancora, tra i diversi nomi che si occupano di diffondere idee sulla morte tramite le piattaforme digitali, Carolina Boldoni, antropologa culturale dallo spiccato senso dell’umorismo, la quale si definisce “la Chiara Ferragni dell’antropologia” nonché “l’influencer della morte”. Oltre a utilizzare Instagram per divulgare in modo estremamente acuto e intelligente gli studi su cui si è formata da un punto di vista accademico, ha creato un format intitolato “Lutto alle 8” e condotto insieme a Laura Campanello, il quale affronta ogni tipo di tema che riguarda il fine vita.

Depentor, Martignetti, Nonnis e Boldoni sono solo alcuni esempi di un fenomeno che sta lentamente crescendo e che italianizza, in linea generale, lo splendido lavoro compiuto da Caitlin Doughty negli Stati Uniti. Ciò che è interessante notare, almeno dal mio punto di vista di studioso del tema della morte, è il mix di creatività e di acume con cui le influencer della morte confezionano i loro video, i loro testi scritti, le loro immagini fotografiche. In altre parole, dimostrano come si possano utilizzare in maniera matura gli strumenti offerti dalle piattaforme digitali, veicolando messaggi socialmente e culturalmente rilevanti attraverso i linguaggi che vanno per la maggiore, soprattutto tra le nuove generazioni. Il contributo offerto alla causa dei Death Studies è piuttosto prezioso, ragione per cui le influencer della morte sono coinvolte negli eventi pubblici che riguardano il fine vita (festival, conferenze, dibattiti, ecc.). In un’epoca storica in cui stiamo lentamente scardinando il tabù, riportando la morte e il morire all’interno del dibattito pubblico, i processi culturali tanatologici messi in moto tramite i social media controbilanciano la ritrosia, ancora assai presente, da parte dei mass media tradizionali di trascendere con forza la rimozione. Forse, le influencer della morte sono l’ennesimo esempio di un cambiamento profondo dei linguaggi e delle espressioni pubbliche, figlio della progressiva disintermediazione generata dall’epoca dei social media. Mi azzardo a dire che rientrano all’interno del campo della tanatologia digitale o Digital Death, quali testimonianze oggettive di come il mondo online offra spazi per affrontare esplicitamente ciò che si evita, di solito, nel mondo offline.

Conoscete qualche influencer della morte? Le seguite? In tal caso, cosa pensate della loro attività? Fateci sapere.

Cure palliative e complessità, di Marina Sozzi

La riflessione sulla complessità sembra aprire nuovi punti di vista su molte questioni, in tutti gli ambiti, compreso quello della cura. Credo che gli studi sulla complessità possano aiutare a integrare la cultura ancora troppo riduzionista della biomedicina. A patto che si tenga a mente che, come scrive Edgar Morin: “La complessità non potrà mai essere definita in modo semplice e prendere il posto della semplicità. La complessità è una parola problema e non una parola soluzione.”

Ora, le cure palliative sembrano aver in parte già assorbito l’idea di complessità, in quanto consapevoli, nella loro prassi, dei limiti del riduzionismo e del rilievo dell’esperienza soggettiva della malattia. Il tema della complessità è stato inoltre recentemente trattato in letteratura nell’ambito delle cure palliative, anche in Italia. Mi riferisco, ad esempio, all’articolo dal titolo Complessità e cure palliative, del 2019, in libero accesso sulla Rivista Italiana delle Cure Palliative, (che potete leggere qui).

L’articolo si sofferma su come individuare la complessità dei malati con bisogni di cure palliative, facendo riferimento a studi internazionali. Tra questi ultimi, uno è preso in particolare considerazione (di Sophie Pask) che mette in evidenza i numerosi elementi di cui tener conto per farsi carico della complessità dei pazienti: dai bisogni e dalle caratteristiche della persona, al cambiamento della sua situazione nel tempo, alla possibile discordanza tra paziente, famiglia e operatori, fino, allargando progressivamente lo sguardo, ai pregiudizi e alla complessità invisibile, alla disponibilità dei vari servizi specialistici, per concludere a quello che viene definito il macrosistema, ossia la società. L’articolo descrive anche uno strumento, che si chiama PALCOM, per individuare la complessità in cure palliative. Vi risparmio l’elenco dei “fattori di rischio”.

Infatti, quello che qui mi interessa è sottolineare che farsi carico della complessità, in cure palliative, va molto oltre l’identificazione del cosiddetto “paziente complesso”. La prima perplessità su tale identificazione deriva dall’impressione che in tal modo si oggettivi la complessità del paziente, e si ponga, di fronte al paziente cosiddetto “complesso”, un operatore neutrale, che “guarda” il paziente e ne valuta la complessità.

Credo invece che le cure palliative, in virtù della loro vocazione critica nei confronti della medicina, possano fare un passo più in là, anche dal punto di vista teorico.

Complesso è, in primo luogo, un sistema in cui vi è forte interconnessione e interdipendenza dei fenomeni, e instabilità della situazione. Ogni sistema ove esista il fattore umano lo è.

I nostri modelli e schemi sono ancora troppo influenzati da una visione lineare della realtà, considerata governabile e predicibile. Ma come è possibile assumere in modo più compiuto la complessità? In primo luogo occorre comprendere che in un sistema complesso:

  • la causalità è circolare: in un contesto interdipendente, causa ed effetto tendono a confondersi. Ad esempio, la difficoltà a confrontarsi con una famiglia ne provoca l’aggressività o viceversa? Come è intuibile, vi sono moltissimi circoli sia viziosi sia virtuosi;
  • l’approccio è olistico, ossia occorre tenere conto di tutte le parti del sistema (sia nel caso che il sistema considerato sia il corpo umano, o una famiglia, o l’intera rete locale delle cure palliative): non significa sostituire l’approccio più specialistico e verticale, ma integrarlo;
  • il punto di vista di chi osserva non è neutro né passivo: il sapere nasce dall’interazione tra il soggetto attivo e la realtà. Il nostro comportamento nasce dall’interconnessione con gli altri, dall’interpretazione che diamo al contesto nel quale ci muoviamo, dalle domande che ci poniamo: cosa sta avvenendo? Che cosa provo? Che cosa prova l’altro? Che intenzioni ha?
  • occorre rinunciare alle “ipersoluzioni”: ciò significa ricusare le soluzioni semplicistiche o le soluzioni normate e sperimentate, che quindi appaiono solide ed efficaci. I protocolli medici, se applicati senza porsi quesiti, sono un esempio di ipersoluzione.

Quindi come possiamo fare a «stare» nella complessità? I sistemi complessi si affrontano attraverso una strategia «try and learn», ossia mediante uno schema che prevede: azione-apprendimento-adattamento. Perché tale schema funzioni occorre allenarsi a tollerare l’incertezza e avere audacia nell’azione. Ma alla base, perché si possa «stare nella complessità» in modo costruttivo, occorre una competenza di pensiero complesso. Ma che significa?

Pensare vuol dire soprattutto vincere il pilota automatico. Infatti il nostro cervello, per risparmiare energia, attiva meccanismi ripetitivi e automatici di comportamento.  Il comportamento degli individui è inoltre influenzato da un conformismo sociale spesso inconsapevole, attivato dal bisogno di essere accettati dagli altri. Gli automatismi vanno bene in tutte le situazioni semplici o complicate, dall’allacciarsi le scarpe a costruire un’automobile, ma sono deleteri qualora ci si trovi di fronte a una situazione complessa. Pensare per analogia, infatti, riduce la nostra capacità di contestualizzare, quindi di comprendere realmente che cosa stia accadendo prima di agire. Questo schema limita l’apprendimento e il continuo riadattamento, che è il migliore modello per le situazioni complesse. Il dubbio è il pilastro centrale del pensiero complesso.

Attraverso il dubbio il cervello è in grado di liberarsi dal nostro bisogno di conformismo sociale (impulsi che vengono dall’interno) o dai condizionamenti che provengono dal contesto in cui viviamo (condizionamenti che vengono dall’esterno). Occorre porsi continuamente domande senza dare nulla per scontato.

Un altro errore che potremmo fare in cure palliative è prendere decisioni coerenti con il nostro sistema di valori. Siccome farlo ci fa sentire bene, il rischio di attivare meccanismi automatici di comportamento è alto. Se prendiamo decisioni fondate sulle nostre convinzioni ideologiche, non stiamo ancorando la decisione al contesto, e potremmo essere spiazzati dalle conseguenze. In cure palliative questo aspetto sembra molto rilevante, perché la fine della vita tocca temi ideologici e religiosi.

In sostanza, il numero di domande che affiorano nella mente dell’operatore prima di entrare in azione misura la qualità del suo pensiero e in particolare la sua «ridondanza cognitiva», che è la capacità di farsi le domande giuste, di riuscire a cambiare prospettiva per osservare la situazione da punti di vista differenti. E per farsi le domande giuste, occorre allenarsi, nutrire l’attitudine a dubitare e a non dare nulla per scontato. Maggiore è il numero di domande che ci si fa quando si deve prendere una decisione, minore sarà la probabilità di essere sorpreso dagli eventi e di generare soluzioni semplificatorie. L’importante non è non sbagliare mai, ma apprendere dalla situazione e dagli errori, e moltiplicare le domande.

Mi interessa molto la vostra opinione. Se siete operatori, avete esempi di situazioni complesse nelle quali avete saputo porvi le domande giuste? O al contrario esempi di situazioni in cui non siete riusciti a mettervi in gioco e non avete dubitato delle vostre soluzioni? E ancora, pensate che questa riflessione sia utile, che possa far crescere le cure palliative?

Gli effetti negativi della rimozione del Covid 19, di Davide Sisto

Negli ultimi mesi ho condiviso insieme a tanti connazionali una sensazione piuttosto ricorrente: mi sembra che la mia vita sia passata direttamente dal 2019 al 2023 o, viceversa, sia tornata indietro dal 2023 al 2019, perdendo per strada due o tre anni. Mi spiego meglio. Non appena la pandemia da Covid-19 è terminata o, comunque, ha concluso la sua fase più critica, la vita quotidiana ha ricominciato ad avere le stesse identiche caratteristiche che ha avuto fino alla fine del 2019, cancellando – almeno in superficie – gli effetti emotivi e psicologici del difficile periodo vissuto tra il 2020 e il 2022. Quando, nel marzo 2020, un numero sostanzioso di utenti dei social network affermava che il mondo non sarebbe più stato lo stesso a causa della pandemia, probabilmente ha sottovalutato la capacità umana – a volte utile, spesso discutibile – di rimuovere radicalmente i problemi, facendo finta che non ci siano stati o che siamo impermeabili alle loro conseguenze. E così, ci abbiamo messo pochissimo a dimenticare il lockdown, “L’italiano” di Toto Cutugno cantata sui balconi delle abitazioni, la reiterata scritta “andrà tutto bene”, i vaccini, il green pass, il distanziamento sociale e via dicendo. Appena abbiamo potuto, abbiamo cancellato quei due anni così complicati, riprendendo le vecchie abitudini come se nulla fosse successo. Per esempio, nel mondo della formazione universitaria le innovazioni tecnologiche, che hanno sopperito più o meno positivamente alla mancanza del contatto fisico, sono quasi del tutto sparite. Nel mondo editoriale, invece, è diffusa la convinzione che i libri sulla pandemia non abbiano mercato. Gli stessi corsi universitari tendono, generalmente, a non affrontare in alcun modo quello che abbiamo vissuto e le trasformazioni che ne sono seguite.

Ma fa realmente bene la rimozione totale del periodo pandemico dalle nostre vite? È veramente utile far finta di non ricordare il periodo compreso tra il 2020 e il 2022 con tutte le sue conseguenze psicologiche ed emotive? Il 56° Rapporto Censis sulla situazione sociale dell’Italia, presentato nel dicembre 2022, ritrae il popolo italiano come profondamente malinconico, privo di speranza nel futuro, perduto all’interno di un contesto sociale, politico e culturale che non mostra un barlume di luce. La maggior parte dei dati sul benessere psicologico dei cittadini italiani mostra un incremento significativo dei sintomi della depressione e dell’ansia, soprattutto tra i più giovani, a cui si aggiunge un altrettanto importante aumento dei suicidi. Dati sulla salute mentale che trovano un riscontro abbastanza omogeneo tra i paesi dell’Unione europea, come mostra il report Health at a Glance: Europe, nato dalla collaborazione tra l’OCSE e la Commissione europea. Vero che occorre contestualizzare queste informazioni all’interno di un periodo storico che, oltre al Covid-19, sta affrontando sanguinosi e preoccupanti conflitti bellici, gli effetti del riscaldamento globale e un drammatico aumento dei costi. Tuttavia, mi pare che nei confronti della pandemia abbiamo adottato lo stesso atteggiamento che adottiamo sempre nei confronti della mortalità, nostra e degli altri: facciamo finta che non ci riguardi, che siamo automaticamente più forti dei nostri limiti, che le fragilità non ci competono. Nascondiamo, come al solito, la polvere sotto il tappeto, lasciando che i suoi effetti agiscano implicitamente indisturbati fino a presentare, di colpo, un conto salatissimo a cui non sappiamo far fronte.

E dire che la pandemia poteva essere un’occasione importante per migliorarci. La consapevolezza del rischio cagionato dal virus poteva rappresentare il punto di partenza per meditare collettivamente sulla nostra vulnerabilità e mortalità, il senso di isolamento generato dal lockdown, dalla quarantena e dal coprifuoco poteva essere la base per ricominciare a discutere insieme su nuove forme di vicinanza nello spazio pubblico. Soprattutto, la particolare situazione che hanno vissuto le persone più fragili, per età, per condizione di salute o per criticità sociali, poteva – anzi, doveva – aprire importanti spazi all’interno della società per riflettere insieme sulle strategie da adottare in vista di un’etica della cura differente e più umana.

Penso, in altre parole, che sia estremamente negativo il tentativo di cancellare di colpo le esperienze vissute tra il 2020 e il 2022. Dovremmo invece prendere su di noi il peso di quello che abbiamo attraversato, creando nuove modalità di condivisione e, soprattutto, utilizzando la paura provata nei confronti dell’ignoto per riflettere meglio sul senso della morte per la vita, sulla perdita improvvisa di chi abbiamo amato, sull’importanza di riti funebri per la nostra salute mentale.

Non pensate anche voi che quei due anni vadano ripresi, analizzati con attenzione, osservati con il giusto spirito critico, di modo da non credere di non averli vissuti? Non ritenete opportuno evitare la rimozione del Covid-19, proprio per salvaguardare il benessere collettivo? Perché, di fatto, li abbiamo eccome vissuti. Sono lì, nascosti in una parte di noi, pronti spettralmente a riemergere e a far sentire la loro opprimente presenza. Meglio affrontarli direttamente, guardarli negli occhi ed evitare che infestino il nostro quotidiano per un tempo più lungo del dovuto.

Attendiamo, come sempre, vostri commenti a riguardo.

Il ritorno della morte nello spazio pubblico? di Cristina Vargas

Nell’ultimo fine settimana di settembre si è svolta la rassegna annuale Torino Spiritualità, che quest’anno era intitolata Agli assenti. Della morte ovvero della vita. Oltre a questa, diverse altre manifestazioni culturali importanti in tutta Italia hanno scelto di soffermarsi su questo tema ed è crescente l’importanza dei festival specificamente incentrati sul fine vita (ad esempio in questo momento si sta svolgendo Il rumore del lutto a Parma, che esiste da 17 anni e che ha fatto scuola, ma ricordiamo anche nuove iniziative: Mortali. Vivere nonostante a Trento, o il festival culturale di Vidas, a Milano, appena concluso, o ancora Da Vivi, Il miracolo della finitezza, del Teatro Metastasio a Prato, e altri ancora): dopo decadi di impronunciabilità, sembra che nel periodo post pandemico il tema del fine vita stia riguadagnando terreno.

Quali riflessioni possiamo trarre dal successo di queste e altre iniziative? Siamo forse di fronte a un ritorno della morte nello spazio pubblico? È presto per dirlo. Tuttavia, rispetto a vent’anni fa, quando ho cominciato ad avvicinarmi questo ambito, le differenze sono molto significative. Allora gli eventi richiamavano con fatica poche persone e, se si avanzava la proposta di organizzare qualcosa di un po’ più ampio, da tutte le parti arrivavano richiami alla cautela. Sono innumerevoli le occasioni in cui ci siamo sentiti rispondere: “C’è la parola morte nel titolo? Meglio di no! Potrebbe spaventare il pubblico”. Oggi, al contrario, sembra che il clima sociale stia lentamente mutando e che, più che in passato, si percepisca un bisogno sociale di confronto, condivisione e dialogo. Questo stesso blog, Si può dire morte, sembra cominci a vincere la sua scommessa.

Il Death café organizzato in occasione dell’inaugurazione di Torino Spiritualità e il laboratorio “Le assenze, gli assenti”, che ho avuto la possibilità  di co-condurre insieme alla psicoterapeuta e psicodrammatista Caterina di Chio, rappresentano per me due punti di osservazione privilegiata per cominciare ad abbozzare qualche ipotesi sul perché le persone, oggi, scelgono di prendere parte attiva ai momenti pubblici di riflessione sui grandi quesiti esistenziali sollevati dalla morte.

Al Death café inaugurale hanno partecipato circa seicento persone che, in gruppi da dieci e guidati da conduttori esperti, hanno riflettuto sulla domanda «In che senso la morte può far parte della vita?». Fra i presenti c’erano medici, infermieri, psicologi, operatori funebri e altri professionisti che a vario titolo si confrontano con il fine vita, ma soprattutto c’erano i cittadini, che si sono messi in gioco a partire dalle proprie riflessioni e vissuti personali (cfr. il report dell’evento a cura di Marina Sozzi). Il laboratorio, invece, era rivolto a un piccolo gruppo e utilizzava metodologie attive, con lo scopo di esplorare i molti modi in cui chi ci ha lasciato continua ad abitare dentro di noi. In entrambe le occasioni i contenuti sono stati ricchi e profondamente umani, ma in questa sede mi interessa evidenziare che, al termine, molti dei partecipanti hanno sottolineato – in alcuni casi con un pizzico di sorpresa – quanto fosse stato importante e significativo vivere un momento in cui era stato possibile parlare della morte in modo aperto, in un clima di condivisione e reciprocità.

L’incontro autentico e paritario fra persone ha offerto un momento comunicativo e relazionale diverso rispetto a quelli che normalmente sperimentiamo nei nostri contesti di vita.

Il rinnovato interesse a parlare della morte, cui stiamo assistendo, infatti, non vuol dire che questo tema sia ormai familiare a tutti, o che il “tabù”, di cui abbiamo più volte parlato, sia tramontato. Parlare della morte, del morire e del lutto rimane molto difficile, in particolare nelle situazioni che ci coinvolgono in modo diretto e personale.

Un recente progetto di ricerca di interesse nazionale, i cui risultati sono stati presentati nel volume Morire all’italiana (2022, a cura di Asher Colombo), ci restituisce l’immagine di una società eterogenea, con modalità di rapportarsi con la fine della vita non facilmente schematizzabili. Tuttavia, in molti ambiti gli autori hanno notato che persiste una diffusa difficoltà nell’accettare la morte e nell’accompagnare i morenti. Emerge inoltre la tendenza a relegare l’esperienza del lutto in una dimensione privata e intima, che lascia poco spazio alla sfera collettiva. Ciò conferma un più generale processo di mutamento storico: da una gestione prevalentemente familiare e comunitaria della morte, siamo passati nel secondo Novecento a una modalità fortemente individualizzata (e per molti versi individualistica) di approcciare le ultime fasi.

Questa progressiva individualizzazione si esprime in diversi modi, con risvolti positivi e negativi. Si pensi, per esempio, all’importanza che ha assunto il concetto di autodeterminazione per quanto riguarda le scelte di fine vita. L’individualizzazione, inoltre, si manifesta anche sul piano delle credenze e dei riti: la secolarizzazione, più che eliminare il bisogno di spiritualità, ha favorito l’affermarsi di forme nuove e personalizzate di vivere il rapporto con l’aldilà, con il sacro e con i defunti. A questo proposito, l’indebolirsi delle forme tradizionali di gestione della morte e del lutto da un lato solleva dal peso (a volte gravoso) dei “doveri sociali”; ma dall’altro può generare un senso di incomunicabilità e di solitudine.

Il nostro rapporto con la morte oggi, in sintesi, si sviluppa in uno scenario caratterizzato dalla frammentazione e dalla complessità.

In quest’ottica, il rinnovato interesse per il fine vita fa tornare alla mente le riflessioni proposte più di vent’anni fa dal sociologo britannico Tony Walter nel suo noto volume The Revival of Death. Secondo Walter il  bisogno di parlare della morte, del morire e del lutto, che egli riscontrava già allora (forse perché il suo sguardo partiva dalla realtà anglosassone), deriva non tanto dal desiderio di rompere il tabù della morte (un concetto su cui questo autore è critico), ma dalla necessità di trovare risposte di fronte alle nuove sfide e incertezze generate dal mondo contemporaneo e dal rapido mutamento delle pratiche sociali.

A queste considerazioni, a mio avviso, si aggiungono le ricadute del periodo pandemico, durante il quale la possibilità di accompagnare i malati e i morenti, di essere presenti fisicamente nelle ultime fasi, di dire addio e di ritualizzare la morte è stata fortemente limitata. Ciò, da un lato, ha acuito il senso di isolamento di chi ha subito delle perdite; dall’altro, per contrasto, ha aumentato la consapevolezza dell’importanza, e del valore, dei momenti collettivi di condivisione, rito e memoria.

Il dialogo e il confronto sono risorse che non solo aiutano a lenire la solitudine connessa alla sofferenza, ma consentono anche di ripensare e di rielaborare i quesiti esistenziali con cui tutti ci confrontiamo di fronte alla fine, tanto sul piano professionale, quanto sul piano personale. Essi, inoltre, sono potenti strumenti per riflettere sui dubbi e le incertezze della contemporaneità. Se non c’è una narrazione univoca a cui possiamo aggrapparci, o convenzioni sociali che – per quanto limitanti – ci dicano cosa è giusto dire o fare, come facciamo a sapere se siamo sulla buona strada nel percorso di lutto? Chi ci assicura (e rassicura) sul fatto che le emozioni difficili che intimamente proviamo siano normali e non il segnale di qualche anomalia? In mancanza di linguaggi sociali consolidati per gestire la morte, la condivisione a livello comunitario o di gruppo ha una funzione non solo espressiva (di per sé importantissima), ma anche rielaborativa, nella misura in cui permette di chiarire, di riorganizzare e conferire significato a pensieri, esperienze ed emozioni di cui non è semplice parlare in altri contesti.

E voi cosa ne pensate? Quali sono le vostre sensazioni in merito? Avete seguito uno di questi festival?

La scuola della dignità, di Marina Sozzi

Quando siamo più fragili, quando ci colpisce la malattia o entriamo nella vecchiaia, e necessitiamo di cure mediche e di sostegno, abbiamo bisogno che la nostra dignità, che abbiamo tutelato da soli nel corso della nostra vita, sia invece protetta anche con l’aiuto degli altri.

Invece, purtroppo, è proprio nei luoghi di cura che spesso le preoccupazioni di ordine organizzativo hanno la meglio sulla difesa della dignità dei pazienti. Vi racconto solo un breve episodio, che è rimasto scolpito nella mia mente. Qualche mese fa ho dovuto portare mio padre novantacinquenne al Pronto soccorso di un ospedale della mia città, che gode di un’ottima reputazione. Abbiamo atteso diverse ore, e papà era molto stanco, ma presente. Infine, un medico ci ha fatti entrare, ha cominciato a parlare con me ignorando totalmente mio padre, rivolgendosi a lui solo per brevi ordini, dandogli del tu. L’ho rimproverato «perché gli sta dando del tu?», allora si è scusato con freddezza. Poi l’ha fatto sdraiare sulla barella e l’ha spogliato davanti a tutti, senza alcuna privacy. Infine, mi ha cacciata fuori, e quando sono riuscita a rientrare papà aveva il pannolone ed era molto confuso. Ho firmato e l’ho portato via, indignata. Quel giorno, in quel Pronto soccorso, ho visto diversi anziani mortificati nella loro umanità e dignità, tra cui una vecchia suora minuta e spaurita che mi ha fatto molta tenerezza. Uscito da quell’esperienza, mio padre ricordava poco, ma non aveva dimenticato di essere stato “denudato in pubblico”. Analoghe mancanze di rispetto ho visto accadere in alcune RSA che ho visitato. Per questo vi propongo una riflessione.

Come spesso mi è già capitato di scrivere in questo blog, la percezione della propria dignità dipende anche dallo sguardo con cui gli altri ci osservano. Se quando siamo particolarmente vulnerabili diventiamo numeri, o organi malati, o molecole, è ovvio che andiamo incontro alla mortificazione della nostra persona. Se siamo poi considerati semplici ingranaggi di un sistema che privilegia il funzionamento della macchina ospedaliera, con criteri aziendalistici, è naturale che ci sentiremo umiliati nella nostra umanità, sviliti e semplificati, in una parola non rispettati.

Siccome però, nonostante le buone leggi che abbiamo, le cose non cambiano dall’alto (l’organizzazione della sanità continua a sottovalutare per lo più la legge 219 del 2017, e i suoi preziosi articoli sul consenso informato), occorre quindi la crescita di una consapevolezza dal basso, di un’educazione alla salute dei cittadini, che provochi un cambiamento di mentalità anche in chi cura.

A prima vista sembra un controsenso, ma la prima cosa da fare è abbandonare l’illusione che la medicina sia onnipotente. Se l’aspettativa è che io (o il mio familiare) siamo sempre salvati, i curanti si sentiranno esposti al rischio di una denuncia (il numero di denunce che ricevono è molto più alto degli episodi documentabili di malasanità), e lavoreranno sulla difensiva, irritabili e certo non attenti allo sviluppo di un atteggiamento di autentica compassione (in senso etimologico) ed empatia. La nostra pretesa infantile di respingere sempre la morte opera contro di noi.

Quando il nostro atteggiamento non è aggressivo e comprendiamo i limiti e gli sforzi di chi ci sta di fronte, dobbiamo però esigere il rispetto. Occorre notare i dettagli: dare del tu, parlare ad alta voce agli anziani anche quando ci sentono benissimo, portare farmaci senza spiegare di cosa si tratta e perché se ne propone l’assunzione, svegliare i malati per futili motivi, ignorare il dolore delle persone con demenza, usare in modo errato strumenti di contenzione, solo per alleggerire il lavoro degli operatori, usare indiscriminatamente il pannolone per non dover accompagnare i pazienti in bagno, e la lista potrebbe allungarsi indefinitamente, con tutti gli atteggiamenti paternalistici e irrispettosi con cui certamente anche voi vi siete scontrati in qualche luogo di cura.

Su questo fronte, le cure palliative hanno molto da insegnare, perché considerano fondamentale la tutela della dignità del malato, che viene messo al centro dell’attenzione e pensato come persona complessa di cui prendersi cura.

La parola “cura” è la chiave di volta di questa nostra riflessione. Occorre chiedere di essere “guariti” solo quando è possibile, ma pretendere sempre di essere “curati”. Curare anche quando non si può guarire è uno slogan per le cure palliative. Ma la cura (il prendersi cura della persona, e della sua qualità di vita) non va riservata solo alle persone alla fine della loro esistenza, a domicilio o in hospice, ma va estesa progressivamente alla dimensione sanitaria tout court. E’ la grande sfida che le cure palliative stanno intraprendendo dal punto di vista culturale. In primo luogo, portare le cure palliative in tutti i luoghi di cura, quindi contagiare con la propria cultura della cura rispettosa tutto il mondo sanitario. La pandemia ci ha dato un esempio della potenza trainante delle cure palliative: nei pochi centri in cui erano presenti dei medici palliativisti, le cose sono andate in modo meno drammatico.

Harvey Max Chochinov scrive, nel bellissimo Terapia della dignità: «Se la vita è una specie di camminata sul filo, la probabilità di cadere aumenta a mano a mano che ci si avvicina alla fine. Pensiamo, allora, alle cure palliative come a una rete di protezione. Nessuno può evitare la caduta, ma le cure palliative possono dare un atterraggio più morbido». Io aggiungerei che questa rete potrebbe essere stesa con il dovuto anticipo, per garantire un po’ di morbidezza anche a coloro che magari guariranno, ma che stanno attraversando un’esperienza difficile.

Sarà un percorso lungo, perché richiede un cambiamento di mentalità, ma ciascuno di noi potrebbe abbreviarlo per sé e per i propri cari, informandosi sui propri diritti e sulle cure palliative, e chiedendo una cura rispettosa, trasmettendo anche ai curanti l’esigenza di salvaguardare la percezione dei malati di essere portatori di dignità. Parliamone, raccontiamo, contribuiamo a modificare la medicalizzazione priva di umanità.

Che ne pensate?

Avete esperienze che volete raccontare? Vi è capitato di sentirvi privi di dignità in sanità?

Le bambole rotte, intervista a Enrica Bertolino, di Marina Sozzi

Abbiamo intervistato Enrica Bertolino, medico palliativista che opera presso l’Hospice di Chieri, per indagare come si approda alle cure palliative.

Qual è stata la sua formazione e il suo lavoro prima delle cure palliative?
Se mi fossi iscritta all’Università appena finita la maturità avrei scelto la Facoltà di Veterinaria. Quell’estate, però, il mio papà venne punto da un tafano ed ebbe una brutta reazione anafilattoide. Il medico che lo soccorse e che lo curò (un anestesista) non mi sembrò un uomo ma un essere con poteri straordinari. In quel momento decisi che mi sarei iscritta a Medicina e che sarei diventata Anestesista. Per 25 anni ho lavorato all’Ospedale S. Anna ed è stata un’esperienza meravigliosa, condividere con le pazienti la loro esperienza di diventare mamme, aiutarle a non soffrire durante il parto, curarle nelle tante complicanze che la gravidanza molto spesso comporta, mi ha fatto sentire un medico appagato sia dal punto di vista professionale sia da quello umano. In quegli anni, oltre a fare l’anestesista, mi sono anche occupata nella gestione del dolore oncologico nelle pazienti con patologie ginecologiche.

Perché a un certo punto ha deciso di frequentare un master in cure palliative?

Nel 2005, più che una scelta, il Master fu un’occasione alla quale fu impossibile dire di no. All’inizio del corso ero assolutamente ignara di cosa fossero e di cosa si occupassero le cure palliative.
Frequentare il Master mi piacque tantissimo, soprattutto perché vennero insegnate materie non sempre strettamente connesse all’ambito medico come per esempio l’antropologia, ricordo ancora perfettamente il significato del cannibalismo. Durante quei due anni alcuni miei compagni di corso, uno in particolare (oncologo palliativista pediatrico) continuava a ripetermi: “sei troppo anestesista dentro, tu  palliativista non lo diventerai mai.”

Cos’è cambiato nel suo lavoro di anestesista dopo aver assunto lo sguardo e l’approccio del palliativista?

Insieme ad una collega-amica che fece il Master dopo di me, iniziammo a seguire le pazienti oncologiche non solo per il controllo del dolore (sintomo per il quale veniva richiesta la nostra consulenza) ma iniziammo ad osservare le malate nella loro globalità di donne (spesso mutilate da interventi demolitori), mogli, mamme e/o figlie. Scoprimmo che il dolore morale era spesso molto più difficile da controllare rispetto a quello fisico.
Entrambe ci rendemmo conto che seppur molto formativo, il Master da solo non era sufficiente per aiutare le nostre pazienti, e così continuammo la nostra formazione palliativistica partecipando a corsi e congressi.

Cos’è accaduto perché lei abbia poi deciso di smettere di fare l’anestesista e iniziare il suo lavoro di palliativista? Ci sono stati incontri fondamentali?

E’ stato un percorso, non un accadimento singolo. Più diventavo palliativista più curavo e conoscevo quelle che a un certo punto definii “le bambole rotte” e più mi rendevo conto di quanto si sentissero sole e abbandonate nel momento in cui la medicina attiva non poteva più aiutarle.
Così come i giocattoli rotti vengono allontanati dalla cesta dei giochi, queste donne si sentivano allontanate dai curanti, da quei medici nei quali avevano riposto tutta la loro fiducia e la loro speranza di guarigione. Non trovavano nessuno capace di far capire loro che la cura della persona continua anche quando la cura della malattia non è più possibile.
Via via che i curanti si rendevano irreperibili, irraggiungibili, irrintracciabili, a quelle donne restavo io.
Conoscere il dottor Garetto è stata un’illuminazione. Sentirlo parlare è stato vedere i miei pensieri e i miei ideali trasformarsi da un groviglio confuso di energia, rabbia, frustrazione, entusiasmo e senso del buono e giusto in una linea dritta e ben delineata.

Cosa le piace di questo lavoro e perché è importante?

Mi piace essermi resa conto che c’è più vita in un Hospice che in una corsia di Ospedale. Perché in Hospice ci si occupa della vita, delle persone malate e non della malattia.
Come già detto prima, purtroppo la cura della malattia tiene troppo poco conto della persona che “la porta”. Poco conto della persona nella sua totalità: nei suoi affetti, nella sua emotività.
In Hospice il termine difficile non esiste. Esiste il termine complesso.
Difficile implicitamente è un termine che accetta la sconfitta, la mancanza di risultato. Complesso indica invece il bisogno di una grande richiesta di energia anzi di sinergia per raggiungere il risultato.
Lavorare in Cure Palliative mi fa sentire di essere sempre dalla parte del giusto, ha modificato il mio carattere, ho smesso di dovermi difendere e di dover difendere.
Poter ridare dignità agli esseri umani, guardare i loro occhi ritrovare la forza di alzarsi, fissare i miei e aprirsi in un sorriso pieno di parole e emozioni è importante.
Così come è importante sapere che in Hospice si entra per vivere pienamente l’ultima parte della vita, non per aspettare di morire. Ogni nuovo paziente è un dono, il dono di chi impara a fidarsi e ad affidarsi, il dono di chi si sente accolto e protetto. Dal mantello, dal pallium.
Ogni vita è come un libro, ogni paziente ci fa il dono di poterne leggere le pagine.

E voi come siete approdati alle cure palliative? attendiamo, come sempre, esperienze, considerazioni e riflessioni.

I virtual influencer. Le relazioni umane con persone inesistenti, di Davide Sisto

Da qualche mese sto studiando con curiosità l’ultima bizzarria della nostra realtà digitale: i virtual influencer. Si tratta di persone che, come Chiara Ferragni, mostrano la loro vita quotidiana su Instagram, Tik Tok e YouTube, sponsorizzando i marchi delle aziende di moda e portando avanti battaglie nel campo dei diritti civili. A differenza, però, della nota imprenditrice milanese non esistono in carne e ossa. Sono il perfetto risultato della tecnologia CGI (computer-generated imagery), con la quale vengono creati personaggi inesistenti dotati, però, di una specifica personalità e visione del mondo. Si contano già oggi diverse centinaia di virtual influencer, oltre a numerosi siti web – Virtual Beings, per esempio – intenti a sottolinearne le virtù nello spazio pubblico. Il nome più famoso è quello di Miquela Sousa, modella diciannovenne americano-brasiliana, che su Instagram ha circa tre milioni di followers. Il 28 giugno 2018 il Time l’ha inclusa tra le venticinque persone più influenti su internet, insieme a Donald Trump, Rihanna, Kanye West. In Italia i primi tentativi di creare una virtual influencer portano il nome di Nefele, nata a Torino, e di Zaira, creata da Buzzoole a Milano. Alcuni sono stati costruiti esclusivamente per finalità politiche, sociali e culturali: Kami, per esempio, soffre di Trisomia 21 e il suo compito consiste nel raccontare il disturbo che l’affligge, cercando di liberare la rete da pregiudizi e stereotipi.

Il fenomeno dei virtual influencer, che fa breccia soprattutto nella Generazione Z, ha cominciato a diffondersi in Asia negli ultimi anni e oggi produce un mercato pari a quasi 14 miliardi di dollari. Gartner prevede che entro il 2025 il 30% del budget investito nell’ambito del marketing sarà finalizzato alla creazione e all’uso di virtual influencer, con un giro di affari che toccherà gli 800 miliardi di dollari. Si tenga conto che l’Organizzazione Mondiale della Sanità ne ha già utilizzato uno, Knox Frost, per dare informazioni agli utenti della Rete riguardo alla pandemia da Covid-19. Un esempio significativo per capire che questo fenomeno è tutt’altro che una mera bizzarria di poco conto.

Ora, perché parlare di persone non esistenti all’interno di un blog come il nostro? Innanzitutto, perché evidenzia un ulteriore aspetto della nostra attuale esistenza, i cui risvolti nel campo della formazione e dell’educazione sono chiari. Si parla molto spesso di vita “onlife” per mostrare quanto sia obsoleta la distinzione tra online e offline, virtuale e reale. Oggi, ciascuno di noi vive all’interno di un mondo in cui ciò che facciamo online condiziona in maniera oggettiva la nostra quotidianità nella dimensione offline. La morte è quell’evento che interrompe l’ibridazione soggettiva: terminata la vita offline, continua invece quella online tramite la sopravvivenza passiva dei propri profili social, condizionando inevitabilmente l’elaborazione del lutto da parte di chi ci ha amato. Con i virtual influencer si fa un passo in più: vengono create a computer persone che esistono solo online, che non hanno un corpo, che sono prive di ombra, soprattutto che non invecchiano né muoiono. Persone eterne che – si badi bene – non nascondono affatto ai loro followers la loro condizione di esseri non fisicamente esistenti. Chi interagisce sui social con loro sa, anzi pretende, di conversare con “amici immaginari”, dotati però di una presenza digitale molto reale. I virtual influencer sono il punto di arrivo di un lungo processo che, parallelamente alla digitalizzazione della nostra società, ci ha abituato a creare relazioni interpersonali con simulazioni a computer di esseri umani, animali, oggetti o pseudo-alieni: dal Tamagochi agli avatar nei videogiochi, dai bot sui social media alle riproduzioni virtuali dei morti (griefbot). Sterminati e problematici sono, ovviamente, gli orizzonti di riflessione politica, sociale e culturale. Così come è particolarmente interessante il fatto di utilizzare persone non esistenti per le sensibilizzazioni pubbliche in ambito sanitario. In relazione al fine vita, queste novità – particolarmente, sentite dalle generazioni più giovani – lambiscono il territorio in cui non si vuole mai interrompere la dialettica tra i presenti e gli assenti, in cui alcuni desiderano rendere eterne le proprie relazioni, in cui si accetta a fatica la mortalità di sé e dei propri cari. Lo spazio contenuto del blog impedisce un’unica analisi approfondita del fenomeno; tuttavia, mi pare molto utile cominciare a raccontare questa novità emergente, ancora poco conosciuta da chi – per ragioni anagrafiche, ma non solo – ignora la particolarità delle interazioni che produce. È importante non rigettare subito questo fenomeno, in quanto appare a primo acchito inquietante o non facilmente razionalizzabile. Bisogna maturare la capacità di cogliere la trasformazione antropologica che contribuisce a determinare, di modo da disporre progressivamente degli strumenti necessari per capirne le intenzioni, gli effetti, le motivazioni.

Avete mai sentito parlare di virtual influencer? E cosa ne pensate? Attendiamo le vostre riflessioni.

Morire altrove, di Cristina Vargas

Che cosa succede quando la malattia terminale coglie la persona in un luogo lontano dal proprio paese di origine? Quali pensieri, sofferenze e sfide si aggiungono alla complessità delle ultime fasi, quando queste si devono affrontare in un “altrove”, dove non si hanno radici profonde? Questo tema di riflessione mi ha accompagnata lungo tutto il mio percorso professionale e, in quanto straniera radicata in Italia da molti anni, mi risuona in modo profondo a livello personale.

Affrontare la malattia grave o terminale, la morte e il lutto in un paese lontano dal proprio pone infatti difficoltà specifiche, che si collegano alla storia migratoria della persona e al modo in cui si articolano le sue appartenenze e i suoi legami affettivi. La migrazione, soprattutto quando comporta un cambiamento significativo a livello culturale, non è solo un evento biografico, è innanzitutto un’esperienza esistenziale che comporta una brusca discontinuità nella storia di vita. Essa, infatti, è un processo che inizia prima del viaggio e non si conclude con l’approdo nella nuova destinazione, ma si snoda in un lungo arco temporale.

Che si emigri per scelta o per necessità, cambiare nazione comporta una trasformazione identitaria che investe ogni aspetto del sé. Chi emigra in un luogo lontano vive nelle prime fasi un senso spaesamento radicale: cambiano la lingua, i paesaggi, i cibi, e il clima; le abitudini e la normalità vengono stravolte e molte certezze crollano. Col passare del tempo questo senso di estraneità si attenua, ma sovente permane un sottofondo nostalgia, che si alterna ad aspettative, speranze e progetti nel nuovo ambiente.

La soggettività del migrante si struttura intorno al bisogno di trovare un bilanciamento fra vecchi e nuovi radicamenti, fra referenti simbolici ed esperienziali che devono trovare un equilibrio.  Nell’incontro, sovente faticoso, con il nuovo ambiente di vita le reti relazionali e affettive si ridefiniscono, al pari dei ruoli familiari, sociali e lavorativi. Gradualmente, in modi diversi e molto soggettivi, l’identità e il senso di appartenenza vengono ripensati e ridefiniti per far nascere un nuovo equilibrio vitale.

Dove vorrei trascorrere gli ultimi mesi della vita? Dove vorrei che il mio corpo fosse seppellito quando arriverà il momento? Quale sarà il mio luogo finale? Queste domande testimoniano un movimento interiore che va nella direzione di una ridefinizione finale delle proprie appartenenze e i propri radicamenti. La domanda di fondo, che può essere espressa in molti modi e che vale sia per chi è straniero, sia per chi è italiano, è “qual è, in fin dei conti, casa mia?”.

In alcune culture la scelta del luogo ultimo ha una valenza simbolica di «localizzazione» delle proprie radici e della propria memoria e, in quanto tale, è una scelta che ha un’elevata portata esistenziale ed è intimamente connessa con la storia di vita.
Accanto al nodo dell’appartenenza, possono esserci motivazioni molto pragmatiche (“meglio tornare ora, perché il rimpatrio della salma da morto costa troppo”), religiosi (la mia religione lo prescrive) o relazionali (vorrei essere sepolto vicino ai padri o ai figli).

In alcuni casi il ritorno in patria può essere desiderato, ma precluso dalle circostanze. È il caso dei rifugiati e dei profughi, che non hanno la possibilità di scegliere di tornare, ma anche di chi ha vissuto percorsi migratori di lunga data, in cui le radici si sono perse e il tempo e la distanza hanno creato nuovi radicamenti.
In altri può essere possibile, ma la scelta è non di meno costellata da interrogativi, dubbi e timori.

Il confronto con il luogo d’origine può essere faticoso, soprattutto se si tratta di una migrazione di lunga data, in cui il tempo e la distanza hanno scavato un solco profondo fra il «paese ricordato», che non esiste se non nella memoria, e il «paese reale» con le sue problematiche e i suoi lati negativi. Penso al caso di un paziente rumeno seguito in cure palliative domiciliari, che aveva chiesto di tornare in patria e aveva chiesto l’aiuto dell’équipe. Gli operatori si erano adoperati per facilitare questo trasferimento, facendo di tuto, compreso portare il paziente all’aeroporto e imbarcarlo sull’aereo. Dopo poco, tuttavia, il paziente ritorna dicendo “No. Io a casa non ci voglio più stare”.

L’apertura rispetto alla possibilità che il paziente trascorra all’estero le ultime fasi della malattia non è uguale in tutti i contesti di cura. Ci sono contesti in cui prevale un focus sulla patologia anche in presenza di una prognosi infausta, si tende a ritenere l’idea di tornare in patria un rischio, e a non sostenere la persona, che è costretta a organizzarsi contro il parere dei curanti.

Per contro, nell’ambito delle cure palliative e, più in generale, nei contesti in cui c’è un orientamento che pone al centro la persona, è invece possibile dare al tema del ritorno in patria la giusta attenzione, nell’ottica di avviare un dialogo con il paziente e con la sua famiglia – vicina e lontana –  sulle implicazioni e le modalità di un eventuale ritorno nel paese di origine.

Avete mai riflettuto su questo tema? vi tocca da vicino? Cosa ne pensate?