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Le bambole rotte, intervista a Enrica Bertolino, di Marina Sozzi

Abbiamo intervistato Enrica Bertolino, medico palliativista che opera presso l’Hospice di Chieri, per indagare come si approda alle cure palliative.

Qual è stata la sua formazione e il suo lavoro prima delle cure palliative?
Se mi fossi iscritta all’Università appena finita la maturità avrei scelto la Facoltà di Veterinaria. Quell’estate, però, il mio papà venne punto da un tafano ed ebbe una brutta reazione anafilattoide. Il medico che lo soccorse e che lo curò (un anestesista) non mi sembrò un uomo ma un essere con poteri straordinari. In quel momento decisi che mi sarei iscritta a Medicina e che sarei diventata Anestesista. Per 25 anni ho lavorato all’Ospedale S. Anna ed è stata un’esperienza meravigliosa, condividere con le pazienti la loro esperienza di diventare mamme, aiutarle a non soffrire durante il parto, curarle nelle tante complicanze che la gravidanza molto spesso comporta, mi ha fatto sentire un medico appagato sia dal punto di vista professionale sia da quello umano. In quegli anni, oltre a fare l’anestesista, mi sono anche occupata nella gestione del dolore oncologico nelle pazienti con patologie ginecologiche.

Perché a un certo punto ha deciso di frequentare un master in cure palliative?

Nel 2005, più che una scelta, il Master fu un’occasione alla quale fu impossibile dire di no. All’inizio del corso ero assolutamente ignara di cosa fossero e di cosa si occupassero le cure palliative.
Frequentare il Master mi piacque tantissimo, soprattutto perché vennero insegnate materie non sempre strettamente connesse all’ambito medico come per esempio l’antropologia, ricordo ancora perfettamente il significato del cannibalismo. Durante quei due anni alcuni miei compagni di corso, uno in particolare (oncologo palliativista pediatrico) continuava a ripetermi: “sei troppo anestesista dentro, tu  palliativista non lo diventerai mai.”

Cos’è cambiato nel suo lavoro di anestesista dopo aver assunto lo sguardo e l’approccio del palliativista?

Insieme ad una collega-amica che fece il Master dopo di me, iniziammo a seguire le pazienti oncologiche non solo per il controllo del dolore (sintomo per il quale veniva richiesta la nostra consulenza) ma iniziammo ad osservare le malate nella loro globalità di donne (spesso mutilate da interventi demolitori), mogli, mamme e/o figlie. Scoprimmo che il dolore morale era spesso molto più difficile da controllare rispetto a quello fisico.
Entrambe ci rendemmo conto che seppur molto formativo, il Master da solo non era sufficiente per aiutare le nostre pazienti, e così continuammo la nostra formazione palliativistica partecipando a corsi e congressi.

Cos’è accaduto perché lei abbia poi deciso di smettere di fare l’anestesista e iniziare il suo lavoro di palliativista? Ci sono stati incontri fondamentali?

E’ stato un percorso, non un accadimento singolo. Più diventavo palliativista più curavo e conoscevo quelle che a un certo punto definii “le bambole rotte” e più mi rendevo conto di quanto si sentissero sole e abbandonate nel momento in cui la medicina attiva non poteva più aiutarle.
Così come i giocattoli rotti vengono allontanati dalla cesta dei giochi, queste donne si sentivano allontanate dai curanti, da quei medici nei quali avevano riposto tutta la loro fiducia e la loro speranza di guarigione. Non trovavano nessuno capace di far capire loro che la cura della persona continua anche quando la cura della malattia non è più possibile.
Via via che i curanti si rendevano irreperibili, irraggiungibili, irrintracciabili, a quelle donne restavo io.
Conoscere il dottor Garetto è stata un’illuminazione. Sentirlo parlare è stato vedere i miei pensieri e i miei ideali trasformarsi da un groviglio confuso di energia, rabbia, frustrazione, entusiasmo e senso del buono e giusto in una linea dritta e ben delineata.

Cosa le piace di questo lavoro e perché è importante?

Mi piace essermi resa conto che c’è più vita in un Hospice che in una corsia di Ospedale. Perché in Hospice ci si occupa della vita, delle persone malate e non della malattia.
Come già detto prima, purtroppo la cura della malattia tiene troppo poco conto della persona che “la porta”. Poco conto della persona nella sua totalità: nei suoi affetti, nella sua emotività.
In Hospice il termine difficile non esiste. Esiste il termine complesso.
Difficile implicitamente è un termine che accetta la sconfitta, la mancanza di risultato. Complesso indica invece il bisogno di una grande richiesta di energia anzi di sinergia per raggiungere il risultato.
Lavorare in Cure Palliative mi fa sentire di essere sempre dalla parte del giusto, ha modificato il mio carattere, ho smesso di dovermi difendere e di dover difendere.
Poter ridare dignità agli esseri umani, guardare i loro occhi ritrovare la forza di alzarsi, fissare i miei e aprirsi in un sorriso pieno di parole e emozioni è importante.
Così come è importante sapere che in Hospice si entra per vivere pienamente l’ultima parte della vita, non per aspettare di morire. Ogni nuovo paziente è un dono, il dono di chi impara a fidarsi e ad affidarsi, il dono di chi si sente accolto e protetto. Dal mantello, dal pallium.
Ogni vita è come un libro, ogni paziente ci fa il dono di poterne leggere le pagine.

E voi come siete approdati alle cure palliative? attendiamo, come sempre, esperienze, considerazioni e riflessioni.

Consapevolezza? di Marina Sozzi

Chiunque lavori all’assistenza nel fine vita conosce l’importanza della consapevolezza (che ha anche una sua scala di misurazione) che consiste, in ultima istanza, nella capacità di raggiungere un certo grado di accettazione di fronte alla propria morte o alla morte di una persona che amiamo. In cure palliative, la consapevolezza è rilevante perché permette agli operatori di fare un lavoro migliore, e agli psicologi e agli altri operatori di accompagnare i pazienti e i familiari a tollerare l’ineluttabile, pur nella tristezza e nel dolore. In genere, permette ai nuclei familiari di accomiatarsi con maggiore serenità, di parlarsi della morte imminente, di rinsaldare i legami e scambiarsi frasi amorevoli.

Ma proprio chi lavora in cure palliative sa anche quanto rara sia la consapevolezza. Spesso i familiari attendono le équipe fuori dalla porta di casa, per raccomandare di nascondere il logo (in Italia le équipe specialistiche di cure palliative operano generalmente nel Terzo Settore), o per avvertire: «non sa nulla, non gli dite che non ha molto da vivere». Il lavoro delle équipe più avvertite è delicato, lento, e segue la capacità di comprensione e accettazione delle famiglie. Si cerca di dire ai familiari che spesso chi muore sa che sta morendo, e tenerglielo nascosto contribuisce soltanto a creare una barriera di cose indicibili che separano chi se ne va e chi resta.

Talvolta però, per alcuni medici, infermieri e psicologi, il raggiungimento o meno della consapevolezza da parte del paziente assume la valenza di un giudizio implicito sul proprio operato, e diviene così uno degli obiettivi taciti dell’assistenza. E’ corretta questa visione epica della consapevolezza (entrare nella morte ad occhi aperti), o forse dovremmo essere più cauti nel pensarla come obiettivo universalizzabile?

Facciamo un passo indietro. Sappiamo che la mancanza di consapevolezza è spesso dovuta alla reticenza degli specialisti, che pur di non comunicare che la scienza medica ha esaurito le possibilità di contenere la patologia, mentono, o dicono verità parziali. Con la formazione e l’azione culturale, occorre ridurre queste cattive comunicazioni, come peraltro richiede la legge 219/2017.
Tuttavia, sono stata testimone del caso di diverse persone affette da tumore a uno stadio avanzato, non più controllato dalle terapie oncologiche, con metastasi diffuse a tutto il corpo, a cui era stata detta la verità sia dagli specialisti, sia dal medico di famiglia, e che ritenevano che le cure palliative fossero una specie di convalescenza, prima di riprendere le terapie. La consapevolezza non può essere perseguita a oltranza, perché la mente non va dove non vuole andare, e talvolta proprio non vuole incamminarsi a incontrare la morte.

Spesso si pensa che la mancanza di consapevolezza dipenda dalla cultura in cui viviamo, orientata a evitare il discorso sulla morte, così che i nostri concittadini arrivano molto impreparati all’appuntamento con la nera signora, che proprio per questo appare sempre più nera, in un circolo vizioso.
Su questo tema si tende a citare molto Heidegger, che nel suo libro Essere e tempo parla dell’importanza di porsi consapevolmente di fronte all’unica possibilità assolutamente certa della condizione umana, la morte. Pensare alla morte, e metterla in primo piano nella nostra mente, significa comprendere che questo “essere gettato nella morte” è la possibilità più autentica dell’Esserci dell’uomo. Le attività della vita, i progetti realizzabili, perdono il loro valore nel momento in cui si confrontano con la morte, e l’angoscia che deriva dal loro annientamento allenta anche la presa del mondo sull’uomo. Si manifesta così, al cospetto della morte, l’unica libertà possibile. Proprio nella consapevolezza della morte sta, secondo Heidegger, la libertà dell’esistere, che coincide però con la svalutazione di tutto ciò cui l’uomo dà comunemente valore.

Ma davvero per poter essere liberi e consapevoli dobbiamo annichilire il mondo? Sartre si ribella di fronte al pessimismo di Heidegger in L’essere e il nulla. Ben lungi dal vedere nella morte la più autentica possibilità dell’umano, Sartre afferma piuttosto che la morte è la negazione di tutte le altre possibilità, giunge sempre a troncarle, sovente sul più bello. E’ impossibile prepararsi alla morte, perché ignoriamo quando e come ci colpirà: gli uomini somigliano a condannati che si preparano coraggiosamente a essere fucilati, ma vengono invece falciati da un’epidemia di influenza spagnola. Non sappiamo quando e come moriremo. Gli uomini hanno progetti, che costituiscono le possibilità della loro esistenza, e questi progetti vengono interrotti dalla morte.

Questa contrapposizione così netta tra due importanti pensatori del Novecento ci indica la complessità del tema che stiamo trattando, le sue implicazioni filosofiche. Salvare il nostro rapporto con la progettualità mondana è l’obiettivo condivisibile di Sartre. D’altronde, seppure non sia possibile conoscere le circostanze della nostra morte, non è neppure immaginabile rimuoverne l’angoscia. E l’angoscia ci chiede di venire a patti con la mortalità, di trovare un aggiustamento. Questo è un lavorio arduo e mai concluso, che possiamo cercare di fare nel corso della nostra vita. La difficoltà, che solo il saggio riesce a sostenere, sta nel mantenersi in bilico tra un ingaggio e un impegno nelle vicende del mondo e la consapevolezza della nostra provvisorietà.

E quando siamo nei pressi della nostra morte? Cosa accade alla nostra consapevolezza della mortalità? Non è facile esserne certi, forse è uno di quei misteri che si possono scoprire solo ex post, quando siamo morti, da coloro che restano («è stato lucidissimo, presente e consapevole fino alla fine»).

La consapevolezza della morte fa parte di quella opacità della nostra coscienza che non possiamo mai disvelare, finché non accade che davvero ci troviamo lì vicini, accanto alla morte imminente. Riusciremo a stare lì, nella prossimità? Saremo abbastanza saggi e coraggiosi? Saremo abbastanza appagati dalla nostra vita da poterla lasciare senza troppi rimpianti nelle mani di chi viene dopo di noi? Potremo tenere gli occhi aperti di fronte al mistero? Non lo sappiamo, come non sappiamo se ci getteremo in acqua per salvare qualcuno che annega. Non ci conosciamo mai davvero fino a quel punto. Ma possiamo provare a prepararci per questo obiettivo durante la nostra vita, con umiltà.

E allora?

Come scriveva Paolo Vacondio nel suo libro Sediamoci qui, la consapevolezza di malattia o di terminalità non è una questione del tipo “tutto o nulla”. Al contrario “essa si evolve in modo progressivo e influenzato dal vissuto personale”.
Quindi, per concludere il nostro ragionamento, occorre raccomandare a chi opera in cure palliative (o comunque si trova per lavoro o perché amico, compagno, figlio, a fare i conti con il morire) di fare uno sforzo di sospensione critica del proprio giudizio, e di rispettare fino in fondo coloro che arrivano impreparati, che non sono consapevoli e non vogliono neppure esserlo. Sospendere il giudizio e stare accanto, senza mentire sulla verità della morte imminente ma con la giusta gradualità, rispettando la capacità della mente altrui di fare spazio a questa immensamente difficile verità.

Cosa ne pensate? Vi capita di immaginare come sarete nella prossimità della vostra morte? Avete esperienze di accompagnamento in cui la consapevolezza o la sua mancanza hanno avuto un ruolo importante?

La vita estranea. Intervista a Mario Balsamo, di Marina Sozzi

Abbiamo intervistato Mario Balsamo, regista documentarista, scrittore e docente di regia cinematografica, perché quest’anno è uscito il suo ultimo libro, La vita estranea, “romanzo tra escapologia e fine vita”.

Ci racconti l’esperienza che ti ha portato a scrivere questo libro, La Vita estranea?

Se vogliamo andare indietro negli anni, l’esperienza della mia malattia grave, un tumore dentro la gamba destra, mi ha portato a riflettere non solo sulla mia morte ma anche su come è concepita la morte nella nostra società. Da lì ho cominciato a impegnare la mia capacità narrativa intorno a questo tema. Non sono uno studioso, quindi ho pensato a storie da raccontare (a cominciare dalla mia ‘avventura’) che poi sviluppassero questo argomento.
In particolare, in La vita estranea mi è venuto in mente un escapologo, cioè una figura alla Houdini: chi esce fuori da qualsiasi contenitore chiuso e inchiavardato, si liberi da qualsiasi tipo di legaccio. Mi pareva che potesse essere una metafora (attraverso un personaggio di fantasia) adatta a raccontare il nostro rapporto con la morte in questa società, attraverso chi la sfida ogni giorno, a chi pensa di beffarla.
Possiamo sfuggirle da sotto le dita all’infinito? Naturalmente no, perché è un aspetto della natura umana. Da un bel po’ sono convinto che il modo migliore per affrontarla è quello di dialogarvi e quello di conoscerla per quanto possibile, mettendo in conto la sua imprevedibilità.
Di vederla come un qualcosa che fa parte del ciclo della vita, piuttosto che negarlo.
Il protagonista di La vita estranea, da presuntuoso e illuso paladino dell’immortalità, deve cominciare a confrontarsi con quella che sarà la sua, di morte, tra l’altro imminente, scoprendo delle verità inaspettate. Che lo portano a familiarizzare col fatto che lui dopo poco non ci sarà più.

Nel tuo libro ci sono due voci, l’io morto e l’io in vita del protagonista Leo, che hanno due stili di scrittura diversi. Come hai immaginato l’Aldilà? Cosa succede alla personalità del protagonista alla luce della morte?

Ho un pensiero un po’ particolare sull’Aldilà, condito dalla fantasia propria dei narratori. E’ come se l’Aldilà sia per ognuno come se l’è immaginato in vita. Quindi non con delle punizioni per le cose negative commesse, quanto continuando a vivere con i difetti che aveva nella sua vita terrestre. Qui però all’infinito, per l’eternità. Quindi se la persona ha delle cose irrisolte, ha delle situazioni che non è mai riuscito a dipanare, se le ritroverà addosso anche nell’Aldilà: e questo credo che sia piuttosto gravoso, tormentoso, soprattutto se le cose irrisolte occupano la maggior parte di sé. Mi trovo anche a riflettere se esista o meno la reincarnazione. In effetti questa idea, reincarnarmi fino a quando il mio kharma non sarà “pulito”, è interessante: pone le basi di una giustizia compensatoria delle ingiustizie di cui il mondo è pieno, seppur una compensazione che avverrà attraverso l’arco di più vite.

Mi ha colpito la definizione dell’hospice: “L’hospice è un luogo in cui chi sta per passare oltre viene aiutato a spiccicare qualche parola con la morte, nel tentativo di trovare un senso alla fine”. Che immagine ti sei fatto, in realtà, dell’hospice?

Gli hospice, almeno nella loro filosofia, nella realtà di quello dove ho fatto il volontario e in quello dove sto girando il mio documentario “In ultimo” (la struttura “Anemos”, gestito dalla fondazione Luce per la vita), sono dei luoghi in cui si cerca di dare al malato terminale una morte dignitosa, da una parte togliendogli – per quanto possibile – il dolore fisico, dall’altra assistendolo sul piano psicologico e spirituale. E’ difficile far pace con la propria morte, credo però che gli hospice possano alleviare quello che in molti casi è il terrore della morte, intanto svincolandolo dal dolore fisico. Sono temi molto delicati per cui è difficile dire in quanti casi ci si riesca. Quello che so è che negli hospice da me visitati ho respirato un’aria di serenità: e questo credo che sia già un grande risultato.

Il protagonista ha il terrore della morte, e non voleva pensarci (da vivo), anzi afferma di sentirsi (o addirittura di essere) immortale. Rispecchia una situazione autobiografica, o piuttosto un problema della nostra cultura?

Credo che rappresenti sia un dato autobiografico (superato) sia una convinzione che purtroppo ha preso piede nella nostra società: la convinzione che la tecnologia medica non solo possa allungare la prospettiva di vita, ma anche, addirittura, arrivare, prima o poi, a farci conquistare l’immortalità. Questa follia ha un risultato negativo immediato: le persone sempre più spesso muoiono impreparate. Cioè, per fare degli esempi, non si sono accomiatate dai propri cari, non hanno potuto lasciare una sorta di eredità spirituale a chi sta loro vicino, o hanno dovuto lasciare dei brutti conti in sospeso (non risolvere le incomprensioni che hanno portato allo scontro o all’allontanamento di persone care). Riuscire a fare tutto ciò in termini proficui significa un bene per tutti.

A un certo punto del libro scrivi: «Il paradosso è che la vita e la morte fanno parte l’una dell’altra, eppure sono inavvicinabili.» Cosa intendi esattamente?

Sì, è un paradosso, però estremamente vero. La vita fa parte della morte quanto la morte fa parte della vita. Forse io, in quanto Mario Balsamo, e quindi al di fuori dei personaggi del romanzo, sono convinto che in fondo la cosa stia come la disse Carl Gustav Jung: la morte è il fine della vita, non la sua fine.

Leo quando scopre di avere un tumore ha soprattutto una grande angoscia, quella di perdere la dignità. Cos’è per te la dignità alla fine della vita?

Il concetto della dignità della morte è complesso da esaminare. In generale penso si possa affermare che consista nel non perdere i fondamenti (fisiologici e spirituali) dell’essere umani. Il cosa significhi poi nello specifico varia in ciascuna persona. C’è anche chi ritiene che, seppur le attività corporee e parte delle funzioni cerebrali siano minate, la vita conservi una sua dignità. In costoro permane una straordinaria, robustissima voglia di vivere. Per quanto mi riguarda, credo che la dignità dell’essere umano stia nel mantenere tutte le funzioni di cui siamo normalmente dotati, sia sul piano fisico, sia mentale, sia spirituale. Aggiungo anche che per garantire a ciascuno la propria convinzione di quale sia la dignità della vita e della morte, debba essere permessa per legge la determinazione della propria fine; quindi, il diritto a un suicidio assistito qualora la persona lo decida; certo, monitorato ed esaminato attentamente da coloro che sono preposti ad esprimere un parere su tali richieste. Io non so, qualora diventassi un malato terminale con gravi menomazioni, se me la sentirei di scegliere la soluzione del suicidio assistito, forse no, però vorrei che questo fosse un diritto mio come di tutti gli altri.

Quali hospice per il futuro? di Marina Sozzi

Nella mia vita ho visitato molti hospice, alcuni sono all’interno di strutture ospedaliere, altri hanno la fortuna di godere di una posizione meravigliosa, di essere all’interno di ex ville, con parchi ricchi di alberi secolari e vista di grande bellezza. Gli hospice non sono tutti uguali, alcuni somigliano un po’ troppo a reparti ospedalieri, altri riescono a dare l’idea della casa che vogliono il più possibile mimare.

Quasi tutti, però, sono spesso difficili da trovare, decentrati rispetto al centro della città, e all’interno degli spazi dedicati si fa solo assistenza a chi sta lasciando la vita. Certo, talvolta all’interno degli hospice ci sono attività culturali, musicoterapia o arteterapia, Pet Theraphy e altre iniziative. A mio modo di vedere non basta.

Forse è giunto il momento di ripensare un po’ la nostra concezione dell’hospice, così come dobbiamo imperativamente ripensare le RSA dove muoiono i nostri anziani.

Il punto è che tutte queste strutture risentono un po’, nonostante le migliori intenzioni (soprattutto delle cure palliative), della difficoltà che la nostra cultura ha nel rapportarsi con la morte. La morte è sempre marginalizzata, e negli hospice entrano solo gli addetti ai lavori, medici palliativisti, infermieri di cure palliative, e gli altri professionisti dedicati (oltre ai familiari e ai volontari, naturalmente, pandemia  permettendo).

E se immaginassimo invece di collocare un hospice nel cuore pulsante di una città? Di affiancare all’hospice, nella stessa struttura architettonica, le famose case della salute dei medici di famiglia di cui tanto si parla, ambulatori di medici specialisti, ambulatori di cure palliative simultanee o precoci, e centri di formazione sanitaria e culturale, o comunque luoghi frequentati da molte persone per svariate ragioni?

Lo scopo sarebbe molteplice: ottenere che altre specialità mediche si confrontino quotidianamente con l’approccio palliativo, vedendo i colleghi lavorare e incontrandoli alle macchinette del caffè; rendere più facile, per i medici di medicina generale, attivare per tempo le cure palliative; fare in modo che i cittadini passino frequentemente di fronte all’hospice, ed entrino nella struttura anche per fare altre cose (vedere il loro medico di famiglia o altri curanti, sentire un concerto o una conferenza), così da favorire una maggiore familiarità con la fine della vita; contribuire alla diffusione delle cure palliative precoci e simultanee.

I numeri ci dicono che il bisogno di cure palliative sta crescendo in modo esponenziale nel mondo, e in particolare nei paesi in cui c’è una lunga aspettativa di vita e quindi molte persone anziane e fragili.

Invece di parlare in modo aulico e teorico di Death education (peraltro utile e sacrosanta, specie se si va a farla nelle scuole), perché non proviamo a rivoluzionare i luoghi in cui siamo soliti nascondere i malati gravi e i morenti?

Le cure palliative dovrebbero continuare la loro opera di istanza critica nei confronti della biomedicina, ma anche nei confronti di loro stesse, per evitare il rischio di diventare solo una branca della medicina (a maggior ragione ora che c’è una Scuola di specialità in cure palliative), e riuscire invece a progettare sempre nuovi modi di integrare la morte nella vita.

Che ne pensate?

Cure palliative in hospice: quando e come? Intervista ad Alessandro Valle, di Marina Sozzi

Alessandro Valle, oncologo e palliativista, è il direttore sanitario della Fondazione Faro di Torino, ente del Terzo settore che si occupa di cure palliative sia domiciliari sia residenziali.
Ricordiamo innanzitutto ai lettori di
Si può dire morte cosa è l’hospice?

Talvolta si pensa erroneamente che in hospice debbano essere curati i pazienti più gravi. Viceversa, l’hospice è un luogo di cura residenziale specialistico di cure palliative, alternativo alla casa, utile quando le persone, per motivi soprattutto ambientali, non possono essere assistite a domicilio.

Quali sono i principali motivi per cui si opta per l’hospice piuttosto che per la casa?

Per essere seguiti a casa da un centro di cure palliative specialistiche domiciliari occorre una continuità assistenziale da parte dei familiari di 24 ore su 24, vista la gravità dei malati che usufruiscono di questi servizi. I medici e gli infermieri fanno visite frequenti a domicilio, ma il resto del tempo è gestito dai congiunti, o da assistenti familiari, quando questi ultimi vengono attivati. Se si manifesta un sintomo improvviso, acuto, grave, che desta spavento, il malato non deve evidentemente trovarsi da solo. La nostra società non favorisce molto questo accudimento domiciliare, innanzitutto per la struttura spesso complicata delle famiglie. E non tutte le famiglie possono permettersi gli assistenti familiari a pagamento.

Stando così le cose, com’è la situazione italiana degli hospice? Ce ne sono a sufficienza?

No, non sono ancora sufficienti, sono sottodimensionati sia in Italia sia nella nostra regione, il Piemonte. Lo sono già per i pazienti oncologici, rispetto ai dati epidemiologici. Ma c’è uno spaventoso sottodimensionamento se si considera l’esigenza di implementare le cure palliative anche per le patologie non oncologiche. Tanto più che, tra le cause di morte identificate dall’Istat, le più frequenti patologie oncologiche arrivano al quarto/quinto posto, mentre le prime tre sono: la cardiopatia ischemica, lo stroke e la broncopatia cronico ostruttiva. Specialmente quest’ultima presenta il bisogno (spesso disatteso) di essere seguita con cure palliative.

Le cure palliative, dal punto di vista delle competenze, sono pronte a rispondere a questi bisogni?

E’ una domanda che merita due riflessioni: la prima è che, dal punto di vista della ricettività, sia domiciliare che hospice, le cure palliative non sono pronte. Già oggi, come dicevamo prima, anche mettendo insieme le risorse del Servizio Sanitario Nazionale e del Terzo settore, non riusciamo a soddisfare il bisogno di cure palliative; la situazione peggiorerà quando aumenterà la richiesta da parte di pazienti affetti da patologie non oncologiche. La seconda riflessione riguarda la mentalità ancora “onco – centrica” di molti palliativisti. Infatti, non tutti i centri di cure palliative specialistiche sono formati adeguatamente per seguire le altre patologie, e troppi palliativisti  tendono ancora a interpretare le cure palliative solo come cure di fine vita. C’è quindi ancora molta strada da fare. Bisogna formare i palliativisti, e sensibilizzare, oltre che formare, gli specialisti.

Cosa significa dirigere un hospice? Che problematiche specifiche ci sono?

Le maggiori difficoltà in hospice si incontrano nel sostenere i familiari. Se si è optato per l’hospice, talvolta è perché la famiglia non può essere presente, o l’abitazione non è adeguata, ma spesso è anche perché i parenti faticano a fronteggiare la sofferenza e la morte imminente del proprio caro. Le difficoltà di accettazione implicano momenti di rabbia, frustrazione, di colpevolizzazione degli operatori. Questa realtà è forse, dal punto di vista assistenziale, la parte più impegnativa. Poi ha molta importanza anche la dimensione organizzativa, l’interazione con il personale. Chi dirige deve essere presente, accogliente con gli operatori quando si trovano in situazioni difficili, ma anche in grado di riorientare il percorso tenendo alta l’asticella sia della competenza scientifica sia dell’accoglienza, entrambe fondamentali in un contesto di cure palliative residenziali.
Tenere alto il livello della competenza relazionale è la sfida più difficile. Nelle organizzazioni non profit il rischio di avere personale non adeguato al delicato compito affidatogli è minore in confronto all’ambito pubblico. La Fondazione Faro, che io dirigo, ad esempio, opera una selezione molto accurata del personale. C’è un primo colloquio di accoglienza e un piano di formazione; l’inserimento al lavoro avviene dopo un esame individuale, con un semestre di prova. In ambito pubblico vi sono i concorsi per accedere ai posti di lavoro in cure palliative, ma spesso, anche per ragioni amministrative, non può essere garantito il dispendio di energie e risorse necessarie per avere personale davvero formato.

Le cure palliative sono anche importanti per una più equa distribuzione delle risorse in sanità?

Sì, oltre al migliore accudimento dell’ammalato, c’è anche un risparmio. Risparmio che dipende soprattutto dall’evitamento di costi inutili, che scaturiscono da ricoveri ospedalieri inappropriati. Una buona assistenza, con un corretto controllo dei sintomi (anche quelli estemporanei, come le crisi respiratorie o un dolore acuto improvviso), evita il ricorso all’ospedale.
Nei Pronto Soccorso spesso vengono effettuati  accertamenti diagnostici o prese decisioni terapeutiche che sono futili alla fine della vita. Quando un malato in fin di vita accede a un Pronto Soccorso, ciò accade generalmente perché i familiari sono disperati, si scompensano, possono anche essere un po’ aggressivi, e ciò innesca sovente il meccanismo spiacevole della medicina difensiva, che contribuisce ad aumentare gli interventi eseguiti, con un ulteriore esborso di risorse (e maggiore sofferenza per il malato). Il ricovero in hospice azzera gli ingressi al Pronto Soccorso.
C’è un altro problema economico indiretto, che sta emergendo, e che riguarda le ore di lavoro perse dai familiari, che devono seguire i loro congiunti in percorsi in Pronto Soccorso o in conseguenti ricoveri ospedalieri.
Ormai moltissimi studi evidenziano l’efficacia delle cure palliative per lenire le sofferenze delle persone. E questo, come sanitario, è l’aspetto che mi interessa di più. Ma gli studi evidenziano anche il circolo virtuoso che le cure palliative creano nell’utilizzo delle risorse. Nelle aziende sanitarie, però, manca sovente la visione d’insieme: ogni area costituisce un centro di costo, e il dirigente incaricato non deve sforare, ma manca una figura apicale che implementi le cure palliative sapendo che questo porterà a un risparmio e a un migliore utilizzo delle risorse che ricade su tutta l’azienda.

Voi avete esperienza di vostri cari che sono stati curati in un hospice? Volete raccontarci come vi siete trovati?

Cure palliative: tutt’altro che un palliativo.


Ho ricevuto, dalla dottoressa Silvia Francone, alcune pagine di un diario delle sue prime esperienze da infermiera in cure palliative. Silvia ha lasciato un lavoro gratificante dal punto di vista economico e sociale per fare l’infermiera. Ed è approdata alle cure palliative.
Pubblico volentieri qualche stralcio di questo diario: troppe persone ignorano cosa siano le cure palliative, e le parole di chi ci lavora con passione parlano meglio di mille trattati.

Lunedì e martedì in hospice.
Le cure palliative costituiscono un universo a parte. In hospice, fra mura di colori caldi, le finestre diventano affreschi verdi e il tempo non è kronos ma kairos, si dilata e profuma di sacro. I pazienti sono pochi, al massimo otto, ma la loro presenza riempie ogni angolo di quello spazio, con il loro respiro, con i loro ricordi, con sguardi che accarezzano e si lasciano accarezzare, con la loro stanchezza che è raccoglimento, bisogno di staccarsi da ciò che è al di fuori per avvolgere il proprio io interiore. Un distacco che solo chi ha potuto risolvere ogni sospeso riesce a vivere sereno, permettendo al corpo di abbandonarsi, agli occhi di chiudersi, in un riposo che chi è intorno sa rispettare e proteggere. Chi si prende cura di loro lo fa in punta di piedi, con un’attenzione delicata, cercando di cogliere, e accogliere, il più piccolo disagio. Tutti operano con lo stesso obiettivo: permettere ai pazienti di vivere quel tempo al meglio. Tutto è colore: i disegni sulle lenzuola, le coperte, le tazze. Si prova a dare colore e calore a kairos, parola che in greco significa momento opportuno, e tempo/spazio sacro.
L’attenzione ai dettagli la si legge, letteralmente, nelle cartelle: riportano l’essenziale ma anche ogni particolare, ogni risveglio, ogni posizione assunta, ogni visita: ciò che provoca dolore e ciò che dà o può dare gioia.
Sulla lavagna, nello spazio comune, è segnato l’imminente compleanno di due pazienti. Va festeggiato, non per allungare quantitativamente una vita ma perché rappresenta una progettualità vicina, realistica. Lo stesso impegno mettiamo nel trasformare il desiderio di una paziente di “ritirare la pensione”, o di rivedere il proprio cane in obiettivi realizzabili.
C’è un aspetto organizzativo particolare: è l’equipe dei curanti che gira intorno alle esigenze del paziente, e modifica la propria organizzazione per adattarsi ai ritmi della persona assistita. il personale evita di svegliare chi dorme rimandando le cure igieniche e le terapie non essenziali al suo risveglio. Il paziente è davvero posto al centro, e con lui la sua famiglia.

Mercoledì cure palliative domiciliari.
Oggi altra esperienza: entrare nella casa di persone morenti, respirarne gli odori, osservare le foto disposte un po’ ovunque che ritraggono l’originale di corpi di cui resta solo l’ombra. Istanti di vita sospesi che si offrono a chi è disposto ad aprirsi ad essi.
La prima visita è a un signore seduto accanto ad un caminetto spento in una casa calda, i modi eleganti come i mobili, io su una poltrona accanto alla sua. Per un istante la mia collega si allontana, seguita dalla moglie e lui mi dice: “Speravo fosse più veloce, finisse prima”. Parole che aspettavano l’occasione di diventare suono, parole che una moglie sempre presente non saprebbe accogliere. Lo guardo negli occhi, poso la mia mano sul suo braccio, gli rispondo: “Forse ci sono ancora delle cose che deve fare”.
“Non posso più far niente”.
“Può parlare, con suo figlio…con altri”.
“Ma io non ho fatto le scuole alte”.
“La saggezza non si acquisisce a scuola, e nei suoi occhi è scritta”.
Silenzio. La moglie premurosa ed attenta è arrivata.

Vorrei chiedere ai miei lettori di raccontare qualche brandello di esperienza nelle cure palliative. Esperienze da curanti, o anche da familiari.

I giovani e la morte

Ho fatto un’esperienza che desidero raccontarvi: ho incontrato liceali che riflettono sulla vita e sulla morte con la competenza e la consapevolezza di vecchi saggi. Un’esperienza che ci aiuta, forse, a smettere di rimpiangere i bei tempi andati e ci chiama a dare opportunità serie ai giovani.

E’ accaduto alla presentazione di PRELUDI, il volume di cui sono stata invitata a parlare al Salone internazionale del Libro a Torino, insieme (con mia grande gioia) a una delle mie scrittrici preferite, Michela Murgia, al dottor Carlo Peruselli e a Helena Verlucca, (Hever Edizioni) editore del volumetto.

Il libro è stato scritto da studenti del Liceo scientifico Gramsci di Ivrea, e parla di morte. L’idea è stata del sindaco di Ivrea, Carlo della Pepa, che è anche medico dell’Hospice di Salerano, gestito dall’Associazione Casa Insieme: i ragazzi sono stati invitati a visitare l’hospice, accompagnati dai loro insegnanti. Hanno attraversato il parco con le piante secolari, hanno raggiunto l’antica villa silenziosa, sono entrati nelle sale comuni, hanno letto il diario degli ospiti dell’hospice, hanno visto i morenti, si sono immedesimati in chi si sta avvicinando alla morte, si sono commossi, hanno riflettuto sulla fine della vita, e poi hanno scritto racconti, e ciascuno di loro ha immaginato come protagonista un morente.

Hanno narrato di malati che si conciliano con la propria morte, hanno paura e la superano, come la musicista del racconto Silenzio, che dice:
“Non c’è canzone che non finisca, il silenzio è necessario, per pensare, comporre, dare spazio agli altri o semplicemente stare lì, ad ascoltarlo (…) Aver paura della morte è come aver paura del silenzio e un musicista non ha, non può avere, paura del silenzio, perché senza di esso non esisterebbe la sua musica. Il silenzio permette di creare una nuova melodia, il silenzio è l’ultima cosa che si sente prima di iniziare l’esecuzione di un brano e, alla fine di ogni concerto, prima o poi torna a regnare il silenzio”.
Questi ragazzi hanno mostrato di aver profondamente compreso la necessità del morire, di essere consapevoli della strana e umanissima coesistenza di gioia e dolore, facendo fiorire, nei loro scritti, una concezione della felicità profonda e non stereotipata. Altro che veline e calciatori!
Hanno capito che per accompagnare chi muore occorre semplicemente stare, esserci, e saper ascoltare, come quella bimba del racconto La sarta del Paradiso, che ogni giorno dopo la scuola si reca in hospice dalla nonna e trascorre con lei il pomeriggio. Hanno colto quante cose può avere da raccontare chi muore: “All’hospice ogni paziente è importante, ogni paziente ha la sua storia e ad ogni paziente vengono riservate tutte le attenzioni possibili. A volte sono sufficienti le orecchie per ascoltare, anche perché non si deve pensare che alla fine di un viaggio loro non abbiano più niente da raccontare.”

Questo libro è un insieme di esperienze davvero uniche: per questo motivo vi invito ad acquistarlo e a rifletterci (Autori Vari, Preludi, Hever 2012). Senza dimenticare che il ricavato delle vendite è devoluto all’Hospice di Salerano.

E, come di consueto, chiedo la vostra opinione: cosa pensate di questa iniziativa di mettere i ragazzi a contatto con l’esperienza del morire? Come potrebbe essere replicabile? Come preparereste vostro figlio, se potesse fare la stessa esperienza?