Tanatologia digitale e formazione, di Davide Sisto
Nel corso degli ultimi anni, su questo blog, ho spesso raccontato e descritto le più svariate conseguenze generate dall’uso delle tecnologie digitali sulla comprensione umana del ruolo della morte nella vita, nonché nell’ambito dell’elaborazione del lutto e sul modo di conservare la memoria e di desiderare, eventualmente, l’immortalità.
Il progresso tecnologico avanza con una velocità tale da rendere sempre più pervasivo l’utilizzo intergenerazionale delle piattaforme digitali. Fino a qualche anno fa era normale servirsi dell’espressione “nativo digitale” per stabilire un implicito confine tra generazioni. Oggi, invece, siamo uniformemente concordi nel credere che il futuro prossimo sarà contraddistinto da cittadini di ogni età abituati a considerare le tecnologie digitali come strumenti irrinunciabili per lo svolgimento della vita quotidiana, quasi come vere e proprie protesi di sé. A prescindere dal fatto che questo ci piaccia oppure no. La consapevolezza della continua espansione della dimensione online e del carattere imprescindibile degli smartphone e dei computer mi fa pensare quanto segue: è giunto il momento di introdurre – in maniera ufficiale e non procrastinabile – la cosiddetta “tanatologia digitale” nei percorsi formativi ed educativi dei medici, degli operatori sanitari, degli psicologi, dei palliativisti e degli educatori in senso lato. In altre parole, occorre prendere coscienza che la relazione tra le tecnologie digitali e il fine vita non è più di natura rapsodica, magari limitata a specifici target di età o a particolari gruppi di cittadini particolarmente avvezzi alle tecnologie. È, semmai, una relazione che riguarda l’intera cittadinanza e che produce continuamente sia nuove opportunità sia, soprattutto, inedite criticità. La conoscenza attenta di entrambe diventa, pertanto, fondamentale per non aumentare le difficoltà e le sofferenze che già viviamo di per sé durante l’ultima fase della vita personale o di quella dei propri cari.
Quali sono, nel dettaglio, gli aspetti che rendono necessaria una sorta di “tanatologia digitale” nei percorsi di formazione? In primo luogo, l’aspetto comunicativo. È già ricorrente di per sé il problema della comunicazione faccia a faccia tra il medico, il paziente e i familiari del paziente in presenza di una malattia mortale o, in alternativa, radicalmente invalidante. Un problema che è particolarmente sentito a partire dal processo di rimozione sociale e culturale della morte e dalla riduzione della malattia a un tabù. Lo sviluppo della telemedicina, accelerato dalla pandemia da Covid-19, sta generando nuove forme di comunicazione che avvengono perlopiù in maniera scritta, tramite applicazioni di messagistica privata come WhatsApp o via mail, a cui si aggiungono le ricerche individuali attuate su Google. È, di conseguenza, fondamentale comprendere le differenze comunicative in presenza e a distanza, tramite parole espresse a voce o per iscritto, di modo da non incrementare le incomprensioni, le ansie, i dolori e le sofferenze delle persone. I registri linguistici e simbolici sono differenti, di conseguenza lo sono altrettanto i problemi che derivano dal loro uso. L’aspetto comunicativo include, poi, la gestione dei social media durante una malattia mortale: ogni singolo individuo ha un rapporto differente con i social, dunque risulta doveroso intercettare le sue modalità comunicative affinché i social diventino uno strumento di sostegno e non un problema in più. Tra l’altro, i singoli social si differenziano gli uni dagli altri, pertanto bisogna districarsi tra le peculiarità di Facebook, Instagram, YouTube, Tik Tok e via dicendo. E, ancora, come fare con l’eredità digitale? Cancellare preventivamente i propri profili? Mantenerli in vita? Darli in gestione a persone fidate? La risposta a queste domande chiama in causa, in secondo luogo, il lutto e la sua elaborazione. Oramai, ognuno di noi conserva una quantità incalcolabile di tracce delle persone amate, come mai successo in passato: parole scritte, messaggi vocali, fotografie, registrazioni audiovisive. Queste tracce tendono sempre più a rappresentare un prolungamento digitale dell’identità individuale (ormai, è diffusa tra gli studiosi l’espressione di “carne digitale” per descrivere questo prolungamento sul piano emotivo). Pertanto, è in costante aumento il numero dei dolenti che faticano a intraprendere un sano percorso di elaborazione del lutto, circondati da così tanti documenti i quali sembrano mantenere vivi i propri cari defunti. Sono sempre più numerosi coloro che proiettano sul proprio smartphone o su quello del caro defunto la possibilità di un contatto attivo, trascendendo in maniera patologica il mero ricordo o creando ibridazioni inedite tra le ritualità religiose assodate e quelle prodotte dalle tecnologie.
Questi sono solo alcuni dei tanti temi che occorre tenere a mente, man mano che mutano le caratteristiche delle società all’interno di cui nasciamo, cresciamo e moriamo. Mi pare miope e inconcludente escludere l’importanza della relazione tra tecnologie digitali e fine vita, a causa di pregiudizi individuali o di sospetti nei confronti di un’epoca storica particolarmente incentrata sulla tecnica e sulla tecnologia. Ancor di più, considerando che ci stiamo muovendo nella direzione del Metaverso e della realtà virtuale.
Cosa ne pensate? Ritenete sensate queste preoccupazioni? Attendiamo con interesse i vostri commenti, dubbi e riflessioni.
Come volontario in una ODV operante in Piemonte sto’ cercando di implementare un servizio presso l’Hospice che utilizzi dei visori virtuali da utilizzare da parte degli operatori sanitari e avente come utilizzatore finale il paziente.Non è facile ma confido nella riuscita.Avevo preso spunto dalla lettura di un articolo riguardante un esperimento fatto in GB dove i risultati di tale progetto aveva ottenuto degli ottimi risultati a livello psicologico sia per i pazienti che per gli operatori che i familiari.Chiaramente i video installati sono di un genere rilassante e di una durata non eccessiva in quanto devono essere sostenuti da pazienti molto fragili.
È un esperimento interessante che ha, alle spalle, risultati decisamente positivi. Siamo agli inizi, dunque c’è un po’ di prudenza, tuttavia credo sarà la strada da percorrere