Intervista a Ludovica De Panfilis, di Marina Sozzi
Abbiamo intervistato Ludovica De Panfilis, che lavora come ricercatrice sanitaria e bioeticista presso l’Azienda USL-IRCCS di Reggio Emilia. Una figura unica in Italia, che può essere di ispirazione per chi si occupa di cure palliative in Italia.
In cosa consiste il tuo lavoro in ospedale?
Cinque anni fa ho avuto il compito di creare un’unità di bioetica all’interno dell’IRCCS. Il progetto era sperimentale, e si intitolava “La bioetica al letto del paziente”. Io cercai di dimostrare che si poteva fare ricerca sui temi dell’etica della cura, e che questo tipo di ricerca aveva effetti sulla qualità della cura e della vita dei pazienti.
Si trattava di una ricerca bioetica diversa da quella che si fa in ambito accademico: non era una ricerca teorica di filosofia morale, ma entrava nelle dinamiche della relazione di cura. E’ un tipo di ricerca che propone l’implementazione di nuovi servizi e ne misura gli effetti (ad esempio l’aumento della pianificazione condivisa delle cure, la soddisfazione dei pazienti nei confronti dell’atteggiamento degli operatori sanitari rispetto a certi processi decisionali; la valutazione della formazione, l’aumento delle competenze etiche).
L’approvazione della legge 219 alla fine del 2017 ha dato un impulso enorme a queste ricerche, l’etica è divenuta all’improvviso importante. Noi lavoriamo soprattutto con le cure palliative, ma anche con il laboratorio di procreazione medicalmente assistita, con il dipartimento di salute mentale, la neonatologia…
Il bioeticista è diventato una figura ricercata dall’équipe, e ho dovuto destinare delle ore non solo alla formazione, ma anche alla supervisione degli operatori che si confrontano con situazioni eticamente complesse.
Per scelta, invece, non interagisco mai con i pazienti direttamente, per non rischiare di creare confusione con altre figure: lo psicologo, l’assistente sociale.
Questa realtà che mi stai descrivendo, e che certamente è un’eccellenza, esiste altrove o è un unicum in Italia?
Ho cercato altre figure come la mia perché ho avuto l’esigenza di confrontarmi, ma ho trovato solo i Comitati per l’etica nella clinica, che non lavorano sulla sperimentazione, e spesso non riescono a raggiungere i problemi reali. Ho trovato però conforto nella realtà internazionale, soprattutto in America, dove le figure che svolgono il mio lavoro sono obbligatorie per ospedali che superino un certo numero di posti letto.
Penso che l’accademia avrebbe dovuto far virare la bioetica verso questo tipo di ricerca, che avrebbe dato un senso nuovo agli studi di bioetica. È un’occasione persa.
Com’è il tuo percorso?
Mi sono laureata in filosofia, poi ho sentito parlare degli hospice, e nel 2011, appena laureata, sono andata a fare il Master in cure palliative di Bentivoglio, che allora permetteva l’accesso a tutte le lauree. Durante il Master ho capito che la ricerca sarebbe stata la mia strada, e ho poi fatto il dottorato di ricerca in giurisprudenza.
Come mai secondo te la collaborazione più stretta, nella tua azienda, ce l’hai con le cure palliative?
Secondo me le cure palliative sono intrise di questioni etiche: credo che le competenze etiche siano importanti per gli operatori di cure palliative tanto quanto quelle relazionali, comunicative o cliniche. Sono competenze che si concretizzano nel saper accompagnare una persona a prendere una decisione. Non è affatto semplice. Quando ho scritto le mie disposizioni anticipate di trattamento (ci rifletto tutti i giorni) ho pensato “che fatica!”. In cure palliative, quando un paziente desidera concludere la sua vita in modo coerente con il modo in cui l’ha vissuta, le competenze etiche degli operatori diventano fondamentali. Inoltre, il significato più profondo delle cure palliative è quello di essere una medicina orientata alla condivisione delle responsabilità, e delle scelte. Le cure palliative possono trovare nell’etica sia delle risposte che degli strumenti.
Quali sono i nodi più importanti dell’etica nelle cure palliative?
Il primo tema centrale in questi anni è quello della pianificazione delle scelte. La pianificazione condivisa delle cure è un percorso, che si fa con il paziente, che lo porta a prendere decisioni concrete basate sui suoi valori. È importante saper riconoscere il dilemma etico nei pazienti, saper entrare nella relazione di cura con una persona, senza spingere nella direzione che il medico ritiene quella giusta o migliore. Perché anche in cure palliative c’è il rischio di “paternalismo palliativo”.
Lo stesso tema della sedazione profonda continua è intriso di etica, in quanto la scelta di perdere la coscienza fino al momento della morte deve essere condivisa, affinché possa essere vissuta bene da tutti gli attori. Occorre poi distinguere tra l’autonomia teorica e l’autonomia che si concretizza in scelte, in diritto all’autodeterminazione. Il bioeticista presente nelle riunioni d’équipe è importante per permettere agli operatori di riconoscere i temi etici, che spesso mettono in crisi un’équipe e che non vanno confusi con i problemi psicologici, o anche organizzativi, come talvolta accade. Si pensi inoltre al grande mistero della fine della vita, di cui le cure palliative si occupano, e su cui l’etica (e prima ancora la filosofia) si interrogano da che le conosciamo. Le cure palliative trovano nell’etica la strumentazione per affrontare tutti questi problemi.
Inoltre, è possibile che in futuro i palliativisti dovranno confrontarsi con il tema del suicidio assistito, anche se loro sperano di no, ma capiterà, in qualità di esperti di fine vita.
Hai parlato di paternalismo palliativo. Ho visto che hai scritto un articolo sul nudge, ossia sul paternalismo gentile. Puoi raccontarci qualcosa a questo proposito?
Noi facemmo un progetto di ricerca che si chiamava Teach for ethics in palliative care, il cui obiettivo era formare dei professionisti sanitari affinché potessero fare consulenza etica ai pazienti e supervisione etica ai colleghi. Durante questo corso era emerso che la tendenza a indirizzare il paziente verso ciò che i professionisti ritenevano giusto fosse qualcosa di intrinseco, che non riuscivano a controllare. Andando a cercare della letteratura che ci aiutasse a riflettere su questa tendenza trovammo il volume del 2014 di Sunstein e Thaler intitolato Nudge. La spinta gentile.
Il concetto proposto dagli autori è noto: gli uomini hanno debolezze sia psicologiche che cognitive, sono inclini all’inerzia, ai pregiudizi, all’incapacità di previsione, all’errore di prospettiva, sono spesso confusi sul loro vero interesse e pertanto hanno bisogno di essere guidati. C’è quindi bisogno di “utili suggerimenti”, in grado di neutralizzare i pregiudizi, l’emotività, la pigrizia mentale dei singoli individui, e di orientare così le scelte verso scopi riconducibili al bene dell’individuo, che talvolta lui stesso non riconosce. È il paternalismo libertario di cui parlano i due autori, giustificato, dal loro punto di vista, anche dal fatto che l’assoluta neutralità e oggettività, nel presentare le varie opzioni, non è possibile umanamente. In che modo vi è servito questo volume?
Inserimmo all’interno del corso di formazione un Focus Group dedicato al tema delle spinte gentili: infatti ci accorgemmo che in cure palliative non si parlava affatto di paternalismo libertario, eppure si trattava di un atteggiamento presente anche se del tutto involontario. Concludemmo che il nudging era un concetto attraente ma pericoloso, perché rischiava di non favorire l’autonomia del paziente. La consulenza etica invece poteva essere uno strumento per aiutare i pazienti a decidere in maniera autonoma (ma condivisa) ciò che era importante per loro. Uno dei metodi per evitare di utilizzare questa sorta di spinta involontaria era incoraggiare l’autonomia relazionale. Il nudging è molto utile in alcuni contesti, anche di salute pubblica, ad esempio, ma non nella relazione di cura.
Dimmi se interpreto bene: l’autonomia si realizza proprio nella dimensione della relazione di cura, perché l’autonomia non è qualcosa che possediamo dalla nascita come caratteristica a priori, ma è qualcosa che si raggiunge nella relazione con altri.
Esattamente.
Inoltre, io credo che quando ci si ammala e si inizia a diventare dipendenti dagli altri l’idea di autonomia astratta decada. Si può lavorare su un’autonomia contestuale e quindi cercare di arrivare all’obiettivo di aiutare le persone ad essere veramente autonome.
Ho visto il volume a tua cura Teach to Talk, Apprendere per comunicare, appena uscito. Di cosa si tratta?
Questo è stato un bel progetto pensato e voluto dalla dottoressa Tanzi. Noi ci siamo conosciute durante il master in cure palliative: eravamo tutte e due molto giovani e condividevamo l’idea dell’importanza di un’etica della comunicazione. Il libro parla di una comunicazione che non è solo efficace, che non è solo empatica, ma è soprattutto autentica. Ci siamo interrogate anche su come formare gli operatori a questo tipo di comunicazione, andando al cuore della relazione comunicativa.
Cosa ti ha cosa ti aspetti nel futuro? Come pensi che questa tua professionalità sarà ulteriormente spendibile?
Penso che arriveranno altre spinte normative a sottolineare l’importanza di questa professionalità. Mi viene in mente, ad esempio, il testo che è stato depositato alla Camera sulla morte volontaria: magari ci vorranno altri dieci anni ad approvarlo, ma la società civile domanda.
Il mio sogno sarebbe trasferire il modello che a Reggio Emilia sta funzionando nel maggior numero possibile di luoghi di cura. Mi piacerebbe che si creasse una schiera di persone che fanno il mio lavoro, con l’obiettivo di migliorarsi sempre, di non pensare mai di avere la verità in tasca, ma anzi di mettersi sempre in questione attraverso la ricerca.
Personalmente, poi, mi piacerebbe dedicarmi solo alle cure palliative.
Come mai questo interesse specifico per le cure palliative?
Le cure palliative devono restare fedeli a se stesse: l’etica completa il profilo del palliativista. Inoltre, nell’attivazione precoce delle cure palliative, di cui oggi si parla tanto, i valori, le preferenze e gli obiettivi della persona sono imprescindibili. Le maggiori soddisfazioni inoltre vengono da lì, la Società italiana di Cure palliative è molto attenta alla dimensione etica. L’etica permette alle cure palliative di mantenere viva la loro coscienza critica nei confronti della biomedicina.
Ciao Marina, grazie per avere intervistato Ludovica, ricercatrice di eccellenza e persona straordinaria.
Da medico palliativista e ricercatore dico che l’esperienza di Ludovica, che porta la bioetica al letto del paziente e all’interno delle discussioni cliniche nelle cure palliative (e non solo), è una buona pratica clinica e dovrebbe essere implementata in molti contesti di cura. Decidere in medicina è un processo complesso che prevede interazioni oggettive, (cioè scientifiche, basate sulle prove di efficacia) e soggettive, (cioè basate sui valori, le aspettative le scelte dei pazienti e dei loro cari). Questo equilibrio è fragile e sottile e c’è bisogno ci professionisti (come Ludovica) che ci aiutino nei processi decisionali. C’è anche la soggettività dei professionisti da considerare, non dovrebbe influenzare più di tanto, ma la realtà è che ciascuno di noi porta sè stesso anche nelle relazioni professionali. Termino con un commento sulla spinta gentile. Lo dico da medico, so bene che siamo portati a indurre le persone a scegliere ciò che noi crediamo essere il meglio per loro. E’ importante esserne consapevoli per esprimerlo, dichiararlo e riconoscere quando è il momento di non spingere più. A volte un atteggiamento di nudging ci viene richiesto nella relazione di cura. Penso a tutte le volte nelle quali le persone vorrebbero fare una scelta terapeutica e non ne hanno il coraggio e ci chiedono (anche non verbalmente) di dare loro una piccola spinta per mettere nero su bianco le loro decisioni. In questo caso non sei tu che fai prendere ad altri decisioni non volute, ma li accompagni professionalmente verso una decisione matura, ma difficile da ratificare. Detto questo ritengo che questo aspetto della bioetica sia poco conosciuto in ambito sanitario, anche noi siamo spinti gentilmente (a volte non troppo) da altri a prescrivere o non prescrivere determinati farmaci o presidi in base ad interessi di altri…
Un caro abbraccio ad entrambe.
Simone
Grazie Simone. Se figure come la mia possono essere d’aiuto è anche grazie a professionisti (come te) che sanno farle spazio e aprire a questi temi nella relazione di cura, cosa non facile né immediata. Un abbraccio
Trovo molto interessante l’intervista e la possibilità di inserire figure come queste nei luoghi di cura. Personalmente non vedrei nulla di male che potessero interagire anche direttamente con i/le pazienti. In fondo basta presentarsi in maniera chiara.
Grazie per questo commento… in effetti è una evoluzione interessante del mio lavoro che non escludo del tutto, ma per la quale servono competenze ulteriori, credo…. chi lo sa, la strada è lunga e vediamo dove porta!
Trovo molto interessante l’intervista e la possibilità di inserire figure come queste nei luoghi di cura. Personalmente non vedrei nulla di male se potessero interagire anche direttamente con i/le pazienti. In fondo basta presentarsi in maniera chiara.
Grazie Marina! tema molto interessante e l’intervista arriva tempestiva dato che mercoledì dovrò ragionare di suicidio assistito ed Eutanasia e sono reduce dallo studio del parere del Comitato Nazionale di Bioetica sul punto…
In bocca al lupo per il suo intervento sul suicidio assistito. Abbiamo bisogno di riflessioni ponderate e che approfondiscano la questione senza ideologismi e con cognizione di causa. Buon lavoro!
Grazie Marina per l’intervista alla ricercatrice: ritengo che una figura professionale come la sua sarebbbe un valore aggiunto nell’equipe di cure palliative. Credo inoltre che sarebbe utile una serie di incontri negli Hospice con tutti gli operatori per calare nella realtà il lavoro dell’eticista.
Grazie e concordo con lei: il lavoro con le equipe degli hospice è per me fondamentale. Il senso del mio lavoro si radica nella relazione con quello che accade nella realtà, per rispondere ai bisogni reali dei professionisti e dei loro pazienti. E poi sono alcuni dei momenti più belli! Grazie
Il grande Edmund Pellegrino diceva che nel XXI secolo la bioetica avrebbe lasciato le aule accademiche e sarebbe tornata là dov’era nata, cioè “al letto del malato”. Tutta l”intervista mi sembra un ottimo segnale in questa direzione!
Mi vengono in mente i “pazienti fondatori” spesso citati da Cicely Saunders: tutta la nostra storia è radicata nella reciprocità e nella condivisione di “storie uniche” da cui nascono rielaborazioni, principi e valori.
Trovo stimolante il tema del “nudge” e del “paternalismo palliativo” e condivido le attente riflessioni di Simone Veronese: il rischio di “proiettare” i nostri personali valori esiste, ma d’altra parte tra i bisogni fondamentali nelle situazioni di fragilità e crisi ci sono anche la ricerca di “affidamento” e “guida”. Anche questo è un tema che riconduce a una seria riflessione etica da “giocarsi” nel rapporto personale innanzitutto. Grazie
Grazie Marina e Ludovica. Non ho esperienza diretta, ma il tema mi interessa molto e questo modello emiliano mi pare prezioso. L’inserimento di una figura di questo tipo all’interno di una équipe del SSN pubblico va evidentemente nella direzione dell’approfondimento della riflessione attraverso il confronto tra apporti disciplinari e approcci diversi e quindi di scelte condivise in merito alla garanzia del rispetto dell’autonomia della persona nelle scelte legate al fine vita. Questione molto delicata e complessa all’interno della relazione di cura. Ho trovato particolarmente interessanti la sottolineatura del rischio del “paternalismo gentile” e le considerazioni sul concetto di autonomia.