Il valore della morte, di Marina Sozzi
«La storia del morire nel ventunesimo secolo è la storia di un paradosso». Milioni di persone sono sottoposte ad accanimento terapeutico negli ospedali, e le famiglie e le comunità non sono più protagoniste della morte dei loro membri, hanno perso competenza e tradizioni.
Da quando, nelle ultime generazioni, il morire è gestito dalla sanità, cure futili e inappropriate continuano ad essere praticate negli ultimi mesi, giorni e addirittura ore di vita. Si spendono, per cure futili negli ultimi mesi di vita, cifre eccessive, che non apportano alcun beneficio alle persone. In molti casi servono solo ai curanti per poter evitare di parlare di morte con i loro pazienti. Le cure palliative, che sarebbero la risposta più adeguata, non sono ancora sufficientemente accolte ed applicate nel mondo.
Ma, cosa ancora peggiore, centinaia di milioni di persone non ricevono invece le cure necessarie, muoiono per malattie che potrebbero essere guarite e non hanno neppure accesso ai farmaci antidolorifici. Il modo in cui si muore è ancora gravido di diseguaglianze, dipende dalla porzione di mondo in cui si vive, dalla situazione economica, dal genere, dall’etnia, dall’orientamento sessuale.
Da queste considerazioni prende le mosse la riflessione della Commissione Lancet sul tema della morte, pubblicata al fine di gennaio di quest’anno, che potete leggere integralmente qui.
A cosa dobbiamo tutto questo?
Secondo la Commissione il cambiamento climatico, la pandemia, la distruzione dell’ambiente, e l’atteggiamento dominante nei confronti della morte tipico dei paesi ricchi hanno un’unica e medesima origine: l’illusione di avere un controllo sulla natura, come se l’uomo non ne facesse integralmente parte.
Si tratta ora, scrive la Commissione, di riscoprire il valore della morte: sì, proprio il valore. Perché vita e morte sono saldamente intrecciate e non esisterebbe l’una senza l’altra.
Occorre modificare il modo in cui comprendiamo, esperiamo e gestiamo la morte, e per farlo occorre trasformare al contempo numerosi fattori sociali, culturali, economici, religiosi e politici.
La Commissione Lancet pone cinque principi di un’utopia realistica alla quale lavorerà nei prossimi anni. Auspica cioè:
1) Che siano affrontate e superate le differenze sociali di fronte al morire e al lutto
2) Che la morte sia compresa come processo relazionale e spirituale, e non come evento biologico
3) Che ci siano per tutti reti di cura e di sostegno per il morire e per accompagnare la perdita e il lutto.
4) Che diventino comuni e correnti i discorsi sul tema della morte e della perdita
5) Che la morte sia riconosciuta come qualcosa che ha un alto valore.
Vorrei concentrarmi su questo termine, “valore”, che sembra stravagante e irritante in un’epoca come la nostra, nella quale facciamo tanta fatica ad accettare la morte, anche quando arriva in età avanzata, dopo una lunga vita soddisfacente. E che, a maggior ragione, ci appare come una terribile ingiustizia quando arriva precocemente. Viviamo in un mondo che tende a negare alla morte ogni valore. E allora in quali sensi la Commissione di Lancet fa riferimento al “valore della morte”?
Senza la morte, scrive, “ogni nascita sarebbe una tragedia”, e la civiltà sarebbe impossibile. La morte è un meccanismo omeostatico necessario alla vita: i vecchi lasciano il posto ai giovani e questo ricambio permette sia l’evoluzione sia il rinnovamento. Già Anassimandro, nell’antica Grecia, scriveva che “che principio degli esseri è l’illimitato, da dove infatti gli esseri hanno l’origine, lì hanno anche la distruzione secondo necessità, poiché essi pagano l’uno all’altro la pena e l’espiazione dell’ingiustizia secondo l’ordine del tempo”. Intendendo con questo che occorre, nella dimensione limitata del tempo, lasciare il posto a coloro che vengono dopo di noi.
Inoltre, senza la morte non ci sarebbero nuove idee e non ci sarebbe il progresso. Max Planck aveva affermato che la scienza avanza non perché gli scienziati modifichino la loro opinione, ma perché c’è ricambio generazionale.
Anche i filosofi hanno riflettuto su questo. Heidegger sostenne che nessuno può morire al posto di qualcun altro, e che qualora si comprenda profondamente questo fatto, con senso di responsabilità, è possibile diventare autenticamente se stessi: anche in questo senso la morte dà valore alla vita, come consapevolezza del limite.
C’è un ultimo senso in cui la Commissione parla di valore, ed è qualcosa di molto familiare a chi opera in cure palliative: accompagnare un morente è un dono, come scrive Katherine Mannix: dando tempo, attenzione, e compassione alle persone che muoiono ci connettiamo con loro e con la nostra condivisa fragilità, con la nostra umana vulnerabilità, e comprendiamo la nostra interdipendenza, e capiamo che questo è proprio il nucleo delle relazioni umane.
Cosa pensate di questo termine, valore, attribuito dalla Commissione Lancet alla morte? Vi riconoscete in questa posizione o ritenete che sia da ripensare?
Salve, anzitutto vi ringrazio per la forza di elaborare temi così complessi come la morte in modo molto chiaro e palese. Condivido molto per quanto la mia esperienza sia poca, condivido il fatto che esista una spesa folle in medicazioni futili e penso che in un certo modo questo genere di “morte ospedaliera” abbia “viziato” e distaccato il modo di percepire la morte, facendola diventare un mondo distante e quasi da “nascondere sotto il tappeto”. Vorrei però sollevare anche altri punti critici ovvero: trovo che il mondo medico (anche per autotutela) salvo rari casi (mi rendo conto di generalizzare) sia apatico rispetto al tema morte; che spazi di azione potrebbero esistere per migliorare?(consapevole del fatto che è un sistema molto più vasto e già l’accenno di prima al distacco dato dalla morte in ospedale complichi i fattori). L’altra domanda, forse più scomoda è, “senza la morte ogni nascita sarebbe una tragedia”, esiste una branca di filosofia per cui già la nascita è una tragedia, o meglio, nel contesto mondiale attuale mettere al mondo delle vite è un atto al limite dello sconsiderato, qual è il vostro punto di vista?
Vi rinnovo i miei sinceri ringraziamenti per affrontare questi temi.
Grazie molte Nicolò per il suo commento e per le sue domande.
Il medico, naturalmente, fa parte della cultura in cui vive, e non ha maggior facilità del cittadino comune a parlare di morte con i suoi pazienti. In Italia abbiamo ottime leggi in proposito, soprattutto la 219/2017, che stabilisce che sia un diritto dei pazienti essere informati in modo esaustivo e per loro comprensibile del loro stato di salute, e quindi anche della prognosi. Purtroppo la legge 219 è ancora molto poco nota in Italia, anche tra i medici. E sarebbe comunque importante modificare la formazione dei medici fin dall’università.
Per quanto riguarda il sovrappopolamento del mondo, certamente lei ha ragione. Certo, se tutti i paesi del mondo avessero la demografia dell’Europa, andremmo verso una decrescita… ma non è così.
Sarebbe sufficiente riprendere con consapevolezza e reale conoscenza il 2 punto espresso dalla Commissione per trascendere la dualità vita-morte e attribuire il corretto valore
all’esistenza nel suo “intero”.
Sono molto d’accordo, grazie Marianna.
Grazie Marina : articolo di grande profondità di pensiero !
Condivido il termine “valore”della morte, perché da palliativista posso asserire che accompagnare un morente è un’esperienza ineguagliabile…
Grazie Maura per il tuo commento. Tutti gli amici palliativisti raccontano quello che tu dici. E anche per me è stata un’esperienza importantissima accompagnare le persone che ho amato.
Post molto interessante, come sempre. Su tema del valore essenziale della morte all’interno delle nostre esistenze consiglio una lettura: “Le intermittenze della morte” di José Saramago. Un romanzo straordinario che parla della dignità del morire in modo del tutto originale.