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C’è bisogno di cure palliative in RSA, di Marina Sozzi

Altre volte su questo blog ci siamo chiesti come muoiano i nostri anziani, soprattutto quando sono ricoverati in RSA (Residenze sanitarie assistenziali). O meglio, quando abbiano voluto o dovuto eleggere come loro “casa” una di queste strutture, perché non più del tutto autosufficienti o perché affetti da una forma di demenza.

Ora, negli ultimi mesi ho avuto modo di seguire (perché coordinato da me) un progetto di formazione in cure palliative in quattro RSA dell’area metropolitana torinese. Si è trattato di un progetto simile al progetto VELA, portato avanti già anni fa da Franco Toscani in Lombardia.

Come sono innanzitutto organizzate le RSA?

Nelle Residenze ci sono in genere moltissimi OSS (operatori sociosanitari, che fanno un corso biennale per prepararsi alla professione), alcuni infermieri, pochissimi o nessun medico (talvolta, a parte il direttore sanitario, i medici di riferimento sono solo i medici di medicina generale che raramente, o solo per ragioni di emergenza, si recano in struttura a vedere i loro pazienti). Gli OSS sono circa da 4 a 7 volte più numerosi degli infermieri. Non dappertutto è previsto uno psicologo nell’organico, o qualche fisioterapista.

Gli OSS svolgono quindi buona parte del lavoro di cura, sono in maggioranza stranieri, sono pagati poco e in genere non prendono parte alle decisioni di carattere sanitario che riguardano i pazienti. Questo accade per ragioni gerarchiche, nonostante il fatto che gli OSS siano le figure maggiormente a contatto con i residenti, e che abbiano quindi un’idea piuttosto precisa delle condizioni di salute di ciascuno e del loro eventuale peggioramento.

In questa situazione cosa accade quando un paziente si aggrava, perde autonomia, comincia a mangiare meno, a non alzarsi dal letto? Raramente i familiari vengono avvertiti, e preparati alla realtà del declino, e all’avvicinamento del loro congiunto alla fine della vita.

Accade ancora troppo frequentemente che, ad esempio, quando una persona non riesce più a deglutire (è un decorso frequente nelle forme di demenza) venga inviata in ospedale e si passi all’alimentazione artificiale, rischiando di aggiungere sofferenza a sofferenza. Le evidenze scientifiche dicono che in quei casi l’alimentazione artificiale non contribuisce al benessere della persona (quindi non migliora la qualità della sua vita) e neppure aumenta la quantità di vita residua. Inviando al Pronto Soccorso, tuttavia, si rimanda comunque il “problema” (e la responsabilità) ad altri, perché nessuno in RSA è pronto a prendersela.

“E’ la famiglia che ci chiede di mandare il parente in Pronto soccorso”, dicono sovente gli operatori. E certamente è più probabile che ci sia questa richiesta in un contesto in cui le famiglie non sono state adeguatamente preparate a quello che sarebbe accaduto. Se avessero saputo per tempo che l’evoluzione della demenza avrebbe portato il loro caro a non poter più mangiare (e che quello sarebbe stato anche un segno dell’avvicinarsi della fine), forse avrebbero potuto accettarlo ed evitare inutili e gravosi spostamenti e sofferenze a chi sta morendo.

L’altro grave esempio delle conseguenze di una preparazione carente delle équipe curanti in RSA è la sottovalutazione del dolore (e quindi il suo mancato trattamento) nelle persone con decadimento cognitivo, che non sanno quindi spiegare dove hanno male e come questo dolore si presenti. È frequente che vengano fraintesi l’agitazione, i lamenti, il pianto, da parte di operatori che interpretano questi sintomi come dovuti al declino cognitivo, mentre sovente sono segni di un dolore non controllato.

Nelle RSA la permanenza media degli ospiti è di poco più di 12 mesi, ed è chiaro che le persone che vi abitano si trovano nell’ultimo miglio della loro vita. Alcuni vivono in RSA meno, molto meno di 12 mesi. Come è possibile quindi che non si rifletta sull’esigenza di garantire una buona qualità della fine della vita in questi luoghi (dove tutti i residenti, o quasi tutti, concludono in effetti la loro vita?)

Ciò che manca, insomma, nelle strutture per anziani, è la sensibilità palliativa, l’approccio palliativo, l’attenzione per la sofferenza e il disagio, le competenze comunicative con gli ospiti e con le famiglie.

Come fare dunque a sollecitare questa attenzione e questo approccio in tutti coloro che lavorano in queste strutture, così da garantire una vita e una morte dignitosa a chi ci abita?

La prima cosa da insegnare al personale è a porsi quella che è stata definita la “domanda sorprendente”, che consiste nel chiedersi, per ogni paziente, o ospite (nel caso delle RSA): “Sarei sorpreso se questa persona morisse nel giro di sei mesi o un anno?”. Se la risposta è “No, non sarei sorpreso”, quello è già il momento per dare inizio a un approccio palliativo.

Le prossime sfide, per le cure palliative (che avranno finalmente una scuola di specialità per i medici), sono: 1) ampliare i luoghi di cura in cui saranno disponibili cure palliative (quindi anche gli ospedali e, appunto, le RSA); e 2) fare in modo che le cure palliative siano applicabili a ogni patologia (e gli anziani ricoverati in RSA spesso sono persone molto fragili, portatrici di più di una patologia cronica e degenerativa).

Certamente, formare gli operatori delle RSA è di primaria importanza, sia per le persone che vi risiedono, sia per i loro familiari, spesso carichi di sensi di colpa per non riuscire a curare a casa il loro caro; sia inoltre per i curanti, affaticati sia fisicamente sia emotivamente, a maggior ragione con il Covid (e infatti un veloce turn over degli operatori in queste strutture è usuale).

Ma occorre anche che i decisori (come si dice con un brutto termine) richiedano alle RSA la competenza già acquisita in cure palliative di base per accreditare le strutture. In questo modo l’adeguata formazione non sarebbe iniziativa singola di alcuni direttori sanitari particolarmente sensibili e lungimiranti, ma la norma.

Avete esperienze che riguardano la cura in RSA? Cosa pensate dell’auspicio che vi sia una formazione alle cure palliative in queste strutture per anziani?

La libertà va difesa a costo della salute? L’importanza della Death Education, di Davide Sisto

Negli ultimi giorni dello scorso agosto i quotidiani nazionali hanno riportato la notizia della morte per Covid-19 di un uomo di 48 anni, Luca Amaducci, condividendo il suo ultimo post pubblico su Facebook, risalente a inizio mese, nel quale descriveva in maniera minuziosa i drammatici effetti del virus sul suo corpo. Rimpiangeva, quindi, il fatto di non essersi ancora vaccinato e sperava ovviamente di poter guarire. Dopo la sua morte, come spesso succede con i post pubblici sui social media, le sue parole sono state più volte condivise da utenti sconosciuti. Alcuni lo hanno fatto per evidenziare quanto sia pericolosa la scelta di non vaccinarsi; altri, invece, per scovare ogni possibile incongruenza descrittiva tale da avvalorare l’ennesima tesi complottista. Se il 2020 è stato segnato dalle diatribe sulla legittimità del lockdown, il 2021 sarà prevalentemente ricordato infatti per l’estenuante scontro tra pro-vax e no-vax. “La libertà va difesa a costo della salute”: così si è espresso l’attore Enrico Montesano, da tempo fautore di ogni sorta di teoria complottista, durante una diretta telefonica nel corso di una manifestazione di protesta contro il green pass promossa da Variante Torinese.

L’idea che la libertà vada difesa a costo della salute è un’argomentazione ricorrente nel periodo pandemico. Si fa un collegamento tra le decisioni politiche prese a livello internazionale, in vista del contenimento del contagio, e la realtà di una società farmacologizzata, che nega l’inevitabile esistenza del dolore e della morte, preferendo limitare la libertà individuale attraverso estenuanti percorsi di immunizzazione sanitaria. Ne ho già parlato più volte sul blog in passato, ma ritengo necessario tornare una volta ancora sulla questione: è assolutamente privo di senso questo collegamento. Anzi, anteporre prosaicamente il proprio interesse personale alla salute collettiva è un effetto collaterale proprio della rimozione della morte e del dolore. Chiunque lavori nel campo della tanatologia, o abbia a che fare direttamente con il fine vita, conosce le caratteristiche di questa rimozione. Norbert Elias, per esempio, descriveva negli anni Ottanta la cosiddetta “solitudine del morente”, tema ancora protagonista del recente libro Non morire di Anne Boyer, il quale mostra come la diagnosi di un tumore al seno determini immediatamente l’imbarazzo nelle altre persone. Iona Heath, nel libro Modi di morire, parla dei pazienti in ospedale come “unità standardizzate di malattia”, a causa della difficoltà di andare oltre la malattia creando un legame umano con la storia di ogni singolo individuo. E come non notare, infine, la costante incapacità da parte dello spazio pubblico di comprendere che, sì, “si può dire morte”? Fateci caso: è sempre rarissima la dicitura “è morto” in relazione alla notizia di un decesso. Si continua a utilizzare i soliti “è scomparso”, “si è spento” (come il nostro cellulare o pc, sarà un caso?), “ci ha lasciato”. La bibliografia novecentesca sulla difficoltà del mondo occidentale a relazionarsi con il dolore e la morte è sterminata.

Ora, i riferimenti menzionati non sono la prova del fatto che la società, in presenza di una inedita pandemia, penalizza la libertà dell’individuo perché terrorizzata dalla possibilità di ammalarsi e di morire. Semmai, sono la testimonianza di un consolidato modo di vivere che, ignorando la vulnerabilità e la finitezza, si dimostra del tutto spaesato di fronte a una brusca presa di coscienza del limite della vita. Il lockdown prima e la vaccinazione di massa poi generano, cioè, un corto circuito all’interno di una quotidianità vissuta come se il dolore e la morte non ci fossero: rappresentano la prova oggettiva che c’è un problema che non si vuole vedere né affrontare. Dunque, ci si irrigidisce, ci si mette nella condizione di negare a priori, quindi di credere che il problema sia puerile o, se c’è, comunque “andrà tutto bene”. Ci si sente, in un certo qual modo, assediati dal pensiero della vulnerabilità e della finitezza, pertanto – per difendere sé stessi – si accetta l’idea che il periodo che stiamo vivendo sia un complotto, un tentativo di limitare la sacrosanta voglia di vivere in maniera spensierata. Così, ci si affida alla propria auto-narrata immortalità, ritenendo sé stessi e i propri cari al di sopra di ogni rischio. È interessante, tra l’altro, notare una contraddizione di non poco conto: da una parte, si accusa chi stabilisce le regole e chi le segue di aver talmente paura della morte da non voler più vivere. Dall’altra, tuttavia, si rifiuta il vaccino perché si teme che gli effetti collaterali possano condurre alla morte, mettendo – di conseguenza – da parte quel fatalismo che invece viene applicato con leggerezza nei confronti delle paure legate all’eventuale contagio.

Ma, avere coscienza della propria mortalità, essere dunque predisposti a un fatalismo che ci spinge a credere che ogni minuto di vita in più non vada dato per scontato, significa innanzitutto maturare un ragionato senso civico e mostrare attenzione per la vulnerabilità altrui. Se siamo in una fase storica delicata in cui dal nostro comportamento dipende la sopravvivenza delle persone più fragili, allora dobbiamo anteporre il pensiero della morte a ogni altra cosa proprio per tutelare il più possibile il benessere collettivo. Come già detto in un altro articolo, la consapevolezza della propria vulnerabilità e finitezza non si traduce mai in un’ardita ed egoistica mancanza di prudenza: ogni singolo può serenamente decidere di giocare nel corso della propria vita con la mortalità che definisce la sua esistenza, ma non può in alcun modo permettersi di giocare con quella altrui. Dunque, sulla base dei dati di cui disponiamo, bisogna vaccinarsi per il bene di tutti, bisogna comprendere il legame vigente tra il Covid-19 e la possibilità di morire e fare le scelte appropriate. Il superamento della rimozione della morte consiste proprio nell’essere in grado di pervenire a un equilibrio di pensiero tale da distinguere nitidamente il momento della prudenza da quello dell’audacia fatalistica. E, certamente, durante una pandemia sapere quanto è fragile la nostra esistenza significa proteggerla il più possibile, non essendo eremiti ma componenti attivi di una società.

La libertà va a difesa a costo della salute? In un periodo come quello che stiamo vivendo, è la salute – dunque la consapevolezza del carattere mortale della nostra vita – che va difesa a vantaggio dell’esercizio continuo della libertà. Essere imprudenti o complottisti significa, semplicemente, perdere la possibilità di vivere, dunque di esercitare la libertà. Una libertà che non ha mai presupposto, tra l’altro, la possibilità di fare tutto ciò che si vuole all’interno di uno spazio condiviso.

Cosa ne pensate? Attendiamo le vostre considerazioni.

Il lutto soffocato dal Coronavirus: cosa fare? di Nicola Ferrari

Solitamente questo blog pubblica solo testi originali, scritti per  “Si può dire morte”. Tuttavia, per l’importanza e l’utilità di questa riflessione sul lutto di Nicola Ferrari, abbiamo deciso di pubblicarlo anche qui, nonostante  si trovi sul sito dell’associazione Maria Bianchi.

“È stato ricoverato d’urgenza e da allora non ci ha più visto, non ha sentito le nostre voci, non ha più sentito la nostra forza. E quando è morto me lo hanno detto con una chiamata, al cellulare, neanche ti possono guardare negli occhi. Ho richiamato il dottore una, due, dieci volte perché volevo sapere cosa ha detto, cosa ha fatto prima di morire. Come sono stati gli ultimi momenti? Quali sono state le sue ultime parole? Mi hanno detto che voleva andare a casa, che voleva noi, voleva solo noi, cercava sempre noi.”

Questa testimonianza è solo una delle tante che in queste settimane si possono trovare in rete e sui giornali e molte altre ne compariranno prossimamente. A tutt’oggi ci sono circa 17.600 decessi in Italia e 72.700 nel mondo: calcolando che in molti Stati l’epidemia è solo a livello iniziale, quante famiglie nel giro di pochi mesi saranno in lutto?
Quante società sportive, gruppi di vario tipo, colleghi di lavoro, amici d’infanzia, comunità religiose e laiche si troveranno senza uno di loro? È del tutto realistico pensare a cifre con sei zeri.

E tutta questa immane quantità di persone in lutto si ritroverà accomunata da un’esperienza molto simile: non aver potuto stare accanto a chi stava morendo, non avergli fatto sentire l’amore, il sostegno, l’amicizia; non essere riuscito ad ascoltarlo, a farsi vedere, ad abbracciarlo, aver vissuto la consapevolezza ora dopo ora che il decesso di chi amo sta arrivando ed essere costretto a restare lontano, a casa, impotente e incapace.

Ma non finisce qui: perché poi c’è la vestizione del corpo, che non si può fare, non lo si può preparare con dignità e cura e poi c’è la salma che non si può vedere perché la bara va chiusa in fretta per motivi sanitari e poi c’è il funerale che non c’è: non c’è il rito, non c’è il saluto, non c’è il piangere con chi è disperato come me, non c’è il sentirsi parte di una piccola comunità o di una grande famiglia. Non c’è la possibilità di sapere che sei seppellito dove ti spetta di stare ma, molto spesso, ammucchiato dove c’è posto, insieme ad altri anonimi defunti. E pure se si è tra quelli che hanno un posto dove andare a ricordare o pregare chi hai perso, non lo puoi nemmeno vedere da lontano.
– Ha finito di soffrire – è la consolazione di chi rimane. E ovunque collochiamo il nostro caro, probabile che sia così.
Per lui.
Non per chi rimane, non per chi l’ha amato o gli ha voluto bene, non per chi lo stimava, lo desiderava o anche solo lo sopportava e lo accettava così, come era, come lui faceva con noi. Cosa accade allora a chi resta?

Dinamiche del lutto da Coronavirus

Nei tempi immediatamente successivi al decesso, come stiamo constatando dal nostro osservatorio tramite i contatti che ci arrivano, nei parenti-famigliari-amici di chi è morto per Coronavirus si manifestano:

–  un intenso senso di colpa (avrei potuto cercare di vederlo, potevo pensare di fargli avere un cellulare per comunicare, dovevo mandargli un messaggio tramite un infermiere o un dottore…);

–  sensazione di sconforto dovuta al pensiero di avere mancato, di avere fallito umanamente nei confronti di chi è morto (non sono stato in grado di dirti che sono qui con te, di proteggerti, di consolarti);

–  pensieri frequentissimi, a volte snervanti e molto acuti, fortemente deprimenti e carichi di angoscia perché riferiti in maniera continua a ricostruire o immaginare come la persona deceduta avrà vissuto gli ultimi giorni (cosa avrà pensato? Come si sarà sentito restando da solo?);

– ira e rabbia per il senso di ingiustizia che si prova dovuto proprio alla causa della morte (non è giusto che mio padre sia morto così, non si può morire di qualcosa che non si vede, di un virus che arriva da lontano, non è possibile morire perché la scienza non trova un vaccino…).

E poi ci saranno, di certo più complesse da decifrare ed affrontare, tutte le conseguenze nei tempi più lunghi, quando l’emergenza finirà e si potrà tornare ad una graduale normalità: con le bare già interrate, sarà possibile svolgere un ‘secondo’ funerale? E se non lo sarà, come si può salutare chi amiamo senza la ritualità confortante e aggregante che da sempre genera un funerale religioso o civile?

Quanto inciderà la gioia di poterci riabbracciare, essere liberi e uscire, il desiderio di riprendere quegli impegni che almeno un po’ ci avvicinano alla vita di prima, con il dolore e lo strazio represso di dover andare, settimane dopo il decesso, nella casa del papà, del nonno, nell’incontrare i parenti del nostro amico o collega defunto, nello svolgere le pratiche burocratiche ineliminabili?

Si vivrà un secondo lutto condiviso ed espresso, dopo il primo chiuso e quasi totalmente taciuto?
Questi sono solo alcuni degli interrogativi che emergono; molti altri ne appariranno presumibilmente con il protrarsi dell’isolamento e con la modificazione di alcune variabili (la questione economica, ad esempio, sarà uno di quegli aspetti della vita dei prossimi mesi che inevitabilmente creerà ripercussioni a vari livelli, così come la durata del periodo di chiusura lavorativa e distanziamento sociale e la maggior o minore capacità della gente di riattivare forme di coesione sociale sul territorio).

Ma se di fronte a queste e altre difficoltà, quello che possiamo fare è al massimo ipotizzarle e prepararci ad intercettarle se si manifesteranno, tanto invece si può ora mettere in campo.

Cosa fare adesso?

Ossigenare il lutto.
Infondergli l’aria, quella stessa che passa attraverso i bocchettoni, i tubi, il casco che vedevamo solo nei film strappalacrime e che ora sono il simbolo della guerra in corso.

Bisogna creare le condizioni perché lo strazio di questo lutto soffocato possa respirare a pieni polmoni: il dolore che si narra, che ha pieno diritto di cittadinanza quando trova luoghi, persone, momenti per essere raccontato e accolto da altri, diminuisce, nell’immediato, la sua carica angosciante, permettendo un iniziale senso di maggior sollievo e minore solitudine; se questo processo narrativo si riesce a proseguirlo e a condividerlo con altri nella mia stessa situazione, diventa allora possibile continuare a ricordare il proprio caro, o almeno iniziare a farlo, e a recuperare il suo lascito esistenziale (vero obbiettivo di un percorso rielaborativo) nonostante l’isolamento in casa, l’impossibilità di svolgere il funerale, di incontrarsi con altri parenti o amici affranti.

Le possibilità sono varie, oltre a quelle più evidenti e utilizzate spontaneamente che si riferiscono cioè all’uso della rete, dei social, dei cellulari e di tutto quello che può essere utilizzato per creare contatti:

–  individuare un tempo preciso durante la giornata da dedicare a chi abbiamo perso. Può essere un momento anche breve, magari ripetuto più di una volta durante le settimane ma è importante, soprattutto se non si è in casa da soli, che sia concordato, preparato, atteso. Un momento specifico, apposta solo per te che non ci sei più, che definisce una pausa nella quotidianità imposta e che sottolinea che ora niente è più importante di te;

–  preparare lo spazio nel quale staremo per ricordarti: non c’è bisogno di nulla di complesso, servono segni che rendano questo luogo intimo, dedicato, rispettoso. Può bastare una candela, una diversa disposizione delle sedie, la ricerca di una luce calda, una semplice attenzione e novità per terra, appesa al muro, sul divano, nel tavolino;

–  narrare quello che si prova: a voce alta, ognuno agli altri ma anche senza suono alcuno, sapendo comunque che tutti sappiamo che stiamo raccontando. Riempire di parole il dolore, farlo emergere, dettagliarlo, permettere che la sofferenza interna acquisisca forma e caratteristiche perché tutto ciò che si nomina, se le parole usate sono cor-rispondenti a ciò che viviamo interiormente, si può affrontare, diventa contemporaneamente dentro e fuori di noi. Oppure si può scrivere (ma il processo è identico): messaggi brevi e lettere lunghe, anche queste da condividere tra i presenti, da leggere a voce alta o da passarsi l’un l’altro in silenzio o da tenere gelosamente tutte per sé;

–  mantenere viva la memoria del nostro caro e ricordare l’intera sua vita, non solo l’ultimo periodo di malattia, per evitare proprio che questa fase finale si fissi in noi diventando totalizzante, dominante e invasiva; chi abbiamo perso era una persona che ha il diritto di non essere ricordata solo per lo strazio degli ultimi suoi giorni perché la sua esistenza è stata assolutamente più ricca e significativa. Aiutarci quindi a ripensarlo come era pienamente: la sua personalità, le sue passioni, i doni e i limiti, i momenti indimenticabili, i viaggi, il cibo che amava… Quando è possibile recuperare fotografie o oggetti a lui appartenuti o comunque significativi, utilizzando anche cellulari, eventuali profili in rete, materiale digitale presenti in computer o tablet: l’impatto è spesso molto intenso e coinvolgente e crea una immediata vicinanza e senso di appartenenza fra tutti i presenti;

–  creare rituali, anche semplici, per salutare e ringraziare il defunto: l’accensione di una candela, l’ascolto di una musica, la lettura di una poesia, la libera espressione di ognuno con una frase, la ripetizione di un gesto particolare appartenuto al suo modo di fare, piantare un nuovo fiore, seme o albero se si ha un giardino o dei vasi…;

–  progettare il futuro: una volta finito l’isolamento, ci saranno tante incombenze da svolgere legate al funerale, eredità, casa, altre persone coinvolte…. Decidere insieme come gestire tutto quanto come modo da un lato per ‘continuare’ la vita e dall’altro per testimoniare concretamente l’amore per chi abbiamo perso prendendoci cura di tutte le conseguenze.

“Voleva noi, voleva solo noi, cercava sempre noi” è la testimonianza inserita all’inizio, ma che corrisponde all’esperienza che hanno avuto migliaia di persone in riferimento ad un loro caro deceduto da solo in ospedale.

E anche se non ho potuto esserci, se non ci sono state le condizioni oggettive per restare con te, tenerti la mano, farti sentire il mio amore e la mia vicinanza concreta, posso dirlo ugualmente anche adesso: “sono qui, sono qui per te, sono sempre qui.”

Lo posso fare adesso, anche se non ci sei più, e lo posso dire a testa alta se decido che no, no padre mio, no nonna, no figlio mio: non te andrai da questa terra, non te ne andrai definitivamente da questa terra.
Perché fino a quando sarò vivo, io ti ricorderò.
Dirò a chi ho intorno che persona eri, lo dirò onestamente, senza enfatizzare; e per quel poco che sarò capace di fare, trasmetterò ciò che hai lasciato alla mia vita e a quella di chi ancora amo.

Non è indispensabile uscire di casa per iniziare tutto questo.

Il dolore degli altri: l’esperienza di un cerimoniere. Intervista a Stefano Colavita, di Marina Sozzi

Come hai deciso di diventare cerimoniere al tempio crematorio di Torino?

Non è stata una vera e propria decisione. Direi più semplicemente che è successo, in modo del tutto casuale e inaspettato. Verso la fine del 2013 un caro amico – ai tempi impiegato alla Socrem come cerimoniere – mi chiese se fossi disposto a sostituirlo, visto che stava progettando di trasferirsi all’estero per motivi familiari. La sua decisione di andarsene era stata piuttosto improvvisa, e c’era questo posto vacante da coprire con una certa urgenza. Io avevo appena concluso, in modo non del tutto indolore, quel genere di iter universitario all’insegna della precarietà più disperata che dottorandi e assegnisti di ricerca purtroppo conoscono bene, e l’idea di tentare nuovi percorsi non mi dispiaceva. Il mio curriculum era abbastanza in linea con il profilo richiesto perché, fra le altre cose, durante gli anni universitari mi ero occupato di tanatologia e avevo discusso una tesi di dottorato sugli eufemismi luttuosi. Inoltre mi trascinavo dietro un discreto bagaglio di cultura generale e avevo anche una certa esperienza nell’ambito della lettura performativa. Qualche giorno dopo l’invio del curriculum, l’allora direttore del tempio di corso Novara mi contattò per un incontro conoscitivo. Probabilmente il colloquio andò bene perché di lì a poco mi richiamò proponendo di dare inizio al percorso formativo. Da allora sono passati cinque anni, e ancora non mi hanno cacciato.

Che cosa significa avere a che fare ogni giorno con il dolore e il lutto degli altri? Hai messo in atto qualche strategia per gestire questo difficile e delicato compito nella tua vita?

L’altrui dolore è una materia oscura e delicata, difficilissima da manovrare. Non la conosci, puoi solo intuirne le forme, entrare in contatto con il suo riverbero. Il tuo compito, come cerimoniere, è quello di gestire questa massa fluida senza appropriartene, sfiorandola appena, tentando l’intricatissima impresa di entrarvi dentro senza toccarla e soprattutto senza farti toccare. È un po’ come infiltrarsi in una grande bolla di sapone, restare lì dentro il tempo che serve, per poi uscire fuori con estrema cautela, in punta di piedi, evitando di farla scoppiare. All’inizio è arduo, il pericolo di lasciarsi coinvolgere è sempre dietro l’angolo. Ricordo che nei primi tempi l’idea di gestire cerimonie per bambini mi atterriva. Poi, un passo alla volta, impari a fare ordine, a collocare le cose nel posto giusto, soprattutto ad affinare la consapevolezza che un ruolo del genere impone disciplina, lucidità e un profondo autocontrollo. Ogni cerimoniere ha le sue strategie per evitare che il dolore degli altri lo colpisca, non esiste una regola, è tutto molto soggettivo. Certo non siamo macchine, non sono rari i casi in cui cerimonie particolarmente intense lasciano il segno. A volte si fatica perfino a trattenere le lacrime. Direi che il modo migliore per imparare a gestire gli aspetti più disturbanti sia quello di instaurare un dialogo continuo con gli altri cerimonieri, gli aiuto cerimonieri, i cremazionisti, gli operatori del settore, e così via. Parlare, raccontarsi, dedicare tempo al confronto con le esperienze emotive di chi osserva gli eventi dalla tua stessa prospettiva, è davvero molto importante. Così come è utilissimo ritagliarsi spazi per scherzare e prendersi in giro. Sembra brutto dirlo, ma se non trovassimo il modo di ridere ogni tanto fra un funerale e l’altro sarebbe tutto più difficile.

Il tuo è un punto di osservazione fondamentale per capire come le persone partecipino al lutto degli altri, per lo meno nella fase dei riti di morte. C’è qualcosa che hai osservato e che ti sembra importante comunicare?

Ogni giorno assisto agli effetti che il trauma della mutazione provoca nei dolenti. L’aspetto che mi colpisce sempre è il disorientamento dei superstiti di fronte al fatto che dentro quel feretro c’è un corpo e che quel corpo sta per diventare polvere. Sono convinto – lo sottolineo spesso – che il vero dramma non stia tanto nei dubbi su cosa succeda dopo la fine, ma nel senso di smarrimento che si prova al cospetto di un cadavere. Una delle domande che i partecipanti al rito funebre mi rivolgono con maggiore frequenza è se il defunto proverà dolore nel momento in cui verrà consumato dalle fiamme. Questo cruccio – molto più diffuso di quanto non si possa credere – restituisce bene la misura di quanto, per la nostra cultura, il corpo sia ancora una cosa viva anche quando smette di respirare. Anche il più devoto fra i credenti su questo terreno crolla, autodenunciando così, più o meno consapevolmente, un gigantesco irrisolto. Per spiegare meglio questo aspetto, che ritengo cruciale, uso spesso quello che chiamo il gioco del sassolino. Ecco, immaginiamo un mondo in cui il decesso di un uomo non preveda il progressivo disgregarsi dei tessuti biologici, ma l’immediata trasformazione in sasso, come un chicco di mais che diventa pop corn. Puff, ecco, signori: questa è la morte. Quali scenari aprirebbe una prospettiva del genere? Dal punto di vista dell’elaborazione del lutto, ne sono convinto, un ribaltamento completo. Il peso dell’evento traumatico si scaricherebbe in modo decisivo. Sicuramente affideremmo all’entità sasso un valore meno trascurabile, questo sì, il che consentirebbe l’apertura a nuovi orizzonti rituali. Immagino tasche piene di antenati da portare a spasso, e giardinetti pubblici lastricati di defunti irriconoscibili. Ma penso che non ci farebbero così tanta paura. Né loro, né la morte in sé.

È cambiato il tuo rapporto con la vita e con la morte da quando fai questo lavoro?

Apparirà scontato, ma quando la morte e i suoi effetti entrano a far parte della tua quotidianità, la consapevolezza di quanto la nostra esistenza sia appesa a un filo davvero sottile diventa lampante. È un costante memento mori che ti costringe a riflettere sul senso delle tue azioni, sul valore del tempo, sull’importanza di vivere ogni istante sapendo che potrebbe essere l’ultimo. Non solo l’ultimo tuo, naturalmente, ma l’ultimo delle persone che ami: amici, genitori, figli. Mi considero un agnostico orientato all’ateismo, non credo nell’aldilà, nella resurrezione dei corpi, nelle rassicuranti fantasie promesse dalle religioni, quindi il pensiero della mia morte non mi procura alcun senso di angoscia. Temo più la prospettiva di una malattia dolorosa, o dell’invalidità, e l’eventualità di andarmene prima che i miei figli diventino adulti. Inoltre trovo problematico gestire la prospettiva di una perdita irrimediabile, perché se muore qualcuno che ami, per come la vedo io, non avrai mai più occasione di incontrarlo. Allo stesso tempo avere familiarità con la morte ti aiuta a comprendere quanto sia importante ricondurla a una dimensione naturale, direi perfino ovvia. Fa parte di noi, confinarla nel nebuloso territorio degli spauracchi non ci aiuta a vivere meglio. Così come non ritengo sano vivere nell’ansia di essere dimenticati, perché a pensarci bene è proprio questo l’aspetto della morte che più atterrisce, l’idea di sparire per sempre. Eppure niente è eterno, non lo è il mondo, non lo è l’universo, non lo siamo noi. Che ci piaccia o no, siamo destinati all’oblio, forse l’unica strada percorribile per risolvere i nostri problemi con la Nera Signora è educarci a dialogare con il valore della dimenticanza. Per quanto mi riguarda, spero che quando morirò mi dimentichino in fretta. Faccio mia una frase di Montaigne che negli Essais scriveva: «Desidero che si agiscano e si allunghino gli affari della vita finché si può, e che la morte mi trovi mentre pianto i miei cavoli, ma noncurante di essa e ancor più del mio giardino non terminato». Ecco, lavorare al tempio crematorio mi ha aiutato a comprendere meglio il significato di queste preziose parole.

A che punto siamo con la negazione della morte? Seconda puntata, Il lutto, di Marina Sozzi

Prendo spunto da una lettera pubblicata recentemente su Famiglia Cristiana. Il titolo era: Mandata in vacanza per nascondere la morte di papà. È la storia di una famiglia che ha subìto la grave perdita di un giovane padre, morto in un incidente in montagna. La bambina è stata allontanata da casa e inviata da amici, per tenerla distante dal momento doloroso dei riti e della disperazione. Ora la bimba tornerà a casa, ignara, non troverà più il padre, e la madre, devastata dal lutto, non sa come parlare alla figlia. La lettera era di un’amica di famiglia, che chiedeva consiglio ad Alberto Pellai, medico e psicoterapeuta.  C’è infatti spaesamento sul comportamento da tenere in tragedie come questa, e l’esigenza di affidarsi a competenze psicologiche. Abbiamo delegato la gestione della morte alla medicina, e quella del lutto alla psicologia.

La bella risposta di Pellai è riassumibile in queste parole: “La mamma deve progressivamente sentirsi in grado di far arrivare alla sua bambina il messaggio: anche se ci è successa una cosa bruttissima, io e te abbiamo un futuro. La vita rimane aperta davanti a noi.”

Su questa storia triste resta però un’analisi da fare che non è psicologica: dobbiamo riflettere sulla difficoltà che abbiamo a condividere il dolore, la morte, il lutto, in famiglia e nella maggior parte degli ambienti sociali. La cosa che più colpisce è che sia stato ritenuto giusto impedire a questa bambina di salutare suo padre e di piangere insieme a sua madre, a causa di un malinteso sentimento di protezione, che forse ha creato a quella bimba ancora più sofferenza.

Ciò che ci interessa, però, al di là del caso specifico, è che lo spettacolo della morte sia ancora troppo spesso pensato come impossibile da sostenere, per gli adulti e a maggior ragione per i bambini. La situazione non pare migliorata negli ultimi vent’anni, a causa forse del processo di frammentazione sociale, o forse dei martellanti valori della nostra epoca, benessere, dinamismo, giovinezza, salute, spensieratezza.

Chi subisce una perdita continua a sentirsi molto isolato. Le relazioni precedenti spesso si allentano, e solo talvolta accade di costruirne di nuove. Tuttavia, chiedere aiuto è difficile, sia perché menzionare il tema della perdita è poco accettato, sia per il diffuso ritegno ad ammettere di non riuscire a superare da soli lo sconquasso che il lutto porta nella vita. Peraltro, l’aiuto disponibile è scarso, assente in molte realtà del nostro paese. Le poche associazioni che si occupano di sostegno al lutto, con gruppi condotti o di auto mutuo aiuto, difficilmente sono finanziate e non sempre riescono a offrire risorse di qualità. Erroneamente, i progetti sul lutto sono ritenuti a scarso impatto sociale sia dagli enti pubblici sia dalle fondazioni di erogazione. Eppure, non si tratta solo del dolore individuale (e non sarebbe irrilevante), ma di giornate di lavoro saltate, di maggiori rischi per la salute, di grave solitudine soprattutto per molti anziani.

Il nostro disagio nei confronti del lutto si rende evidente anche attraverso l’assimilazione del lutto a una patologia: chi non riesce a tornare al lavoro si fa scrivere dal suo medico un periodo di mutua (che è un’istituzione che copre gli episodi di malattia); il lutto è stato inoltre inserito nel DSM, ossia nel Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali. E, secondo uno dei paradossi da cui è attraversata la nostra cultura, il dolente viene visto come un malato, ma nulla viene fatto per prevenire i lutti bloccati o patologici.

C’è chi sostiene, come ad esempio Marzio Barbagli (Alla fine della vita), che oggi l’elaborazione del lutto avvenga attraverso i social network e i siti dedicati. Davide Sisto (La morte si fa social) si interroga sul significato e sull’utilità delle comunità virtuali di sostegno, e con cauto ottimismo segnala il forte incremento delle interazioni, sulla pagina Facebook dei dolenti, di messaggi volti a sostenerli.

Dal mio punto di vista, pur cogliendo questi segnali che provengono dal mondo virtuale, occorre comprendere perché si riesca a manifestare vicinanza a una persona in lutto solo da dietro lo schermo del proprio computer o smartphone, e che si provi invece un forte senso di inadeguatezza (cosa gli dico, come mi comporto?) quando si incontra per strada quello stesso dolente al quale si sono scritte parole di cordoglio e supporto.

Il fenomeno di una comunicazione che passa soprattutto attraverso il web e i social network è, mi rendo conto, generalizzato, e non è certo applicabile solo al lutto. E’ vero senz’altro che queste iniziative online possono essere utili, come succedanee delle comunità reali che si sono frantumate e non funzionano più. Purtroppo, nel dolore, nella solitudine di chi ha perso un congiunto, la modalità virtuale non è sufficiente, perché, al contrario, ciò che aiuta è la presenza fisica degli altri, i loro visi e sorrisi, il tempo dedicato, le emozioni, il contatto.

Occorre, probabilmente, un nuovo codice comunicativo, una sorta di nuovo galateo, che permetta agli individui l’incontro con chi soffre nella società reale, e riduca il timore di essere fuori luogo o di non avere nulla da dire. Bisogna infrangere l’idea che la sofferenza non sia affrontabile, sia esorbitante le capacità umane, perché tutti possano averne meno paura, e trovare un modo per stringersi l’un altro nella cattiva sorte, come richiede la nostra stessa storia evolutiva.

Cosa ne pensate? Vi è capitato di sentirvi particolarmente soli dopo una perdita? Avreste desiderato maggiore vicinanza dai vostri familiari o amici? Utilizzate molto i social network per fare le condoglianze? E per parlare del vostro lutto?

La morte buddhista in Sri Lanka


Cari amici, il silenzio delle ultime settimane è dovuto a un interessante viaggio che ho fatto in Sri Lanka, lussureggiante e affascinante isola a sud est dell’India, con una popolazione a maggioranza buddhista (di tradizione Theravada, la più antica, risalente all’insegnamento del Budda), e con meravigliosi siti archeologici e templi.

Siccome mi è parso che apprezziate le descrizioni dei modi di celebrare la morte diversi dai nostri, vi racconto quel poco che ho potuto vedere e capire in questo primo viaggio singalese, accompagnato dagli scatti che è stato possibile fare. Procedendo faticosamente con uno sgangherato pulmino per le strade dell’isola, scorgevo lungo il tragitto diversi gruppi di semplici tombe, a volte simili, a volte diverse l’una dall’altra. Ho scoperto che in Sri Lanka, nei villaggi, si seppellisce vicino alla propria casa, o in zone identificate come cimiteriali da piccole comunità, senza particolari vincoli. Solo nelle città di maggiori dimensioni ci sono veri e propri cimiteri. In genere, i gruppi religiosi separano le proprie aree da quelle appartenenti a altre confessioni, ma non è raro vedere accostate tombe di defunti di credo differenti.
I cristiani raggruppano le loro semplici croci intorno alle chiese, i buddhisti ornano di drappi bianchi i mucchi di terra fresca che ricopre il corpo dei loro morti. Non tutti i buddhisti, infatti, cremano. La cremazione è costosa e sovente il corpo morto è semplicemente inumato; altre volte, invece, sono le ceneri a essere sepolte e non disperse (nei fiumi, o nella foresta, o nel mare).

E il funerale? Sono riuscita a vederne due di sfuggita, affollati, entrambi buddhisti, che si svolgevano nella casa del defunto, addobbata con bianchi paramenti a lutto. Alcune letture sul buddhismo in Sri Lanka e qualche parola con la nostra guida (un cristiano sposato con una donna buddhista) mi hanno dato qualche elemento in più per comprendere quello che avevo visto. Quando qualcuno muore, la famiglia si reca nel tempio e informa i monaci, invitandoli al funerale. Il corpo resta in casa per un paio di giorni, perché parenti e compaesani possano far visita al defunto. Sri Lanka è un paese prevalentemente rurale, e ha mantenuto tradizioni comuni a molte culture, non ultima anche la nostra in epoca moderna. La famiglia è sostenuta dai vicini, che portano cibo, caffè e the non solo per i familiari, ma anche per i visitatori. Né il defunto né la famiglia vengono lasciati soli. La strada verso il crematorio o il luogo di sepoltura, percorsa a piedi con la bara in spalla, è decorata con foglie di palma da cocco. La cerimonia funebre si svolge prima, in casa.

Dopo la cremazione comincia il periodo del lutto, durante il quale i membri della famiglia indossano semplici abiti bianchi (il colore preposto al cordoglio), non guardano la televisione né ascoltano la radio.
Sette giorni dopo la morte, ci si riunisce nuovamente tutti nella casa del defunto, dove un monaco pronuncia un sermone sul tema buddhista dell’”impermanenza” (il flusso continuo e il cambiamento di tutte le cose) e della morte. Descrive che cosa accade dopo la morte e perché è importante prestare ascolto all’insegnamento del Buddha ed essere generosi in memoria del defunto. I buddhisti ritengono che morire con pensieri sereni crei un’energia positiva che accompagna il defunto nella reincarnazione successiva. Anche la liberalità della famiglia verso gli altri aiuta il defunto a non mancare del necessario nella sua vita futura.

Ciò che caratterizza l’approccio buddhista alla morte è inoltre la pratica della piena consapevolezza di cosa sia veramente la vita, cui ci si allena fin da bambini mediante l’educazione e la meditazione. Buddha ha insegnato la dottrina delle quattro nobili verità. La prima è la constatazione che l’esistenza umana è segnata da insoddisfazione, disagio, dolore: “Questa, monaci, è la nobile verità del dolore, la malattia è dolore, la morte è dolore, l’unione con ciò che non è caro è dolore, la separazione da ciò che è caro è dolore, non ottenere ciò che si desidera è dolore”. La seconda nobile verità individua la causa della sofferenza: l’attaccamento, il desiderio. La sofferenza è provocata dalla brama di godere degli oggetti dei sensi, dalla brama di esistere, o anche dalla brama di cessare di esistere. La terza nobile verità descrive la cura contro il dolore: l’estinzione di questa stessa brama, l’abbandono e il distacco dal desiderio e dall’attaccamento. La quarta verità illustra il sentiero impervio per raggiungere la cessazione della sofferenza: mantenere la giusta visione, la retta intenzione, la retta parola, l’azione giusta, perseguire i corretti mezzi di vita, adottare il retto sforzo, la giusta attenzione e la giusta concentrazione.
La morte, quindi, nella dottrina buddhista, è la più evidente prova dell’impermanenza delle cose e dell’uomo stesso: la migliore medicina contro il dolore che essa provoca è la piena consapevolezza della sua ineluttabilità. Non esiste, infatti, nel buddhismo, un principio personale che persista oltre il cambiamento incessante: nessuna sostanza, nessun io immutabile. L’io dell’uomo è soltanto un’identità convenzionale per attraversare l’esistenza, ma, di fatto, è totalmente mutevole. La saggezza consiste nel “lasciar andare” ciò che è sottoposto alla legge eterna del cambiamento.
Credete che possiamo trarre spunti, noi occidentali, da questa prospettiva? La consapevolezza del continuo mutare di tutti gli esseri possono aiutare, nel tempo del dolore, a non fuggire, e ad accogliere la morte con maggiore naturalezza?