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La scuola della dignità, di Marina Sozzi

Quando siamo più fragili, quando ci colpisce la malattia o entriamo nella vecchiaia, e necessitiamo di cure mediche e di sostegno, abbiamo bisogno che la nostra dignità, che abbiamo tutelato da soli nel corso della nostra vita, sia invece protetta anche con l’aiuto degli altri.

Invece, purtroppo, è proprio nei luoghi di cura che spesso le preoccupazioni di ordine organizzativo hanno la meglio sulla difesa della dignità dei pazienti. Vi racconto solo un breve episodio, che è rimasto scolpito nella mia mente. Qualche mese fa ho dovuto portare mio padre novantacinquenne al Pronto soccorso di un ospedale della mia città, che gode di un’ottima reputazione. Abbiamo atteso diverse ore, e papà era molto stanco, ma presente. Infine, un medico ci ha fatti entrare, ha cominciato a parlare con me ignorando totalmente mio padre, rivolgendosi a lui solo per brevi ordini, dandogli del tu. L’ho rimproverato «perché gli sta dando del tu?», allora si è scusato con freddezza. Poi l’ha fatto sdraiare sulla barella e l’ha spogliato davanti a tutti, senza alcuna privacy. Infine, mi ha cacciata fuori, e quando sono riuscita a rientrare papà aveva il pannolone ed era molto confuso. Ho firmato e l’ho portato via, indignata. Quel giorno, in quel Pronto soccorso, ho visto diversi anziani mortificati nella loro umanità e dignità, tra cui una vecchia suora minuta e spaurita che mi ha fatto molta tenerezza. Uscito da quell’esperienza, mio padre ricordava poco, ma non aveva dimenticato di essere stato “denudato in pubblico”. Analoghe mancanze di rispetto ho visto accadere in alcune RSA che ho visitato. Per questo vi propongo una riflessione.

Come spesso mi è già capitato di scrivere in questo blog, la percezione della propria dignità dipende anche dallo sguardo con cui gli altri ci osservano. Se quando siamo particolarmente vulnerabili diventiamo numeri, o organi malati, o molecole, è ovvio che andiamo incontro alla mortificazione della nostra persona. Se siamo poi considerati semplici ingranaggi di un sistema che privilegia il funzionamento della macchina ospedaliera, con criteri aziendalistici, è naturale che ci sentiremo umiliati nella nostra umanità, sviliti e semplificati, in una parola non rispettati.

Siccome però, nonostante le buone leggi che abbiamo, le cose non cambiano dall’alto (l’organizzazione della sanità continua a sottovalutare per lo più la legge 219 del 2017, e i suoi preziosi articoli sul consenso informato), occorre quindi la crescita di una consapevolezza dal basso, di un’educazione alla salute dei cittadini, che provochi un cambiamento di mentalità anche in chi cura.

A prima vista sembra un controsenso, ma la prima cosa da fare è abbandonare l’illusione che la medicina sia onnipotente. Se l’aspettativa è che io (o il mio familiare) siamo sempre salvati, i curanti si sentiranno esposti al rischio di una denuncia (il numero di denunce che ricevono è molto più alto degli episodi documentabili di malasanità), e lavoreranno sulla difensiva, irritabili e certo non attenti allo sviluppo di un atteggiamento di autentica compassione (in senso etimologico) ed empatia. La nostra pretesa infantile di respingere sempre la morte opera contro di noi.

Quando il nostro atteggiamento non è aggressivo e comprendiamo i limiti e gli sforzi di chi ci sta di fronte, dobbiamo però esigere il rispetto. Occorre notare i dettagli: dare del tu, parlare ad alta voce agli anziani anche quando ci sentono benissimo, portare farmaci senza spiegare di cosa si tratta e perché se ne propone l’assunzione, svegliare i malati per futili motivi, ignorare il dolore delle persone con demenza, usare in modo errato strumenti di contenzione, solo per alleggerire il lavoro degli operatori, usare indiscriminatamente il pannolone per non dover accompagnare i pazienti in bagno, e la lista potrebbe allungarsi indefinitamente, con tutti gli atteggiamenti paternalistici e irrispettosi con cui certamente anche voi vi siete scontrati in qualche luogo di cura.

Su questo fronte, le cure palliative hanno molto da insegnare, perché considerano fondamentale la tutela della dignità del malato, che viene messo al centro dell’attenzione e pensato come persona complessa di cui prendersi cura.

La parola “cura” è la chiave di volta di questa nostra riflessione. Occorre chiedere di essere “guariti” solo quando è possibile, ma pretendere sempre di essere “curati”. Curare anche quando non si può guarire è uno slogan per le cure palliative. Ma la cura (il prendersi cura della persona, e della sua qualità di vita) non va riservata solo alle persone alla fine della loro esistenza, a domicilio o in hospice, ma va estesa progressivamente alla dimensione sanitaria tout court. E’ la grande sfida che le cure palliative stanno intraprendendo dal punto di vista culturale. In primo luogo, portare le cure palliative in tutti i luoghi di cura, quindi contagiare con la propria cultura della cura rispettosa tutto il mondo sanitario. La pandemia ci ha dato un esempio della potenza trainante delle cure palliative: nei pochi centri in cui erano presenti dei medici palliativisti, le cose sono andate in modo meno drammatico.

Harvey Max Chochinov scrive, nel bellissimo Terapia della dignità: «Se la vita è una specie di camminata sul filo, la probabilità di cadere aumenta a mano a mano che ci si avvicina alla fine. Pensiamo, allora, alle cure palliative come a una rete di protezione. Nessuno può evitare la caduta, ma le cure palliative possono dare un atterraggio più morbido». Io aggiungerei che questa rete potrebbe essere stesa con il dovuto anticipo, per garantire un po’ di morbidezza anche a coloro che magari guariranno, ma che stanno attraversando un’esperienza difficile.

Sarà un percorso lungo, perché richiede un cambiamento di mentalità, ma ciascuno di noi potrebbe abbreviarlo per sé e per i propri cari, informandosi sui propri diritti e sulle cure palliative, e chiedendo una cura rispettosa, trasmettendo anche ai curanti l’esigenza di salvaguardare la percezione dei malati di essere portatori di dignità. Parliamone, raccontiamo, contribuiamo a modificare la medicalizzazione priva di umanità.

Che ne pensate?

Avete esperienze che volete raccontare? Vi è capitato di sentirvi privi di dignità in sanità?

Vulnerabilità, violenza e cura, di Marina Sozzi

Negli ultimi mesi molte persone e anche alcuni giornalisti mi hanno chiesto se durante la pandemia si sia sviluppata negli individui una maggiore consapevolezza della propria vulnerabilità, e quindi una maggiore inclinazione alla cura e all’attenzione per gli altri.

E’ stata una speranza che si era affacciata nel primo lockdown, quando era prevalsa per qualche tempo un’atmosfera di solidarietà tra le persone e di gratitudine per gli operatori sanitari.

E’ durata poco, come era prevedibile per chi conosce i limiti dell’umano. Raggiungere una più alta consapevolezza della propria fragilità è un compito arduo, che richiede uno sforzo continuo, un lavorio incessante su se stessi: lo choc dovuto a un evento inatteso e avverso non è sufficiente.

La vulnerabilità è infatti la possibilità di essere esposti al “vulnus”, alla ferita altrui, corporea nell’etimologia latina, ma poi anche psicologica. Nel profondo, tutti sappiamo che l’uomo è vulnerabile, ma questa vulnerabilità non è uguale per tutti. Ci sono individui più vulnerabili di altri, per storia individuale, per status socioeconomico, per caratteristiche psicologiche, e così via. La percezione che qualcuno sia più vulnerabile di noi può portare alla cura ma anche alla violenza. Non si tratta però di inclinazioni nette e definite, bianco o nero, bene o male. Ciascuno di noi ha dentro di sè una tendenza violenta, che non necessariamente si esplica con la ferita fisica. La prevaricazione, l’indifferenza, la passione per l’esercizio del potere, l’egocentrismo, il paternalismo, sono forme di violenza, perché contribuiscono a tenere l’altro in una posizione di minorità e di fragilità. Si può essere anche violenti contro se stessi, quando non si riconosce il proprio valore, quando ci si impedisce di provare ed esprimere le emozioni, quando si è troppo esigenti.

Questa tendenza alla violenza può essere contrastata con un paziente lavoro di coltivazione della cura. Cura di sè, innanzitutto. Perché la mente umana è relazionale, e ciò che è irrisolto o bloccato in chi cura interferisce con la qualità della cura. Senza una presa in carico della propria fragilità non può esserci buon ascolto e buona cura.

Credo che questo ragionamento ci spieghi come mai sia così difficile avere una buona qualità della cura, sia nelle istituzioni sanitarie, sia in quelle sociali. E anche come mai ciascuno di noi faccia così fatica a offrire una buona qualità di cura ai propri familiari e amici che attraversano una fase di fragilità.

Non ci sono scorciatoie, il percorso verso una buona cura è un percorso innanzitutto di crescita umana. Altrimenti si può essere dei buoni o talvolta ottimi tecnici, operare correttamente dal punto di vista professionale (è il caso di molti medici), senza entrare però nella vera e propria dimensione della cura. La cura è un accompagnamento, che mira a attivare le risorse altrui per affrontare quanto la vita gli ha posto davanti. E’ una tensione verso un’uguaglianza non solo formale (siamo tutti uguali, abbiamo gli stessi diritti e doveri), ma sostanziale (cerco di colmare il fossato della disuguaglianza reale). E’ inoltre una tensione verso la realizzazione dell’autonomia decisionale della persona di cui ci si prende cura. Anche l’autodeterminazione, come l’eguaglianza, non è solo un diritto riconosciuto dalle leggi (tra cui l’ottima legge 219/2017), ma un obiettivo della cura. Se c’è rispetto della dignità altrui, riconoscimento, attenzione, le persone riescono più facilmente a decidere per sè.

Per questo buona parte della formazione che si fa in sanità dovrebbe riguardare la crescita umana necessaria per la buona cura, l’ascolto attivo, e le strategie per far prevalere l’istanza della cura sull’istinto della violenza.

Che ne pensate? Siete d’accordo? Potete raccontarci qualche episodio di buona o cattiva cura?

Sulla terra in punta di piedi. Intervista a Sandro Spinsanti, di Marina Sozzi

Abbiamo intervistato Sandro Spinsanti, bioeticista, fondatore e direttore dell’Istituto Giano per le Medical Humanities e il Management in sanità, sul tema del suo ultimo libro, la spiritualità e la cura.

C’è un’immagine bellissima subito all’inizio del tuo libro, che troviamo anche nel titolo, Sulla terra in punta di piedi. Occorre smettere di calcare la terra da padroni, bisogna minimizzare la nostra impronta ecologica, camminare in punta di piedi. In che senso questo ha a che fare con la spiritualità?

Ho preferito affidarmi a un’immagine, piuttosto che a una definizione. Certo, sia le parole che le immagini possono essere fuorvianti. Per molti lo è sicuramente la parola “spiritualità”: l’associano all’attività del pastore d’anime. Spiritualità ha un sentore di sagrestia, evoca scenari disincarnati, se non addirittura ostili alla vita terrena e corporea. Ma sono consapevole che anche l’immagine della posizione eretta può essere mal interpretata. Dall’antichità greca l’attribuzione della posizione eretta all’uomo è stato il simbolo della sua supremazia rispetto agli animali. È stata la sigla di un antropocentrismo che siamo invitati a scrollarci di dosso. Di questa transizione culturale si è fatto portavoce autorevole il magistero di papa Francesco con l’enciclica Laudato si’. Propone una fratellanza che non si limita agli esseri umani, ma arriva ad affermare come nuovo programma che “niente di questo mondo mi risulta indifferente”. Né gli animali, né le piante, né il pianeta stesso nella sua rude materialità: perfetta antitesi dell’atteggiamento antropocentrico che abbiamo nutrito nei confronti della terra (con le parole dell’enciclica: “Siamo cresciuti pensando che eravamo suoi proprietari e dominatori, autorizzati a saccheggiarla”). È una nuova dimensione della spiritualità, opposta al disprezzo nei confronti della materia, considerata il contrapposto dello spirito.

A questo punto l’immagine dell’essere umano in piedi sulla terra ha bisogno di essere abbinata a quella di un uomo chinato verso la terra stessa, in atteggiamento non solo umile, ma di cura. Le due metafore non si escludono reciprocamente, ma si richiamano e si completano. La spiritualità alla quale siamo chiamati nel nostro tempo non può fare a meno né dell’una, né dell’altra. Se l’uomo in piedi è simbolo dell’umano, quello chinato con atteggiamento di cura richiama il modello post-antropocentrico, verso il quale siamo chiamati a transitare. È molto più che un’evoluzione; qualcuno lo chiama anche coraggioso cambio di paradigma.

La spiritualità è per te strettamente connessa con il tema della cura. Che cosa ne pensi del filone femminista dell’etica della cura, e in particolare della definizione della cura data da Joan Tronto: “La cura è una pratica volta a mantenere, continuare o riparare il mondo”?

Sembra consolidata l’idea che il pensiero spirituale sia sovrapponibile a “pensare al femminile”. Non lo contesto, ma credo che sia opportuno vigilare su forme di sessismo nascoste, che si presentano dove meno ce l’aspetteremmo. Anni fa ha fatto epoca un saggio di Carol Gilligan: Con voce di donna. Denunciava l’apparente neutralità delle teorizzazioni che descrivevano lo sviluppo della capacità di formulare giudizi morali nell’essere umano. In realtà – affermava – per secoli la voce che abbiamo ascoltato era la voce degli uomini nel senso di maschi: era il loro modo di concepire i conflitti e le scelte morali, mentre la struttura etica che emerge dal pensiero delle donne è stata considerata come una deviazione dal modello ideale, una specie di fallimento evolutivo; come se nelle donne, rispetto alla capacità di giungere a un giudizio morale, ci fosse qualcosa che non va…

Il bias sessista nascosto nell’etica ci induce a stare all’erta riguardo a ciò che potrebbe succedere nella spiritualità. Magari a ruoli invertiti: riversando nella spiritualità stereotipi culturali femminili, opposti a quelli riservati alla mascolinità. È succube di questa insidiosa ripartizione di ruoli anche l’attribuire il compito della cura alla componente femminile della società. Se poi passiamo alla medicina, diventa: curare è maschile, prendersi cura è femminile. La spiritualità è un invito a scompigliare questi ruoli predeterminati. In tutti gli ambiti della cura: da quella della salute alla cura del pianeta. Anche il ripiegamento consapevole sulla propria crescita potrebbe essere visto in chiave femminile, mentre al maschio si riserva l’estroversione nel lavoro, nella scalata sociale, nel potere. L’alzarsi sulla punta dei piedi non è né maschile, né femminile: è una potenzialità da sviluppare, alla quale è chiamato ogni essere umano.

Sembri essere critico nei confronti della professionalizzazione del sostegno spirituale. Che ne pensi dunque del “core curriculum” che nell’ambito delle cure palliative è stato definito proprio per diffondere la figura dell’assistente spirituale?

La professionalizzazione è sia un pericolo che un’opportunità: in tutti gli ambiti della cura, non solo nella spiritualità. La professione delimita la cura stessa entro certi confini. Non possiamo aspettarci da un professionista lo stesso coinvolgimento emotivo che auspichiamo da parte di un familiare o da una persona intima. Quello che vorrei fosse associato alla professionalizzazione del sostegno spirituale è la competenza. Mentre questa è facile individuarla nelle cure mediche o infermieristiche, è più difficile quando ci spostiamo nell’ambito della spiritualità. Possiamo dire, in negativo: non bastano la spinta ideale e l’entusiasmo personale. Per questo nei confronti di chi si appresta a fornire un accompagnamento spirituale sono necessari: una selezione (certe persone è più opportuno che si astengano, se hanno un orientamento missionario), una formazione specifica (quindi ben vengano le indicazioni del ‘core curriculum’) e una supervisione che accompagni la pratica attraverso un confronto per le situazioni più difficili.

Nel tuo libro sei molto prudente nel dare definizioni positive di cosa sia spiritualità o di come possa essere esercitata. Ma secondo la tua riflessione c’è un legame tra consapevolezza della vulnerabilità e della mortalità (quando è incarnata, e non puramente intellettuale) e desiderio di spiritualità?

La consapevolezza è il presupposto per la spiritualità, intesa non come una pratica segmentale e confinata in certe situazioni, come quella della terminalità, ma come un percorso che si estende tanto quanto la cura. Se dalla cura ci si aspetta unicamente la ‘restitutio ad integrum’, la spiritualità è fuori gioco.

In quali modi la spiritualità ha a che fare con una riduzione dell’antropocentrismo e dell’individualismo della società occidentale?

Spiritualità e sopravvivenza: è una connessione inedita. Eravamo abituati a coniugare il progresso spirituale dell’umanità o con l’attenzione che sposta il centro di gravità dalla vita terrena alla vita eterna – nella prospettiva religiosa – o con un affinamento della nostra qualità umana. Ora invece siamo stati bruscamente confrontati con la sopravvivenza della specie umana. Lo ha proclamato, in modo scenograficamente efficace, papa Francesco nella sua preghiera in una piazza san Pietro deserta, durante la prima fase della pandemia, quando ha proclamato che ci appoggiamo su un pianeta ammalato per lo sfruttamento a cui lo abbiamo sottoposto. E ancora, nell’enciclica Fratelli tutti, ha evidenziato come il Covid 19 abbia messo in luce le nostre false sicurezze. Non si tratta, dunque, di chiudere una parentesi e tornare alla normalità: “Se qualcuno pensa che si trattasse solo di far funzionare meglio quello che già facevamo, o che l’unico messaggio sia che dobbiamo migliorare i sistemi e le regole già esistenti, sta negando la realtà”. È questa la sfida: mettere la spiritualità non in rapporto con l’ultraterreno, ma proprio con la terra, con la rete dei viventi su di essa. L’alzarci punta di piedi diventa allora una metafora per evocare un peso più leggero. Il contrario dello sfruttamento a oltranza. E proprio qui sta la difficoltà: non ci è richiesto solo qualche piccolo aggiustamento, ma di cambiare il modo di vivere, l’ordine delle priorità. Potremo sopravvivere solo se impareremo a sopra-vivere: ecco, in sintesi, che cosa ci sta chiedendo la spiritualità.

Secondo te la terribile esperienza del Covid ha modificato il nostro rapporto con la spiritualità, e se sì, in che modo? Se ne parla tanto, fin dall’inizio della pandemia, ma io vedo soprattutto un’enorme fatica, il conteggio dei morti la sera, e la fuga dalla realtà dei negazionisti o degli spregiudicati…

Dal punto di vista ideale, la crisi pandemica è un invito a un ripensamento del nostro stile di vita, ovvero uno stimolo ad alzarci sulla punta dei piedi, per ricorrere ancora all’immagine con cui invito a pensare alla spiritualità. Se invece guardiamo all’impatto concreto che la pandemia sta avendo sulle opportunità di crescita spirituale, la tua analisi è molto realistica. Sembra che anche questa opportunità la stiamo perdendo: siamo più orientati a chiudere la parentesi per tornare alla normalità, invece di cercare una diversa e migliore normalità.

Uno sviluppo che mi piacerebbe approfondire è l’interfaccia tra spiritualità e arte. Quali sono i rapporti reciproci?

Nella mia riflessione ho dedicato una particolare attenzione a quelli che ho chiamato “incroci di percorso”. Invece di isolare la spiritualità, l’ho messa in relazione con quanto viene proposto e praticato in ambiti che corrono paralleli nella nostra cultura: con la religione – per dire – e con la psicologia, con l’ecologia e con la filosofia. Uno dei confronti più promettenti è proprio quello della spiritualità nel percorso di cura con l’arte. Sembra una provocazione, perché la cura si presenta come questione di scienza; e la scienza si colloca su un terreno del sapere diverso rispetto all’arte. La spiritualità in questo ambito equivale a un invito ad ampliare il nostro sguardo. La prima guarigione di cui abbiamo bisogno è proprio quella dall’impoverimento della nostra prospettiva. La ricerca della salute richiede anche un nostro orientamento verso la bellezza. In tutte le sue forme: quelle che parlano agli occhi e quelle che percorrono la via dell’udito, così come la cura è costituita da parole, non meno che da farmaci.

Le espressioni dell’arte che ci vengono incontro sono le più varie: dalla parola letteraria (è appena il caso di menzionare in questo contesto l’importanza della Medicina Narrativa, in tutte le sue articolazioni) alla musica, che ha preso dimora nelle strutture sanitarie più all’avanguardia come ospite fisso; dall’arte grafica (l’”arteterapia” è offerta ai malati in percorsi di cura eccellenti) a quella cinematografica. L’arte è un’ottima compagna di strada della spiritualità; le sue articolazioni sono tante quante la nostra creatività riesce a immaginare.

La cura, la dignità e la solitudine, di Marina Sozzi

Il Covid-19 ha portato via la dignità del morire, scrive sul Journal of Palliative Medicine  Max Chochinov, autore di un noto volume sulla Terapia della dignità. Il terribile isolamento dei pazienti Covid, l’estrema vulnerabilità e l’inclinazione a sentirsi essi stessi “contagio” fanno sì che essi vadano incontro a depressione, ansia, rabbia, e perdita di autostima. Insieme a questa condizione di solitudine, l’impossibilità di vedere i familiari, e il divieto di celebrare riti funebri qualora muoiano, hanno compromesso la loro dignità.

Chochinov parla delle persone malate di Covid-19, e sottolinea che in modo analogo sono colpiti anche i curanti, spesso inviati a curare il Covid senza alcuna esperienza pregressa di malattie infettive. La fatica di turni massacranti da fare con dispositivi di protezione difficili da gestire, la frequenza delle morti rispetto alle quali ci si sente impotenti, l’ansia di essere contagiati e di poter contagiare a loro volta i propri cari, hanno portato a una moltiplicazione di casi di burnout e di malessere psichico, di cui probabilmente non è ancora possibile misurare tutti gli effetti.

Che fare? Occorre fare in modo che chi si ammala e muore per il virus non muoia privato della dignità. Chochinov è convinto che restituire dignità ai pazienti significhi anche ridare il sentimento del controllo e dell’efficacia ai curanti, anche quando l’esito della cura non dovesse essere la guarigione.

Raccomanda che si ripristinino alcune condizioni delle cure capaci di preservare la dignità. Identifica quattro caposaldi della buona cura: 1) il corretto atteggiamento dei curanti, che implica un profondo rispetto per i pazienti. L’atteggiamento è fondamentale perché la percezione di sé dei malati dipende da come vengono visti da coloro che li curano. 2) Il corretto comportamento, che consiste in alcuni gesti significativi, come quello di prendere una sedia e sedere accanto al letto del malato per parlargli. 3) La compassione, che non coincide con la pietà, perché porta ad agire per alleviare la sofferenza del paziente, e 4) il dialogo, che riguarda le conversazioni che si hanno con il paziente nel rispetto della sua personalità. Chochinov non manca di far notare che l’attenzione posta a questi quattro punti aiuta non solo i pazienti, ma anche i curanti, che si sentono meno impotenti e frustrati.

Questo ragionamento di Chochinov va esteso non solo a chi muore per il virus, ma anche a chi muore durante il periodo del virus. E, in particolare, vorrei sottolineare un aspetto del ragionamento di Chochinov, che riguarda la dimensione dell’isolamento e della perdita di contatto con i familiari, che in Italia è stata vissuta da tutti coloro che erano ricoverati, indipendentemente dalla patologia: in ospedale, nelle RSA e, nei primi mesi della pandemia, anche in hospice. Le conseguenze di questo isolamento sono di estrema gravità per i malati, per i curanti, ma anche per i familiari, costretti ad attendere impotenti la telefonata del personale sanitario. Una comunicazione spesso inadeguata, per mancanza di competenze e per la difficoltà complessiva della situazione.

La tutela della salute dei degenti e del personale curante è obiettivo irrinunciabile, naturalmente, ed è comprensibile che di fronte alla prima ondata di pandemia si sia deciso di impedire le visite nei luoghi di cura. Tuttavia, a distanza di più di sei mesi, quando c’è stato il tempo per riorganizzare i servizi in vista della prevedibile seconda ondata, lasciare che le persone vivano la malattia e la morte in solitudine è una conseguenza non obbligata e inaccettabile della pandemia. Gli anziani, soprattutto, senza i familiari deperiscono, si lasciano andare e perdono lucidità.

Occorre anche dire che l’idea che i familiari non potessero più entrare in luoghi sanitari per via del Covid è stata accolta con facilità e con fin troppo rigore.  Probabilmente il timore del contagio si è saldato con una mentalità vecchia ma ancora piuttosto diffusa nella biomedicina: il pensiero che i familiari, lungi dall’essere alleati degli operatori, e importanti fattori di sostegno dei degenti, siano invece un ostacolo, un intralcio rispetto alla cura. Le famiglie, private della possibilità di vedere i propri cari, sono defraudate della possibilità di essere testimoni della cura, e quindi di accertarsi che la cura sia la migliore possibile, oltre che espropriate della consolazione di accompagnare i propri cari.

Occorre trovare una soluzione diversa, credo sia giunto il momento di dirlo a voce alta, soprattutto quando si parla di persone che non hanno contratto il Covid e sono ricoverate in strutture non Covid. È intuitivo pensare che basterebbe fare un tampone o un test veloce al familiare a cui è permesso entrare. E, se questo rappresenta un costo troppo alto per la sanità pubblica, si può anche pensare di farlo sostenere in parte ai cittadini.

Ma non possiamo continuare a derogare a principi inderogabili, come il diritto a morire con dignità.

Che ne pensate? Quali sono le vostre opinioni e le vostre esperienze in proposito?

La cura come valore, di Marina Sozzi

L’esperienza del Covid ci ha messi di fronte a un’evidenza: siamo fragili, vulnerabili in quanto umani, esposti alla sofferenza e alla morte, e quindi tutti bisognosi di cura. Vorrei che non intendessimo la cura solo in senso sanitario. Il Covid ci ha infatti anche permesso di comprendere una questione molto rilevante, che la cura è un concetto ampio, che implica relazionalità e reciprocità: la cura degli altri e la cura di sé sono due facce della stessa medaglia. La questione delle mascherine, che non tutti colgono, è proprio questa: se tutti la portiamo siamo tutti protetti, tutelando gli altri proteggiamo noi stessi. Questo è un bell’esempio del funzionamento della cura. Facciamone un altro: il tema del surriscaldamento del pianeta. Se ce ne prendiamo cura, se cerchiamo nel nostro piccolo di far parte della soluzione di questo abnorme problema, se scegliamo ad esempio mezzi di trasporto sostenibili, se riduciamo lo spreco di acqua, se mangiamo meno carne e utilizziamo prodotti ecologici, ne beneficeremo noi insieme a tutto il resto del genere umano. Siamo connessi.

Ma cosa è la cura? Joan Tronto, filosofa femminista americana, la definisce come: “una pratica, volta a mantenere, continuare o riparare il mondo.”

Cura quindi non è solo cura delle malattie. Cura è l’allevamento dei figli, l’aiuto prestato agli anziani, l’istruzione, la formazione, lo sviluppo della persona. Cura è la pulizia delle nostre case e delle nostre città, cura è la salvaguardia della terra… eccetera. La cura è un aspetto universale della vita umana: tutti gli esseri umani hanno bisogni che possono essere soddisfatti solo mediante l’aiuto degli altri. Chi presta cura è consapevole del valore di questa pratica. Ma nella nostra cultura chi fornisce lavoro di cura è sovente svalutato e sottopagato. Badanti, OSS, infermieri, insegnanti. Parallelamente, chi ha maggiori esigenze di cura è sovente emarginato e implicitamente disprezzato in quanto “bisognoso”.

Perché questa svalutazione? Ci sono molti e complessi motivi, mi limiterò a indicare il più rilevante. Si tratta dell’idea dell’autonomia dell’individuo come valore assoluto. Questo valore è molto condiviso: si pensi solo al mito del self made man, che si è costruito con le sue sole forze una vita e una carriera di successo. È un mito che si forma a partire dall’oblio del contributo che gli altri (il contesto in cui siamo inseriti) danno alle nostre realizzazioni. D’altra parte, se l’autonomia e l’indipendenza sono un valore assoluto, la dipendenza sarà vista come disvalore: chi è bisognoso di cura viene sminuito. Qui intervengono, accanto all’oblio, anche plurime forme di negazione: negazione della malattia e della vecchiaia, negazione della vulnerabilità, negazione della morte. Eppure, nonostante le illusioni dei nostri contemporanei, verrà un momento in cui anche il più autonomo degli individui avrà bisogno di aiuto. Ciascuno è dipendente e indipendente al contempo, in vari momenti della vita, e questa situazione si può definire come interdipendenza degli uomini tra loro. La cura ci permette di avere l’autonomia come obiettivo, ma senza emarginare e svalutare la dimensione umanissima della dipendenza. L’autonomia e l’indipendenza degli individui sarebbe peraltro un valore accettabile, a patto che non si smarrisca la coscienza che è attraverso la cura che si può raggiungere, insieme, il maggior grado di autonomia possibile. A partire da questa consapevolezza, che scardina la serie di negazioni a cui si faceva riferimento sopra, chi cura potrà avere una diversa considerazione sociale. Ho un sogno, quindi, ed è che la cura possa diventare un valore sociale condiviso, e smetta di essere un lavoro che si svolge nell’ombra, in dimensione privata, fornito da membri svantaggiati della società a beneficio di coloro che possono pagare per procurarselo. Questa argomentazione meriterebbe più ampie riflessioni, ma lo spazio di un post non mi permette di dilungarmi. Sono certa che voi, con le vostre considerazioni ed esperienze, aggiungerete molto a ciò che ho pensato.

Ancora una cosa. Abbiamo un modello che ci permetta di intuire cosa potrebbe essere la dimensione della cura come valore? A mio modo di vedere sì. Il modello è quello delle cure palliative, più efficace del modello della relazione madre bambino, di solito citata come esempio di cura per antonomasia.

Le cure palliative si muovono nel territorio più delicato, quello della prossimità alla morte, e proprio per questo hanno maturato un atteggiamento e delle competenze fondamentali: la consapevolezza della vulnerabilità e la capacità di stare accanto alla sofferenza, l’attenzione per chi riceve la cura (il paziente al centro), la valorizzazione delle capacità residue e delle relazioni, il rispetto per la dignità e l’ascolto, la delicatezza, l’empatia, la presenza, la vicinanza. Queste caratteristiche, che definiscono la buona cura, si riflettono su chi presta la cura. Le équipe di cure palliative valorizzano tutti i ruoli di cura, dal medico al volontario, riconoscendo a ciascuno il valore della sua competenza concreta. Il punto di forza delle cure palliative consiste proprio in questo, la dimensione dell’équipe: la condivisione permette di sostenere chi trova difficoltà nel suo lavoro di cura, minimizzando l’impatto delle debolezze individuali e permettendo a ciascuno di dare il meglio.

 

Il velo di Maya e il dono della cura, di Davide De Angelis

Riceviamo e pubblichiamo con piacere la riflessione del bioeticista Davide De Angelis sulla cura al tempo del Covid-19.

Non rifletteremo mai abbastanza sulla portata etica e sociale delle conseguenze derivanti dall’attuale pandemia di Covid-19. Lo spaesamento in cui siamo precipitati. Lo svuotamento esistenziale in cui siamo stati gettati. Abbandonate le nostre rassicuranti certezze sul ruolo che ricoprivamo, accantonate le nostre quotidiane attività, che un tempo davano senso alle nostre giornate, abbiamo perso la nostra spensierata frenesia: la corsetta mattutina, il caffé con i colleghi, la passeggiata in centro, l’aperitivo con gli amici.

Come tante vittime di un furto spudorato e geniale, ci siamo svegliati attoniti in un mondo surreale e distopico. Colpiti da uno schiaffo improvviso, che ci ha lasciato ammutoliti, dopo l’immediato accesso di rabbia, stiamo mendicando ovunque spiegazioni che nessuno è in grado di fornirci in modo univoco e rassicurante. La scienza balbetta di fronte ad un virus sconosciuto, su cui avanza solo ipotesi, non sempre verosimili; la politica farnetica sulle disposizioni restrittive, così come l’economia ignora le strade più sicure da percorrere, mentre la comunicazione fatica a districarsi tra notizie false, allarmanti o semplicemente frammentarie e inesatte. Ci è stata rubata la certezza. Quella un tempo ostentata in ogni dichiarazione politica o televisiva. E molto altro ancora. Siamo stati defraudati, derubati, vituperati, vilipesi e privati del tempo. Di quello trascorso con i nostri cari, con i compagni di scuola, con i pazienti degli ospedali, con i propri defunti. Un tempo che nessuno ci restituirà, perché molte persone sono scomparse nel silenzio e nell’isolamento, senza nessuno che stringesse loro la mano, senza una cura che fosse innanzitutto tenerezza umana, prima che eminentemente medica.

Altri, confinati in casa, disperano di ritrovare la loro noiosa normalità, scandita dalla spesa al mercato, dalla passeggiata verso la chiesa o dalla visita dei nipotini. Bambini in attesa di compagni di giochi, che saccheggiano i depositi della propria fantasia, i loro giacimenti di creatività, sognando di rincorrersi liberi per i prati. Tempo rubato, ineluttabilmente sottrattoci senza la prospettiva di un termine.

O forse, ciò che è stato trafugato è una cortina invisibile che appannava la nostra vista. Il velo di Maya che offuscava la corretta visione della realtà, rendendo indistinguibile la verità dalla menzogna. Strappato il quale tutto torna nitido. E possiamo finalmente discernere l’essenzialità di alcune professioni, in contrasto con la vacuità dei celebrati influencers e l’inconsistenza delle pseudoteorie circa la fine del lavoro umano; che non solo ora l’organico degli operatori sanitari è inferiore agli standard internazionali richiesti; che oltre alla penuria dei medici ben più grave è quella degli infermieri, il cui rapporto con i pazienti è gravemente più basso dei criteri dettati dall’OMS. Che gli operatori socio sanitari e gli educatori svolgono un silenzioso, ma quanto mai prezioso lavoro ogni giorno, spesso in condizioni di precariato, dimenticati dall’opinione pubblica ed estranei a qualunque riconoscimento sociale.

Professionisti e badanti che in punta di piedi reggono le maglie di un tessuto socio-assistenziale sempre più esposto alla tensione dei traguardi che la medicina si prefigge di realizzare. A volte confliggendo con la delicata e sommessa poetica del gesto di cura, svalutato perché (forse) non quantificabile o riproducibile nell’omologazione in cui si traducono le direttive dell’efficientamento sanitario. La cura rimane quella timida alleata della relazione terapeutica, che ora, di fronte all’incertezza dei risultati e degli scenari futuri, sembra assurgere al piano gerarchico che le spetta. Quei gesti che sembravano trovare un senso solo nell’ambito palliativo, senza i quali una residenza per anziani si trasforma in un lager a pagamento, divengono ora posture solide cui appoggiare il peso dell’intero approccio medico, anche quello intensivista.

Perché accanto alle interpretazioni belliche, che vedono nel virus un nemico da sconfiggere con ogni mezzo e arma, emergono con sommesso orgoglio altre ermeneutiche che ricercano nella volontà missionaria la loro forza. Curare è una missione, ossia un mandato, accettato e condiviso, da chi se ne assume l’onere, con la propria professionalità. Ma è anche una missione, in quanto luogo comune in cui assisterci e accudirci vicendevolmente. Per un fine alto e nobile. Non esiste cura autentica che non sia di sé e di chi ci contorna, indistintamente. La cura non sceglie, la cura accoglie. Ecco perché questa non è la nostra guerra, ma la nostra missione. Ecco perché il Covid-19 non potrà rubarci il dono della cura: perché chi dona, non potrà mai essere borseggiato; chi dona si svincola dalle prese dello scippatore, proprio perché si è liberato anzitempo di un bene, che non è più suo, della cui privazione si è arricchito. L’unica ricchezza a prova di furto. L’unico virus da cui merita farsi contagiare.