Le parole che non abbiamo di fronte alla morte, di Cristina Vargas
Il linguaggio, il pensiero e le emozioni sono intrecciati in modo profondo e sovente inestricabile. Di fronte a un lutto le parole possono dare forma a sensazioni viscerali che non sempre sono facili da capire. Ogni lingua offre un repertorio lessicale che permette di dare nome a stati d’animo che talvolta sono difficili da definire (persino per chi li sperimenta) rendendoli riconoscibili e, nello stesso tempo, comunicabili. Il linguaggio ci aiuta a cogliere la differenza fra il dolore e nostalgia; separa il senso di colpa dalla rabbia. Una parola, inoltre, può conferire visibilità e riconoscimento sociale a un particolare tipo di condizione, evidenziandone la specificità. Nella lingua italiana disponiamo di due parole per parlare della sofferenza provocata per la morte di una persona cara: “lutto”, dal latino lūctus, deriva dal verbo lugere, che significa piangere; e “cordoglio”, che deriva etimologicamente dal latino cordŏlĭu(m), composto di cor ‘cuore’ e dolēre: dolore di cuore, ma forse anche cuore che duole per chi ci ha lasciato. Oggi, in italiano, si usa il termine “lutto” per parlare della sofferenza (psichica, intima, per lo più privata) che si prova per la morte di persona cara, mentre “cordoglio” è meno presente nel linguaggio quotidiano e viene per lo più usato in formule quali “esprimere il proprio cordoglio”, che ci proiettano in una dimensione pubblica e condivisa del dolore. Anche in altre lingue romanze ci sono parole specifiche per dare nome alla sofferenza per la morte di un caro: deuil in francese e duelo in spagnolo (dal latino dolēre) sono entrambe traducibili con l’italiano “lutto”. Tuttavia, non tutte le lingue dispongono di parole equivalenti. Ruth Evans, geografa e antropologa, racconta che durante una ricerca sul rapporto fra lingua ed emozioni condotta in Senegal, in un contesto bilingue francese/wolof, ha riscontrato una forte difficoltà a tradurre la parola inglese grief , intesa appunto come la risposta emotiva alla morte di una persona significativa. I suoi interlocutori, infatti, usavano il termine wolof métite, il cui significato è più ampio e non strettamente collegato al fine vita, tanto che di solito veniva tradotto con il francese chagrin (dolore, sofferenza). Anche la parola usata per parlare della morte, niak, è più vicina nel suo significato all’espressione “perdita”, nel senso che non è specificamente riferita al decesso, ma può essere usata anche in molti altri ambiti, compreso quello economico. Per Evans quest’ampiezza semantica non è mera genericità, ma è coerente con la molteplicità di dimensioni – emotive, ma anche materiali e sociali – toccate dalla morte di un congiunto o di un amico in una comunità caratterizzata dalla forte interdipendenza reciproca. La connessione fra lingua e pensiero è stata a lungo oggetto di studio e di dibattito in ambito sociolinguistico, in particolare a partire dagli anni Cinquanta del Novecento quando vennero pubblicati i lavori sul relativismo linguistico dell’antropologo Edward Sapir e del suo allievo Benjamin Lee Whorf. Come spiega quest’ultimo, il mondo “si manifesta in un flusso caleidoscopico di impressioni che devono essere organizzate dalle nostre menti” ed è in grande misura grazie alla lingua che questo processo di classificazione può verificarsi. Nelle sue versioni più deterministiche l’ipotesi di Sapir e Whorf è stata oggetto di critiche fondate. Tuttavia, è innegabile che la lingua incida sulla nostra visione del mondo. Se da una parte abbiamo delle parole che nominano, e rendono socialmente visibili certi tipi di esperienza, dall’altra ci sono parole che “mancano”. Mentre nella lingua italiana disponiamo di “vedova” e “vedovo” per designare chi ha perso il proprio coniuge, non abbiamo dei termini che permettano di dare nome a chi è in lutto per una persona amata con la quale però non aveva un legame ufficiale. Non ci sono parole per designare chi ha perso un fratello o una sorella, e questo lutto di fatto viene spesso sottovalutato. Ci sono le parole “orfano” e “orfana” per chi ha perso la madre o il padre, ma non ci sono parole che descrivano un genitore che ha perso un figlio. Quest’ultima mancanza è forse la più sentita a livello pubblico, non solo in Italia, ma anche nei contesti anglofoni e francofoni. Nel corso degli anni ci sono state alcune proposte per colmare questo vuoto linguistico. La psichiatra e scrittrice marocchina Rita el-Kahyat ha usato il temine désenfantement (defigliazione) per parlare della morte di sua figlia Aïni. Karla Holloway, già professoressa di Letteratura Inglese alla Duke University, racconta che dopo la tragica morte di suo figlio aveva sentito a lungo la mancanza di una parola “a cui aggrapparsi”. Dopo aver cercato alternative in molte lingue, propose di usare la parola sanscrita vilomah: un dolore che è contro l’ordine naturale, che sovverte il modo in cui dovrebbe andare il ciclo vitale. Anche in Italia ci sono state proposte che, come le precedenti, hanno avuto un riscontro limitato, ma testimoniano un bisogno importante. Paolo d’Achille, che ha a lungo studiato la costituzione del lessico italiano, chiamato a rispondere a un quesito posto al Servizio Consulenza dell’Accademia della Crusca, ha ricordato sia l’uso letterario della parola “orbato”, sia il neologismo “disfigliato” che ha però storicamente ha una connotazione diversa poiché viene usata anche in riferimento a chi non ha figli. Una risorsa interessante sono quelle lingue che, invece, dispongono di termini ben precisi che raccontano il dramma della morte un figlio. Sandro Veronesi, nel suo recente libro Il Colibrì, ce ne elenca alcuni: in ebraico shakul, dal verbo shakal (perdere un figlio); in arabo thaakil (thakla per la madre); nel greco moderno la parola charokammenos, “bruciato dalla morte”, che dovrebbe essere riferita a qualsiasi tipo di lutto, ma è usata quasi soltanto per indicare un genitore che perde un figlio. Anche la ricerca in ambito antropologico e psicologico ci offre degli esempi: in Cina, i genitori il cui unico figlio o figlia muore, o ha un livello di disabilità talmente grave da compromettere la sua possibilità di vivere senza supporto costante, sono Shidu. Questo termine è interessante perché accomuna due circostanze per noi diverse, ma che sul piano sociale vengono considerate dei lutti a tutti gli effetti. Non è facile stabilire in modo univoco perché in ogni lingua certe parole ci sono, e certe altre invece mancano. Le ragioni sono molteplici e affondano le loro radici in fattori sociali, economici, culturali e forse anche psicologici. Un “vuoto” linguistico non necessariamente segnala un tabù, ma certamente è collegato al minor riconoscimento collettivo di fatti che altrove vengono nominate. Le parole, infatti, illuminano o celano, evidenziano o negano, allargano o restringono un campo semantico e, in questa misura, fanno parte integrante del modo in cui ci occupiamo della morte e dei morti come individui e come collettività. Cosa ne pensate? Avete esperienza della mancanza di alcuni termini per designare una perdita subita da voi o da persone intorno a voi?
Nell’abisso dell’assenza, le parole fuggono, perdute come foglie nell’attimo del vento. Nel vuoto dell’assenza, il cuore piange senza voce, il silenzio urla l’ineffabile. Resta solo l’eco di un’assenza che si fa presenza, intrecciata nei ricordi come fili di una trama invisibile, intessuta con lacrime e sorrisi. E in questo labirinto di emozioni senza nome che sta chi perde un gatto, un cane, un altro caro animale.
Gentilissima Dott.sa Vargas, ha toccato un tasto davvero sentito. Grazie. Di recente, ho ascoltato le parole di Erika Zerbini che raccontava dei figli abortiti (non per IVG) o nati morti, ai quali spesso non si sa che nome dare o come definirli. Lei afferma che sono semplicemente figli e basta. E’ davvero importante poter trovare “parole alle quali aggrapparsi” poiché sono proprio le parole che ci consentono di esistere e di esprimere i nostri sentimenti.
Cara Lucia, mi permetto di includere anche i figli abortiti per IVG, nel caso in cui i genitori li considerino tali. Non è raro che l’interruzione volontaria di gravidanza susciti il lutto e sia avvertita dagli interessati come l’evento che ha provocato la morte del loro bambino (figlio). La scelta delle parole dipende dal sentire dei diretti interessati, noi possiamo avvicinarci a loro senza pregiudizi, lasciandoli liberi di esprimere il loro sentire per com’è, accogliendolo e mostrandoci capaci di stare (e stare con loro) dove per loro è ancora tanto difficile riuscire a pensarsi/raccontarsi. Grazie, a presto!
Anche io da tempo mi interrogo sulle parole e sulla mancanza di alcune di esse. Mi occupo da tanto tempo di lutto perinatale, curiosamente l’unico lutto che porta l’aggiunta di un aggettivo. Perché l’esigenza di definirlo e, nello stesso tempo differenziarlo, dagli altri lutti? Non perché sia diverso, pur portando con sé alcune peculiarità, ma perché necessita di essere riconosciuto esso stesso quale lutto, invece di essere ignorato poiché il deceduto è stato invisibile (quindi mai esistito davvero) per i più. Mi auguro che un giorno non sarà più necessario compiere questa spartizione: sarà l’epoca in cui esso si sarà integrato e avrà acquisito dignità pari agli altri lutti.
Facendo il mio ingresso nel mondo dei dolenti a causa della morte in grembo di due delle mie figlie, anche io mi sono indignata per la grave mancanza di parole con cui i genitori sono costretti a misurarsi: perché orfano e vedovo, ma nulla per noi?
Dopo tanto tempo immersa nello studio e nella ricerca dei molteplici significati che un lutto può suscitare, non ho potuto fare ameno di notare come la mancanza di questa parola generi un movimento compatto di indignazione che accomuna e rafforza un’identità sociale specifica (quella dei genitori in lutto), troppo spesso abbandonata a se stessa. Quindi la mancanza è essa stessa faro che ci illumina un bisogno, non di parole, bensì di accoglimento, supporto, ascolto, vicinanza verso chi soffre.
A ben osservare, vedovo e orfano non sono due termini che identificano particolari persone in lutto, cioè facilmente non si è avvertita la necessità di queste parole per descrivere un dolore, ma per rappresentare lo stato civile di due categorie di persone, a questo punto ricollocabili legalmente (matrimonio, adozione). Nel nostro paese non abbiamo altre parole che identifichino i luttuanti e siamo stati noi a riempire del significato del dolore questi due termini. Svuotati da questa assegnazione, lo scenario muta radicalmente: i luttuanti si ritrovano tutti uguali nella loro sofferenza, esattamente come in effetti sono. Da tempo sto cercando di portare l’attenzione su un diverso punto di vista: non è detto che abbiamo bisogno di più parole, piuttosto potremmo assegnare altri significati a quelle che esistono già. Se orfano e vedovo fossero considerati due termini di uso legale, la prospettiva muterebbe. Diversificare i luttuanti con le parole, significa rischiare di dare un peso diverso al dolore e alimentare uno scenario che spesso si presenta, cioè stabilire gradi diversi di dignità del lutto. Nell’ottica di passare un messaggio differente, penso che un solo termine nel quale poterci rivedere tutti, ci renderebbe più solidali e maggiormente disposti ad accogliere l’altro senza giudizio, al nostro pari, alimentando così la comunanza.
Ciò che manca davvero nell’ambito del lutto, credo che non siano le parole, ma la naturalezza di usare quelle di cui già disponiamo in tutti gli ambiti della nostra vita, cioè includere la morte e il lutto nel nostro quotidiano ordinario. Rendere la morte e il lutto fatti di tutti, di cui non aver paura. Che poi è ciò che si propone anche questo luogo. Grazie per questa opportunità di scambio.
Grazie mille Lucia, sono riflessioni molto interessanti. Le parole a mio avviso sono una via sia per esprimere, sia per dare forma e far esistere vissuti intimi e personali.
Grazie mille Erika,.per la sua testimonianza e per le sue riflessioni! Condivido in profondità lo spirito del suo intervento, nel senso che non dovrebbero mai esserci “gerarchie” nel dolore, anzi, il lutto è una condizione umana, che ci accomuna tutti mettendo a nudo la nostra umana vulnerabilità. Credo che, all’interno di un’idea inclusiva, ognuno possa trovare la propria via: c’è chi non sente l’esigenza di nuove parole, piuttosto sceglie le parole che già esistono usate però con normalità e consapevolezza. Chi, come me, propone invece uno sguardo che viaggia verso altri mondi linguistici e culturali per scoprire altri modi, allo stesso tempo simili e diversi, di parlare del dolore.
Buongiorno Cristina,
Mentre leggo quanto da lei scritto e quanto scritto dalle persone che hanno condiviso il loro sentito e vissuti….sento in me emozioni che vibrano e vanno a toccare corde profonde e mi interrogo su ciò che sento, sforzandomi di tradurre in parole il mio sentito.
Credo sia importante riuscire a farlo, per evitare di cristallizzare la sofferenza… fino a permetterle di bloccarci in toto…
Rendere ” parlabile” la sofferenza e riuscire ad esprimerla cosi come la sentiamo, vuol dire iniziare un viaggio infinito dentro di noi, un viaggio in tappe in cui impariamo dapprima a guardarla, poi ad osservarla, poi a interrogarla, poi a valutarla… poi a giudicarla… pronti a difenderci e a non darle il tempo di trovare le parole giuste per esprimersi…e poi arriva un tempo in cui la accogliamo nella nostra vita… ed è in questa fase che iniziamo a trovare le parole per descriverla ed esprimerla….e a renderla germinativa. Ed è lì che pur attraversati da un immenso dolore, riusciamo ad andare oltre….
E’ un percorso che ci vede coinvolti in prima persona, e solo dentro di noi possiamo trovare le o la parola che racchiude in sé tutto il dicibile per esprimere la nostra sofferenza.
È un percorso in solitaria, ma chi incontriamo sulla ” strada” e il contesto in cui ci troviamo di volta in volta, può sicuramente aiutare.
Quindi GRAZIE anche a spazi come questo che lei/ voi mettete a disposizione per aprire riflessioni e “sguardi verso un infinito” che ci comprende tutti, perchè siamo parte di un tutto nel rispetto della nostra individualità.
Rosella