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Normalità e trauma: la paura della morte in tempi di pandemia, di Cristina Vargas

Come molte altre persone che si occupano del fine vita nel campo delle scienze sociali, in questi ultimi due anni mi sono più volte interrogata su quali implicazioni abbia avuto la pandemia sulla rappresentazione del fine vita. Come è cambiata la percezione della morte nel nostro contesto sociale? Quali conseguenze avrà questa esperienza epocale che abbiamo vissuto – e stiamo ancora vivendo – sul modo in cui conferiamo senso al morire? E, ancora, in che modo possono contribuire le varie discipline che si occupano di tematiche tanatologiche (la filosofia, la storia, la sociologia, l’antropologia, la psicologia e altre ancora) a comprendere meglio l’impatto questi cambiamenti?

È ancora presto per dare delle risposte e per fare dei bilanci, ma quel che è certo è che la malattia grave e la morte sono tornate prepotentemente alla ribalta. La pandemia, e in queste ultime settimane la guerra in Ucraina, molto più vicina di altre guerre contemporanee, ci hanno costretti a fare i conti con l’incertezza, a riconoscere la nostra vulnerabilità, a confrontarci con la paura di ammalarci, con il lutto e, in alcuni casi, con il rischio concreto di morire.

Può sembrare contraddittorio, ma in molti sensi, l’onnipresenza della morte ha innescato due reazioni opposte. Se in alcuni contesti il tema della morte è stato “sdoganato” e si è sviluppata una maggior consapevolezza rispetto a questo argomento; in altri si è creato l’effetto opposto: il bisogno di distogliere lo sguardo e di voltare pagina hanno avuto il sopravvento.

Partiamo dal secondo scenario, quello della normalizzazione, un meccanismo che si osserva oggi in molti paesi e che ricorda da vicino quello che è storicamente avvenuto in contesti colpiti dalla violenza protratta. Ed Yong, giornalista scientifico e vincitore del premio Pulitzer per il suo lavoro durante la pandemia, ha ricordato recentemente che, nel maggio del 2020, quando gli Stati Uniti avevano appena raggiunto i 100.000 morti, il New York Times aveva riempito la prima pagina con i nomi di ognuna delle persone scomparse: un gesto che aveva profondamente commosso i lettori ed era diventato un simbolo della drammaticità di una perdita sentita da tutta la nazione. Eppure, ora che gli Stati Uniti si avvicinano a un milione di morti, l’opinione pubblica sembra quasi insensibile, come una cifra così sbalorditiva fosse in qualche modo troppo grande per essere sentita o pensata. C’è chi è in lutto, ma i parenti delle persone decedute sovente si ritrovano a elaborare il loro dolore “in mezzo alla fuga precipitosa della maggioranza verso la normalità”.

La storia insegna che l’abitudine smussa la paura; vivere a lungo in una situazione, per quanto critica essa sia, crea una sorta di “assuefazione” (uso, non a caso, l’espressione con cui Vovelle descriveva la familiarità con la morte che aveva caratterizzato altri periodi storici). Un po’ come avviene nelle guerre che accadono altrove, chi non ha subito le conseguenze più dirette del Covid può fare ricorso a una sorta di “distanza di sicurezza”, che depersonalizza le vittime e attenua, almeno in parte, l’intensità della sofferenza. Questa distanza è in parte necessaria per riprendere il movimento vitale dopo una fase di stallo. Essa, tuttavia, impedisce il riconoscimento dell’angoscia, rallentando la costruzione di una memoria condivisa e l’elaborazione del trauma che, in maggior o minor misura, ognuno ha subito. Molti dati confermano che le conseguenze psicologiche sono state rilevanti anche in chi non ha vissuto in modo diretto la perdita di una persona cara o le conseguenze gravi della malattia. Il Covid, per tutti noi, rimarrà nelle autobiografie come uno spartiacque, ci sarà un “prima” e un “dopo”: uno di quei momenti storici di svolta, un’ondata che, anche se non ci ha travolti, ha sicuramente creato delle discontinuità nella nostra storia personale.

Vale quindi la pena riflettere, per tornare alla prima delle due reazioni che abbiamo inizialmente descritto, sulla possibilità di sviluppare una nuova consapevolezza sulla morte e sulla vita.

Alcune interessanti ricerche, condotte nel corso del 2020 e del 2021 fra gli operatori sanitari in varie nazioni, hanno messo in luce l’importanza della resilienza e della crescita post traumatica, in inglese Post Traumatic Growth (PTG), nel gestire lo stress correlato al lavoro e il rischio di burn out in una delle categorie professionali che ha subito in modo più diretto le conseguenze della pandemia.

Pur senza sottovalutare le conseguenze negative sulla vita psichica di eventi gravi, il concetto di Post Traumatic Growth (PTG) parte dall’idea che le persone che si trovano ad affrontare situazioni drammatiche possano scoprire di avere più risorse di quanto credessero e, in alcuni casi, riemergerne rafforzati. La crescita post traumatica porta a integrare le “cicatrici”, fisiche e simboliche, in una nuova immagine di sé. Per spiegare questo concetto alcuni autori orientali usano la metafora del kintsugi, una forma di artigianato giapponese in cui le crepe della ceramica rotta vengono riempite con delle sottili linee dorate o argentate, che restituiscono la bellezza all’oggetto spezzato. I segni del “trauma” non scompaiono, al contrario, nel restare visibili riescono a trasformare una normale ciotola in un pezzo unico e irripetibile che può avere una nuova vita.

Quando il periodo critico può considerarsi concluso, esso può essere riletto come qualcosa che ha innescato un ripensamento del senso complessivo che prima veniva attribuito alla propria vita. Non è un caso che la pandemia abbia portato molte persone a rivedere le proprie priorità e i propri valori. Anche se non abbiamo dati sufficienti ad affermarlo con certezza, questo processo di cambiamento valoriale e identitario sembra essere alla base della cosiddetta “great resignation”, ovvero il significativo aumento delle dimissioni volontarie che si è verificato a partire dalla fine del 2020 negli Stati Uniti, in molti paesi europei e, in modo più limitato, anche in Italia.

Dato l’impatto negativo della pandemia a livello economico, molti analisti si aspettavano un ritorno celere al lavoro appena l’allentamento delle restrizioni l’avesse consentito. Tuttavia, questo non è avvenuto: molte persone hanno deciso di rivedere complessivamente il proprio percorso professionale e hanno deciso di cambiare radicalmente vita. È come se, durante i mesi della pandemia, la consapevolezza di non avere davanti a sé un tempo infinito avesse permesso di ripensare alle cose importanti, di dare più spazio agli affetti e, quando possibile, di fare scelte concrete in questa direzione. Forse come società non siamo diventati migliori – come nelle prime settimane della pandemia speravamo – ma i cambiamenti individuali fondati su una nuova e più consapevole rappresentazione della vita, in cui la finitudine è presente ma non diventa un pensiero angosciante, sono un primo passo da cui partire per ripensare il nostro futuro. Che ne pensate? Voi come avete vissuto la paura in questi due anni?

Vulnerabilità, violenza e cura, di Marina Sozzi

Negli ultimi mesi molte persone e anche alcuni giornalisti mi hanno chiesto se durante la pandemia si sia sviluppata negli individui una maggiore consapevolezza della propria vulnerabilità, e quindi una maggiore inclinazione alla cura e all’attenzione per gli altri.

E’ stata una speranza che si era affacciata nel primo lockdown, quando era prevalsa per qualche tempo un’atmosfera di solidarietà tra le persone e di gratitudine per gli operatori sanitari.

E’ durata poco, come era prevedibile per chi conosce i limiti dell’umano. Raggiungere una più alta consapevolezza della propria fragilità è un compito arduo, che richiede uno sforzo continuo, un lavorio incessante su se stessi: lo choc dovuto a un evento inatteso e avverso non è sufficiente.

La vulnerabilità è infatti la possibilità di essere esposti al “vulnus”, alla ferita altrui, corporea nell’etimologia latina, ma poi anche psicologica. Nel profondo, tutti sappiamo che l’uomo è vulnerabile, ma questa vulnerabilità non è uguale per tutti. Ci sono individui più vulnerabili di altri, per storia individuale, per status socioeconomico, per caratteristiche psicologiche, e così via. La percezione che qualcuno sia più vulnerabile di noi può portare alla cura ma anche alla violenza. Non si tratta però di inclinazioni nette e definite, bianco o nero, bene o male. Ciascuno di noi ha dentro di sè una tendenza violenta, che non necessariamente si esplica con la ferita fisica. La prevaricazione, l’indifferenza, la passione per l’esercizio del potere, l’egocentrismo, il paternalismo, sono forme di violenza, perché contribuiscono a tenere l’altro in una posizione di minorità e di fragilità. Si può essere anche violenti contro se stessi, quando non si riconosce il proprio valore, quando ci si impedisce di provare ed esprimere le emozioni, quando si è troppo esigenti.

Questa tendenza alla violenza può essere contrastata con un paziente lavoro di coltivazione della cura. Cura di sè, innanzitutto. Perché la mente umana è relazionale, e ciò che è irrisolto o bloccato in chi cura interferisce con la qualità della cura. Senza una presa in carico della propria fragilità non può esserci buon ascolto e buona cura.

Credo che questo ragionamento ci spieghi come mai sia così difficile avere una buona qualità della cura, sia nelle istituzioni sanitarie, sia in quelle sociali. E anche come mai ciascuno di noi faccia così fatica a offrire una buona qualità di cura ai propri familiari e amici che attraversano una fase di fragilità.

Non ci sono scorciatoie, il percorso verso una buona cura è un percorso innanzitutto di crescita umana. Altrimenti si può essere dei buoni o talvolta ottimi tecnici, operare correttamente dal punto di vista professionale (è il caso di molti medici), senza entrare però nella vera e propria dimensione della cura. La cura è un accompagnamento, che mira a attivare le risorse altrui per affrontare quanto la vita gli ha posto davanti. E’ una tensione verso un’uguaglianza non solo formale (siamo tutti uguali, abbiamo gli stessi diritti e doveri), ma sostanziale (cerco di colmare il fossato della disuguaglianza reale). E’ inoltre una tensione verso la realizzazione dell’autonomia decisionale della persona di cui ci si prende cura. Anche l’autodeterminazione, come l’eguaglianza, non è solo un diritto riconosciuto dalle leggi (tra cui l’ottima legge 219/2017), ma un obiettivo della cura. Se c’è rispetto della dignità altrui, riconoscimento, attenzione, le persone riescono più facilmente a decidere per sè.

Per questo buona parte della formazione che si fa in sanità dovrebbe riguardare la crescita umana necessaria per la buona cura, l’ascolto attivo, e le strategie per far prevalere l’istanza della cura sull’istinto della violenza.

Che ne pensate? Siete d’accordo? Potete raccontarci qualche episodio di buona o cattiva cura?

Cosa vuol dire morire? Riflessioni a partire da un fatto di cronaca, di Davide Sisto

I quotidiani nazionali hanno dedicato, negli ultimi giorni di gennaio 2020, un ampio spazio alla notizia di una bambina siciliana – di appena nove anni – morta suicida in circostanze tutt’altro che chiare (perlopiù collegate all’uso del social network TikTok, per quanto sia ancora una supposizione priva di riscontro oggettivo). Al di là delle svariate analisi giornalistiche che si sono succedute per diversi giorni, mi ha colpito leggere più volte le seguenti parole: “molti ragazzini oggi non sanno cosa vuol dire morire”.

Questa affermazione implica una serie di ragionamenti, che sono – di fatto – alla base degli articoli che da anni fanno parte di questo blog. Innanzitutto, cosa vuol dire morire? Quando ciascuno di noi – adolescenti o adulti, poco importa – si pone questa domanda, si rende immediatamente conto che non vi è modo di andare oltre a quanto sostiene il filosofo tedesco Gadamer: «Un pensiero della morte, che lascia che io continui a vivere, non sembra essere molto diverso né essenzialmente differente da tutti gli altri sogni di vita che noi sogniamo e nei quali viviamo. Ci troviamo, a quanto pare, di fronte a un’aporia, la quale tiene separati la morte e il pensiero. Pare che il pensiero della morte trasformi di già la morte in qualcosa che essa non è». Una volta che ne facciamo esperienza non abbiamo ovviamente modo di descriverla e di spiegarne il significato; possiamo, molto banalmente, soltanto attribuire un significato all’esperienza che facciamo della morte altrui.

Ovviamente, l’affermazione summenzionata allude ad altro, cioè alla ipotetica scarsa consapevolezza che i bambini e gli adolescenti del XXI secolo hanno nei confronti della propria connaturata mortalità, aspetto che li porta – sempre ipoteticamente – a sottovalutare la fragilità e la precarietà della propria esistenza.

Non mi interessa sapere se ciò sia vero oppure no. Mi interessa semmai, facendo finta che sia plausibile tale pensiero, evidenziare un altro aspetto: se “molti ragazzini oggi non sanno cosa vuol dire morire”, non è forse colpa degli adulti impegnati costantemente a eludere ogni tipo di discorso relativo alla morte? Sono oramai decenni che parliamo di rimozione della morte e che sottolineiamo la necessità di percorsi educativi per mezzo dei quali “imparare a morire” (dunque, a vivere). Tuttavia, ancora oggi non riusciamo a superare l’imbarazzo che ci irretisce ogniqualvolta occorre prestare attenzione al limite della nostra esistenza e di quella dei nostri figli. Un imbarazzo che risulta poi fatale nella vita quotidiana.

Riprendiamo un attimo il discorso relativo alla pandemia da Covid-19: è palese che la maggior parte dei comportamenti negativi dei cittadini sia riconducibile al non voler pensare di essere mortali. Tra i tanti atteggiamenti oggettivamente riconducibili alla negazione del pensiero della morte e di cui abbiamo già parlato nel blog, uno mi ha, ultimamente, colpito in maniera particolare: diversi miei conoscenti, che sono stati contagiati (e che, per fortuna, sono guariti), si sono ammalati perché, se da una parte hanno chiaramente riconosciuto il pericolo della pandemia, dall’altra lo hanno applicato soltanto alle altre persone e non a se stessi. Vale a dire: ho notato un’enorme premura nel consigliare ai propri cari di prendere tutte le necessarie precauzioni e, al tempo stesso, una altrettanto grande sciatteria nel prenderle personalmente. Come se, di nuovo, si proiettasse il rischio di morte sugli altri, perché consci del dolore che deriva da una perdita, ritenendo però se stessi immuni da tale rischio. Della serie: io, comunque, non corro il pericolo di morire. Io sono immortale. Mi ha impressionato soprattutto un conoscente che, scoperto di essere positivo al Covid, mi ha chiesto: “tanto non si muore mica di Covid, vero?”. Non me lo ha chiesto a fine febbraio 2020, quindi in una fase in cui ne sapevamo ancora poco, ma nel periodo natalizio appena trascorso, dopo mesi di reportage giornalistici e di trasmissioni televisive dedicate al tema. Capisco molto bene la paura, la quale può spingerci a evitare i pensieri più drammatici (cfr. il famigerato “andrà tutto bene”), ma questo tipo di rimozione posteriore al contagio è lo stesso tipo di rimozione che ha reso possibile il contagio. Dunque, tornando alla domanda di partenza: come possono i ragazzini sapere cosa vuol dire morire se i loro punti di riferimento adulti non lo sanno o non lo vogliono sapere?

In conclusione, è fondamentale parlare della morte a tutte le età, a partire dall’infanzia. Ma per poterne parlare in maniera consona e vincente da un punto di vista educativo è necessario, in primo luogo, che gli adulti si sforzino di sottrarsi alla rimozione e al tabù. In caso contrario, non saranno mai capaci di educare attentamente i propri figli e i propri studenti, limitandosi poi – quando hanno luogo drammatici casi di cronaca – a fare affermazioni come quella indicata, dal sapore ipocrita e moralistico. In altre parole, ci si toglie di dosso ogni tipo di responsabilità, colpevolizzando chi – a soli 9 anni – dovrebbe lucidamente conoscere ciò che gli adulti stessi ignorano.

Cosa ne pensate? Attendiamo i vostri commenti e le vostre riflessioni.

Il cordoglio anticipatorio: una risorsa? intervista a Luigi Colusso, di Marina Sozzi

Abbiamo intervistato Luigi Colusso, sul concetto centrale del suo ultimo libro sul cordoglio anticipatorio. Luigi Colusso è medico e psicoterapeuta, ed esperto di lutto. Dal 1999 è volontario in Advar, fondazione che si occupa di cure palliative a Treviso. Ha scritto: Il colloquio con le persone in lutto, 2012 e Di fronte all’inatteso. Per una cultura del cordoglio anticipatorio (Erickson).

Tu affermi, nella prefazione al tuo libro, che il cordoglio anticipatorio è uno strumento fondamentale per condurre una buona vita. Ci puoi spiegare il concetto di “cordoglio anticipatorio”? In cosa si differenzia dal lutto anticipato, concetto che utilizzano gli psicologi?

Il cordoglio anticipatorio non attiene solamente alla perdita e al lutto, si presenta anche per eventi che si prefigurano come positivi, generando sentimenti ambivalenti. Posso fare l’esempio di un matrimonio ambito, che comunque suscita un cordoglio anticipatorio da parte dei genitori che vedono profilarsi il distacco dalla famiglia di origine. Anche l’attesa di un figlio, desiderato e ricercato, comporta il pensiero dei sacrifici e delle rinunce inevitabili con il suo arrivo. Sono due situazioni in cui mi sembrerebbe fuori posto parlare di lutto. Poi ci sono gli eventi ambivalenti, come un pensionamento, atteso come liberatorio da alcuni, mentre altri fanno di tutto per ritardare l’uscita da una professione che ha totalizzato in sé l’identità della persona. Nomino solamente, come suscitatori di cordoglio anticipatorio, traslochi, cambiamenti nel lavoro, eventi minacciosi come il lockdown o una bocciatura…
Possiamo invece riconoscere il lutto anticipato come sentimento legato a una perdita o a un lutto certi e non evitabili; ascoltare questo sentimento potrà aiutare a prepararsi all’evento, per viverlo degnamente e premunirsi verso possibili rimpianti, rimorsi o simili.
La distinzione più rilevante, però, è che il cordoglio anticipatorio può riuscire a evitare o almeno trasformare l’inverarsi dell’evento temuto. Faccio solo due esempi tra i tanti possibili: la prospettiva di un licenziamento mi spinge ad attivarmi per ricercare tempestivamente un impiego differente, oppure ad attivare il sindacato per ottenere il mantenimento del posto; accorgermi che il partner affettivo si è distanziato da me e prepara il distacco mette in moto un chiarimento, sollecita un cambiamento di entrambi, eventualmente la ricerca di un aiuto professionale per risanare il legame, per evitare la rottura.

In che modo quindi possiamo utilizzare il cordoglio anticipatorio per essere maggiormente padroni della nostra vita?

Spero che la risposta precedente abbia suggerito già qualcosa, la possibilità di modificare l’evoluzione degli eventi secondo le proprie intenzioni. Naturalmente non sempre è possibile riuscirci, ma esercitare la capacità di orientare gli eventi, o di contenere gli effetti indesiderati di un evento, alimenta l’autostima, la self competence, la speranza concreta, in base alle esperienze a mano a mano maturate nel tempo. Un altro beneficio dell’abitudine regolare a fronteggiare il cordoglio anticipatorio è la riduzione del perturbante (Freud docet), così che il tempo dell’attesa è meno fosco, meno angosciante.
Infine, un accenno alle neuroscienze: imparare a suonare il violino a tre anni sviluppa neuroni e collegamenti neuronali, per cui si saprà padroneggiare lo strumento meglio di chi lo prende in mano per la prima volta a quaranta anni, e la soddisfazione, la disinvoltura, la sicurezza del gesto saranno ben diverse. Altrettanto accade nel processo di fronteggiamento degli incontri/ scontri con gli eventi che si approssimano, a mano a mano che crescono la competenza e la qualità delle risposte messe in campo.

Cordoglio anticipatorio e “cigno nero”: qual è il rapporto tra questi due concetti? Secondo alcuni la pandemia di Covid-19 è un cigno nero. Come possiamo affrontarla seguendo il tuo ragionamento sul cordoglio anticipatorio?

Secondo il pensiero di Nassim Taleb il cigno nero è originato dal sommarsi, o dalla rapida successione, di eventi rovinosi; questa sommatoria ha capacità distruttive totali: un’alluvione dopo un terremoto che ha provocato fuoriuscita di materiale fissile radioattivo è un esempio. Un altro termine per indicare queste infauste coincidenze, quando riguardano la salute, è sindemia. Per capire, ricordo che la concentrazione di malati e morti nella pianura padana per il Coronavirus vede come concausa le malattie polmonari da inquinamento, che da tempo sono la vera causa di morte di un buon numero di persone. Possiamo temere di avere a che fare con un cigno nero perché la pandemia, non casualmente, si è manifestata in un tempo critico per l’ecosistema planetario, dopo essere usciti solo in parte dalla crisi economica mondiale, senza dimenticare le altre tensioni, legate a una globalizzazione asimmetrica, sbilanciata sul versante finanziario, produttivo di merci, consumistico quindi, tensioni di cui purtroppo soffriamo cronicamente.
Se, come ho cercato di spiegare nel libro, trasformare il sentimento del cordoglio anticipatorio in strumenti utili significa respirare a pieni polmoni in una comunità in cui circola generosamente il munus, il dono reciproco di esperienza, di accoglienza, di rispetto, di aiuto, di narrazione di sé e di accoglienza delle narrazioni altrui, tutto quello che insomma minimizza il perturbante… bene, non so se riusciremo a venirne fuori brillantemente, certo avremo fatto il meglio possibile, soprattutto avremo per tutti la miglior qualità di vita possibile, date le condizioni.

I professionisti della salute devono spesso dare risposte a problemi legati al cordoglio anticipatorio. Come potrebbero aiutare i loro pazienti a far fronte alla malattia e alla morte?

Esempi classici che vedono le persone approcciare professionisti della salute perché alle prese con problemi di vita, di salute o ambedue, sono le crisi familiari (consultorio familiare), la diagnosi di disabilità di un figlio, l’accertata incurabilità di una malattia cronica ingravescente, non solo oncologica. Un servizio efficace prevede l’offerta dell’empowerment per governare i problemi senza assumere la delega totale. L’operatore consulta insieme alla persona la bussola per orientarsi e guardare insieme il futuro e i problemi che si prospettano; si chiariscono, si interrogano, si narrano ripetutamente fino a far evaporare il perturbante. Sappiamo che non sempre si torna a casa con i problemi risolti, ma sempre si può tornare cresciuti. Dalle sconfitte si impara a vincere, se si è lottato e si prende confidenza con i meccanismi, le tecniche, gli strumenti che aiutano. Le narrazioni che le persone scambiano con gli operatori possono servire proprio a questo. La chiave del cordoglio anticipatorio efficace è il gomitolo narrativo avvolto, srotolato, e intrecciato mille volte ogni giorno, a casa, al lavoro, con gli operatori, nelle interazioni di comunità.

Perché le cure palliative costituiscono un modello nella tua idea del cordoglio anticipatorio? La capacità di “stare” che apprendono i curanti in cure palliative è l’aspetto cruciale della questione?

La capacità di “stare” nelle situazioni di sofferenza è senz’altro un punto di forza per chi pratica le cure palliative. È un punto di forza perché stiamo parlando di professionisti che riconoscono il proprio travaglio ma non indietreggiano, e non rinunciano a una vita fuori del lavoro, all’umorismo. Sono la dimostrazione che cultura, formazione, motivazione e supervisione sono nutrienti abbastanza, danno senso alla vita.
La trappola potrebbe essere scaricare il compito di prendersi cura di lutto anticipato e cordoglio anticipatorio solo su di loro, mentre è una opportunità per tutti e, credo, una competenza necessaria per tutti gli operatori della salute. Necessaria per lavorare bene e per stare bene. Prendersi cura l’uno dell’altro non è un gesto professionale, è il gesto singolare che ci ha fatto uscire dalle caverne e arrivare sulla Luna.

C’è qualcosa che non ti ho chiesto e che vorresti dirci?

Vi racconto un debito di gratitudine. In oltre venti anni ho conosciuto centinaia di persone che hanno fatto ricorso al servizio di sostegno al lutto della Fondazione Advar, Rimanere insieme. Accogliendo con partecipazione le loro narrazioni, cercando di accompagnare ciascuno nella ricerca del senso della sua storia di vita, ho imparato a riconoscere il cordoglio anticipatorio sperimentato da ognuno. L’esperienza reiterata mi suggerisce che l’elaborazione del lutto è senz’altro facilitata, con tutte le eccezioni singolari che possono darsi, quando si è dato spazio al cordoglio anticipatorio. Inoltre, ho potuto cogliere la differenza con il lutto per la morte improvvisa, che non dà spazio al cordoglio anticipatorio.

La Death education e l’emergenza sanitaria, di Davide Sisto

Durante il periodo primaverile di lockdown in tanti abbiamo sperato nell’acquisizione inedita da parte dei cittadini italiani di una maggiore consapevolezza nei confronti del proprio essere mortale. L’improvviso pericolo quotidiano, accompagnato dalle ricorrenti immagini dei morti e dei morenti sui social network e nelle trasmissioni televisive, ha spinto addirittura a credere che col passare del tempo si sarebbe probabilmente prestata molta più attenzione collettiva nei confronti dei percorsi di Death Education, solitamente messi da parte – tanto dalle istituzioni pubbliche quanto dai privati cittadini – a causa della decennale rimozione della morte dallo spazio pubblico.

Ora, giunti alla fine dell’estate, l’impressione che si ricava dai primi mesi post-lockdown è quella di una problematica confusione generale: da una parte, sono numerosi i casi di coloro che hanno preferito rimanere reclusi nei propri spazi abitativi per evitare qualsivoglia rischio sanitario, ponendo di fatto sotto vetro la propria vita quotidiana e convivendo con incipienti patologie di natura psicologica. I dati che arrivano da Telefono Amico Italia sono, per esempio, allarmanti: “quasi duemila le richieste di aiuto ricevute da Telefono Amico Italia, una cifra raddoppiata rispetto allo stesso periodo del 2019”, leggiamo il 4 settembre su Tgcom 24. Dall’altra, un numero sostanzioso di cittadini ha affrontato il periodo estivo come se nulla fosse successo: cancellata rapidamente ogni traccia delle difficoltà psicofisiche vissute nei mesi precedenti, costoro hanno trascorso le vacanze con la solita spensieratezza, non prestando particolare attenzione alle regole stabilite dallo Stato e facilitando – di conseguenza – una recrudescenza del virus. Lungi da me colpevolizzare specifiche categorie di persone, come troppo spesso viene fatto in modo erroneo sui quotidiani d’informazione; tuttavia è evidente che non è risultato armonico – almeno in linea generale – il rapporto tra il sacrosanto bisogno di ritrovare un po’ di tranquillità personale e familiare e la matura consapevolezza relativa alla delicatezza del periodo attuale.

Al tempo stesso, è scomparso dal discorso pubblico qualsivoglia riferimento all’utilità dei percorsi di Death Education per affrontare meglio le sofferenze cagionate dalla pandemia. Mentre negli Stati Uniti sembrerebbe che siano attualmente molto popolari i cosiddetti Death Positive Movement e i Death Doulas, i quali utilizzano ogni strumento comunicativo e sociale a disposizione per affrontare il tema della morte (si veda questo interessantissimo articolo), in Italia rimaniamo in balia della nostra tradizionale ritrosia per ogni discorso pubblico che menzioni il termine “morte”. Ne deriva un mix micidiale tra la consueta rimozione della morte e gli effetti collaterali della pandemia e della quarantena.

Sia coloro che hanno optato per una prudenza patologica sia coloro che hanno invece scelto la spensieratezza radicale portano chiaramente alla luce le problematicità di una vita quotidianamente vissuta senza la consapevolezza della sua fine. I primi, infatti, sembrano aver di colpo riscoperto la propria fragilità esistenziale al punto di decidere di non correre più alcun rischio mortale, rimanendo reclusi in casa. Quasi come se fosse totalmente privo di pericoli uscire dalle proprie mura domestiche nel periodo precedente la pandemia. I secondi, invece, riproducono i soliti superficiali modi di affrontare la quotidianità, ritenendo di essere immuni a qualsivoglia rischio esistenziale e – nel caso specifico – ignorando che la propria libera scelta produce inevitabilmente effetti nefasti nella vita altrui.

A mio avviso, questi due differenti comportamenti, il cui comun denominatore è la scarsa dimestichezza con il pensiero della finitezza e della mortalità, testimoniano in maniera limpida l’assoluta necessità di percorsi di Death Education all’interno delle nostre società. Senza riflessioni metodiche, attente e continuative nel tempo, riguardo al rapporto tra un’emergenza sanitaria e l’innata mortalità che caratterizza ogni essere venuto al mondo, risulta assai difficile barcamenarsi tra le mille difficoltà psicologiche, esistenziali e sociali prodotte da situazioni particolari come quella appena vissuta.

Ora, vi chiedo di raccontare come avete vissuto il periodo estivo e quali sono state le vostre percezioni relative al comportamento collettivo nella cosiddetta “Fase 2”. Anche voi ritenete che sia mancata e continui a mancare una consapevolezza della propria innata mortalità? Attendiamo con curiosità i vostri commenti.

 

I riti funebri e la pandemia, di Marina Sozzi

A chi segue questo blog da un certo numero di anni, sarà familiare il concetto di crisi rituale: da diversi decenni, nel nostro Paese (ma non solo) siamo di fronte a un diffuso disagio. Più volte abbiamo notato, prima della pandemia, come i riti della tradizione cattolica, in un mondo molto secolarizzato, abbiano perso l’efficacia e il potere consolatorio che avevano in passato, quando la preoccupazione per la vita ultraterrena era più rilevante. Viceversa, si è sentita molto l’esigenza di commemorare in modo più personale coloro che ci hanno lasciati, ricordando il loro ruolo, i loro affetti, il loro lascito, il loro contributo alla vita terrena.

Alcuni parroci hanno accolto questa istanza dei parenti, alcuni crematori hanno costruito cerimonie laiche, e il profilo di una nuova figura professionale, il cerimoniere, comincia a farsi strada. In tutto questo, una sottile vena antiritualista si era comunque infiltrata nelle menti dei nostri contemporanei, soprattutto relativamente all’usanza di recarsi al cimitero. «Preferisco ricordarlo com’era in vita» è una frase frequentemente ascoltata nelle interviste su questi temi, e si è parlato di una memoria della mente e del cuore.

La nostra non è certamente la prima crisi rituale della storia europea. Una molto più violenta si è avuta alla fine del Settecento, quando lo spostamento dei cimiteri fuori le mura per la scelta igienista di alcuni sovrani illuminati aveva impedito a chi aveva perduto un congiunto di seguire il feretro fino alla sepoltura. In quel periodo, inoltre, la nascita dell’individuo moderno aveva messo in crisi la prassi della fossa comune. Fu Napoleone a dare una spinta importante per la risoluzione della crisi funebre, istituendo la sepoltura individuale e dando origine ai cimiteri monumentali.

Ora, che cosa sta accadendo durante l’epidemia di Covid-19? Il divieto, per mantenere il distanziamento sociale, di celebrare riti funebri e di recarsi al cimitero ha avuto un impatto fortissimo sui cittadini italiani. Unito all’impossibilità di accompagnare i propri cari alla fine della vita, ha determinato sovente dei lutti pieni di rabbia e disperazione, che ci inducono a ripensare il panorama funebre contemporaneo alla luce del Covid -19.

La prima osservazione da fare riguarda la sottovalutazione dell’importanza del rito funebre che è stata fatta. Occorre ricomprendere l’insostituibile funzione del rito. Il rito lenisce la ferita che la morte infligge nel corpo sociale, ribadendo che la vita può continuare nonostante la morte; il rito mette ordine, laddove la morte minaccia la vita in quanto irruzione in essa del caos; il rito ci ricorda che la morte di un membro della società è un evento sociale, non un avvenimento individuale o familiare che si vive in solitudine; il rito assegna una collocazione al defunto (qualunque sia questa collocazione, tra gli antenati, in un altro mondo, o nel ricordo di chi l’ha conosciuto); il rito ci permette di smaltire il corpo morto, ma senza venir meno alla consapevolezza che quel corpo è stato persona, ancora presente nella mente dei suoi cari. Il rito, infine, dà origine al periodo del lutto, legittimandolo.
E accanto al rito occorrono luoghi funebri accoglienti, rassicuranti, pieni di bellezza (un tema, anche questo, che abbiamo trattato e che tratteremo in futuro)

E’ quindi più chiaro perché la mancanza di un rito funebre e l’impossibilità di recarsi al cimitero abbia sconvolto il rapporto con la morte dei nostri connazionali. Forse l’impatto del dolore senza nome che è entrato nelle famiglie in lutto è stato sottovalutato dalle autorità chiamate a stabilire le regole in questo terribile momento di pandemia. Forse si sarebbe potuto cercare di trovare un modo per non cancellare i riti funebri. E tuttavia, del senno del poi…

La prima considerazione che viene in mente è che il Covid – 19 abbia acceso la luce sul bisogno di riti che abbiamo. E forse potrebbe essere questa dolorosa contingenza a spingerci a modificare i nostri riti per renderli più efficaci, più adeguati ai bisogni contemporanei. Senza lasciarci trascinare dalle mode, dalla dimensione “inventiva” e creativa, in cui ciascuno costruisce il proprio addio da bricoleur.
Restando ancorati a ciò che ha una storia e radici nella coscienza collettiva, religioso o laico che sia, occorre dare spazio alla dimensione personale e individuale. Nella nostra cultura la visione dell’individuo come un unicum è molto forte, e nel commiato c’è bisogno di raccontare chi è stata la persona che è morta, cosa ha realizzato nella vita, se ha saputo amare, quale lascito etico e affettivo ci consegna.

E proprio ragionando su questa esigenza, si può riflettere a cosa si può fare per lenire il dolore di coloro che non hanno potuto celebrare riti funebri.

Ci vorrà una grande cerimonia collettiva, è indubbio. Mantenendo le debite differenze, qualcosa di simile a ciò che è stato fatto dopo la Prima guerra mondiale, con la celebrazione del milite ignoto. Tuttavia, non solo grazie a Dio non siamo in guerra, ma conosciamo i nomi di coloro che sono morti. Dovremo pronunciarli, questi nomi. Mi viene in mente a Gerusalemme, a Yad Vashem, l’edificio che conserva la memoria dei bambini morti nella Shoah. Si entra in una camera oscura attraverso un cunicolo che ci fa sprofondare nella terra, la stanza è fiocamente illuminata da lumini che si accendono nell’oscurità, e per ventiquattro ore al giorno una registrazione pronuncia i nomi dei bambini uccisi: il nome, il paese di provenienza, l’età. Si esce con un’emozione travolgente. La forza dei nomi. La pandemia non ha nulla a che fare con la Shoah, ma dovremo ricordarci la forza commemorativa del pronunciare i nomi.

Inoltre, accanto a una grande cerimonia commemorativa, ci vorranno tante piccole occasioni locali di condivisione della memoria. Alcune istituzioni, come l’associazione Maria Bianchi, ne stanno già proponendo alcune, che potete leggere qui, anche per organizzarne e immaginarne altre, in altri luoghi del Paese, soprattutto i più colpiti dal Covid-19.

Cosa ne pensate? Ritenete anche voi che sia il momento di imprimere un cambiamento nella nostra ritualità funebre? Pensate che ci voglia una cerimonia collettiva per coloro che abbiamo perso nella pandemia? Come la fareste?

Le cure palliative hanno qualcosa da dire sul coronavirus? Tentativo di riflessione, di Marina Sozzi

In questi giorni si teme possa verificarsi un’emergenza tale per cui, per via della carenza di letti di terapia intensiva, si debba operare una scelta su chi salvare. Si pone cioè, in una situazione eccezionale, il tema squisitamente bioetico dell’equità distributiva in sanità, di cui molte volte si disserta astrattamente, ma che stavolta si impone come realtà molto concreta da affrontare. Se non si può provare a salvare tutti, si opta per chi ha più probabilità di farcela, occorre “privilegiare la maggior speranza di vita”. Così recita anche il documento che la società SIARTI (Società di Anestesia, analgesia, rianimazione e terapia intensiva) ha scritto per dare una guida ai medici che devono gestire un’emergenza inedita nel nostro mondo occidentale. E per non lasciarli soli in una decisione etica ardua e delicata, condividendo la responsabilità delle scelte operate. Anche se molti anestesisti hanno rassicurato sulla disponibilità di posti in rianimazione per tutti coloro che potrebbero trarne beneficio, il tema resta sullo sfondo.

Annuncia un cambiamento di mentalità che poco per volta prenderà piede. Daniel Callahan, in un libro che ha fatto il giro del mondo qualche anno fa, La medicina impossibile, aveva già prefigurato (anche senza coronavirus) l’avvento di un momento in cui la domanda di salute sarebbe stata talmente gonfiata da mettere a dura prova i sistemi sanitari dell’Occidente, costringendoli a nuove logiche di giustizia distributiva, e all’accoglimento del senso del limite.

La minore disponibilità di risorse per prolungare la vita deve congiungersi, naturalmente, ad un accompagnamento di qualità alla fine della vita per chi non ha probabilità di trarre un ragionevole beneficio da ulteriori terapie curative. Quindi sono necessarie ottime cure palliative per tutti i cittadini, per tutte le patologie, in tutti i contesti assistenziali. Le cure palliative, come è noto, se applicate in modo generalizzato e corretto, permetterebbero (oltre a tutti gli altri benefici) un consistente risparmio per il nostro sistema sanitario nazionale.

Il diffuso silenzio di questi giorni delle più importanti realtà di cure palliative sul tema dell’attuale pandemia è più che comprensibile. Mai si sono verificate morti meno in linea con i valori della cultura palliativa: chi muore di coronavirus non può avere la vicinanza dei familiari, tenuti giustamente fuori dagli ospedali, non può avere il sostegno dei volontari (che hanno dovuto sospendere il loro impegno), sovente lascia la vita intubato e senza poter salutare i propri cari, né avere il rito funebre che avrebbe desiderato.

Tuttavia, le cure palliative, che sono rimaste senza parole di fronte al coronavirus, lavorano alacremente sulle patologie sulle quali sono abituate a operare, quelle oncologiche e neurodegenerative, sia a domicilio che negli hospice: nonostante le difficoltà, non si sono affatto fermate, e medici, infermieri, psicologi e altri professionisti stanno lavorando in condizioni difficili e pericolose senza risparmiarsi.

Ma c’è qualcosa che potrebbero dire anche sul coronavirus? Secondo me sì, essendo le cure palliative un modello di intervento, e più in generale una cultura e una filosofia, oltre che una specifica competenza della biomedicina. Forse potrebbero dire chiaro e forte che la giustizia distributiva non è uno scandalo, e che l’adozione di criteri sensati di misura, che permettano di valutare il rapporto di costi/ benefici non solo per la sanità, ma anche per la persona, sono sacrosanti. Come diceva Rita Montalcini, occorre aggiungere vita ai giorni, non giorni alla vita.

Inoltre, pur comprendendo lo choc degli operatori di cure palliative per come si sta morendo di coronavirus, si potrebbero dare indicazioni su ciò che si dovrebbe fare, anche in emergenza. Per quanto umanamente possibile, naturalmente, considerando il “frullatore” in cui si trovano gli operatori, con turni massacranti e con la percezione del pericolo che stanno correndo.

In primo luogo, occorrerebbe, a mio modo di vedere, tener presente che non è scontato che tutti vogliano accedere alla ventilazione artificiale. Molti di noi hanno maturato un orrore per le morti intubate.

Qualcuno in questi giorni ha anche impropriamente citato le Disposizioni Anticipate di Trattamento: va precisato che le DAT (che si riferiscono a frangenti in cui la persona che le ha depositate si trovi in stato di incoscienza) non hanno nulla a che fare con la situazione in cui ci si viene a trovare con il virus: condizione in cui le persone, seppure sofferenti, sono lucide e in grado di prendere decisioni qui e ora.

La prima cosa che sarebbe bene poter fare è ragionare con i pazienti sulle loro possibilità di farcela, prima che si aggravino al punto da aver bisogno urgentemente di terapia intensiva. Ossia, permettere loro di dare un vero consenso informato alle cure in generale e alla procedura della ventilazione meccanica in particolare, come richiesto dalla legge 219. Qualcuno potrebbe optare per una rinuncia a cure troppo invasive, specialmente se in mancanza di buone garanzie di successo.

La seconda, fondamentale, è accertarsi che nessuno soffra e nessuno muoia male, garantendo a tutti la sedazione palliativa qualora non sia possibile salvare la vita.

Per gestire l’emergenza senza venir meno al dialogo con il paziente sulla sua salute, certo, occorrerebbe più personale sanitario, e personale preparato anche sul piano della relazione.
Siamo alle solite.
Sono convinta che, una volta finita la pandemia e il conteggio dei contagi e dei morti, quando cominceranno ad emergere le narrazioni di ciò che si è vissuto ed è accaduto, la carenza di formazione comunicativa del personale sanitario diventerà particolarmente evidente.

Allora sarà il momento per svoltare e dare un’importanza cruciale al mutamento che da tempo è necessario in sanità: più cure palliative per tutti, meno accanimento terapeutico (brutta parola, ma che rende ancora l’idea), investimenti più saggi e lungimiranti, e soprattutto molta formazione sul tema della relazione.

Cosa ne pensate? Cosa pensate in particolare del principio di equa distribuzione delle risorse in sanità? Avete informazioni su come si sta affrontando la pandemia dal punto di vista dell’alleviamento della sofferenza? Attendo le vostre opinioni e considerazioni.