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Riflessioni sulla buona morte, di Marina Sozzi

Scrivo questo post a partire da un interessante incontro al quale ho partecipato in Vidas, insieme a Carlo Casalone e Luciano Orsi, il 5 marzo 2024, sulla buona morte. Ringrazio pertanto Caterina Giavotto per questo invito, che mi ha indotto a riflettere su questo tema.

Dobbiamo innanzitutto chiederci che cosa significhi “buona morte”, ed evitare di dare per scontato questo concetto.

Occorre prima di tutto non mitizzarne il tema. L’obiettivo delle cure palliative è accompagnare, per ottenere la migliore qualità della vita possibile. Tuttavia, la buona morte non dipende solo dalla qualità delle cure, ma anche da come ciascuno di noi ha vissuto, e da come ha affrontato la domanda sulla morte nel corso della vita. Hans Küng, teologo cattolico della dissidenza, diceva che la buona morte è da un lato un compito, dall’altro un dono. Nella parola “dono” è espressa anche la parte di incontrollabilità che riguarda la buona morte, le caratteristiche e le evoluzioni della patologia. Nella parola “compito” c’è invece il ruolo della soggettività del paziente. E tuttavia, credo che la buona morte possibile non sia neppure un fatto individuale, ma risieda nella triangolazione della relazione tra paziente, familiari e curanti: un compito condiviso, quindi.

Ma la buona morte è buona per chi? Dobbiamo farci questa domanda, per evitare di proiettare, come curanti, la nostra idea di buona morte sul paziente, mettendo inconsapevolmente in sordina i suoi desideri. Ovviamente, la morte deve essere buona soprattutto per chi se ne va, ma è importante anche per chi resta (il lutto è influenzato dalla morte che ha avuto la persona cara, lo dico anche per esperienza personale). Questo non significa che il familiare possa prevaricare il volere del morente, ma che i curanti debbano sempre cercare di “portarlo con sé”, di non lasciarlo solo con i suoi timori o le sue fantasie. Un esempio potrebbe essere quello della richiesta, da parte del paziente, di sedazione palliativa, quando i familiari non sono pronti a separarsi dal loro caro. L’abilità dei curanti (Sonia Ambroset lo dice magistralmente nel suo libro sulla sedazione) consiste nella condivisione, nella spiegazione, nell’accompagnamento.

Talvolta ci si chiede se la buona morte possa essere un diritto. Io credo che ci siano diversi diritti da tutelare alla fine della vita. Primo tra tutti, garantito anche dalla legge 38/2010 (non ancora pienamente applicata), il diritto a ricevere cure palliative qualora ve ne sia l’esigenza. Poi la dignità delle persone, il rispetto della loro identità e unicità, malgrado la malattia e l’avvicinarsi della morte. Tutelare la dignità significa, per i curanti, rivolgere sguardi pieni di rispetto verso i malati. E significa anche, al contempo, preservare l’autodeterminazione, la capacità di compiere scelte. Vale la pena soffermarsi un attimo sul concetto di autodeterminazione. Benché spesso si pensi all’autodeterminazione come a un diritto umano, e come tale universale e già acquisito alla nascita (cosa peraltro vera), occorre tenere presente che non tutte le persone sono abituate a prendere decisioni per sé. L’autodeterminazione deve quindi essere un obiettivo concreto della cura, ossia le persone vanno accompagnate a prendere le decisioni migliori per sé, coinvolgendo le famiglie e le comunità (intese come reti di relazioni di ciascuno) e aiutandole a comprendere le scelte compiute dal loro caro.

Invece, non credo sia produttivo dare alla buona morte lo statuto di un diritto. Si rischia di scivolare in una vicenda analoga a quella della felicità. Definita la ricerca della felicità come diritto nel XVIII secolo, inserita come tale nella Costituzione americana, essere felici è poco per volta divenuto un dovere, o perlomeno una forte pressione sociale: se non hai saputo procurarti la felicità non vali nulla, se non sei felice sei un fallito. Non vorrei che toccasse la stessa sorte alla buona morte, se vogliamo definirla come diritto. C’è il rischio che si infiltri in questo concetto un elemento di giudizio (negativo) per chi, ad esempio, non riuscisse a conciliarsi con la propria morte.

Un altro punto importante è la preparazione alla morte: è importante al fine della buona morte, come afferma Küng?

Esiste una lunga storia dell’idea che sia necessario prepararsi alla morte per averne una buona. Scopo delle Artes Moriendi del 1400 era preparare il morente e coloro che lo assistevano, mediante la preghiera e il respingimento delle tentazioni. Erasmo da Rotterdam, nella sua celebre opera De praeparatione ad mortem del 1534, indica due “cure” contro la paura della morte: una invita il lettore a percorrere mentalmente le tappe della propria esistenza per rendersi conto della sua caducità e di quanto sia colma di preoccupazioni e di dolori; l’altra si incentra sulla fede in Dio, unica difesa atta a sconfiggere i limiti, le imperfezioni e la fragilità della condizione umana.

Ancora nel 1620 con il Cardinale Bellarmino indica come norma sicura del buon vivere, e anche del buon morire, il meditare spesso e seriamente che si dovrà rendere conto a Dio delle proprie azioni e del proprio modo di vivere, e cercare di non accumulare ricchezze in questa terra, ma di vivere semplicemente e con carità in modo da procurarsi beni celesti.

Che ne è oggi della preparazione alla morte in un contesto molto secolarizzato? Ha senso? E’ possibile?

Nel suo libro Morire all’italiana, Asher Colombo ha fatto otto domande molto concrete a un campione di italiani sulla preparazione alla morte: ha chiesto se avevano dato disposizioni sul destino delle proprie spoglie; comunicato ai familiari la collocazione dei documenti importanti; espresso la propria volontà sulla donazione degli organi; lasciato le proprie DAT; pianificato il proprio funerale; comunicato le password dei propri account e social network; stabilito a chi affidare la cura dei propri cari; fatto testamento. Dalle risposte a queste domande Colombo deduce che circa il 43% degli italiani non si è preparato affatto alla propria morte. Ha senz’altro un valore, soprattutto per chi rimane, trovare le cose in ordine.

Io però credo che sia necessario un approccio più complesso. E penso che ci siano vari modi, anche molto personali, per prepararsi alla morte: pensarci, ad esempio, trovare una consolazione alla finitezza, informarsi sulle cure palliative, familiarizzarsi con la propria vulnerabilità e mortalità. Cose che è difficile indagare con un sondaggio.

Non possiamo eludere, inoltre, a proposito di buona morte, la questione della morte volontaria. La buona morte può essere anche morte nel tempo ritenuto opportuno dal morente? Credo che andiamo verso il riconoscimento della possibilità di scegliere di abbreviare il proprio tempo, anche in Italia. Con una legge, non solo mediante la sentenza della Corte costituzionale. La caratteristica del mondo in cui viviamo è la pluralità: delle religioni, delle credenze, degli stili di vita, degli atteggiamenti nei confronti della vita e della morte: quindi la chiave di volta dell’etica contemporanea, in sanità, è per me il rispetto delle diverse prospettive.

Occorre però che l’opzione del suicidio assistito non ostacoli la crescita delle cure palliative, altrimenti si finirebbe non per aumentare, ma per ridurre le scelte possibili.

Io non credo neppure, però, che il mondo delle cure palliative debba tirarsi fuori da questa riflessione. Credo anzi che, essendo l’unico soggetto ad avere dimestichezza con il fine vita, abbia molto da dire. So che ci sono sensibilità diverse su questo tema nel nostro mondo, e che alcuni rifiutano decisamente ogni interruzione prematura della vita. E so anche che esiste il timore che le persone rifiutino le cure palliative perché vengono ancora confuse con pratiche di abbreviazione della vita. E tuttavia, penso che a tale riflessione occorra andare incontro, facendo chiarezza, con un lavoro culturale costante e paziente.

Cosa pensate voi della buona morte? Che esperienze avete fatto? Pensate che si possa preparare?

Vi ringrazio in anticipo per i vostri preziosi commenti.

Quali foto per le cure palliative. Intervista a Domiziano Lisignoli, di Marina Sozzi

Abbiamo intervistato Domiziano Lisignoli, fotografo e teorico della fotografia, autore del volume Negli occhi di chi guarda. L’equilibrio di senso nella fotografia, tra testo e contesto, del 2023, che si interroga, tra l’altro, sul rapporto tra fotografia e dolore.

Se si cerca su Google immagini di “cure palliative” si trovano prevalentemente fotografie di scarsa qualità, che ritraggono in vari modi mani che si intrecciano, la mano del curante posata sulla mano del curato, mani che tengono un cuore rosso, eccetera. Per quali ragioni secondo te c’è così poca fantasia nel rappresentare l’operato di chi accompagna la malattia inguaribile?

Mi sono cimentato più volte in questa ricerca. Ciò che osservo è una visione statica: ormai da anni le cure palliative sono rappresentate da quell’intreccio di mani cui fai riferimento. Una cosa che mi colpisce è che in molti casi la mano del curante e quella del curato sono riconoscibili solo dalla posizione, talvolta dal gesto, ma sono mani molto simili tra di loro, e nessuna delle due mostra traccia della malattia o della sofferenza.

In alternativa, ci sono le metaforiche foto di tramonti e di “fiori soffioni” che hanno dominato la scena per molti anni: sono foto puramente evocative, che sottendono una certa paura di mostrare la persona e la sofferenza. Questo è un punto nodale: si ha paura.

Dei tre soggetti coinvolti nelle fasi di scatto (fotografo, soggetto, e struttura in cui si fotografa), ho notato che i timori che più facilmente portano ad un blocco si trovano nel personale della struttura, che spesso si erge anche a paladino dei diritti della privacy del morente; il quale invece, altrettanto spesso, è orgoglioso di essere coinvolto in un progetto fotografico.

Altre immagini frequenti sono quelle di agenzia: su questi siti cercando “cure palliative”, si trovano foto costruite, in cui il ruolo del malato è interpretato da un attore, una persona anziana e sorridente, ed il ruolo del curante da una figura rassicurante anche nell’aspetto: sono foto in cui non ci sono malati giovani e non ci sono medici/infermieri grassi, calvi o con le occhiaie. Tutto è perfetto. Esiste una ricerca al riguardo pubblicata sul Journal of Death and Dying, condotta in Svizzera da Gaudenz Metzger, dell’alta scuola d’arte di Zurigo, di cui cito un passaggio:

“È naturalmente problematico se tutto ciò che circonda la morte viene visto come qualcosa di terribile, ma è altrettanto problematico che venga abbellito. Queste immagini distorte suscitano aspettative che non possono essere soddisfatte nel mondo reale.”

Metzger si riferisce ad uno studio in cui sono state analizzate più di 600 foto utilizzate per promuovere le cure palliative, in cui si nota l’assenza del lutto e del dolore.

Quando non troviamo mani, spesso troviamo siringhe, aghi, flebo…. Terapia certo, ma non cura, non nell’accezione di cure palliative. Non c’è la cura intesa come relazione.

Oggi però alcune istituzioni del Terzo settore, che offrono cure palliative specialistiche gratuite, usano la fotografia per documentare il proprio operato e per creare nel pubblico la commozione necessaria per raccogliere fondi. Manca però, nella maggior parte dei casi, una riflessione (che vada oltre la necessità di avere una liberatoria) sull’utilizzo delle immagini. Cosa possiamo dire a questo proposito? C’è un tema etico di cui tenere conto?

Questo è verissimo, ci si ferma alla liberatoria, passaggio obbligato, che ci mette al riparo da eventuali problemi giuridici, ma non sufficiente. Bisogna andare oltre, anzi, è fondamentale lavorare prima con un progetto culturale, che porti a dare una prospettiva al discorso visivo: è necessario avere una strategia comunicativa, porsi delle domande a monte, la prima delle quali, “cosa vogliamo dire e fare con le nostre foto?” Naturalmente, le immagini destinate ad una raccolta fondi saranno diverse da quelle destinate alla sensibilizzazione sull’argomento. Va da sé che non è sufficiente avere foto “belle”, ma devono essere foto adatte al progetto.

Quando parlo di progetti, non penso necessariamente a qualcosa di faraonico, ma a qualcosa di strutturato, pensato e condiviso tra coloro che si occupano di diffondere la cultura del fine vita. Una sorta di equipe culturale sul tema, che stabilisca le linee guida del lavoro da svolgere, che definisca ad esempio se le foto dovranno esprimere il punto di vista del malato, dei suoi affetti, o quello dei sanitari o del fotografo. Senza una riflessione a monte, avremo foto difficili da leggere, ed in ultima analisi avremo foto inutili.

Visitando siti di associazioni che si occupano di cure palliative, se ne trovano ora alcuni che sanno usare la fotografia in modo diretto, senza nascondere la malattia, ma documentando con garbo il lavoro di operatori e volontari, le emozioni e gli stati d’animo dei pazienti. Sono foto che non vengono evidenziate dai motori di ricerca, ma sono il segno di qualcosa che inizia a muoversi. Si tratta delle realtà che sanno progettare e sanno gestire i timori di cui ho parlato sopra.

Ci sono state iniziative di concorsi fotografici sulle cure palliative. Hanno contribuito a rappresentare questo mondo?

Ho visto molte foto di concorsi fotografici proposti da associazioni legate alle cure palliative, e anche qui il grande assente è un progetto: non è sufficiente individuare un tema.

Ci sono foto interessanti, ma sono scatti singoli, e non ci danno una prospettiva, non emerge il punto di vista del fotografo. Mi sembra che si possano dividere in due blocchi le foto che negli anni hanno partecipato a concorsi di questo tipo: da un lato vediamo le foto più varie, spesso le mani, come abbiamo già detto, o scatti che, se non sono accompagnati da un testo, risultano poco comprensibili all’interno di questo contesto, dall’altro lato vediamo le foto che parlano di terapia (che mi sembrano in aumento).

Anche nel caso dei concorsi, bisognerebbe partire da un progetto culturale: in sua assenza emerge una notevole frammentazione, e non si riesce ad avere una visione di insieme. Il concorso poi va organizzato, vanno coinvolti fotografi esterni al mondo delle cure palliative, va curata la comunicazione, e soprattutto è fondamentale che la giuria sia qualificata e non si limiti a stilare una classifica, ma che sia chiara nelle motivazioni delle proprie scelte. Sembrano banalità, ma ho visto molti concorsi perdere efficacia proprio perché gestiti male nonostante mostrassero delle buone potenzialità iniziali. Tra l’altro, aprire a fotografi esterni a questo mondo, significa anche avere un feedback su come le cure palliative siano percepite.

Tu hai fatto foto in hospice. Ci vuoi raccontare come ti sei accostato alla sofferenza delle persone e che senso ha avuto per te scattare in quel contesto?

Il mio primo incontro con l’hospice risale a più di dieci anni fa, quando stavo lavorando a Di mano in mano, un progetto personale da cui sono nati un libro ed una mostra patrocinati dalla Federazione Cure Palliative. L’idea di fondo è che le mani ci accompagnano lungo tutta la vita, perché si nasce nelle mani dell’ostetrica, ed il malato terminale cerca conforto nel contatto con la mano di una persona cara. Quindi ho rappresentato anche io delle mani (era il mio progetto), ma ho cercato una mano consumata dalla malattia, e mi sono affidato anche ad altri piccoli particolari per rendere riconoscibili il ruolo del curante e quello del curato: il polsino di una camicia a quadretti, ed il polsino di un pigiama, vanno a connotare le mani rispettivamente del caregiver e del malato in modo inequivocabile,  coerentemente con le due mani raffigurate.

In quel periodo lavoravo già da tempo in ambito sociale e sanitario, in particolare avevo maturato una buona familiarità nel fotografare il lavoro delle ostetriche in sala parto, ma quando iniziai a strutturare il progetto, al pensiero di fotografare un morente reale, mi bloccai: non fotografare gli ultimi attimi di vita sarebbe stato ipocrita, ed il progetto sarebbe stato incompleto; ricorrere alle mani scarne di un anziano, e definirle di un morente, sarebbe stato scorretto nei confronti dei miei lettori,  ma chiedere ad un morente di posare, per quanto unica soluzione,  mi sembrava di difficile realizzazione.

Il primo passo è stato quindi quello di superare il mio timore, e contattare un hospice per capire se si potesse realizzare l’immagine che avevo in mente, di cui ho parlato in precedenza. Ricordo benissimo tutte le fasi, le paure di essere inopportuno, indiscreto, magari anche egoista nel puntare un obiettivo verso una persona cui chiedevo di partecipare ad un progetto, ma che sapeva benissimo di non avere il tempo per vederlo realizzato.

Tutte le paure si sciolsero quando i miei occhi incontrarono quelli di Franca, la persona che Katri Mingardi, psicologa dell’hospice cui mi ero rivolto, aveva individuato come adatta a questo progetto. Franca mi accolse con un sorriso, lucida, e ci fu un bel dialogo di preparazione senza alcuna maschera. Questa credo sia la chiave, evitare recite, ma essere sé stessi, trasparenti, discreti, in punta di piedi. Franca morì poche ore dopo, chiaramente non ebbe il tempo di vedere il libro pubblicato, ma quando vidi il marito ed i figli per consegnare la stampa della foto utilizzata, e ringraziarli nuovamente, mi sorpresero con le loro parole: “Franca ci ha fatto un bel regalo”.

Da quel momento ho realizzato altri servizi in hospice, ho quasi abbandonato il lavoro con il materno infantile, ed ho iniziato lavorare su progetti volti a sensibilizzare verso le cure palliative ed il fine vita. Il passaggio in hospice è stato quindi un punto di svolta per me, per la mia visione, non solo professionale. Perché fotografare la morte significa viverla, e viverla significa conoscerla un po’ di più.

Cosa ne pensate? Vi siete mai interrogati sulle immagini relative alle cure palliative? ne avete scattate?

Cure palliative e complessità, di Marina Sozzi

La riflessione sulla complessità sembra aprire nuovi punti di vista su molte questioni, in tutti gli ambiti, compreso quello della cura. Credo che gli studi sulla complessità possano aiutare a integrare la cultura ancora troppo riduzionista della biomedicina. A patto che si tenga a mente che, come scrive Edgar Morin: “La complessità non potrà mai essere definita in modo semplice e prendere il posto della semplicità. La complessità è una parola problema e non una parola soluzione.”

Ora, le cure palliative sembrano aver in parte già assorbito l’idea di complessità, in quanto consapevoli, nella loro prassi, dei limiti del riduzionismo e del rilievo dell’esperienza soggettiva della malattia. Il tema della complessità è stato inoltre recentemente trattato in letteratura nell’ambito delle cure palliative, anche in Italia. Mi riferisco, ad esempio, all’articolo dal titolo Complessità e cure palliative, del 2019, in libero accesso sulla Rivista Italiana delle Cure Palliative, (che potete leggere qui).

L’articolo si sofferma su come individuare la complessità dei malati con bisogni di cure palliative, facendo riferimento a studi internazionali. Tra questi ultimi, uno è preso in particolare considerazione (di Sophie Pask) che mette in evidenza i numerosi elementi di cui tener conto per farsi carico della complessità dei pazienti: dai bisogni e dalle caratteristiche della persona, al cambiamento della sua situazione nel tempo, alla possibile discordanza tra paziente, famiglia e operatori, fino, allargando progressivamente lo sguardo, ai pregiudizi e alla complessità invisibile, alla disponibilità dei vari servizi specialistici, per concludere a quello che viene definito il macrosistema, ossia la società. L’articolo descrive anche uno strumento, che si chiama PALCOM, per individuare la complessità in cure palliative. Vi risparmio l’elenco dei “fattori di rischio”.

Infatti, quello che qui mi interessa è sottolineare che farsi carico della complessità, in cure palliative, va molto oltre l’identificazione del cosiddetto “paziente complesso”. La prima perplessità su tale identificazione deriva dall’impressione che in tal modo si oggettivi la complessità del paziente, e si ponga, di fronte al paziente cosiddetto “complesso”, un operatore neutrale, che “guarda” il paziente e ne valuta la complessità.

Credo invece che le cure palliative, in virtù della loro vocazione critica nei confronti della medicina, possano fare un passo più in là, anche dal punto di vista teorico.

Complesso è, in primo luogo, un sistema in cui vi è forte interconnessione e interdipendenza dei fenomeni, e instabilità della situazione. Ogni sistema ove esista il fattore umano lo è.

I nostri modelli e schemi sono ancora troppo influenzati da una visione lineare della realtà, considerata governabile e predicibile. Ma come è possibile assumere in modo più compiuto la complessità? In primo luogo occorre comprendere che in un sistema complesso:

  • la causalità è circolare: in un contesto interdipendente, causa ed effetto tendono a confondersi. Ad esempio, la difficoltà a confrontarsi con una famiglia ne provoca l’aggressività o viceversa? Come è intuibile, vi sono moltissimi circoli sia viziosi sia virtuosi;
  • l’approccio è olistico, ossia occorre tenere conto di tutte le parti del sistema (sia nel caso che il sistema considerato sia il corpo umano, o una famiglia, o l’intera rete locale delle cure palliative): non significa sostituire l’approccio più specialistico e verticale, ma integrarlo;
  • il punto di vista di chi osserva non è neutro né passivo: il sapere nasce dall’interazione tra il soggetto attivo e la realtà. Il nostro comportamento nasce dall’interconnessione con gli altri, dall’interpretazione che diamo al contesto nel quale ci muoviamo, dalle domande che ci poniamo: cosa sta avvenendo? Che cosa provo? Che cosa prova l’altro? Che intenzioni ha?
  • occorre rinunciare alle “ipersoluzioni”: ciò significa ricusare le soluzioni semplicistiche o le soluzioni normate e sperimentate, che quindi appaiono solide ed efficaci. I protocolli medici, se applicati senza porsi quesiti, sono un esempio di ipersoluzione.

Quindi come possiamo fare a «stare» nella complessità? I sistemi complessi si affrontano attraverso una strategia «try and learn», ossia mediante uno schema che prevede: azione-apprendimento-adattamento. Perché tale schema funzioni occorre allenarsi a tollerare l’incertezza e avere audacia nell’azione. Ma alla base, perché si possa «stare nella complessità» in modo costruttivo, occorre una competenza di pensiero complesso. Ma che significa?

Pensare vuol dire soprattutto vincere il pilota automatico. Infatti il nostro cervello, per risparmiare energia, attiva meccanismi ripetitivi e automatici di comportamento.  Il comportamento degli individui è inoltre influenzato da un conformismo sociale spesso inconsapevole, attivato dal bisogno di essere accettati dagli altri. Gli automatismi vanno bene in tutte le situazioni semplici o complicate, dall’allacciarsi le scarpe a costruire un’automobile, ma sono deleteri qualora ci si trovi di fronte a una situazione complessa. Pensare per analogia, infatti, riduce la nostra capacità di contestualizzare, quindi di comprendere realmente che cosa stia accadendo prima di agire. Questo schema limita l’apprendimento e il continuo riadattamento, che è il migliore modello per le situazioni complesse. Il dubbio è il pilastro centrale del pensiero complesso.

Attraverso il dubbio il cervello è in grado di liberarsi dal nostro bisogno di conformismo sociale (impulsi che vengono dall’interno) o dai condizionamenti che provengono dal contesto in cui viviamo (condizionamenti che vengono dall’esterno). Occorre porsi continuamente domande senza dare nulla per scontato.

Un altro errore che potremmo fare in cure palliative è prendere decisioni coerenti con il nostro sistema di valori. Siccome farlo ci fa sentire bene, il rischio di attivare meccanismi automatici di comportamento è alto. Se prendiamo decisioni fondate sulle nostre convinzioni ideologiche, non stiamo ancorando la decisione al contesto, e potremmo essere spiazzati dalle conseguenze. In cure palliative questo aspetto sembra molto rilevante, perché la fine della vita tocca temi ideologici e religiosi.

In sostanza, il numero di domande che affiorano nella mente dell’operatore prima di entrare in azione misura la qualità del suo pensiero e in particolare la sua «ridondanza cognitiva», che è la capacità di farsi le domande giuste, di riuscire a cambiare prospettiva per osservare la situazione da punti di vista differenti. E per farsi le domande giuste, occorre allenarsi, nutrire l’attitudine a dubitare e a non dare nulla per scontato. Maggiore è il numero di domande che ci si fa quando si deve prendere una decisione, minore sarà la probabilità di essere sorpreso dagli eventi e di generare soluzioni semplificatorie. L’importante non è non sbagliare mai, ma apprendere dalla situazione e dagli errori, e moltiplicare le domande.

Mi interessa molto la vostra opinione. Se siete operatori, avete esempi di situazioni complesse nelle quali avete saputo porvi le domande giuste? O al contrario esempi di situazioni in cui non siete riusciti a mettervi in gioco e non avete dubitato delle vostre soluzioni? E ancora, pensate che questa riflessione sia utile, che possa far crescere le cure palliative?

Come sostenere il bisogno spirituale alla fine della vita? di Marina Sozzi

Sono convinta che alla fine della vita la dimensione della spiritualità divenga più rilevante. L’homo faber, infatti, che generalmente ha avuto un ruolo preponderante durante la maggior parte della vita, va esaurendosi. A questo punto della storia biografica delle persone la ricerca di senso è uno snodo inevitabile. La malattia e la morte fanno emergere gli interrogativi sul senso sia nelle persone sia negli operatori, che sono a contatto ogni giorno con il morire degli altri.

Inevitabilmente, il confine tra la vita e la morte interseca la dimensione del sacro, del mistero, del trascendente (inteso in senso lato, come ciò che va oltre la quotidianità dell’esperienza). Per questo è fondamentale che le équipe di cure palliative siano consapevoli che il terreno su cui si muovono è costituito anche dalla dimensione spirituale.

Tuttavia, ho cercato anche di pormi un altro interrogativo, che mi pare serpeggi nelle istituzioni che offrono cure palliative, ma al quale non è ancora stata data una risposta definitiva. La questione è: la dimensione spirituale è propria dell’équipe nel suo complesso, oppure è utile, e magari opportuno, che esista una figura di assistente spirituale laico che si occupi di questo versante dell’esperienza della fine della vita? Non entro invece nel merito della presenza di assistenti spirituali religiosi, delle varie confessioni, che possono essere presenti oppure essere chiamati dall’équipe, una volta individuato il bisogno del paziente o del familiare. Per scrivere questo articolo mi sono confrontata con alcune persone, che desidero ringraziare, perché mi hanno permesso di entrare nel merito del loro lavoro: Caterina Giavotto, assistente spirituale in Vidas, a Milano; Claudia Cavegn, assistente laica (cattolica) al Regina Margherita, ospedale pediatrico a Torino, e infine Guidalberto Bormolini, sacerdote della comunità dei Ricostruttori, e promotore della scuola di assistenza spirituale. E mi è stato inoltre utile, per chiarire le mie idee, leggere il  in assistenza spirituale della Società Italiana delle Cure Palliative, del 2019, che potete consultare qui, e che offre una riflessione molto ricca, problematica e sfaccettata.

In questo periodo, peraltro, molte istituzioni si sono concentrate sul tema della spiritualità, costruendo corsi (ad esempio quello dell’Unione Buddisti Italiani, ma soprattutto la Scuola di Alta Formazione per l’assistente spirituale in cure palliative di Ricostruire la Vita, promosso da Fondazione Luce per la Vita, Associazione TuttoèVita ETS, Federazione Cure Palliative, Società Italiana di Cure Palliative).  Il Core Curriculum della SICP esordisce affermando che l’obiettivo del documento non è tanto di formare figure di assistenti spirituali, quanto di definire quali competenze debba acquisire l’équipe, nel suo complesso, per poter aiutare i pazienti e le famiglie ad affrontare le complesse domande di carattere spirituale che si affacciano alla fine della vita.

In effetti, molti degli aspetti citati come parte di un’ipotetica formazione dell’assistente spirituale sono, senz’altro, elementi propri di una cura di qualità: la compassione, (in senso etimologico di cum patior), l’ascolto, la comunicazione non giudicante, eccetera.

Da questo punto di vista, mi pare che ci sia una certa sovrapposizione tra la figura dello psicologo (che alla fine della vita si occupa proprio del senso e delle relazioni) e quella dell’assistente spirituale: sovrapposizione che le persone che ho intervistato, ad esempio Caterina Giavotto, confermano essere presente. Anzi, ribadisce Claudia Cavegn, “non si tratta di una frontiera”, c’è lo spazio comune dell’ascolto. E Bormolini sottolinea che non dobbiamo circoscrivere gli ambiti, perché dobbiamo mantenere la logica della “persona integrale”: “se spezziamo, frammentiamo”.

Tuttavia, ciascuno di loro sottolinea un aspetto specifico del proprio lavoro, non comune con l’operato dello psicologo. Bormolini ha subito chiara la specificità della dimensione spirituale, che ha a che fare, per lui, con il trascendente (in senso ampio: se non hai qualcosa per cui morire non hai qualcosa per cui vivere), il mistero, l’orientamento (avere una direzione) e il senso di comunione con qualcosa di più grande.

Caterina Giavotti mi racconta invece di una signora che aveva chiesto di vedere un frate (non un prete). Voleva una figura con un ruolo trasversale nella chiesa. Perché? Le ha chiesto Caterina. La signora aveva, nella sua biografia, due aborti, ed era terrorizzata che “Gesù non l’avrebbe perdonata”. Insieme hanno costruito (inventato) un piccolo rito, con la meditazione, una preghiera, e con una scatolina in cui lasciar andare l’accaduto e il rimorso, un rito che ha alleggerito molto la signora in questione.

Anche Claudia Cavegn mette l’accento sull’aspetto rituale: nella sua esperienza c’è una famiglia Rom con una bimba vicina alla fine della vita, una famiglia nella quale il marito è musulmano e la mamma ortodossa. La mamma, quando ha saputo che la speranza di guarigione non c’era più, ha chiesto che la bimba fosse battezzata. Quando ha saputo che Claudia poteva battezzarla, non le è importato che fosse cattolica. La rilevanza simbolica del rito l’ha fatta andare oltre i confini della propria confessione religiosa.

La dimensione del rito (e di un rito non religioso in senso stretto) è interessante. La morte, come scriveva Van Gennep, e molti altri antropologi con lui, è un rito di passaggio. Per chi resta, naturalmente. Ma talvolta anche chi se ne va ha bisogno di una dimensione rituale, un’azione che simbolizzi qualcosa che non si riesce a dire altrimenti, o ad elaborare altrimenti (come la signora che aveva abortito).

Questa dimensione è interessante anche perché sono convinta che le invenzioni rituali possano avere un ruolo rilevante in una società molto secolarizzata come la nostra. Per molti, la scatolina è più efficace dell’unzione dei malati.

Il core curriculum di SICP propone inoltre che la formazione preveda una cultura di massima sulla dimensione rituale e culturale delle religioni. Il che può senz’altro essere utile, mantenendo però la consapevolezza della complessità e della pluralità delle modalità di abbracciare uno stesso credo. Di fronte a una persona, non ci basta sapere, ad esempio, che è musulmana. Diverso è l’islam in diverse parti del mondo e, anche all’interno di una medesima area geografica, in vari strati sociali, e in famiglie diverse. Inoltre, talvolta può accadere che le persone in terra d’accoglienza modifichino l’atteggiamento religioso che avevano in patria. La formazione in “assistenza spirituale” va dunque usata per avere un inquadramento di tipo generale, e non per incasellare i bisogni dei pazienti o dei familiari.

Non ho naturalmente una risposta definitiva alla questione del ruolo dell’assistente spirituale, e concordo con il documento SICP che non è possibile avere la preparazione necessaria a espletare questo ruolo attraverso un corso, perché si tratta di qualcosa di più di una competenza: piuttosto è un atteggiamento nei confronti del mondo e della vita, che si nutre di esperienze reiterate, dalle quali si apprende e si affina la propria spiritualità, indispensabile per confrontarsi con quella degli altri.

Volevo solo portare alcuni punti alla riflessione, e sono naturalmente in ascolto delle vostre considerazioni, risposte ed esperienze. E grazie come sempre per il fruttuoso dibattito che sempre emerge da queste pagine!

La scuola della dignità, di Marina Sozzi

Quando siamo più fragili, quando ci colpisce la malattia o entriamo nella vecchiaia, e necessitiamo di cure mediche e di sostegno, abbiamo bisogno che la nostra dignità, che abbiamo tutelato da soli nel corso della nostra vita, sia invece protetta anche con l’aiuto degli altri.

Invece, purtroppo, è proprio nei luoghi di cura che spesso le preoccupazioni di ordine organizzativo hanno la meglio sulla difesa della dignità dei pazienti. Vi racconto solo un breve episodio, che è rimasto scolpito nella mia mente. Qualche mese fa ho dovuto portare mio padre novantacinquenne al Pronto soccorso di un ospedale della mia città, che gode di un’ottima reputazione. Abbiamo atteso diverse ore, e papà era molto stanco, ma presente. Infine, un medico ci ha fatti entrare, ha cominciato a parlare con me ignorando totalmente mio padre, rivolgendosi a lui solo per brevi ordini, dandogli del tu. L’ho rimproverato «perché gli sta dando del tu?», allora si è scusato con freddezza. Poi l’ha fatto sdraiare sulla barella e l’ha spogliato davanti a tutti, senza alcuna privacy. Infine, mi ha cacciata fuori, e quando sono riuscita a rientrare papà aveva il pannolone ed era molto confuso. Ho firmato e l’ho portato via, indignata. Quel giorno, in quel Pronto soccorso, ho visto diversi anziani mortificati nella loro umanità e dignità, tra cui una vecchia suora minuta e spaurita che mi ha fatto molta tenerezza. Uscito da quell’esperienza, mio padre ricordava poco, ma non aveva dimenticato di essere stato “denudato in pubblico”. Analoghe mancanze di rispetto ho visto accadere in alcune RSA che ho visitato. Per questo vi propongo una riflessione.

Come spesso mi è già capitato di scrivere in questo blog, la percezione della propria dignità dipende anche dallo sguardo con cui gli altri ci osservano. Se quando siamo particolarmente vulnerabili diventiamo numeri, o organi malati, o molecole, è ovvio che andiamo incontro alla mortificazione della nostra persona. Se siamo poi considerati semplici ingranaggi di un sistema che privilegia il funzionamento della macchina ospedaliera, con criteri aziendalistici, è naturale che ci sentiremo umiliati nella nostra umanità, sviliti e semplificati, in una parola non rispettati.

Siccome però, nonostante le buone leggi che abbiamo, le cose non cambiano dall’alto (l’organizzazione della sanità continua a sottovalutare per lo più la legge 219 del 2017, e i suoi preziosi articoli sul consenso informato), occorre quindi la crescita di una consapevolezza dal basso, di un’educazione alla salute dei cittadini, che provochi un cambiamento di mentalità anche in chi cura.

A prima vista sembra un controsenso, ma la prima cosa da fare è abbandonare l’illusione che la medicina sia onnipotente. Se l’aspettativa è che io (o il mio familiare) siamo sempre salvati, i curanti si sentiranno esposti al rischio di una denuncia (il numero di denunce che ricevono è molto più alto degli episodi documentabili di malasanità), e lavoreranno sulla difensiva, irritabili e certo non attenti allo sviluppo di un atteggiamento di autentica compassione (in senso etimologico) ed empatia. La nostra pretesa infantile di respingere sempre la morte opera contro di noi.

Quando il nostro atteggiamento non è aggressivo e comprendiamo i limiti e gli sforzi di chi ci sta di fronte, dobbiamo però esigere il rispetto. Occorre notare i dettagli: dare del tu, parlare ad alta voce agli anziani anche quando ci sentono benissimo, portare farmaci senza spiegare di cosa si tratta e perché se ne propone l’assunzione, svegliare i malati per futili motivi, ignorare il dolore delle persone con demenza, usare in modo errato strumenti di contenzione, solo per alleggerire il lavoro degli operatori, usare indiscriminatamente il pannolone per non dover accompagnare i pazienti in bagno, e la lista potrebbe allungarsi indefinitamente, con tutti gli atteggiamenti paternalistici e irrispettosi con cui certamente anche voi vi siete scontrati in qualche luogo di cura.

Su questo fronte, le cure palliative hanno molto da insegnare, perché considerano fondamentale la tutela della dignità del malato, che viene messo al centro dell’attenzione e pensato come persona complessa di cui prendersi cura.

La parola “cura” è la chiave di volta di questa nostra riflessione. Occorre chiedere di essere “guariti” solo quando è possibile, ma pretendere sempre di essere “curati”. Curare anche quando non si può guarire è uno slogan per le cure palliative. Ma la cura (il prendersi cura della persona, e della sua qualità di vita) non va riservata solo alle persone alla fine della loro esistenza, a domicilio o in hospice, ma va estesa progressivamente alla dimensione sanitaria tout court. E’ la grande sfida che le cure palliative stanno intraprendendo dal punto di vista culturale. In primo luogo, portare le cure palliative in tutti i luoghi di cura, quindi contagiare con la propria cultura della cura rispettosa tutto il mondo sanitario. La pandemia ci ha dato un esempio della potenza trainante delle cure palliative: nei pochi centri in cui erano presenti dei medici palliativisti, le cose sono andate in modo meno drammatico.

Harvey Max Chochinov scrive, nel bellissimo Terapia della dignità: «Se la vita è una specie di camminata sul filo, la probabilità di cadere aumenta a mano a mano che ci si avvicina alla fine. Pensiamo, allora, alle cure palliative come a una rete di protezione. Nessuno può evitare la caduta, ma le cure palliative possono dare un atterraggio più morbido». Io aggiungerei che questa rete potrebbe essere stesa con il dovuto anticipo, per garantire un po’ di morbidezza anche a coloro che magari guariranno, ma che stanno attraversando un’esperienza difficile.

Sarà un percorso lungo, perché richiede un cambiamento di mentalità, ma ciascuno di noi potrebbe abbreviarlo per sé e per i propri cari, informandosi sui propri diritti e sulle cure palliative, e chiedendo una cura rispettosa, trasmettendo anche ai curanti l’esigenza di salvaguardare la percezione dei malati di essere portatori di dignità. Parliamone, raccontiamo, contribuiamo a modificare la medicalizzazione priva di umanità.

Che ne pensate?

Avete esperienze che volete raccontare? Vi è capitato di sentirvi privi di dignità in sanità?

Le bambole rotte, intervista a Enrica Bertolino, di Marina Sozzi

Abbiamo intervistato Enrica Bertolino, medico palliativista che opera presso l’Hospice di Chieri, per indagare come si approda alle cure palliative.

Qual è stata la sua formazione e il suo lavoro prima delle cure palliative?
Se mi fossi iscritta all’Università appena finita la maturità avrei scelto la Facoltà di Veterinaria. Quell’estate, però, il mio papà venne punto da un tafano ed ebbe una brutta reazione anafilattoide. Il medico che lo soccorse e che lo curò (un anestesista) non mi sembrò un uomo ma un essere con poteri straordinari. In quel momento decisi che mi sarei iscritta a Medicina e che sarei diventata Anestesista. Per 25 anni ho lavorato all’Ospedale S. Anna ed è stata un’esperienza meravigliosa, condividere con le pazienti la loro esperienza di diventare mamme, aiutarle a non soffrire durante il parto, curarle nelle tante complicanze che la gravidanza molto spesso comporta, mi ha fatto sentire un medico appagato sia dal punto di vista professionale sia da quello umano. In quegli anni, oltre a fare l’anestesista, mi sono anche occupata nella gestione del dolore oncologico nelle pazienti con patologie ginecologiche.

Perché a un certo punto ha deciso di frequentare un master in cure palliative?

Nel 2005, più che una scelta, il Master fu un’occasione alla quale fu impossibile dire di no. All’inizio del corso ero assolutamente ignara di cosa fossero e di cosa si occupassero le cure palliative.
Frequentare il Master mi piacque tantissimo, soprattutto perché vennero insegnate materie non sempre strettamente connesse all’ambito medico come per esempio l’antropologia, ricordo ancora perfettamente il significato del cannibalismo. Durante quei due anni alcuni miei compagni di corso, uno in particolare (oncologo palliativista pediatrico) continuava a ripetermi: “sei troppo anestesista dentro, tu  palliativista non lo diventerai mai.”

Cos’è cambiato nel suo lavoro di anestesista dopo aver assunto lo sguardo e l’approccio del palliativista?

Insieme ad una collega-amica che fece il Master dopo di me, iniziammo a seguire le pazienti oncologiche non solo per il controllo del dolore (sintomo per il quale veniva richiesta la nostra consulenza) ma iniziammo ad osservare le malate nella loro globalità di donne (spesso mutilate da interventi demolitori), mogli, mamme e/o figlie. Scoprimmo che il dolore morale era spesso molto più difficile da controllare rispetto a quello fisico.
Entrambe ci rendemmo conto che seppur molto formativo, il Master da solo non era sufficiente per aiutare le nostre pazienti, e così continuammo la nostra formazione palliativistica partecipando a corsi e congressi.

Cos’è accaduto perché lei abbia poi deciso di smettere di fare l’anestesista e iniziare il suo lavoro di palliativista? Ci sono stati incontri fondamentali?

E’ stato un percorso, non un accadimento singolo. Più diventavo palliativista più curavo e conoscevo quelle che a un certo punto definii “le bambole rotte” e più mi rendevo conto di quanto si sentissero sole e abbandonate nel momento in cui la medicina attiva non poteva più aiutarle.
Così come i giocattoli rotti vengono allontanati dalla cesta dei giochi, queste donne si sentivano allontanate dai curanti, da quei medici nei quali avevano riposto tutta la loro fiducia e la loro speranza di guarigione. Non trovavano nessuno capace di far capire loro che la cura della persona continua anche quando la cura della malattia non è più possibile.
Via via che i curanti si rendevano irreperibili, irraggiungibili, irrintracciabili, a quelle donne restavo io.
Conoscere il dottor Garetto è stata un’illuminazione. Sentirlo parlare è stato vedere i miei pensieri e i miei ideali trasformarsi da un groviglio confuso di energia, rabbia, frustrazione, entusiasmo e senso del buono e giusto in una linea dritta e ben delineata.

Cosa le piace di questo lavoro e perché è importante?

Mi piace essermi resa conto che c’è più vita in un Hospice che in una corsia di Ospedale. Perché in Hospice ci si occupa della vita, delle persone malate e non della malattia.
Come già detto prima, purtroppo la cura della malattia tiene troppo poco conto della persona che “la porta”. Poco conto della persona nella sua totalità: nei suoi affetti, nella sua emotività.
In Hospice il termine difficile non esiste. Esiste il termine complesso.
Difficile implicitamente è un termine che accetta la sconfitta, la mancanza di risultato. Complesso indica invece il bisogno di una grande richiesta di energia anzi di sinergia per raggiungere il risultato.
Lavorare in Cure Palliative mi fa sentire di essere sempre dalla parte del giusto, ha modificato il mio carattere, ho smesso di dovermi difendere e di dover difendere.
Poter ridare dignità agli esseri umani, guardare i loro occhi ritrovare la forza di alzarsi, fissare i miei e aprirsi in un sorriso pieno di parole e emozioni è importante.
Così come è importante sapere che in Hospice si entra per vivere pienamente l’ultima parte della vita, non per aspettare di morire. Ogni nuovo paziente è un dono, il dono di chi impara a fidarsi e ad affidarsi, il dono di chi si sente accolto e protetto. Dal mantello, dal pallium.
Ogni vita è come un libro, ogni paziente ci fa il dono di poterne leggere le pagine.

E voi come siete approdati alle cure palliative? attendiamo, come sempre, esperienze, considerazioni e riflessioni.

Una malattia o una guerra? di Marina Sozzi

Ancora troppo frequentemente, quando si parla di malattie che mettono a rischio la vita, e soprattutto del cancro, si sentono da più parti incoraggiamenti alla lotta, alla guerra, al coraggio, al braccio di ferro con la malattia-intruso.

Se c’è un richiamo così ampio, così socialmente diffuso al combattimento, è perché il cancro viene sentito, ancora ai nostri giorni, come una minaccia terribile, che richiede una mobilitazione generale. Genera inquietudine in tutti. Nei pazienti, naturalmente, che scoprono la precarietà della vita in generale, e la fragilità della loro in particolare; nei familiari, che li amano, e sono a loro legati o attaccati, o da loro dipendenti; negli oncologi, per l’imprevedibilità frequente del decorso della malattia e per il tasso ancora alto di fallimenti della medicina; in tutti gli operatori sanitari, medici, infermieri e operatori socio-sanitari, che lavorano in un reparto oncologico o in un Day Hospital, e che non possono ignorare di essere anch’essi vulnerabili al cancro, che colpisce trasversalmente le persone più differenti, con storie e abitudini di vita diverse.

Di fronte all’inquietudine, la risposta più rassicurante è quella della battaglia all’ultimo sangue. Per questo la rappresentazione del tumore-bestia da battere, unita all’appello alla lotta contro il nemico alieno, è ancora, forse, la più diffusa socialmente, e quella che tiene uniti in un’unica visione pazienti, familiari e medici. Ora, è vero che l’uomo porta con sé un istinto guerriero per la difesa della vita, quello di conservazione, che è il più radicato, e rimonta alla preistoria. Tuttavia, nella richiesta che si fa al malato di tumore di lottare ci sono anche altri significati, meno evidenti.

In primo luogo, il richiamo alla battaglia è strettamente connesso al modello del “buon malato” che, indipendentemente da come il paziente si sente con se stesso, lo rende funzionale al sistema di cure dell’oncologia medica: è il malato che si adegua al contesto di cura, non viceversa.

Se il paziente “è su di morale”, combattivo e ottimista (a volte contro ogni evidenza) è più facile mantenere il controllo dei luoghi di terapia, si possono circoscrivere i dialoghi medico/paziente alla razionalità della cura e alla speranza di guarigione, non si perde tempo a consolare persone che si lasciano andare all’emotività. Resta così fuori dalla porta dell’ospedale, degli ambulatori medici, dei Day Hospital, eccetera, tutta la parte dolente dell’umano minacciato dalla malattia, la solitudine di vite in cui ogni aspetto della quotidianità viene stravolto, dal lavoro alle relazioni affettive.

I medici e gli infermieri non intendono permettere che i pazienti crollino davanti a loro. Di fronte alle lacrime o alla disperazione, non sanno cosa fare o cosa dire, e si sentono a disagio, perché nessuno li ha preparati a tale eventualità. Se possibile, meglio prevenirle. La desertificazione emotiva richiesta ai pazienti oncologici durante le cure, perlomeno in pubblico, garantisce così lo svolgimento ordinato e senza sbavature delle azioni terapeutiche, che, nella loro estrema violenza sui corpi, proprio ai corpi, oggettivati dalla medicina, devono restare confinate. Qualora si potesse menzionare la violenza insita nelle cure, necessaria ma pur sempre terribile, la loro somiglianza con la tortura, potremmo dire che l’oncologia medica ha saputo umanizzarsi, e raggiungere la consapevolezza di sé.

Inoltre, dobbiamo chiederci: questo modo di affrontare la malattia grave è efficace? E soprattutto, cosa ne pensano i pazienti?

Nel 2020 l’associazione inglese di sostegno ai pazienti oncologici Macmillan Cancer Support ha condotto un’indagine su duemila persone ammalate, chiedendo loro di narrare la propria percezione di come il cancro è raccontato, sia nei mass media, sia dalle persone che li circondano, medici, amici e familiari. La maggioranza di loro ha affermato di essere stanca delle metafore belliche usate per parlare della loro malattia. Tuttavia, dall’indagine inglese pare che la comunità dei malati sia divisa su questo punto: alcuni si riconoscono nel linguaggio militare, e affermano che considerare il cancro come una sfida da vincere sia stato per loro un modo per prendere consapevolezza dell’accaduto e per sostenere la fatica delle cure. E’ normale che, quando una visione del mondo (in questo caso della malattia) sia molto condivisa socialmente, le persone vi aderiscano, la facciano propria.

Sono interessanti, però, i molti che hanno parlato del loro disappunto a sentir parlare di battaglie da vincere, segno che nella mentalità dominante si stanno producendo alcune crepe.

Le metafore guerresche hanno seri effetti collaterali: se colui che guarisce è visto come qualcuno che ha combattuto, che ha vinto, e in ultima istanza come un eroe, colui che muore può essere interpretato come qualcuno che non ha lottato abbastanza, che non ha avuto abbastanza voglia di vivere, in una parola un perdente.

Implicitamente, siamo di fronte a una colpevolizzazione della vittima, che viene svalutata in quanto non ha saputo reggere la sfida.

Tuttavia, la visione del malato di cancro come un guerriero sta venendo sostituita, lentamente (come sempre accade nei cambiamenti di mentalità) da altre interpretazioni. Mi viene in mente Gianluca Vialli, che ha definito il suo cancro “un compagno di viaggio indesiderato”, e ha affermato che non intendeva “combattere”, perché sarebbe stata una lotta impari.

VIDAS, uno dei principali enti non profit italiani che si occupa di cure palliative, sul suo sito dà alcuni suggerimenti ai familiari e agli amici dei malati, esaminando alcune frasi da non dire. Tra queste, “Coraggio, non mollare” e “Devi essere forte”.

La prima non deve essere mai pronunciata. Infatti, “in questa frase il desiderio di incoraggiare diventa involontariamente un’attribuzione di responsabilità, come se l’esito della “battaglia” dipendesse dalla forza di volontà di chi si è ammalato.  Arriva un momento, prima o poi, in cui invece quella persona ha bisogno di sentirsi autorizzata proprio da chi ama a “mollare”, a lasciare che la malattia faccia il suo corso, senza sentirsi in colpa per aver gettato la spugna.”.

E la seconda è inopportuna perché il malato deve poter manifestare ed esprimere la propria fragilità, e ad essere forti (e di sostegno) devono piuttosto essere coloro che si prendono cura di lui ogni giorno.

L’inopportunità del discorso bellico sul tumore si accompagna, per fortuna, anche a un miglioramento e cambiamento delle terapie. Poco per volta, su molte forme di tumore le cure diventano meno invasive, più efficaci, e la metafora della guerra sempre più inadeguata.

Che ne pensate? Voi usate le metafore belliche per parlare del cancro? Vi ci ritrovate? Ritenete che si possa costruire una nuova narrazione dell’esperienza della malattia?

Consapevolezza? di Marina Sozzi

Chiunque lavori all’assistenza nel fine vita conosce l’importanza della consapevolezza (che ha anche una sua scala di misurazione) che consiste, in ultima istanza, nella capacità di raggiungere un certo grado di accettazione di fronte alla propria morte o alla morte di una persona che amiamo. In cure palliative, la consapevolezza è rilevante perché permette agli operatori di fare un lavoro migliore, e agli psicologi e agli altri operatori di accompagnare i pazienti e i familiari a tollerare l’ineluttabile, pur nella tristezza e nel dolore. In genere, permette ai nuclei familiari di accomiatarsi con maggiore serenità, di parlarsi della morte imminente, di rinsaldare i legami e scambiarsi frasi amorevoli.

Ma proprio chi lavora in cure palliative sa anche quanto rara sia la consapevolezza. Spesso i familiari attendono le équipe fuori dalla porta di casa, per raccomandare di nascondere il logo (in Italia le équipe specialistiche di cure palliative operano generalmente nel Terzo Settore), o per avvertire: «non sa nulla, non gli dite che non ha molto da vivere». Il lavoro delle équipe più avvertite è delicato, lento, e segue la capacità di comprensione e accettazione delle famiglie. Si cerca di dire ai familiari che spesso chi muore sa che sta morendo, e tenerglielo nascosto contribuisce soltanto a creare una barriera di cose indicibili che separano chi se ne va e chi resta.

Talvolta però, per alcuni medici, infermieri e psicologi, il raggiungimento o meno della consapevolezza da parte del paziente assume la valenza di un giudizio implicito sul proprio operato, e diviene così uno degli obiettivi taciti dell’assistenza. E’ corretta questa visione epica della consapevolezza (entrare nella morte ad occhi aperti), o forse dovremmo essere più cauti nel pensarla come obiettivo universalizzabile?

Facciamo un passo indietro. Sappiamo che la mancanza di consapevolezza è spesso dovuta alla reticenza degli specialisti, che pur di non comunicare che la scienza medica ha esaurito le possibilità di contenere la patologia, mentono, o dicono verità parziali. Con la formazione e l’azione culturale, occorre ridurre queste cattive comunicazioni, come peraltro richiede la legge 219/2017.
Tuttavia, sono stata testimone del caso di diverse persone affette da tumore a uno stadio avanzato, non più controllato dalle terapie oncologiche, con metastasi diffuse a tutto il corpo, a cui era stata detta la verità sia dagli specialisti, sia dal medico di famiglia, e che ritenevano che le cure palliative fossero una specie di convalescenza, prima di riprendere le terapie. La consapevolezza non può essere perseguita a oltranza, perché la mente non va dove non vuole andare, e talvolta proprio non vuole incamminarsi a incontrare la morte.

Spesso si pensa che la mancanza di consapevolezza dipenda dalla cultura in cui viviamo, orientata a evitare il discorso sulla morte, così che i nostri concittadini arrivano molto impreparati all’appuntamento con la nera signora, che proprio per questo appare sempre più nera, in un circolo vizioso.
Su questo tema si tende a citare molto Heidegger, che nel suo libro Essere e tempo parla dell’importanza di porsi consapevolmente di fronte all’unica possibilità assolutamente certa della condizione umana, la morte. Pensare alla morte, e metterla in primo piano nella nostra mente, significa comprendere che questo “essere gettato nella morte” è la possibilità più autentica dell’Esserci dell’uomo. Le attività della vita, i progetti realizzabili, perdono il loro valore nel momento in cui si confrontano con la morte, e l’angoscia che deriva dal loro annientamento allenta anche la presa del mondo sull’uomo. Si manifesta così, al cospetto della morte, l’unica libertà possibile. Proprio nella consapevolezza della morte sta, secondo Heidegger, la libertà dell’esistere, che coincide però con la svalutazione di tutto ciò cui l’uomo dà comunemente valore.

Ma davvero per poter essere liberi e consapevoli dobbiamo annichilire il mondo? Sartre si ribella di fronte al pessimismo di Heidegger in L’essere e il nulla. Ben lungi dal vedere nella morte la più autentica possibilità dell’umano, Sartre afferma piuttosto che la morte è la negazione di tutte le altre possibilità, giunge sempre a troncarle, sovente sul più bello. E’ impossibile prepararsi alla morte, perché ignoriamo quando e come ci colpirà: gli uomini somigliano a condannati che si preparano coraggiosamente a essere fucilati, ma vengono invece falciati da un’epidemia di influenza spagnola. Non sappiamo quando e come moriremo. Gli uomini hanno progetti, che costituiscono le possibilità della loro esistenza, e questi progetti vengono interrotti dalla morte.

Questa contrapposizione così netta tra due importanti pensatori del Novecento ci indica la complessità del tema che stiamo trattando, le sue implicazioni filosofiche. Salvare il nostro rapporto con la progettualità mondana è l’obiettivo condivisibile di Sartre. D’altronde, seppure non sia possibile conoscere le circostanze della nostra morte, non è neppure immaginabile rimuoverne l’angoscia. E l’angoscia ci chiede di venire a patti con la mortalità, di trovare un aggiustamento. Questo è un lavorio arduo e mai concluso, che possiamo cercare di fare nel corso della nostra vita. La difficoltà, che solo il saggio riesce a sostenere, sta nel mantenersi in bilico tra un ingaggio e un impegno nelle vicende del mondo e la consapevolezza della nostra provvisorietà.

E quando siamo nei pressi della nostra morte? Cosa accade alla nostra consapevolezza della mortalità? Non è facile esserne certi, forse è uno di quei misteri che si possono scoprire solo ex post, quando siamo morti, da coloro che restano («è stato lucidissimo, presente e consapevole fino alla fine»).

La consapevolezza della morte fa parte di quella opacità della nostra coscienza che non possiamo mai disvelare, finché non accade che davvero ci troviamo lì vicini, accanto alla morte imminente. Riusciremo a stare lì, nella prossimità? Saremo abbastanza saggi e coraggiosi? Saremo abbastanza appagati dalla nostra vita da poterla lasciare senza troppi rimpianti nelle mani di chi viene dopo di noi? Potremo tenere gli occhi aperti di fronte al mistero? Non lo sappiamo, come non sappiamo se ci getteremo in acqua per salvare qualcuno che annega. Non ci conosciamo mai davvero fino a quel punto. Ma possiamo provare a prepararci per questo obiettivo durante la nostra vita, con umiltà.

E allora?

Come scriveva Paolo Vacondio nel suo libro Sediamoci qui, la consapevolezza di malattia o di terminalità non è una questione del tipo “tutto o nulla”. Al contrario “essa si evolve in modo progressivo e influenzato dal vissuto personale”.
Quindi, per concludere il nostro ragionamento, occorre raccomandare a chi opera in cure palliative (o comunque si trova per lavoro o perché amico, compagno, figlio, a fare i conti con il morire) di fare uno sforzo di sospensione critica del proprio giudizio, e di rispettare fino in fondo coloro che arrivano impreparati, che non sono consapevoli e non vogliono neppure esserlo. Sospendere il giudizio e stare accanto, senza mentire sulla verità della morte imminente ma con la giusta gradualità, rispettando la capacità della mente altrui di fare spazio a questa immensamente difficile verità.

Cosa ne pensate? Vi capita di immaginare come sarete nella prossimità della vostra morte? Avete esperienze di accompagnamento in cui la consapevolezza o la sua mancanza hanno avuto un ruolo importante?

Elena, la Svizzera e la dignità della morte, di Marina Sozzi

In genere preferisco non parlare del tema dell’eutanasia e del suicidio assistito, su cui ho già in alcune occasioni espresso il mio pensiero.

Ma quando leggo sui quotidiani descrizioni approssimative e imprecise delle storie delle persone che scelgono di andare in Svizzera, mi viene il desiderio di commentare. Non intendo certo commentare la scelta della signora Elena, che si è recata a Basilea con Cappato a concludere la sua vita. Non si può e non si deve giudicare le scelte delle persone, che si sentono o non si sentono di vivere la propria malattia fino alla fine. Ciascuno sceglie in base alla propria storia, alle proprie risorse, a molti altri fattori della propria vita che non sono sindacabili.

Tuttavia, quando la storia di Elena, su Repubblica o sulla Stampa, è narrata come se l’alternativa di Elena fosse morire soffocata per via del suo microcitoma, non si può tacere.

Scrive Maria Novella De Luca su Repubblica: «Se n’è andata così Elena, con la voce sottile e il coraggio di un leone, lasciando un video che è un limpido testamento di amore per la vita. “Mi sono trovata davanti a un bivio. Una strada più lunga che mi avrebbe portata all’inferno, una più breve che poteva portarmi qui in Svizzera, a Basilea: ho scelto la seconda.”»

Ora, l’alternativa al suicidio assistito, nel caso di Elena, non è la sofferenza bruta a cui fa riferimento sia lei stessa che la giornalista: “l’inferno”.

E da questo punto di vista credo sia importante che, oltre a poter scegliere – e in Italia, dopo la sentenza della Corte Costituzionale, prima o poi una legge sul suicidio assistito si farà- si possa scegliere sulla base di buone informazioni.

E queste informazioni non le troviamo mai, o quasi mai, sui mass media nazionali: le cure palliative permettono di non soffrire dal punto di vista fisico, e di essere sostenuti dal punto di vista umano, psicologico e spirituale. Nel caso di Elena, se il microcitoma (tumore polmonare molto aggressivo) o le metastasi le avessero provocato dei sintomi cosiddetti “refrattari” (che non si riescono a contenere con i farmaci), o se la sua angoscia di morire soffocata fosse troppo forte, ci sarebbe stata l’indicazione per una sedazione palliativa. Questa sedazione non ha nulla a che fare con il suicidio assistito, perché non abbrevia né allunga la vita, e perché diverso è l’obiettivo (nel suicidio assistito i farmaci ingeriti sono volti a provocare la morte, mentre nella sedazione palliativa viene indotta una forma di sonno profondo che azzera la coscienza e anche la sofferenza, che sia fisica o mentale).

Quindi Elena avrebbe potuto finire la sua vita nella sua casa, circondata dall’affetto dei suoi cari, con una sofferenza tenuta sotto controllo. Quindi massimo rispetto per la sua scelta, ma l’alternativa non sarebbe stata “l’inferno”. E questo è importante dirlo per tutti gli altri innumerevoli malati di tumore che devono affrontare la fine della propria vita.

Ancora Repubblica: «Elena ha registrato un video – lucido e straziante – in cui testimonia la sua libera e inappellabile scelta, ma accusa anche il nostro paese di averla costretta ad emigrare per poter morire con dignità. “Avrei sicuramente preferito finire la mia vita nel mio letto, nella mia casa, tenendo la mano di mia figlia, la mano di mio marito. Purtroppo questo non è stato possibile e quindi sono dovuta venire qui da sola.» Ecco, no.

Nulla da eccepire sulla libera e inappellabile scelta di Elena, ma in Italia abbiamo due ottime leggi sul fine vita (la 38 del 2010 e la 219 del 2017) che le avrebbero permesso di morire nel suo letto, tenendo la mano dei suoi familiari.

Quando si decide che il malato non se la sente più di affrontare la malattia, l’équipe propone la sedazione palliativa, e la spiega accuratamente al paziente e alla sua famiglia, così che possano prendere insieme una decisione, e prima che la sedazione venga praticata la famiglia può riunirsi per un saluto, per le ultime parole d’amore. La sedazione non è sempre irreversibile, e talvolta è possibile programmare una sedazione intermittente, che permetta ad esempio al malato di riposare ma di essere ancora presente in alcuni momenti. La sedazione palliativa è uno strumento terapeutico duttile ed efficace, e, insieme a tutti gli altri, è volto a garantire la dignità alla fine della vita. Le cure palliative hanno come priorità la dignità del malato. Troppo spesso si rivendica la dignità come se la morte programmata fosse l’unica soluzione per garantirla.

Le storie che talvolta si sentono, di persone prese in carico troppo tardi, e che hanno sofferto, sono storie che dipendono prevalentemente dalla mancanza di cultura sulle cure palliative. Mancanza di cultura dei medici, che tardano troppo ad attivare le cure palliative; e anche mancanza di cultura dei cittadini, che ignorano i loro diritti (le cure palliative sono garantite a tutti come diritto dalla legge 38). Talvolta, certo, dipendono anche dalla cattiva organizzazione delle ASL e dai loro ritardi.

Ma anche di questo siamo tutti responsabili. Perché, oltre ad invocare il suicidio assistito e l’eutanasia, dovremmo informarci meglio e conoscere le possibilità che le cure palliative offrono di affrontare con dignità, con la tutela della qualità della vita, la propria morte. E dovremmo fare una battaglia civile perché le cure palliative siano estese a tutti i malati che ne hanno bisogno, in tutti i contesti di cura.

Sono ansiosa di sapere cosa ne pensate. Grazie in anticipo per i vostri commenti.

Il valore della morte, di Marina Sozzi

«La storia del morire nel ventunesimo secolo è la storia di un paradosso». Milioni di persone sono sottoposte ad accanimento terapeutico negli ospedali, e le famiglie e le comunità non sono più protagoniste della morte dei loro membri, hanno perso competenza e tradizioni.

Da quando, nelle ultime generazioni, il morire è gestito dalla sanità, cure futili e inappropriate continuano ad essere praticate negli ultimi mesi, giorni e addirittura ore di vita. Si spendono, per cure futili negli ultimi mesi di vita, cifre eccessive, che non apportano alcun beneficio alle persone. In molti casi servono solo ai curanti per poter evitare di parlare di morte con i loro pazienti. Le cure palliative, che sarebbero la risposta più adeguata, non sono ancora sufficientemente accolte ed applicate nel mondo.

Ma, cosa ancora peggiore, centinaia di milioni di persone non ricevono invece le cure necessarie, muoiono per malattie che potrebbero essere guarite e non hanno neppure accesso ai farmaci antidolorifici. Il modo in cui si muore è ancora gravido di diseguaglianze, dipende dalla porzione di mondo in cui si vive, dalla situazione economica, dal genere, dall’etnia, dall’orientamento sessuale.

Da queste considerazioni prende le mosse la riflessione della Commissione Lancet sul tema della morte, pubblicata al fine di gennaio di quest’anno, che potete leggere integralmente qui.

A cosa dobbiamo tutto questo?

Secondo la Commissione il cambiamento climatico, la pandemia, la distruzione dell’ambiente, e l’atteggiamento dominante nei confronti della morte tipico dei paesi ricchi hanno un’unica e medesima origine: l’illusione di avere un controllo sulla natura, come se l’uomo non ne facesse integralmente parte.

Si tratta ora, scrive la Commissione, di riscoprire il valore della morte: sì, proprio il valore. Perché vita e morte sono saldamente intrecciate e non esisterebbe l’una senza l’altra.

Occorre modificare il modo in cui comprendiamo, esperiamo e gestiamo la morte, e per farlo occorre trasformare al contempo numerosi fattori sociali, culturali, economici, religiosi e politici.

La Commissione Lancet pone cinque principi di un’utopia realistica alla quale lavorerà nei prossimi anni.  Auspica cioè:

1) Che siano affrontate e superate le differenze sociali di fronte al morire e al lutto
2) Che la morte sia compresa come processo relazionale e spirituale, e non come evento biologico
3) Che ci siano per tutti reti di cura e di sostegno per il morire e per accompagnare la perdita e il lutto.
4) Che diventino comuni e correnti i discorsi sul tema della morte e della perdita
5) Che la morte sia riconosciuta come qualcosa che ha un alto valore.

Vorrei concentrarmi su questo termine, “valore”, che sembra stravagante e irritante in un’epoca come la nostra, nella quale facciamo tanta fatica ad accettare la morte, anche quando arriva in età avanzata, dopo una lunga vita soddisfacente. E che, a maggior ragione, ci appare come una terribile ingiustizia quando arriva precocemente. Viviamo in un mondo che tende a negare alla morte ogni valore. E allora in quali sensi la Commissione di Lancet fa riferimento al “valore della morte”?

Senza la morte, scrive, “ogni nascita sarebbe una tragedia”, e la civiltà sarebbe impossibile. La morte è un meccanismo omeostatico necessario alla vita: i vecchi lasciano il posto ai giovani e questo ricambio permette sia l’evoluzione sia il rinnovamento. Già Anassimandro, nell’antica Grecia, scriveva che “che principio degli esseri è l’illimitato, da dove infatti gli esseri hanno l’origine, lì hanno anche la distruzione secondo necessità, poiché essi pagano l’uno all’altro la pena e l’espiazione dell’ingiustizia secondo l’ordine del tempo”. Intendendo con questo che occorre, nella dimensione limitata del tempo, lasciare il posto a coloro che vengono dopo di noi.

Inoltre, senza la morte non ci sarebbero nuove idee e non ci sarebbe il progresso. Max Planck aveva affermato che la scienza avanza non perché gli scienziati modifichino la loro opinione, ma perché c’è ricambio generazionale.

Anche i filosofi hanno riflettuto su questo. Heidegger sostenne che nessuno può morire al posto di qualcun altro, e che qualora si comprenda profondamente questo fatto, con senso di responsabilità, è possibile diventare autenticamente se stessi: anche in questo senso la morte dà valore alla vita, come consapevolezza del limite.

C’è un ultimo senso in cui la Commissione parla di valore, ed è qualcosa di molto familiare a chi opera in cure palliative: accompagnare un morente è un dono, come scrive Katherine Mannix: dando tempo, attenzione, e compassione alle persone che muoiono ci connettiamo con loro e con la nostra condivisa fragilità, con la nostra umana vulnerabilità, e comprendiamo la nostra interdipendenza, e capiamo che questo è proprio il nucleo delle relazioni umane.

Cosa pensate di questo termine, valore, attribuito dalla Commissione Lancet alla morte? Vi riconoscete in questa posizione o ritenete che sia da ripensare?

C’è bisogno di cure palliative in RSA, di Marina Sozzi

Altre volte su questo blog ci siamo chiesti come muoiano i nostri anziani, soprattutto quando sono ricoverati in RSA (Residenze sanitarie assistenziali). O meglio, quando abbiano voluto o dovuto eleggere come loro “casa” una di queste strutture, perché non più del tutto autosufficienti o perché affetti da una forma di demenza.

Ora, negli ultimi mesi ho avuto modo di seguire (perché coordinato da me) un progetto di formazione in cure palliative in quattro RSA dell’area metropolitana torinese. Si è trattato di un progetto simile al progetto VELA, portato avanti già anni fa da Franco Toscani in Lombardia.

Come sono innanzitutto organizzate le RSA?

Nelle Residenze ci sono in genere moltissimi OSS (operatori sociosanitari, che fanno un corso biennale per prepararsi alla professione), alcuni infermieri, pochissimi o nessun medico (talvolta, a parte il direttore sanitario, i medici di riferimento sono solo i medici di medicina generale che raramente, o solo per ragioni di emergenza, si recano in struttura a vedere i loro pazienti). Gli OSS sono circa da 4 a 7 volte più numerosi degli infermieri. Non dappertutto è previsto uno psicologo nell’organico, o qualche fisioterapista.

Gli OSS svolgono quindi buona parte del lavoro di cura, sono in maggioranza stranieri, sono pagati poco e in genere non prendono parte alle decisioni di carattere sanitario che riguardano i pazienti. Questo accade per ragioni gerarchiche, nonostante il fatto che gli OSS siano le figure maggiormente a contatto con i residenti, e che abbiano quindi un’idea piuttosto precisa delle condizioni di salute di ciascuno e del loro eventuale peggioramento.

In questa situazione cosa accade quando un paziente si aggrava, perde autonomia, comincia a mangiare meno, a non alzarsi dal letto? Raramente i familiari vengono avvertiti, e preparati alla realtà del declino, e all’avvicinamento del loro congiunto alla fine della vita.

Accade ancora troppo frequentemente che, ad esempio, quando una persona non riesce più a deglutire (è un decorso frequente nelle forme di demenza) venga inviata in ospedale e si passi all’alimentazione artificiale, rischiando di aggiungere sofferenza a sofferenza. Le evidenze scientifiche dicono che in quei casi l’alimentazione artificiale non contribuisce al benessere della persona (quindi non migliora la qualità della sua vita) e neppure aumenta la quantità di vita residua. Inviando al Pronto Soccorso, tuttavia, si rimanda comunque il “problema” (e la responsabilità) ad altri, perché nessuno in RSA è pronto a prendersela.

“E’ la famiglia che ci chiede di mandare il parente in Pronto soccorso”, dicono sovente gli operatori. E certamente è più probabile che ci sia questa richiesta in un contesto in cui le famiglie non sono state adeguatamente preparate a quello che sarebbe accaduto. Se avessero saputo per tempo che l’evoluzione della demenza avrebbe portato il loro caro a non poter più mangiare (e che quello sarebbe stato anche un segno dell’avvicinarsi della fine), forse avrebbero potuto accettarlo ed evitare inutili e gravosi spostamenti e sofferenze a chi sta morendo.

L’altro grave esempio delle conseguenze di una preparazione carente delle équipe curanti in RSA è la sottovalutazione del dolore (e quindi il suo mancato trattamento) nelle persone con decadimento cognitivo, che non sanno quindi spiegare dove hanno male e come questo dolore si presenti. È frequente che vengano fraintesi l’agitazione, i lamenti, il pianto, da parte di operatori che interpretano questi sintomi come dovuti al declino cognitivo, mentre sovente sono segni di un dolore non controllato.

Nelle RSA la permanenza media degli ospiti è di poco più di 12 mesi, ed è chiaro che le persone che vi abitano si trovano nell’ultimo miglio della loro vita. Alcuni vivono in RSA meno, molto meno di 12 mesi. Come è possibile quindi che non si rifletta sull’esigenza di garantire una buona qualità della fine della vita in questi luoghi (dove tutti i residenti, o quasi tutti, concludono in effetti la loro vita?)

Ciò che manca, insomma, nelle strutture per anziani, è la sensibilità palliativa, l’approccio palliativo, l’attenzione per la sofferenza e il disagio, le competenze comunicative con gli ospiti e con le famiglie.

Come fare dunque a sollecitare questa attenzione e questo approccio in tutti coloro che lavorano in queste strutture, così da garantire una vita e una morte dignitosa a chi ci abita?

La prima cosa da insegnare al personale è a porsi quella che è stata definita la “domanda sorprendente”, che consiste nel chiedersi, per ogni paziente, o ospite (nel caso delle RSA): “Sarei sorpreso se questa persona morisse nel giro di sei mesi o un anno?”. Se la risposta è “No, non sarei sorpreso”, quello è già il momento per dare inizio a un approccio palliativo.

Le prossime sfide, per le cure palliative (che avranno finalmente una scuola di specialità per i medici), sono: 1) ampliare i luoghi di cura in cui saranno disponibili cure palliative (quindi anche gli ospedali e, appunto, le RSA); e 2) fare in modo che le cure palliative siano applicabili a ogni patologia (e gli anziani ricoverati in RSA spesso sono persone molto fragili, portatrici di più di una patologia cronica e degenerativa).

Certamente, formare gli operatori delle RSA è di primaria importanza, sia per le persone che vi risiedono, sia per i loro familiari, spesso carichi di sensi di colpa per non riuscire a curare a casa il loro caro; sia inoltre per i curanti, affaticati sia fisicamente sia emotivamente, a maggior ragione con il Covid (e infatti un veloce turn over degli operatori in queste strutture è usuale).

Ma occorre anche che i decisori (come si dice con un brutto termine) richiedano alle RSA la competenza già acquisita in cure palliative di base per accreditare le strutture. In questo modo l’adeguata formazione non sarebbe iniziativa singola di alcuni direttori sanitari particolarmente sensibili e lungimiranti, ma la norma.

Avete esperienze che riguardano la cura in RSA? Cosa pensate dell’auspicio che vi sia una formazione alle cure palliative in queste strutture per anziani?

Intervista a Ludovica De Panfilis, di Marina Sozzi

Abbiamo intervistato Ludovica De Panfilis, che lavora come ricercatrice sanitaria e bioeticista presso l’Azienda USL-IRCCS di Reggio Emilia. Una figura unica in Italia, che può essere di ispirazione per chi si occupa di cure palliative in Italia.

In cosa consiste il tuo lavoro in ospedale?

Cinque anni fa ho avuto il compito di creare un’unità di bioetica all’interno dell’IRCCS. Il progetto era sperimentale, e si intitolava “La bioetica al letto del paziente”. Io cercai di dimostrare che si poteva fare ricerca sui temi dell’etica della cura, e che questo tipo di ricerca aveva effetti sulla qualità della cura e della vita dei pazienti.

Si trattava di una ricerca bioetica diversa da quella che si fa in ambito accademico: non era una ricerca teorica di filosofia morale, ma entrava nelle dinamiche della relazione di cura. E’ un tipo di ricerca che propone l’implementazione di nuovi servizi e ne misura gli effetti (ad esempio l’aumento della pianificazione condivisa delle cure, la soddisfazione dei pazienti nei confronti dell’atteggiamento degli operatori sanitari rispetto a certi processi decisionali; la valutazione della formazione, l’aumento delle competenze etiche).

L’approvazione della legge 219 alla fine del 2017 ha dato un impulso enorme a queste ricerche, l’etica è divenuta all’improvviso importante. Noi lavoriamo soprattutto con le cure palliative, ma anche con il laboratorio di procreazione medicalmente assistita, con il dipartimento di salute mentale, la neonatologia…

Il bioeticista è diventato una figura ricercata dall’équipe, e ho dovuto destinare delle ore non solo alla formazione, ma anche alla supervisione degli operatori che si confrontano con situazioni eticamente complesse.

Per scelta, invece, non interagisco mai con i pazienti direttamente, per non rischiare di creare confusione con altre figure: lo psicologo, l’assistente sociale.

Questa realtà che mi stai descrivendo, e che certamente è un’eccellenza, esiste altrove o è un unicum in Italia?

Ho cercato altre figure come la mia perché ho avuto l’esigenza di confrontarmi, ma ho trovato solo i Comitati per l’etica nella clinica, che non lavorano sulla sperimentazione, e spesso non riescono a raggiungere i problemi reali. Ho trovato però conforto nella realtà internazionale, soprattutto in America, dove le figure che svolgono il mio lavoro sono obbligatorie per ospedali che superino un certo numero di posti letto.

Penso che l’accademia avrebbe dovuto far virare la bioetica verso questo tipo di ricerca, che avrebbe dato un senso nuovo agli studi di bioetica. È un’occasione persa.

Com’è il tuo percorso?

Mi sono laureata in filosofia, poi ho sentito parlare degli hospice, e nel 2011, appena laureata, sono andata a fare il Master in cure palliative di Bentivoglio, che allora permetteva l’accesso a tutte le lauree. Durante il Master ho capito che la ricerca sarebbe stata la mia strada, e ho poi fatto il dottorato di ricerca in giurisprudenza.

Come mai secondo te la collaborazione più stretta, nella tua azienda, ce l’hai con le cure palliative?

Secondo me le cure palliative sono intrise di questioni etiche: credo che le competenze etiche siano importanti per gli operatori di cure palliative tanto quanto quelle relazionali, comunicative o cliniche. Sono competenze che si concretizzano nel saper accompagnare una persona a prendere una decisione. Non è affatto semplice. Quando ho scritto le mie disposizioni anticipate di trattamento (ci rifletto tutti i giorni) ho pensato “che fatica!”. In cure palliative, quando un paziente desidera concludere la sua vita in modo coerente con il modo in cui l’ha vissuta, le competenze etiche degli operatori diventano fondamentali. Inoltre, il significato più profondo delle cure palliative è quello di essere una medicina orientata alla condivisione delle responsabilità, e delle scelte. Le cure palliative possono trovare nell’etica sia delle risposte che degli strumenti.

Quali sono i nodi più importanti dell’etica nelle cure palliative?

Il primo tema centrale in questi anni è quello della pianificazione delle scelte. La pianificazione condivisa delle cure è un percorso, che si fa con il paziente, che lo porta a prendere decisioni concrete basate sui suoi valori. È importante saper riconoscere il dilemma etico nei pazienti, saper entrare nella relazione di cura con una persona, senza spingere nella direzione che il medico ritiene quella giusta o migliore. Perché anche in cure palliative c’è il rischio di “paternalismo palliativo”.

Lo stesso tema della sedazione profonda continua è intriso di etica, in quanto la scelta di perdere la coscienza fino al momento della morte deve essere condivisa, affinché possa essere vissuta bene da tutti gli attori. Occorre poi distinguere tra l’autonomia teorica e l’autonomia che si concretizza in scelte, in diritto all’autodeterminazione. Il bioeticista presente nelle riunioni d’équipe è importante per permettere agli operatori di riconoscere i temi etici, che spesso mettono in crisi un’équipe e che non vanno confusi con i problemi psicologici, o anche organizzativi, come talvolta accade. Si pensi inoltre al grande mistero della fine della vita, di cui le cure palliative si occupano, e su cui l’etica (e prima ancora la filosofia) si interrogano da che le conosciamo. Le cure palliative trovano nell’etica la strumentazione per affrontare tutti questi problemi.

Inoltre, è possibile che in futuro i palliativisti dovranno confrontarsi con il tema del suicidio assistito, anche se loro sperano di no, ma capiterà, in qualità di esperti di fine vita.

Hai parlato di paternalismo palliativo. Ho visto che hai scritto un articolo sul nudge, ossia sul paternalismo gentile. Puoi raccontarci qualcosa a questo proposito?

Noi facemmo un progetto di ricerca che si chiamava Teach for ethics in palliative care, il cui obiettivo era formare dei professionisti sanitari affinché potessero fare consulenza etica ai pazienti e supervisione etica ai colleghi. Durante questo corso era emerso che la tendenza a indirizzare il paziente verso ciò che i professionisti ritenevano giusto fosse qualcosa di intrinseco, che non riuscivano a controllare. Andando a cercare della letteratura che ci aiutasse a riflettere su questa tendenza trovammo il volume del 2014 di Sunstein e Thaler intitolato Nudge. La spinta gentile.

Il concetto proposto dagli autori è noto: gli uomini hanno debolezze sia psicologiche che cognitive, sono inclini all’inerzia, ai pregiudizi, all’incapacità di previsione, all’errore di prospettiva, sono spesso confusi sul loro vero interesse e pertanto hanno bisogno di essere guidati.  C’è quindi bisogno di “utili suggerimenti”, in grado di neutralizzare i pregiudizi, l’emotività, la pigrizia mentale dei singoli individui, e di orientare così le scelte verso scopi riconducibili al bene dell’individuo, che talvolta lui stesso non riconosce. È il paternalismo libertario di cui parlano i due autori, giustificato, dal loro punto di vista, anche dal fatto che l’assoluta neutralità e oggettività, nel presentare le varie opzioni, non è possibile umanamente. In che modo vi è servito questo volume?

Inserimmo all’interno del corso di formazione un Focus Group dedicato al tema delle spinte gentili: infatti ci accorgemmo che in cure palliative non si parlava affatto di paternalismo libertario, eppure si trattava di un atteggiamento presente anche se del tutto involontario. Concludemmo che il nudging era un concetto attraente ma pericoloso, perché rischiava di non favorire l’autonomia del paziente. La consulenza etica invece poteva essere uno strumento per aiutare i pazienti a decidere in maniera autonoma (ma condivisa) ciò che era importante per loro. Uno dei metodi per evitare di utilizzare questa sorta di spinta involontaria era incoraggiare l’autonomia relazionale. Il nudging è molto utile in alcuni contesti, anche di salute pubblica, ad esempio, ma non nella relazione di cura.

Dimmi se interpreto bene: l’autonomia si realizza proprio nella dimensione della relazione di cura, perché l’autonomia non è qualcosa che possediamo dalla nascita come caratteristica a priori, ma è qualcosa che si raggiunge nella relazione con altri.

Esattamente.

Inoltre, io credo che quando ci si ammala e si inizia a diventare dipendenti dagli altri l’idea di autonomia astratta decada. Si può lavorare su un’autonomia contestuale e quindi cercare di arrivare all’obiettivo di aiutare le persone ad essere veramente autonome.

Ho visto il volume a tua cura Teach to Talk, Apprendere per comunicare, appena uscito. Di cosa si tratta?

Questo è stato un bel progetto pensato e voluto dalla dottoressa Tanzi. Noi ci siamo conosciute durante il master in cure palliative: eravamo tutte e due molto giovani e condividevamo l’idea dell’importanza di un’etica della comunicazione. Il libro parla di una comunicazione che non è solo efficace, che non è solo empatica, ma è soprattutto autentica. Ci siamo interrogate anche su come formare gli operatori a questo tipo di comunicazione, andando al cuore della relazione comunicativa.

Cosa ti ha cosa ti aspetti nel futuro? Come pensi che questa tua professionalità sarà ulteriormente spendibile?

Penso che arriveranno altre spinte normative a sottolineare l’importanza di questa professionalità.  Mi viene in mente, ad esempio, il testo che è stato depositato alla Camera sulla morte volontaria: magari ci vorranno altri dieci anni ad approvarlo, ma la società civile domanda.

Il mio sogno sarebbe trasferire il modello che a Reggio Emilia sta funzionando nel maggior numero possibile di luoghi di cura. Mi piacerebbe che si creasse una schiera di persone che fanno il mio lavoro, con l’obiettivo di migliorarsi sempre, di non pensare mai di avere la verità in tasca, ma anzi di mettersi sempre in questione attraverso la ricerca.

Personalmente, poi, mi piacerebbe dedicarmi solo alle cure palliative.

Come mai questo interesse specifico per le cure palliative?

Le cure palliative devono restare fedeli a se stesse: l’etica completa il profilo del palliativista. Inoltre, nell’attivazione precoce delle cure palliative, di cui oggi si parla tanto, i valori, le preferenze e gli obiettivi della persona sono imprescindibili. Le maggiori soddisfazioni inoltre vengono da lì, la Società italiana di Cure palliative è molto attenta alla dimensione etica. L’etica permette alle cure palliative di mantenere viva la loro coscienza critica nei confronti della biomedicina.

Quali hospice per il futuro? di Marina Sozzi

Nella mia vita ho visitato molti hospice, alcuni sono all’interno di strutture ospedaliere, altri hanno la fortuna di godere di una posizione meravigliosa, di essere all’interno di ex ville, con parchi ricchi di alberi secolari e vista di grande bellezza. Gli hospice non sono tutti uguali, alcuni somigliano un po’ troppo a reparti ospedalieri, altri riescono a dare l’idea della casa che vogliono il più possibile mimare.

Quasi tutti, però, sono spesso difficili da trovare, decentrati rispetto al centro della città, e all’interno degli spazi dedicati si fa solo assistenza a chi sta lasciando la vita. Certo, talvolta all’interno degli hospice ci sono attività culturali, musicoterapia o arteterapia, Pet Theraphy e altre iniziative. A mio modo di vedere non basta.

Forse è giunto il momento di ripensare un po’ la nostra concezione dell’hospice, così come dobbiamo imperativamente ripensare le RSA dove muoiono i nostri anziani.

Il punto è che tutte queste strutture risentono un po’, nonostante le migliori intenzioni (soprattutto delle cure palliative), della difficoltà che la nostra cultura ha nel rapportarsi con la morte. La morte è sempre marginalizzata, e negli hospice entrano solo gli addetti ai lavori, medici palliativisti, infermieri di cure palliative, e gli altri professionisti dedicati (oltre ai familiari e ai volontari, naturalmente, pandemia  permettendo).

E se immaginassimo invece di collocare un hospice nel cuore pulsante di una città? Di affiancare all’hospice, nella stessa struttura architettonica, le famose case della salute dei medici di famiglia di cui tanto si parla, ambulatori di medici specialisti, ambulatori di cure palliative simultanee o precoci, e centri di formazione sanitaria e culturale, o comunque luoghi frequentati da molte persone per svariate ragioni?

Lo scopo sarebbe molteplice: ottenere che altre specialità mediche si confrontino quotidianamente con l’approccio palliativo, vedendo i colleghi lavorare e incontrandoli alle macchinette del caffè; rendere più facile, per i medici di medicina generale, attivare per tempo le cure palliative; fare in modo che i cittadini passino frequentemente di fronte all’hospice, ed entrino nella struttura anche per fare altre cose (vedere il loro medico di famiglia o altri curanti, sentire un concerto o una conferenza), così da favorire una maggiore familiarità con la fine della vita; contribuire alla diffusione delle cure palliative precoci e simultanee.

I numeri ci dicono che il bisogno di cure palliative sta crescendo in modo esponenziale nel mondo, e in particolare nei paesi in cui c’è una lunga aspettativa di vita e quindi molte persone anziane e fragili.

Invece di parlare in modo aulico e teorico di Death education (peraltro utile e sacrosanta, specie se si va a farla nelle scuole), perché non proviamo a rivoluzionare i luoghi in cui siamo soliti nascondere i malati gravi e i morenti?

Le cure palliative dovrebbero continuare la loro opera di istanza critica nei confronti della biomedicina, ma anche nei confronti di loro stesse, per evitare il rischio di diventare solo una branca della medicina (a maggior ragione ora che c’è una Scuola di specialità in cure palliative), e riuscire invece a progettare sempre nuovi modi di integrare la morte nella vita.

Che ne pensate?

Eutanasia, lo stato dell’arte, di Marina Sozzi

Non possiamo non riprendere, su questo blog, il tema dell’eutanasia, ultimamente molto discusso nel nostro paese, anche per via del referendum sul quale si stanno raccogliendo moltissime firme.

Partiamo dal quesito referendario, che prevede l’abrogazione di parte dell’art. 579 del codice penale concernente l’omicidio del consenziente. L’articolo resta valido solo qualora sia stata data la morte a un minore, a persona inferma di mente o sotto l’effetto di sostanze stupefacenti, o a persona il cui consenso sia stato estorto con violenza, minaccia oppure carpito con l’inganno.

È bene ricordare che il referendum non è quindi volto a inserire nel nostro ordinamento una legge sulla morte volontaria (il referendum in Italia può essere solo abrogativo), ma a eliminare una difficoltà sulla strada dell’approvazione di una depenalizzazione dell’eutanasia. Occorrerà quindi poi discutere una proposta di legge in parlamento.

Veniamo quindi al Testo unificato adottato come testo base dalle commissioni riunite II e XII della Camera, in una seduta piuttosto burrascosa, martedì 6 luglio 2021.

Per dare un’idea della superficialità e confusione con cui si sta affrontando il problema, va anche detto che, probabilmente nella foga della raccolta firme, il sito del referendum presenta ancora una proposta di legge in quattro articoli, superata dalla discussione alla Camera, e piuttosto inquietante, nella sua assoluta mancanza di garanzie per il cittadino che richiede di accedere alla morte volontaria.

Ma torniamo al testo base (che deve ancora subire l’iter emendativo, e che potete leggere integralmente a questo link. Il testo stabilisce la facoltà di una persona “affetta da una patologia irreversibile o con prognosi infausta” di richiedere assistenza medica per porre fine volontariamente alla propria vita. La definizione di morte volontaria è piuttosto generica, ma mette l’accento sull’autodeterminazione. Per poter fare richiesta eutanasica occorre essere maggiorenni, in grado di prendere decisioni libere e consapevoli, e soffrire fisicamente o psicologicamente in modo intollerabile. Il comma 2 precisa che la persona in questione deve “essere affetta da una patologia irreversibile o a prognosi infausta oppure portatrice di una condizione clinica irreversibile, o essere tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale (e va notato che la possibilità di rifiutare i trattamenti di sostegno vitale è già contemplata nell’ottima legge 219/2017), ed “essere assistita dalla rete di cure palliative o abbia espressamente rifiutato tale percorso assistenziale” (su questo aspetto , che ritengo cruciale, torneremo).

Ma completiamo la descrizione del testo base. La richiesta di morte volontaria, che deve essere “informata, consapevole, libera ed esplicita”, deve essere indirizzata “al medico di medicina generale o al medico che ha in cura il paziente ovvero a un medico di fiducia” (anche su questo aspetto torneremo). L’articolo 5, che norma le modalità, dovrebbe garantire la tutela del paziente, affinché la morte avvenga “nel rispetto della dignità della persona malata e in modo da non provocare ulteriori sofferenze ed evitare abusi”. Il medico che ha ricevuto la richiesta “redige un rapporto sulle condizioni cliniche del richiedente e sulle motivazioni che l’hanno determinata e lo inoltra al Comitato per l’etica nella clinica territorialmente competente”. Il comma 3 precisa che occorre verificare, perché la domanda sia ricevibile, se la persona è stata adeguatamente informata sulle sue condizioni e sui trattamenti sanitari ancora attuabili, in particolare sul proprio diritto ad accedere alle cure palliative. Il Comitato per l’etica dà il suo parere (in sette giorni), e lo invia al medico e al cittadino richiedente. Qualora il parere sia favorevole, il medico lo trasmette, insieme a tutta la documentazione in suo possesso, alla Direzione Sanitaria dell’Azienda Sanitaria Territoriale o Ospedaliera di riferimento. L’articolo 6 è dedicato all’istituzione dei Comitati per l’etica, multidisciplinari, autonomi e indipendenti, e costituiti da professionisti con competenze cliniche, psicologiche, sociali e bioetiche (e dico solo che mi auguro che non si trasformino in pachidermi burocratici come i comitati etici già costituiti). Infine l’articolo 7, «Esclusione di punibilità», oltre a decretare la non punibilità del medico che abbia seguito la procedura di questa legge, ne stabilisce la retroattività.

Questo è l’essenziale.

Come sanno i lettori di questo blog, le mie perplessità intorno all’eutanasia in Italia non riguardano ragioni di tipo religioso o ideologico: la mia posizione è laica e credo che la vita sia disponibile per l’uomo.

Tuttavia, ho alcune preoccupazioni, o dubbi, che proverò a elencare.

La prima è che stiamo discutendo di una legge sull’eutanasia, facendo finta che la legge 38 del 2010 e la legge 219 del 2017 siano pienamente applicate, il che è assolutamente falso.
Siamo in un contesto in cui due italiani su tre non conoscono le cure palliative, o ne hanno un’immagine del tutto distorta; i medici di medicina generale e molti specialisti ne sanno poco di più, e i pazienti arrivano quasi sempre troppo tardi ad essere seguiti in cure palliative, a domicilio o in hospice.

Qualora a questo incerto percorso (che attende ancora di essere esteso a tutte le patologie) si aggiunga la possibilità di chiedere l’eutanasia, c’è il rischio che diventi più pratico, veloce ed economico abbreviare la vita piuttosto che migliorarne la qualità. A discapito dell’autodeterminazione, tanto sbandierata dai sostenitori convinti dell’eutanasia. Un punto del testo base che non condivido affatto è quello che riguarda l’eventuale rifiuto delle cure palliative come porta d’accesso all’eutanasia. L’approccio palliativo non è l’alternativa all’eutanasia: solo chi non sa nulla di fine della vita può pensare che abbia senso far scegliere al paziente l’uno o l’altra come si sceglierebbe tra due opzioni equipollenti. L’approccio palliativo non riguarda solo la fine della vita. Quindi un paziente che non sia mai stato seguito con tale approccio non può avere alcuna idea di come starebbe se fosse stato preso in carico correttamente fin dalla prognosi infausta, o dai primi sintomi disturbanti.

La seconda preoccupazione riguarda i medici di medicina generale. Trovo inoltre del tutto inappropriata (e frutto della scarsa dimestichezza degli estensori della legge con la fine della vita) l’idea che la richiesta eutanasica possa essere gestita dai medici di famiglia. I medici di base sono professionisti a cui chiaramente si sta chiedendo troppo, e glielo si sta chiedendo male. Per chi si occupa di cure palliative è consueto avere a che fare con medici di medicina generale, poco formati sull’accompagnamento di fine vita, che sono recalcitranti nell’attivazione delle cure palliative, che pure è già loro compito. Davvero pensiamo che possano essere caricati della responsabilità di accogliere una richiesta eutanasica?

Ma la difficoltà non riguarda solo i medici di base, ma anche tutti gli specialisti, poco abituati a confrontarsi con la prognosi infausta e l’approssimarsi della morte, poco inclini a dare tutte le informazioni al paziente, nonostante la legge 219.

Ed è per questo che mi viene un pensiero, forse non così peregrino (mi direte voi cosa ne pensate). Se proprio una legge sull’eutanasia deve essere approvata nel nostro paese, gli unici che potrebbero farsi carico di una richiesta di questo tipo sono proprio i palliativisti, che hanno preso in carico il paziente e la famiglia, ne hanno esaminato il caso approfonditamente in équipe, conoscono il livello di sofferenza del paziente, possono valutare insieme a lui e ai familiari tutte le opzioni (compresa la sedazione palliativa), prima di giungere alla scelta eutanasica. Questo permetterebbe ai cittadini di scegliere davvero, facendolo all’interno di un percorso di cure palliative che deve cominciare per tempo, possibilmente in modo simultaneo alle cure attive.

Attendo, come sempre, le vostre considerazioni.