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Le parole che non abbiamo di fronte alla morte, di Cristina Vargas

Il linguaggio, il pensiero e le emozioni sono intrecciati in modo profondo e sovente inestricabile. Di fronte a un lutto le parole possono dare forma a sensazioni viscerali che non sempre sono facili da capire. Ogni lingua offre un repertorio lessicale che permette di dare nome a stati d’animo che talvolta sono difficili da definire (persino per chi li sperimenta) rendendoli riconoscibili e, nello stesso tempo, comunicabili. Il linguaggio ci aiuta a cogliere la differenza fra il dolore e nostalgia; separa il senso di colpa dalla rabbia. Una parola, inoltre, può conferire visibilità e riconoscimento sociale a un particolare tipo di condizione, evidenziandone la specificità. Nella lingua italiana disponiamo di due parole per parlare della sofferenza provocata per la morte di una persona cara: “lutto”, dal latino lūctus, deriva dal verbo lugere, che significa piangere; e “cordoglio”, che deriva etimologicamente dal latino cordŏlĭu(m), composto di cor ‘cuore’ e dolēre: dolore di cuore, ma forse anche cuore che duole per chi ci ha lasciato. Oggi, in italiano, si usa il termine “lutto” per parlare della sofferenza (psichica, intima, per lo più privata) che si prova per la morte di persona cara, mentre “cordoglio” è meno presente nel linguaggio quotidiano e viene per lo più usato in formule quali “esprimere il proprio cordoglio”, che ci proiettano in una dimensione pubblica e condivisa del dolore.  Anche in altre lingue romanze ci sono parole specifiche per dare nome alla sofferenza per la morte di un caro: deuil in francese e duelo in spagnolo (dal latino dolēre) sono entrambe traducibili con l’italiano “lutto”. Tuttavia, non tutte le lingue dispongono di parole equivalenti. Ruth Evans, geografa e antropologa, racconta che durante una ricerca sul rapporto fra lingua ed emozioni condotta in Senegal, in un contesto bilingue francese/wolof, ha riscontrato una forte difficoltà a tradurre la parola inglese grief , intesa appunto come la risposta emotiva alla morte di una persona significativa. I suoi interlocutori, infatti, usavano il termine wolof métite, il cui significato è più ampio e non strettamente collegato al fine vita, tanto che di solito veniva tradotto con il francese chagrin (dolore, sofferenza). Anche la parola usata per parlare della morte, niak, è più vicina nel suo significato all’espressione “perdita”, nel senso che non è specificamente riferita al decesso, ma può essere usata anche in molti altri ambiti, compreso quello economico. Per Evans quest’ampiezza semantica non è mera genericità, ma è coerente con la molteplicità di dimensioni – emotive, ma anche materiali e sociali – toccate dalla morte di un congiunto o di un amico in una comunità caratterizzata dalla forte interdipendenza reciproca. La connessione fra lingua e pensiero è stata a lungo oggetto di studio e di dibattito in ambito sociolinguistico, in particolare a partire dagli anni Cinquanta del Novecento quando vennero pubblicati i lavori sul relativismo linguistico dell’antropologo Edward Sapir e del suo allievo Benjamin Lee Whorf. Come spiega quest’ultimo, il mondo “si manifesta in un flusso caleidoscopico di impressioni che devono essere organizzate dalle nostre menti” ed è in grande misura grazie alla lingua che questo processo di classificazione può verificarsi. Nelle sue versioni più deterministiche l’ipotesi di Sapir e Whorf è stata oggetto di critiche fondate. Tuttavia, è innegabile che la lingua incida sulla nostra visione del mondo. Se da una parte abbiamo delle parole che nominano, e rendono socialmente visibili certi tipi di esperienza, dall’altra ci sono parole che “mancano”. Mentre nella lingua italiana disponiamo di “vedova” e “vedovo” per designare chi ha perso il proprio coniuge, non abbiamo dei termini che permettano di dare nome a chi è in lutto per una persona amata con la quale però non aveva un legame ufficiale. Non ci sono parole per designare chi ha perso un fratello o una sorella, e questo lutto di fatto viene spesso sottovalutato. Ci sono le parole “orfano” e “orfana” per chi ha perso la madre o il padre, ma non ci sono parole che descrivano un genitore che ha perso un figlio. Quest’ultima mancanza è forse la più sentita a livello pubblico, non solo in Italia, ma anche nei contesti anglofoni e francofoni. Nel corso degli anni ci sono state alcune proposte per colmare questo vuoto linguistico. La psichiatra e scrittrice marocchina Rita el-Kahyat ha usato il temine désenfantement (defigliazione) per parlare della morte di sua figlia Aïni. Karla Holloway, già professoressa di Letteratura Inglese alla Duke University, racconta che dopo la tragica morte di suo figlio aveva sentito a lungo la mancanza di una parola “a cui aggrapparsi”. Dopo aver cercato alternative in molte lingue, propose di usare la parola sanscrita vilomah: un dolore che è contro l’ordine naturale, che sovverte il modo in cui dovrebbe andare il ciclo vitale. Anche in Italia ci sono state proposte che, come le precedenti, hanno avuto un riscontro limitato, ma testimoniano un bisogno importante. Paolo d’Achille, che ha a lungo studiato la costituzione del lessico italiano, chiamato a rispondere a un quesito posto al Servizio Consulenza dell’Accademia della Crusca, ha ricordato sia l’uso letterario della parola “orbato”, sia il neologismo “disfigliato” che ha però storicamente ha una connotazione diversa poiché viene usata anche in riferimento a chi non ha figli. Una risorsa interessante sono quelle lingue che, invece, dispongono di termini ben precisi che raccontano il dramma della morte un figlio.  Sandro Veronesi, nel suo recente libro Il Colibrì, ce ne elenca alcuni: in ebraico shakul, dal verbo shakal (perdere un figlio); in arabo thaakil (thakla per la madre); nel greco moderno la parola charokammenos, “bruciato dalla morte”, che dovrebbe essere riferita a qualsiasi tipo di lutto, ma è usata quasi soltanto per indicare un genitore che perde un figlio. Anche la ricerca in ambito antropologico e psicologico ci offre degli esempi: in Cina, i genitori il cui unico figlio o figlia muore, o ha un livello di disabilità talmente grave da compromettere la sua possibilità di vivere senza supporto costante, sono Shidu. Questo termine è interessante perché accomuna due circostanze per noi diverse, ma che sul piano sociale vengono considerate dei lutti a tutti gli effetti. Non è facile stabilire in modo univoco perché in ogni lingua certe parole ci sono, e certe altre invece mancano. Le ragioni sono molteplici e affondano le loro radici in fattori sociali, economici, culturali e forse anche psicologici. Un “vuoto” linguistico non necessariamente segnala un tabù, ma certamente è collegato al minor riconoscimento collettivo di fatti che altrove vengono nominate. Le parole, infatti, illuminano o celano, evidenziano o negano, allargano o restringono un campo semantico e, in questa misura, fanno parte integrante del modo in cui ci occupiamo della morte e dei morti come individui e come collettività. Cosa ne pensate? Avete esperienza della mancanza di alcuni termini per designare una perdita subita da voi o da persone intorno a voi?

“Get ready with my boyfriend’s funeral”. Il lutto su Tik Tok, di Davide Sisto

Recentemente, durante un mio incontro pubblico sui temi della morte digitale, una partecipante mi ha chiesto un parere riguardo alla versione funebre del celeberrimo acronimo GRWM usato su Tik Tok, YouTube e Instagram. L’acronimo sta per “Get Ready With Me”, “preparati con me” o “prepariamoci insieme”, e indica l’abitudine – da parte soprattutto degli utenti social più giovani – di creare dei tutorial relativi al make-up e al look da indossare durante specifiche circostanze, per lo più solari e disimpegnate. Siamo oramai tutti consapevoli di quanto sui social media vada di moda questo tipo di tutorial, per mezzo dei quali gli influencer sponsorizzano o, comunque, consigliano abiti, modi per fare la perfetta skin care e cose simili. Non immaginavo, però, che spopolasse anche la seguente versione dell’acronimo indicato: “get ready with me for my boyfriend’s funeral” o “get ready with me for my mom’s funeral”. Dietro queste sigle si nascondono centinaia, se non addirittura migliaia, di video in cui vediamo persone molto giovani che si truccano o si vestono davanti alla telecamera in vista della partecipazione al funerale del proprio partner o genitore. I video durano uno o due minuti, hanno generalmente un sottofondo musicale malinconico e contengono qualche concisa frase di spiegazione. In realtà, il funerale solitamente ha già avuto luogo. Il video è, dunque, una specie di messinscena per sottolineare un momento particolare del lutto appena avvenuto, su cui spesso si pone poca attenzione: appunto, il momento preciso in cui ci si deve vestire e truccare per andare al funerale di una persona amata, quindi una situazione di estremo dolore legata a una perdita appena avvenuta. I video, generalmente, uniscono atmosfere drammatiche con altre più ilari o ironiche, guadagnando milioni di visualizzazioni e di like, nonché centinaia di migliaia di commenti di coetanei che raccontano esperienze luttuose simili o che condividono il proprio calore virtuale alla persona immortalata.

Ne cito un paio: Karine, una ragazza che ha appena perso la madre, la quale in un minuto di video mostra il tipo di make up e di abito nero che ha indossato per il suo funerale. Gli hashtag usati, oltre a GRWM, sono #funeral #fyp #foryoupage #foryou. Il video, in cui vediamo la ragazza a tratti in lacrime a tratti con un sorriso disincantato, conta quasi diciotto mila commenti, nonché più di due milioni di like. Ancora più significativo è il video dell’influencer Paige Gallagher che si è truccata davanti alla telecamera per la morte del suo compagno. Durante il video chiede a chi ha vissuto un lutto significativo se ha avuto, durante la fase del rito funebre, la sensazione simile alla sua di essere dentro un gioco in realtà virtuale, in cui si perde il contatto con la tangibilità del reale. Tra i milioni di followers che hanno visto il video alcuni la ringraziano per dare testimonianza a questa particolare situazione del lutto, altri invece la condannano radicalmente. Costoro ritengono, infatti, che sia di cattivo gusto ridurre il necessario raccoglimento per la perdita patita all’ennesima esposizione narcisistica di sé, dando rilievo a cose del tutto futili come l’abito o il make up per andare al funerale.

Durante gli ultimi giorni ho osservato numerosi video simili su Tik Tok per cercare di farmi un’idea sul valore di questa particolare scelta. Da una parte, mi sembra che la versione funebre del GRWM sia parente di tutte quelle iniziative che hanno finora segnato la presenza della morte sui social media, come – per esempio – i selfie ai funerali condivisi su Instagram qualche anno fa o i video narrativi sulla perdita di un genitore condivisi su YouTube. Queste iniziative, per lo più portate avanti da persone molto giovani, tendono a creare narrazioni in parte drammatiche in parte ironiche, cercando quindi di condividere pubblicamente il proprio dolore mediante scelte stilistiche agrodolci. La condivisione pubblica del dolore, unito a una qualche forma di ironia, nasconde l’esigenza di parlare insieme ai propri coetanei del lutto, di mostrarne i segni, di invitare a ritrovare nel tempo la risata e dunque di eliminare quel carattere di riservatezza che, almeno per alcuni, genera più sofferenza che sollievo. Inoltre, va detto che la scelta del look per la partecipazione al funerale richiama alla mente svariate ritualità funebri, ciascuna con le sue regole e le sue abitudini. Ci sono, come sappiamo, culture che danno un’importanza fondamentale al modo di presentarsi al funerale. Dunque, non c’è niente di particolarmente offensivo né di inusuale nel dare spazio visivo, sui social, a questo tipo di preparazione, magari determinando una riflessione collettiva sul tema. Inoltre, è sempre molto difficile dover giudicare in maniera radicalmente netta registri comportamentali e stilistici spesso molto differenti, come quelli che separano le generazioni pre-social da quelle abituate a usarli quotidianamente. Se questo tipo di iniziativa è una scusa per affrontare il lutto in pubblico e per ragionare sul dolore che accompagna il rito funebre, allora non mi pare che ci sia nulla di male.
Dall’altra parte, ovviamente, il dubbio che la messinscena a funerale avvenuto nasconda, dietro un proposito positivo, la mera capitalizzazione del like e della visibilità è altrettanto plausibile. Quando qualcosa diventa tendenza, rischia molto spesso di creare atteggiamenti superficiali o tesi semplicemente a trarre vantaggi dalla fragilità ostentata. E se l’essere umano di per sé è abile a mostrare il peggio di sé anche nelle circostanze in cui si richiede empatia, raccoglimento e calore reciproco, allora non c’è da stupirsi se qualcuno si approfitta della versione funebre del GRWM per trarre vantaggi economici o di mera visibilità.

Da studioso dei meccanismi che caratterizzano le relazioni sui social in presenza di un lutto riesco a vedere gli elementi positivi di questa nuova iniziativa, che spinge le persone più giovani a mettere in discussione una certa riservatezza, a volte ipocrita, a volte figlia dell’imbarazzo relazionale, che caratterizza i primi momenti di una perdita. Per me il bicchiere è mezzo pieno, non mezzo vuoto. Ovviamente, occorre fare attenzione affinché non si banalizzi un momento così delicato come quello relativo al rito funebre. Ma questa attenzione vale sia dentro che fuori i social media.

Voi cosa ne pensate? Vi sembra una scelta inopportuna? Oppure, trovate un aspetto positivo in questo tipo di iniziativa? Ancora: cogliete in cose del genere un distacco generazionale piuttosto marcato? Attendiamo le vostre risposte.

Quando a scuola c’è un lutto, di Caterina di Chio e Cristina Vargas

Per i bambini e i giovani, scrive la psicoterapeuta Sofia Massia, la scuola rappresenta la prima casa-altra rispetto alla famiglia; un luogo in cui, parafrasando Rodari, ciascun allievo ogni giorno “fa la punta alle matite e corre a scrivere la propria vita”. In essa, infatti, si  apprendono saperi e competenze, si intrecciano legami importanti, si provano emozioni profonde, si trascorrono molte ore e si fa esperienza di comunità. A scuola dunque si affrontano tutte le sfide della crescita, comprese quelle più difficili come l’incontro con la morte e il lutto. Talvolta, l’incontro è indiretto e avviene attraverso il commento a letture condivise o a racconti che un singolo alunno porta nel contesto classe, ad esempio relativamente alla morte di un animale domestico, di un nonno o di un genitore. Talatra, invece, si verificano esperienze che toccano direttamente e da vicino l’intero gruppo: la morte di un compagno o di un insegnante, di un membro della comunità scolastica.

In questa prospettiva, possiamo considerare la scuola un ambiente ottimale per attuare interventi di prevenzione primaria nell’ambito dell’educazione alla morte. Autori come Stephen Strack, Robert Neimeyer e, in Italia, Ines Testoni, hanno strutturato e promosso progetti che si soffermano sia sul pensiero e sulla riflessione (attivando quindi la sfera cognitiva), sia sulla dimensione affettiva-relazionale, con l’obiettivo di rendere la morte un tema “dicibile”, qualcosa su cui è possibile confrontarsi, ascoltarsi e ascoltare.

Ci sono situazioni in cui gli interventi di prevenzione primaria sono sufficienti, ed altre in cui la prevenzione (qualora ci sia stata) non è sufficiente. Risulta necessario occuparsi di lutti veri e propri.  Gli scenari possono essere molteplici, ma nel presente articolo vorremmo soffermarci in particolare su ciò accade quando è un membro del gruppo classe a morire. In questi casi, la morte irrompe in modo spesso traumatico nella vita scolastica, coinvolgendo allievi, insegnanti e, più in generale, tutta la comunità.

In situazioni di questo tipo gli insegnanti si trovano davanti un compito complesso, e hanno un elevato grado di responsabilità rispetto  al  gruppo classe. Nel corso delle esperienze di supporto a docenti ed educatori che abbiamo avuto modo di seguire negli ultimi anni sono emerse numerose domande e preoccupazioni, che in molti casi si esprimono intorno a un grande quesito: come posso in qualità di docente gestire al meglio la situazione, ed essere di supporto, senza oltrepassare i confini e il mandato del mio ruolo, rischiando di sconfinare in territori non di mia competenza?

Un primo nodo importante, su cui può essere utile proporre alcune riflessioni, è quello di conoscere e comprendere le caratteristiche del lutto nelle varie fasi di età.

Il lutto è collegato a emozioni intense e difficili. Accanto al dolore,  in genere si sperimentano vissuti di rabbia, di senso di colpa, oltre che di confusione, di paura, di angoscia… Mentre nell’adulto queste emozioni tendono ad avere un carattere persistente, nei bambini e nei ragazzi esse hanno un andamento altalenante: in alcuni momenti possono arrivare con forza dirompente, mentre in altri possono attenuarsi, o addirittura sparire. Per un adulto può essere sconcertante vedere quanto siano diverse le modalità di reazione degli allievi e come nel gruppo si passi da un comportamento “come se niente fosse” al manifestarsi del pianto o a scatti di rabbia (apparentemente) eccessivi o ingiustificati. È importante considerare queste oscillazioni come del tutto normali. Esse si presentano con maggiore intensità in chi era più legato al compagno o alla compagna deceduti. Allenarsi a riconoscere queste emozioni aiuta a comprenderle e a gestirle con maggior sensibilità, a tollerare meglio i momenti di crisi senza andare sulla difensiva e a bilanciare accoglienza e contenimento nel rapporto con ciascuno dei propri studenti.

La morte di un membro del gruppo porta  gli altri a confrontarsi con  la consapevolezza della propria morte: “se è accaduto al mio compagno o compagna vuol dire che anche i bambini (o i ragazzi) possono morire e, quindi, può accadere anche a me”. Questo pensiero può essere formulato ad alta voce, oppure può essere espresso in modo indiretto: i più piccoli possono manifestare inquietudine o paura nel momento di addormentarsi, ad esempio, o mostrare preoccupazioni per il proprio stato di salute e sintomi psicosomatici. In ogni caso è importante intervenire tenendo insieme onestà e sensibilità. A seconda dell’età è possibile cercare fiabe, racconti, testi letterari o filosofici e altre suggestioni culturali che aiutino ad affrontare il tema. Molte discipline scolastiche, infatti, offrono vie e strumenti che possono essere utili nel percorso di elaborazione (come la scrittura o il disegno) e che possono rappresentare un canale espressivo per i singoli e per il gruppo.

Offrire uno spazio e un tempo per condividere i propri vissuti intorno alla perdita  è un compito prezioso del docente che, nel suo ruolo, può creare le condizioni affinché nel gruppo le persone possano parlare, essere ascoltate, sentirsi meno sole e avvertire che l’evento viene accolto dalla comunità di appartenenza.

Nei momenti di particolare difficoltà, si può fare riferimento allo sportello di ascolto psicologico, che rappresenta una risorsa importante quando si coglie la necessità di un supporto specifico.

Per quanto riguarda il gruppo classe, un  ambito di grande importanza è quello della comunicazione. Curare il modo in cui si trasmette la notizia alla classe, per quanto non esista  “il modo giusto”,  è essenziale.  Ogni insegnante può trovare le parole che sente più coerenti con il proprio carattere e con il tipo di relazione che ha con la classe, tuttavia, pur mantenendo il proprio stile, l’esperienza di lavoro in setting gruppali insegna che è d’aiuto usare un linguaggio chiaro, empatico e adeguato all’età. La parola “morte” non va temuta: pronunciarla aiuta il gruppo a prendere atto della drammatica irreversibilità di quanto accaduto, facilitando la comprensione di un concetto che, soprattutto per i più piccoli, può essere ancora astratto e difficile da afferrare nel suo pieno significato. Se si tratta di una situazione improvvisa o inattesa è probabile che ci siano delle domande, collegate a un normale bisogno di sapere che cos’è successo. A questo proposito ci sembra di poter dire che è necessario parlare dell’accaduto con tatto,  senza entrare in lunghe descrizioni e senza condividere dettagli intimi per soddisfare a tutti i costi la curiosità, ma fornire, in modo rispettoso e discreto, quelle informazioni essenziali che permetteranno ai compagni di comprendere l’accaduto. In genere, in alcuni casi in particolare, soprattutto se si tratta di morti violente, atti anticonservativi o incidenti, può essere opportuno concordare con la famiglia di chi non c’è più i contenuti da trasmettere.

Infine un tema su cui ci si sofferma poco, ma che invece è fondamentale, è quello degli oggetti. La scuola è piena di tracce del passaggio di ogni allievo o allieva. I quaderni, i disegni, le parole scritte, i compiti in classe, il banco stesso sono l’ancoraggio concreto alla memoria del gruppo e sono testimonianza della vita che in quel luogo ha trascorso chi l’ha lasciato. In quanto tali, tutti questi oggetti d’uso quotidiano, su cui di norma  sorvoliamo, acquisiscono un’importanza significativa sul piano simbolico. Come trattarli allora? Sapendo che sono preziosi per favorire l’integrazione dell’esperienza della perdita, il gruppo stesso può trovare la risposta a questa domanda, decidendo cosa tenere in aula, cosa valorizzare e come utilizzare gli oggetti stessi per creare una memoria condivisa. L’importante è che quest’opportunità  venga offerta, e che si dia la possibilità ai ragazzi stessi di scegliere il da farsi. Decidere insieme qual è il momento migliore per togliere il banco o per raccogliere il materiale da restituire alla famiglia offre l’occasione di condividere le emozioni e i pensieri che stanno circolando nel gruppo, trasformandoli in un gesto significativo. È possibile anche trovare forme condivise per ricordare: creare una scatola in cui ognuno può depositare un pensiero o, ancora, piantare un albero in onore del defunto sono atti che si avvicinano alla dimensione rituale, nel senso che permettono di dire addio attraverso l’azione e creano un senso di vicinanza e condivisione fra chi resta.

Cosa ne pensate? Avete esperienze che potete condividere? Grazie, come sempre, del vostro contributo.

Il ritorno della morte nello spazio pubblico? di Cristina Vargas

Nell’ultimo fine settimana di settembre si è svolta la rassegna annuale Torino Spiritualità, che quest’anno era intitolata Agli assenti. Della morte ovvero della vita. Oltre a questa, diverse altre manifestazioni culturali importanti in tutta Italia hanno scelto di soffermarsi su questo tema ed è crescente l’importanza dei festival specificamente incentrati sul fine vita (ad esempio in questo momento si sta svolgendo Il rumore del lutto a Parma, che esiste da 17 anni e che ha fatto scuola, ma ricordiamo anche nuove iniziative: Mortali. Vivere nonostante a Trento, o il festival culturale di Vidas, a Milano, appena concluso, o ancora Da Vivi, Il miracolo della finitezza, del Teatro Metastasio a Prato, e altri ancora): dopo decadi di impronunciabilità, sembra che nel periodo post pandemico il tema del fine vita stia riguadagnando terreno.

Quali riflessioni possiamo trarre dal successo di queste e altre iniziative? Siamo forse di fronte a un ritorno della morte nello spazio pubblico? È presto per dirlo. Tuttavia, rispetto a vent’anni fa, quando ho cominciato ad avvicinarmi questo ambito, le differenze sono molto significative. Allora gli eventi richiamavano con fatica poche persone e, se si avanzava la proposta di organizzare qualcosa di un po’ più ampio, da tutte le parti arrivavano richiami alla cautela. Sono innumerevoli le occasioni in cui ci siamo sentiti rispondere: “C’è la parola morte nel titolo? Meglio di no! Potrebbe spaventare il pubblico”. Oggi, al contrario, sembra che il clima sociale stia lentamente mutando e che, più che in passato, si percepisca un bisogno sociale di confronto, condivisione e dialogo. Questo stesso blog, Si può dire morte, sembra cominci a vincere la sua scommessa.

Il Death café organizzato in occasione dell’inaugurazione di Torino Spiritualità e il laboratorio “Le assenze, gli assenti”, che ho avuto la possibilità  di co-condurre insieme alla psicoterapeuta e psicodrammatista Caterina di Chio, rappresentano per me due punti di osservazione privilegiata per cominciare ad abbozzare qualche ipotesi sul perché le persone, oggi, scelgono di prendere parte attiva ai momenti pubblici di riflessione sui grandi quesiti esistenziali sollevati dalla morte.

Al Death café inaugurale hanno partecipato circa seicento persone che, in gruppi da dieci e guidati da conduttori esperti, hanno riflettuto sulla domanda «In che senso la morte può far parte della vita?». Fra i presenti c’erano medici, infermieri, psicologi, operatori funebri e altri professionisti che a vario titolo si confrontano con il fine vita, ma soprattutto c’erano i cittadini, che si sono messi in gioco a partire dalle proprie riflessioni e vissuti personali (cfr. il report dell’evento a cura di Marina Sozzi). Il laboratorio, invece, era rivolto a un piccolo gruppo e utilizzava metodologie attive, con lo scopo di esplorare i molti modi in cui chi ci ha lasciato continua ad abitare dentro di noi. In entrambe le occasioni i contenuti sono stati ricchi e profondamente umani, ma in questa sede mi interessa evidenziare che, al termine, molti dei partecipanti hanno sottolineato – in alcuni casi con un pizzico di sorpresa – quanto fosse stato importante e significativo vivere un momento in cui era stato possibile parlare della morte in modo aperto, in un clima di condivisione e reciprocità.

L’incontro autentico e paritario fra persone ha offerto un momento comunicativo e relazionale diverso rispetto a quelli che normalmente sperimentiamo nei nostri contesti di vita.

Il rinnovato interesse a parlare della morte, cui stiamo assistendo, infatti, non vuol dire che questo tema sia ormai familiare a tutti, o che il “tabù”, di cui abbiamo più volte parlato, sia tramontato. Parlare della morte, del morire e del lutto rimane molto difficile, in particolare nelle situazioni che ci coinvolgono in modo diretto e personale.

Un recente progetto di ricerca di interesse nazionale, i cui risultati sono stati presentati nel volume Morire all’italiana (2022, a cura di Asher Colombo), ci restituisce l’immagine di una società eterogenea, con modalità di rapportarsi con la fine della vita non facilmente schematizzabili. Tuttavia, in molti ambiti gli autori hanno notato che persiste una diffusa difficoltà nell’accettare la morte e nell’accompagnare i morenti. Emerge inoltre la tendenza a relegare l’esperienza del lutto in una dimensione privata e intima, che lascia poco spazio alla sfera collettiva. Ciò conferma un più generale processo di mutamento storico: da una gestione prevalentemente familiare e comunitaria della morte, siamo passati nel secondo Novecento a una modalità fortemente individualizzata (e per molti versi individualistica) di approcciare le ultime fasi.

Questa progressiva individualizzazione si esprime in diversi modi, con risvolti positivi e negativi. Si pensi, per esempio, all’importanza che ha assunto il concetto di autodeterminazione per quanto riguarda le scelte di fine vita. L’individualizzazione, inoltre, si manifesta anche sul piano delle credenze e dei riti: la secolarizzazione, più che eliminare il bisogno di spiritualità, ha favorito l’affermarsi di forme nuove e personalizzate di vivere il rapporto con l’aldilà, con il sacro e con i defunti. A questo proposito, l’indebolirsi delle forme tradizionali di gestione della morte e del lutto da un lato solleva dal peso (a volte gravoso) dei “doveri sociali”; ma dall’altro può generare un senso di incomunicabilità e di solitudine.

Il nostro rapporto con la morte oggi, in sintesi, si sviluppa in uno scenario caratterizzato dalla frammentazione e dalla complessità.

In quest’ottica, il rinnovato interesse per il fine vita fa tornare alla mente le riflessioni proposte più di vent’anni fa dal sociologo britannico Tony Walter nel suo noto volume The Revival of Death. Secondo Walter il  bisogno di parlare della morte, del morire e del lutto, che egli riscontrava già allora (forse perché il suo sguardo partiva dalla realtà anglosassone), deriva non tanto dal desiderio di rompere il tabù della morte (un concetto su cui questo autore è critico), ma dalla necessità di trovare risposte di fronte alle nuove sfide e incertezze generate dal mondo contemporaneo e dal rapido mutamento delle pratiche sociali.

A queste considerazioni, a mio avviso, si aggiungono le ricadute del periodo pandemico, durante il quale la possibilità di accompagnare i malati e i morenti, di essere presenti fisicamente nelle ultime fasi, di dire addio e di ritualizzare la morte è stata fortemente limitata. Ciò, da un lato, ha acuito il senso di isolamento di chi ha subito delle perdite; dall’altro, per contrasto, ha aumentato la consapevolezza dell’importanza, e del valore, dei momenti collettivi di condivisione, rito e memoria.

Il dialogo e il confronto sono risorse che non solo aiutano a lenire la solitudine connessa alla sofferenza, ma consentono anche di ripensare e di rielaborare i quesiti esistenziali con cui tutti ci confrontiamo di fronte alla fine, tanto sul piano professionale, quanto sul piano personale. Essi, inoltre, sono potenti strumenti per riflettere sui dubbi e le incertezze della contemporaneità. Se non c’è una narrazione univoca a cui possiamo aggrapparci, o convenzioni sociali che – per quanto limitanti – ci dicano cosa è giusto dire o fare, come facciamo a sapere se siamo sulla buona strada nel percorso di lutto? Chi ci assicura (e rassicura) sul fatto che le emozioni difficili che intimamente proviamo siano normali e non il segnale di qualche anomalia? In mancanza di linguaggi sociali consolidati per gestire la morte, la condivisione a livello comunitario o di gruppo ha una funzione non solo espressiva (di per sé importantissima), ma anche rielaborativa, nella misura in cui permette di chiarire, di riorganizzare e conferire significato a pensieri, esperienze ed emozioni di cui non è semplice parlare in altri contesti.

E voi cosa ne pensate? Quali sono le vostre sensazioni in merito? Avete seguito uno di questi festival?

Estate, lutto e solitudine di Cristina Vargas

Il mese di luglio è trascorso. Agosto è alle porte. Anche se meno di quanto capitava in passato, le città si svuotano e molti partono per godersi il mare o la montagna anche solo per qualche settimana. Tuttavia, l’estate, che associamo a un tempo di luce, di vita e di vacanze, non per tutti è un momento gioioso: per le persone anziane, per chi assiste un caro in condizioni di malattia grave o per chi ha vissuto una perdita importante, questo tempo può essere connotato da un profondo senso di solitudine. In un mondo vacanziero che ha poca voglia di soffermarsi sul dolore altrui, la sensazione di avere una coloritura emotiva dissonante, che appesantisce gli altri, rende più acuto il senso di isolamento. Può capitare di  dover vivere in sordina le proprie sofferenze, di mettere a tacere i propri bisogni o di far finta che le cose vadano meglio, per non preoccupare i propri cari.

In questa cornice emotiva, il tema di come trascorrere le settimane delle ferie è stato oggetto di molte riflessioni nei nostri gruppi di sostegno al lutto. Anche se ognuno dei partecipanti ha fatto scelte diverse, per tutti – soprattutto per chi si trova a vivere la prima estate dopo la morte del proprio caro – è stata forte l’angoscia su come attraversare questo periodo dell’anno.

Per alcune persone la solitudine è un dato materiale, una realtà inesorabile che può rendere impossibile  progettare una vacanza: a volte, semplicemente, non si ha la possibilità di viaggiare perché l’età, le condizioni fisiche, gli impegni di cura o fattori economici lo impediscono.

“Ricordo l’estate scorsa…”, raccontava pochi giorni fa una donna che è stata a lungo caregiver di suo marito, “lui stava malissimo e io passavo giorno e notte a stargli accanto. Era seguito a casa e io non sapevo più come fare per aiutarlo a sopportare il caldo tremendo che faceva. Ricordo che lo giravo, gli passavo i panni di acqua, avevo messo due ventilatori, ma non bastavano. Mi aggiravo per la casa come un’anima in pena. I figli e nipoti erano al mare, ed era giusto così. Solo che io ero sola, e mi sentivo sprofondare”. Ora che il marito non c’è più potrebbe fare un po’ di vacanza, o almeno andare a trovare i parenti, ma proprio non se la sente…

Nonostante le buone intenzioni di chi invita e suggerisce di “cambiare aria”, per molte persone in lutto  partire è del tutto impensabile. Non si tratta di un “lasciarsi andare” – come a qualcuno dei membri del gruppo è capitato di sentirsi dire – ma di una vera e propria impossibilità psichica. Chi vive un lutto sovente sperimenta una perdita di interesse per il mondo esterno, a cui si unisce un profondo svuotamento interiore, come se una parte importante del proprio essere fosse morta con il proprio caro. Questo stato d’animo, nelle fasi più acute, impedisce di vivere, di fare progetti, di pensare a qualsiasi cosa che non sia l’assenza. In queste situazioni l’ascolto di se stessi è importante: un viaggio compiuto prima di esserne pronti, o al quale si acconsente controvoglia, può dimostrarsi controproducente e può generare sensi di colpa, risentimento o rabbia.

Chi rimane, tuttavia, si ritrova a dover gestire l’afa, il caldo, la difficoltà a dormire, la disidratazione, l’affaticamento fisico e molti disagi legati al clima, che possono rendere estremamente faticose le settimane estive, in particolar modo per chi è in condizioni di vulnerabilità e non ha una adeguata rete di supporto familiare. Una ricerca pluriennale condotta da Leonardo Palombi, Professore di Igiene, Epidemiologia e Sanità Pubblica dell’Università Tor Vergata di Roma, ha mostrato infatti un aumento della mortalità fra gli ultrasettantacinquenni durante le ondate di calore che si registra quasi tutti gli anni dal 2003 ad oggi. È importante quindi non limitarsi nel chiedere aiuto quando necessario e, per chi ha un genitore o amico che sta attraversando un lutto, mantenere alta la vigilanza rispetto al benessere del proprio caro.

Nel gruppo, comunque, altri hanno scelto di partire.

Alcune partenze sono vie di fuga. Una delle donne che seguo in terapia individuale ha colto l’occasione per fare le valigie e andare il più lontano possibile dai ricordi che ingombrano una casa in cui si sente soffocare. Quando il dolore è così intenso, è umano tentare ogni percorso, perché non esiste un “modo giusto” di vivere il lutto.

Qualcuno, invece, ha trovato la forza di fare un po’ di vacanza nella famiglia: “perché i figli ne hanno bisogno” o “per far piacere ai nipoti”. Una rete familiare solida è una risorsa importante nel percorso di elaborazione, perché in molti sensi rappresenta una motivazione ad “andare avanti” e un ancoraggio alla vita. In questi casi si può avere un’oscillazione fra il senso del dovere (che a volte può essere gravoso), e il piacere di condividere dei momenti con delle persone amate. Contattare questa seconda dimensione non è semplice e avviene in modo graduale e discontinuo, ma lentamente nella vita del dolente si affaccia nuovamente la possibilità di giocare con i nipoti, di cogliere la bellezza di un paesaggio o di godersi le piccole cose che un tempo erano fonte di gioia.

Altri viaggi sono soprattutto ritorni, temuti o desiderati, ma in ogni caso costellati da paure e domande. Una figlia, per esempio, ha scelto di tornare nel paese di origine del padre deceduto qualche mese fa: un luogo del cuore, che evoca le lunghissime estati dell’infanzia, i profumi della cucina della nonna e molte altre immagini piene di bellezza e nostalgia. La sua scelta è un tentativo di riscrivere una relazione che poi divenne conflittuale e rabbiosa, e che venne ritrovata solo negli ultimi mesi della malattia.

Un vedovo, insegnante al liceo, è tornato con un misto di piacere e dolore nel loro paese del Sud dove è nato: lì aveva conosciuto la moglie e l’aveva sposata; lì avevano molti parenti e amici storici; lì c’è la loro piccola seconda casa, in cui sognavano di trascorrere gli anni della pensione. Come mi sentirò, in quel posto che era nostro, senza di lei? Come sarà incontrare tutti, soprattutto le persone che non sono salite per il funerale e che non ho ancora visto? Questo viaggio sarà per me un momento di chiusura, o sarà invece una ferita che si riapre? Queste e molte altre domande si affastellavano nella sua testa nei giorni precedenti al viaggio.

L’estate, quindi, è un momento di fatica e solitudine, ma pian piano, quando il dolore non è più travolgente e incontenibile come nelle prime fasi, può anche essere un’occasione per (ri)contattare luoghi della memoria o per ritrovare spazi vitali e una tappa significativa nel processo di  riorganizzazione della propria esistenza che caratterizza il lutto.

Volete condividere la vostra esperienza?

Il pensiero magico e le parole immutabili nel lutto, di Nicola Ferrari

Riceviamo e pubblichiamo volentieri questo articolo di Nicola Ferrari, responsabile del servizio di sostegno al lutto dell’associazione Maria Bianchi. (Le immagini sono di Catrin Welz-Stein).

Le tre amiche salgono sul pulpito, alla fine del funerale.

Sono coetanee della ragazza di 20 anni morta nel sonno, di notte, nella casa dei genitori del suo fidanzato. Verrà trovata cadavere la mattina successiva dalla mamma del suo compagno, uscito presto senza svegliarla per andare a lavorare. Una ragazza atletica, appassionatissima di ballo moderno, che non aveva mai manifestato problemi fisici.

La chiesa del piccolo Comune è ovviamente gremita: c’è tutto il paese, sento dire da un vigile che cerca di gestire la viabilità davanti al sagrato. La bara, di legno semplicissimo e chiaro, è ricoperta di frasi scritte da tutte le persone sue amiche: ora balla lassù, ti amerò per sempre, insegnami a vivere, prenditi cura di noi, il cielo ora ha un’altra stella, quando ci rivedremo sarà meraviglioso, nell’attesa piango. 

L’emozione, come accade ogni volta nella fase conclusiva del rito funebre, è palpabile tra la folla che riempie la chiesa e chi è rimasto fuori per mancanza di spazio. Una dopo l’altra le sue amiche leggono i pensieri che nei giorni successivi al decesso hanno affollato i loro cuori e le loro menti.

Sono al 90% le stesse parole che si leggono o si ascoltano in casi simili: cielo, stelle, cuore, amore, per sempre, ogni giorno, destino…; l’amica è stata fonte di gioia e affetto ineguagliabili, un essere umano meraviglioso e amabilissimo, i difetti e i limiti erano un niente se paragonati al resto, i ricordi sono indimenticabili, le esperienze vissute hanno indissolubilmente segnato la vita che c’è stata e tutta quella che verrà, l’aiuto ricevuto non sarà mai paragonabile a nessun altro, lo strazio della perdita resterà sempre dentro.

Non si tratta, ovvio, né di valutare né di mettere in discussione quello che ognuno di noi sente e pensa quando vive un lutto; ma è altrettanto ovvio che le parole che utilizziamo per esprimere quello che ci accade fanno la differenza. E la fanno nella misura in cui sono più o meno cor-rispondenti alla nostra personalissima vita interiore. Narrare ad esempio il dolore intimo con un linguaggio che è lo specchio fedele (o il più fedele possibile) di ciò che proviamo, significa riuscire a definirsi, a dare confini e caratteristiche al tormento e iniziare così ad affrontarlo.

Purtroppo è ancora molto presente in Italia un pensiero magico che attribuisce totale verità, assoluta immodificabilità a ciò che una persona in lutto narra scrivendo o parlando, come se da un lato fosse mancanza di rispetto per il suo dolore aiutarlo a trovare espressioni che comunicano con più precisione ciò che vive e dall’altro sostanzialmente inutile perché le parole sono, appunto, solo parole. Sperimento direttamente invece, da alcuni decenni, quanto una vera, precisa, dettagliata, approfondita scelta dei termini che si usano per raccontare, e quindi raccontarsi, durante il lutto crei una reale possibilità di cambiamento. Ciò che può fare la differenza è la correlazione tra vissuto e linguaggio che deve essere appunto vero, preciso, dettagliato e approfondito non per chi lo riceve ma per chi lo esprime.

Quando la forma, che tutto è meno che involucro, prima somiglia poi coincide con le emozioni profonde, può diventare poi un’opportunità importantissima per ridefinire la personale condizione senza la persona amata e attivare una riprogettazione esistenziale.

Ma perché tutto questo accada, serve interagire con il linguaggio che la persona in lutto utilizza considerandolo passibile di modifiche e approfondimenti.

Non posso più sentirti, non posso più vederti, non posso toccarti, dichiara a voce alta una delle sue amiche dal pulpito continuando a leggere quello che aveva scritto per l’occasione.

E allora cosa posso fare perché tu non te ne vada da me? Me lo sono chiesta tante volte in questi giorni, continua, e ho capito una cosa: posso vivere io la vita al posto tuo.

Dopo queste frasi ho visto nettamente dal fondo della chiesa dove avevo trovato posto, la reazione della folla che gremiva ogni spazio: teste che improvvisamente si alzavano, un’aggiunta di silenzio al silenzio già imperante, coppie e amici vicini che si toccavano lievemente e si scambiavano sguardi complici; all’esterno poi, in attesa dell’uscita della bara, quell’espressione era diventata il primo argomento di scambio. Ecco, a volte basta davvero poco: parole cor-rispondenti, sostantivi, aggettivi e verbi che restituiscono ciò che si sta provando e/o si desidera che accada perché, in queste come in tante altre situazioni della vita meno dolorose, si apra una sorta di nuova visuale, all’inizio incerta, appena accennata ma che può diventare in seguito una méta da perseguire.

Nella pratica però è molto più complesso da realizzare: ci sono pregiudizi e ostacoli di natura intellettuale, abitudini radicate dall’esperienza individuale, regole sociali non scritte assolutamente attive in tanti di noi che convergono tutte verso un unico centro: quello che una persona esprime durante la sofferenza è intoccabile, sacro, immodificabile.

Eppure esiste un’altra strada da perseguire: avvalersi delle situazioni che si incontrano nella vita, impegnarsi in un’attività costante di sensibilizzazione, creare occasioni formative, diffondere con strumenti diversi l’importanza e la straordinarietà di un approccio specifico al linguaggio che non si rifugia, come purtroppo accade, nelle analisi generiche, non si esaurisce nelle riflessioni esistenziali di natura filosofica, antropologica e sociale, non si limita a registrare e analizzare i fenomeni ma cerca di appartenere totalmente e fedelmente al suo proprietario. Perché il linguaggio, quando è la reale e certa espressione di ciò che siamo e vogliamo che accada, non solo consente alla sofferenza di evolversi ma incentiva e sostiene le azioni concrete da mettere in campo per continuare a vivere, non a sopravvivere.

Opporsi al pensiero magico, cioè al tabù che impedisce di intervenire sul linguaggio di chi soffre, è certamente arduo e per molti versi di scarsa efficacia immediata se paragonato a ciò che è dominante, ma ne vale la pena; vale la pena, con tutte le conseguenze annesse, dedicarsi a ciò che aiuta l’amore ad esserci quaggiù.

Cosa ne pensate?

Il lutto delicato per gli animali domestici, di Davide Sisto

Cinque anni fa ho pubblicato sul blog un articolo sul lutto per gli animali domestici, partendo da un mio racconto personale. L’articolo ha generato una discussione – tutt’oggi in corso – che conta diverse centinaia di interventi, a dimostrazione di quanto l’argomento sia sentito. Vorrei, pertanto, tornarci a partire da una mia nuova esperienza.

Da circa un anno ho in casa un gatto, di nome Apollo, che ha 18-19 mesi. Il suo arrivo è stato improvviso e non pianificato: io e la mia compagna lo abbiamo salvato da un abbandono da parte dei suoi precedenti proprietari. Tuttavia, la sua adozione è avvenuta in una fase per noi emotivamente delicata: solo dieci giorni prima ci era morta, di colpo, una gattina – Lagertha – di sette mesi a causa di una leucemia fulminante. Un’esperienza terribile e dolorosa, per come si è evoluta rapidamente la malattia e si è ridotto il corpo di quella cucciola, quasi quanto quella relativa alla morte di un essere umano.

Proprio le emozioni che abbiamo provato, oltre alla lettura dei tanti racconti lasciati dai nostri lettori sotto il precedente articolo, mi spingono a ragionare ulteriormente sul perché questo tipo di lutto sia percepito dalla collettività come importante e delicato. Un lutto che, perciò, non va sottovalutato né ridimensionato per non creare un surplus di sofferenza rispetto a quella che già di per sé produce.

Un primo elemento fondamentale è il senso di accudimento prodotto dall’animale domestico nell’essere umano. Ci si sente responsabilizzati nei confronti di un essere vivente che ci appare, in nostra assenza, privo di autonomia, dunque incapace di nutrirsi, di creare relazioni interpersonali, di vivere bene. Proprio come avviene con i bambini. Non rappresenta una semplice compagnia. Ci sembra proprio bisognoso di quell’insieme di cure che stimola il nostro spirito genitoriale. Questo rapporto non paritario chiama immediatamente in causa un secondo elemento importante: la proiezione. In altre parole, proiettiamo sull’animale domestico quanto non troviamo più o non abbiamo mai trovato nelle relazioni tra esseri umani. I gatti e i cani non ti giudicano. Basta che tu li nutra e che li tratti con attenzione e loro restituiscono immediatamente l’affetto. Ti fanno percepire quanto dipendono da te e quanto hanno necessità che tu ci sia. La relazione con loro è, dunque, l’esatto contrario dei legami intricati e complessi che sviluppiamo all’interno delle famiglie, del mondo lavorativo, delle coppie, tra amici, ecc. Questi non sono mai legami lineari di causa ed effetto. Non sono razionalizzabili, dunque comportano dinamiche imprevedibili che – il più delle volte – generano delusioni, sofferenze, amarezze, forme di disincanto. Gli animali domestici, pertanto, sembrano sopperire a quelle ripetute sensazioni di fallimento che si reiterano costantemente man mano che passano gli anni, rendendoci guardinghi o addirittura indifferenti nei confronti dei nostri simili. Un mese fa sono stato a Seattle e mi ha colpito moltissimo una contrapposizione: da una parte, la cura meticolosa da parte degli autoctoni nei confronti dei loro cani. Non c’è luogo cittadino in cui non si veda un umano che corre insieme al proprio cane, tenuto benissimo. La città è, inoltre, piena di asili lussuosi per i nostri amici a quattro zampe. Dall’altra, l’abbandono totale di migliaia di homeless per le vie cittadine nell’indifferenza generale.

All’accudimento e alla proiezione si aggiunge un terzo elemento su cui occorre riflettere: la solitudine. Le precedenti riflessioni sulle difficoltà relazionali tra esseri umani, all’interno di una società basata sulla performatività individuale e sempre più priva di legami sociali forti, non possono che spiegare l’empatia nei confronti di un gatto o di un cane che dorme insieme a te sul tuo letto, che ronfa o scodinzola se non lo trascuri, che ti tiene compagnia senza chiedere nulla in cambio, a parte le esigenze primarie per la sopravvivenza. La sua morte è, pertanto, drammatica perché spezza un legame percepito quasi come puro, come disinteressato, come immediato.

Riflettere sull’importanza del lutto per un animale domestico diventa, in definitiva, l’occasione per ripensare al nostro modo di vivere nelle società umane. Dunque, per ripensare a tutte le mancanze, privazioni e assenze che, nel corso della nostra vita, ci portano a preferire la compagnia di un animale non umano a quella di un nostro simile. Forse, senza sottovalutare in alcun modo la relazione con il gatto e il cane di casa, occorre anche chiedersi se non sia necessario un impegno collettivo per rifondare le basi dei legami intersoggettivi nello spazio pubblico. Quindi, è necessario domandarsi se sia veramente corretta la sproporzione emotiva e sentimentale che spesso viene a crearsi tra le due differenti forme di relazione.

Il tema è importante, dunque attendiamo le vostre riflessioni in merito.

Tanatologia digitale e formazione, di Davide Sisto

Nel corso degli ultimi anni, su questo blog, ho spesso raccontato e descritto le più svariate conseguenze generate dall’uso delle tecnologie digitali sulla comprensione umana del ruolo della morte nella vita, nonché nell’ambito dell’elaborazione del lutto e sul modo di conservare la memoria e di desiderare, eventualmente, l’immortalità.

Il progresso tecnologico avanza con una velocità tale da rendere sempre più pervasivo l’utilizzo intergenerazionale delle piattaforme digitali. Fino a qualche anno fa era normale servirsi dell’espressione “nativo digitale” per stabilire un implicito confine tra generazioni. Oggi, invece, siamo uniformemente concordi nel credere che il futuro prossimo sarà contraddistinto da cittadini di ogni età abituati a considerare le tecnologie digitali come strumenti irrinunciabili per lo svolgimento della vita quotidiana, quasi come vere e proprie protesi di sé. A prescindere dal fatto che questo ci piaccia oppure no. La consapevolezza della continua espansione della dimensione online e del carattere imprescindibile degli smartphone e dei computer mi fa pensare quanto segue: è giunto il momento di introdurre – in maniera ufficiale e non procrastinabile – la cosiddetta “tanatologia digitale” nei percorsi formativi ed educativi dei medici, degli operatori sanitari, degli psicologi, dei palliativisti e degli educatori in senso lato. In altre parole, occorre prendere coscienza che la relazione tra le tecnologie digitali e il fine vita non è più di natura rapsodica, magari limitata a specifici target di età o a particolari gruppi di cittadini particolarmente avvezzi alle tecnologie. È, semmai, una relazione che riguarda l’intera cittadinanza e che produce continuamente sia nuove opportunità sia, soprattutto, inedite criticità. La conoscenza attenta di entrambe diventa, pertanto, fondamentale per non aumentare le difficoltà e le sofferenze che già viviamo di per sé durante l’ultima fase della vita personale o di quella dei propri cari.

Quali sono, nel dettaglio, gli aspetti che rendono necessaria una sorta di “tanatologia digitale” nei percorsi di formazione? In primo luogo, l’aspetto comunicativo. È già ricorrente di per sé il problema della comunicazione faccia a faccia tra il medico, il paziente e i familiari del paziente in presenza di una malattia mortale o, in alternativa, radicalmente invalidante. Un problema che è particolarmente sentito a partire dal processo di rimozione sociale e culturale della morte e dalla riduzione della malattia a un tabù. Lo sviluppo della telemedicina, accelerato dalla pandemia da Covid-19, sta generando nuove forme di comunicazione che avvengono perlopiù in maniera scritta, tramite applicazioni di messagistica privata come WhatsApp o via mail, a cui si aggiungono le ricerche individuali attuate su Google. È, di conseguenza, fondamentale comprendere le differenze comunicative in presenza e a distanza, tramite parole espresse a voce o per iscritto, di modo da non incrementare le incomprensioni, le ansie, i dolori e le sofferenze delle persone. I registri linguistici e simbolici sono differenti, di conseguenza lo sono altrettanto i problemi che derivano dal loro uso. L’aspetto comunicativo include, poi, la gestione dei social media durante una malattia mortale: ogni singolo individuo ha un rapporto differente con i social, dunque risulta doveroso intercettare le sue modalità comunicative affinché i social diventino uno strumento di sostegno e non un problema in più. Tra l’altro, i singoli social si differenziano gli uni dagli altri, pertanto bisogna districarsi tra le peculiarità di Facebook, Instagram, YouTube, Tik Tok e via dicendo. E, ancora, come fare con l’eredità digitale? Cancellare preventivamente i propri profili? Mantenerli in vita? Darli in gestione a persone fidate? La risposta a queste domande chiama in causa, in secondo luogo, il lutto e la sua elaborazione. Oramai, ognuno di noi conserva una quantità incalcolabile di tracce delle persone amate, come mai successo in passato: parole scritte, messaggi vocali, fotografie, registrazioni audiovisive. Queste tracce tendono sempre più a rappresentare un prolungamento digitale dell’identità individuale (ormai, è diffusa tra gli studiosi l’espressione di “carne digitale” per descrivere questo prolungamento sul piano emotivo). Pertanto, è in costante aumento il numero dei dolenti che faticano a intraprendere un sano percorso di elaborazione del lutto, circondati da così tanti documenti i quali sembrano mantenere vivi i propri cari defunti. Sono sempre più numerosi coloro che proiettano sul proprio smartphone o su quello del caro defunto la possibilità di un contatto attivo, trascendendo in maniera patologica il mero ricordo o creando ibridazioni inedite tra le ritualità religiose assodate e quelle prodotte dalle tecnologie.

Questi sono solo alcuni dei tanti temi che occorre tenere a mente, man mano che mutano le caratteristiche delle società all’interno di cui nasciamo, cresciamo e moriamo. Mi pare miope e inconcludente escludere l’importanza della relazione tra tecnologie digitali e fine vita, a causa di pregiudizi individuali o di sospetti nei confronti di un’epoca storica particolarmente incentrata sulla tecnica e sulla tecnologia. Ancor di più, considerando che ci stiamo muovendo nella direzione del Metaverso e della realtà virtuale.

Cosa ne pensate? Ritenete sensate queste preoccupazioni? Attendiamo con interesse i vostri commenti, dubbi e riflessioni.

#grieftok: il dolore di un lutto su Tik Tok, di Davide Sisto

Le irrefrenabili evoluzioni delle tecnologie digitali, quindi dei comportamenti sociali e culturali che ne seguono, ampliano costantemente i modi in cui le persone usano i social media per condividere le proprie esperienze relative al lutto e al ricordo.
Nel corso degli ultimi anni, le persone più giovani, dagli adolescenti ai ventenni, hanno cominciato a popolare in maniera sempre più massiccia Tik Tok, diventato un tale punto di riferimento per il discorso pubblico da spingere – incautamente – i politici italiani a usarlo nell’ultima campagna elettorale.
Ovviamente, anche la morte e il lutto sono diventati argomenti importanti su Tik Tok. Nell’ultimo periodo ha attirato la mia attenzione un particolare hashtag: #grieftok. Con oltre 340 milioni di visualizzazioni, questo hashtag comprende centinaia di migliaia di brevi video, registrati in ogni zona del mondo, mediante cui le persone comuni esprimono ciò che stanno provando o che hanno provato in presenza di un grave lutto. Il mix di immagini fotografiche, video, suoni e frasi scritte, concise e usando i caratteri più disparati, stimola la creatività e la fantasia dei singoli, i quali condividono il dolore per un lutto con modalità spesso complesse. C’è chi si limita a creare un collage di immagini di sé che seguono le varie fasi del lutto: un viso sorridente prima della morte del proprio caro, un viso disperato una volta che è avvenuto il decesso, un viso depresso e colmo di lacrime – magari appoggiato sul cuscino del proprio letto – nella delicata fase successiva, un viso vagamente sereno una volta che è avvenuta l’elaborazione del lutto. Le diverse immagini sono accompagnate da didascalie che riassumono brevemente i vari stadi attraverso cui è passato il dolore della persona. C’è chi costruisce una narrazione più corposa, incentrata sul morto. Il breve video mostra – per esempio – un giovane padre, che corre insieme al figlio e al cane su un prato. Quindi, l’immagine della sua tomba e successivamente quella del bambino e del cane rappresentati prima da soli sul prato e poi insieme alla madre, regista del video. C’è chi quindi si limita a raccontare, senza troppi fronzoli, quello che sta provando; chi celebra un compagno di classe con un collage di immagini e video registrati a scuola; chi, ancora, utilizza Tik Tok per parlare del proprio bambino deceduto. Ci sono anche numerosi video di psicologi che spiegano le fasi del lutto e offrono consigli su come affrontarlo. Va da sé che ogni video viene commentato da centinaia o addirittura da migliaia di utenti, i quali portano le proprie condoglianze o condividono esperienze simili.

L’hashtag #grieftok ha, in altre parole, prodotto una vera e propria comunità globale attorno all’esperienza del lutto e della morte. Vi sono anche altri hashtag utilizzati per la stessa finalità: dai semplici #grief e #rip al più articolato #griefjourney.

Credo che si possa cogliere un’evoluzione interessante del lutto online nel passaggio da Facebook a Tik Tok. Le caratteristiche stilistiche di quest’ultimo non solo vengono incontro all’esigenza, già esplicitata su Facebook, di parlare pubblicamente di morte e di lutto e di fare gruppo per sopperire al senso di solitudine, provato di solito dal dolente nella dimensione offline. Stimolando anche la creatività e la fantasia dei suoi utenti, queste caratteristiche spingono a compiere un passo in più che, a mio avviso, va nella direzione di un uso pedagogico e formativo del social media. In altre parole, Tik Tok mette il singolo dolente nella condizione di dare un senso al proprio dolore attraverso una sceneggiatura di cui è liberamente regista e che trascende l’uso della semplice parola scritta, predominante su Facebook. Non tutti sono abili scrittori né si sentono a proprio agio con la grammatica. Il collage di immagini, suoni, video e parole, all’interno di video assai concisi, mostra invece in modo tanto concreto quanto artistico la metamorfosi personale che ci investe quando subiamo una perdita. In alternativa, ci fa vedere gli effetti immediati nel quotidiano dell’assenza, dunque si spinge nella direzione della conservazione della memoria e dei ricordi. L’impatto visivo è certamente superiore rispetto ai meri contenuti scritti. Può determinare più riflessioni composite e catartiche, può attutite il proprio disorientamento in virtù di storie colme di simboli e metafore. Soprattutto, abitua le nuove generazioni a una certezza a cui le precedenti hanno fatto fatica ad abituarsi: la morte fa parte della vita, non va rimossa, può diventare un argomento prezioso all’interno di luoghi in cui si cerca l’approvazione altrui. Può, in definitiva, creare le condizioni implicite per far sì che gli adulti del futuro superino quella rimozione che ha segnato il secolo scorso.
Nel mentre, #grieftok può diventare un fenomeno a partire dal quale organizzare nuovi percorsi educativi nelle scuole e implementare i percorsi di supporto nell’elaborazione del lutto. Come spesso osservo, la dimensione online – che ci piaccia o no – è diventata parte integrante della nostra vita quotidiana. Usiamola pertanto per finalità che migliorano il modo umano di condividere lo spazio pubblico, soprattutto in riferimento a ciò che ci fa soffrire e che cerchiamo di nascondere o di eludere.
Voi cosa ne pensate? Avete presente cosa è #grieftok? Attendiamo i vostri commenti.

Normale e complicato, intervista a Sara Ancois, di Marina Sozzi

Abbiamo intervistato Sara Ancois, psicologa e psicoterapeuta, che ha appena pubblicato un volume dal titolo Normale e complicato, che parla del lutto attraverso illustrazioni, corredate da brevissime frasi, che sono squarci di luce e di consapevolezza sulle emozioni del lutto. Tutti possono ravvisare i tratti di un proprio lutto in questo delicato e bellissimo libro, che alla fine ha una ventina di pagine più teoriche che spiegano come funziona il processo del lutto, e una ricca bibliografia.

Hai avuto un’idea geniale: parlare del lutto attraverso delle vignette. Come è nato questo progetto e come l’hai realizzato?

Ho scritto quei testi per me: stavo male, e serviva una traccia per monitorarmi mentre il tempo passava (in teoria, sapevo quello cui sarei andata incontro. In pratica, no). Quando sono rientrata in studio, sono arrivati pazienti con sintomi psicosomatici e flessioni depressive collegati ad esperienze di perdita. Tutti lamentavano la passività del momento, e giravano attorno all’idea di essere stati condannati a “subire” qualcosa, mentre ogni terapeuta sa che la rielaborazione di un lutto è un processo molto attivo (anche a livello organico: si modificano le mappe neurali neocorticali, n.d.a). Ho proposto loro i testi, e ho cominciato a raccontare il funzionamento del processo mentale che stavano sperimentando proprio come fosse una storia: non il lavoro del lutto in senso generico, ma proprio “il loro Sig. Lutto al lavoro”. Funzionava. Dicevano di sentirsi partecipi di una dinamica umana, in compagnia, e soprattutto intervenienti, con qualcosa d’importante da fare. Pian piano s’è strutturato un metodo di lavoro. Grazie a Marina è fondato in senso medico e grazie a Danilo, ha un volto. Abbiamo costruito le tavole illustrate per usare meno parole possibili: le emozioni dolorose hanno poca voglia di ascoltare e, se cianci troppo, s’infastidiscono.

Hai fatto anche una ricerca, intervistando cento persone. Che metodo hai usato per le interviste e cosa hai imparato da questo lavoro?

Il questionario (inventato) è stato somministrato via e-mail a contatti reperiti da amici. Ad oggi, gli intervistati restano per me 100 generosi sconosciuti. Era importante costruire un campione anonimo (risposte non condizionate) e il più possibile significativo in senso statistico: ho valutato distribuzione (genere sessuale, età, natura della perdita) e target (esperienza verificatasi negli ultimi cinque anni). Era importante, anche, verificare/confermare quelle che mi sembravano le priorità: cercavo i denominatori comuni dell’esperienza, e non di esprimere opinioni personali.
Ho imparato che i lutti sono un tabù, specialmente per chi non ne ha ancora affrontato uno. Un’amica cui ho chiesto di distribuire il questionario m’ha tacciata di invadenza e ineducazione. È stato un momento triste. Non mi ha nemmeno concesso la presunzione d’innocenza.

Normale e complicato, è il titolo del libro, e tu sei una psicoterapeuta. Non hai scritto normale “o” complicato: si può tracciare una linea di demarcazione chiara tra lutto normale e lutto complicato?

Le due forme stanno – ovvio – ai poli opposti di un continuum. Tuttavia, distinguerle in senso diagnostico è possibile e doveroso. Per fare diagnosi è necessario delimitare i confini di un fenomeno, per quanto artificioso possa sembrare, e le variabili coinvolte in questo caso sono la durata temporale della sintomatologia acuta e la sua carica invalidante.
La mia “e” è un po’ irriverente, in effetti, ma ci tenevo proprio ad interporla.
Gli individui in situazioni francamente psichiatriche soffrono, certo, ma questo non significa che chi affronta un frangente di perdita soffra meno. Ci vuole grande impegno, e fatica, per continuare a far fronte alle proprie responsabilità (lavoro, famiglia, burocrazia: tutto ciò che le persone “normali” fanno) con il dolore addosso. Non è cosa da nulla.

La nostra mente ci protegge mettendo a disposizione un processo fisiologico che ci aiuta ad individuare e ad evitare i traumi secondari – ovvero i cosiddetti fattori “complicanti” il lutto – e l’obiettivo del nostro libro è mostrare in che modo lo fa. Esistono chilometri di letteratura sull’argomento (J. Bowlby , tra gli altri), non ci siamo inventati nulla. Resta il fatto che seguire tali indicazioni non è una passeggiata ed è, appunto, complicato nel senso dell’etimo del termine: cum plico (con piegature).

A partire dalla tua esperienza, cosa consiglieresti a chi vive un lutto?

Dipende. Qual è il genere di perdita che lo innesca? La gamma è ampia (decessi, diagnosi di malattia, relazioni naufragate, tracolli finanziari, perdita di status, animali domestici, migrazione, eccetera) e il processo che parte a protezione dell’individuo, sempre diverso.

Capisco che possa non essere così per altri ma per me, tenuto conto del lavoro che faccio, osservarlo è come assistere ogni volta a un prodigio: una persona viene privata di un pezzo fondamentale della sua esistenza ed è disperata: allora corpo e mente si riorganizzano, insieme, prendono in mano la loro sopravvivenza, e la trascinano in salvo.

C’è qualche altra cosa che vorresti dire e non ti ho chiesto?

Grazie, vorrei dirti. L’ho già fatto ma lo ripeto: grazie per l’aiuto che mi date. Non vedo l’ora di conoscervi di persona e poterlo dire, a voce.

Sono io che ti ringrazio. Quanti di voi vorranno dare la propria testimonianza? come avete vissuto le vostre perdite?

Quando la luce dell’estate incontra il buio del dolore, di Cristina Vargas

Abbiamo intervistato Maria Angelica Castelli, psicologa e psicoterapeuta di Torino, esperta nel tema del lutto. (immagine di Yaoyao Ma Van As)

La psicologia ci insegna che il lutto è un processo lungo, complesso e non lineare. Nella tua esperienza, ci sono momenti dell’anno che possono dimostrarsi particolarmente faticosi per chi sta attraversando un lutto?

Ti rispondo partendo da Irvin Yalom, un autore che trovo particolarmente interessante non solo per chi lavora nel campo della psicoterapia, ma anche per chi è interessato al tema del lutto. Come spiega Yalom, anche nel lutto fisiologico, in cui non ci sono elementi patologici di nessun genere, ci sono momenti di passaggio in cui il dolore si fa sentire di più. Questi passaggi sono le ricorrenze, gli anniversari, le date importanti a livello soggettivo, ma sono anche momenti più “oggettivi”, che riguardano tutti, come il Natale o le vacanze estive.

Infatti siamo in agosto… Che cosa comportano questi mesi “vacanzieri” per le persone che stanno affrontando un lutto?

Durante l’estate c’è uno scollamento tra la vita di chi è in lutto, che si è fermata o che è comunque pesantemente inficiata dal dolore, e le vite degli “altri” che invece tendono a diventare più allegre, più frivole e spensierate. La domanda “dove vai in vacanza?”, normalissima per tutti noi, può essere una violenza per chi è in lutto. Il sole stesso è in qualche modo un simbolo della dissonanza fra il buio che si prova dentro e la luce abbagliante che c’è fuori. Uno dei miei pazienti mi ha detto una volta “al funerale di mio padre c’era il sole, ma io avrei voluto che ci fosse la pioggia”. C’è dunque una grande distanza fra il “clima interiore” di chi va in vacanza e quello di chi è in lutto, e questo scollamento crea un profondo senso di solitudine.

Con l’estate, inoltre, la vita di chi lavora, in genere molto frenetica, rallenta. Il tempo aumenta e il lavoro, che è un potente stabilizzatore dell’umore, si ferma; la routine cambia e il contatto con il dolore si fa più diretto, più forte. È come se la pelle si facesse più sottile e la luce potente dell’estate mettesse in risalto la sofferenza interiore. C’è chi tende a mettere da parte il proprio dolore e a buttarsi nel clima vacanziero facendo fatica, e poi pagandone il prezzo. Oppure c’è chi fa il contrario, sentendosi molto distante da quella realtà, si isola ulteriormente e rinuncia anche a ciò che potrebbe alleviare il suo dolore.

Un pensiero, infine, va alle persone anziane in lutto, la cui vita quotidiana è fatta di ritualità: il giro del mercato, la farmacia, il negozio sotto casa, il caffè. In queste azioni c’è una dimensione relazionale importante, si incontrano persone, si compiono gesti e azioni che danno un senso alla giornata. Durante l’estate, seppur meno che in passato, le città si svuotano e la routine viene meno. Il rischio è che la solitudine si faccia più gravosa o si arrivi a un concreto isolamento.

Andare o non andare al mare (o in vacanza) quando si è in lutto… che cosa possiamo dire su questo tema?

Quando stiamo male è importante cercare di proteggerci. Ci sono situazioni che emotivamente possono ferirci, ed è bene dosarle per evitare di ritrovarsi in vacanza, magari in un luogo bellissimo, con l’unico desiderio di ritornare il prima possibile a casa. Un viaggio comporta dei cambiamenti: se stiamo bene le novità stimolano e vengono vissute con entusiasmo, ma se stiamo male esse possono acuire il senso di malessere.  Credo che sia importante rispettare il bisogno – proprio o dei propri familiari in lutto – di stare nei luoghi in cui ci si sente più sicuri. La casa è un luogo che ci protegge, una tana in cui rifugiarsi nei momenti di dolore.

Che ruolo possono avere i parenti e gli amici della persona in lutto? In che modo possono supportare al meglio il loro caro?

A me viene da pensare a cosa non fare, perché cosa fare è un campo molto ampio. A volte ci sono delle rassicurazioni che non aiutano, dei tentativi di “alleggerire” minimizzando la portata del dolore. Questo toglie alla persona in lutto la possibilità di stare nella propria condizione, ma è necessario attraversare la sofferenza per poter stare meglio. Dietro questi tentativi di rassicurazione sovente si nasconde la fatica di amici e parenti rispetto al tema della morte: la morte degli altri ci fa paura perché ci ricorda che è qualcosa che può accadere a noi.

Frasi come “era una persona anziana”, “ha smesso di soffrire”, “ha avuto una vita dignitosa” magari hanno un razionale. A un certo punto del percorso può essere di conforto pensare che il proprio caro ha avuto una lunga vita, o una buona vita, ma sono parole che non andrebbero pronunciate quando il lutto è recente. In quel momento l’unica cosa vera che possiamo fare è stare con… semplicemente accompagnare, far sentire la propria vicinanza, passare del tempo insieme alla persona in lutto. Più che le parole sono proprio le cose fatte insieme che permettono di attraversare i momenti più dolorosi. Mi capita di vedere dei pazienti anziani che mi dicono: “mio figlio (o mia figlia) fa di tutto per me. Mi porta l’acqua, mi fa la spesa, mi porta alla visita medica, ma non sta mai con me.”  Nel tentativo di fare delle cose per l’altro può capitare di perdere di vista l’importanza di fare le cose con l’altro.

Credo che un ruolo importante possano averlo anche gli amici. Un’idea può essere quella di organizzarsi per dare un aiuto concreto. Le persone in lutto, soprattutto nelle prime fasi, non si preoccupano dei loro bisogni primari – mangiare, dormire, sistemare la casa, fare la spesa – in questo gli amici possano essere di supporto, fare rete intorno alla persona che è in lutto

In questo, ma anche in altri periodi dell’anno, esistono dei campanelli di allarme che ci segnalano che è il momento di cercare aiuto?

Dipende molto dal momento del lutto. Quando un lutto è recente non ci sono regole, il dolore si può manifestare nei modi più diversi ed è difficile identificare dei campanelli di allarme.

Quando invece i mesi passano, ci si muove verso il trascorrere dell’anno e nulla cambia, anzi, sembra che le cose siano del tutto ferme e lo spazio vitale si riduca sempre più; quando si sprofonda in una condizione di apatia; quando la giornata è tempestata da pensieri intrusivi che inficiano la capacità di funzionare, quando c’è un vissuto depressivo, il pianto è costante e non è liberatorio, ma è disperato e lascia la persona ancora più avvolta nella sofferenza, è bene cercare aiuto.

Un altro segnale importante è l’assenza del desiderio. Non c’è uno spartiacque, ma a un certo punto del percorso di elaborazione del lutto dovrebbero lentamente fare capolino dei desideri, come se fossero dei semini di qualcosa che deve ancora germogliare. Questo non vuol dire che la sofferenza scompaia, ma che pian piano dovrebbero nascere delle spinte vitali che si alternano al dolore. Può essere il desiderio di qualcosa da mangiare; di andare al cinema; di fare delle piccole cose: in qualsiasi forma si presenti, il desiderio è un segnale di ancoraggio alla vita. Quando invece il desiderio manca del tutto, può essere il segnale che qualcosa si è bloccato e che il lutto si sta complicando.

Può succedere, però, che la persona non riesca a cogliere i propri campanelli di allarme: in questi casi è importante che chi è intorno colga dei segnali: la trascuratezza, l’isolamento, la poca voglia di parlare o, al contrario, l’impossibilità di distogliere la mente dal tema del lutto nonostante oramai siano trascorsi parecchi mesi possono indicare che qualcosa non va e che è il momento di intervenire.

A chi ci si può rivolgere in queste situazioni?

Credo che la prima figura di riferimento sia il medico di medicina generale, a cui è possibile chiedere un consiglio sull’opportunità di chiedere aiuto e delle indicazioni sulle risorse del territorio. Credo sia utile anche confrontarsi con altre persone che hanno vissuto problemi simili. In molte città ci sono dei gruppi di sostegno condotti con diverse metodologie, anche se purtroppo alcune esperienze si sono interrotte con il Covid. Nel nostro caso, a Torino, i servizi di cure palliative offrono un supporto psicoterapeutico ai familiari delle persone che sono state seguite nelle ultime fasi, e nell’autunno sarà avviato un gruppo di sostegno. Credo che intervenire tempestivamente sia importante, anche perché più passa il tempo più è difficile farsi aiutare.

Voi avete esperienze in proposito? Volete condividerle?

After life, una salubre rappresentazione del lutto, di Davide Sisto

Il 14 gennaio scorso è uscita la terza stagione di After Life, la serie tv Netflix scritta e diretta da Ricky Gervais, uno dei comici britannici attualmente più noti al mondo per la sua geniale irriverenza. Il successo mondiale di After Life è riconducibile al modo in cui, nel corso delle tre stagioni, è stato raccontato un lutto, quello vissuto dal protagonista Tony – interpretato dallo stesso Gervais – nei confronti della moglie Lisa, morta prematuramente a causa di un tumore. Sotto i video dei trailer su YouTube e nelle pagine social dedicate alla serie e ai suoi protagonisti si contano decine, se non migliaia, di commenti da parte di persone di tutte le età le quali ringraziano di cuore Gervais per l’aiuto dato attraverso la serie tv, raccontando a loro volta le proprie personali perdite. In particolare, molti utenti sostengono che i contenuti narrativi delle tre stagioni sono dotati dell’encomiabile capacità di trasmettere un gigantesco senso di liberazione e di emancipazione. In parte, ciò dipende da una sceneggiatura che dosa sapientemente i momenti drammatici con gli istanti scanzonati, questi ultimi al limite del politicamente scorretto. Un mix che, nel delineare i contorni della tipica dark comedy britannica (in stile Funeral Party), riesce a risultare convincente nella descrizione di quel carattere agrodolce che caratterizza ogni evento della vita. In parte, dipende dal legame tra Tony e la perdita: Tony soffre e non vuole razionalmente smettere di soffrire, vuole essere libero di soffrire come e quanto vuole. La rappresentazione del lutto elude qualsivoglia semplicistica chiave di lettura volta a una riappacificazione con le dinamiche della vita che spesso, nelle sceneggiature cinematografiche, risulta stucchevole, moralistica e irreale. Tony è lucidamente consapevole del carattere irrimediabile della perdita e del significato radicale della morte, quindi della fine ultima del mondo in cui ha vissuto insieme a Lisa. Non pretende un suo ideale ritorno, si limita ad accettare le dure leggi della vita, sentendosi libero di provare dolore, di tener conto della possibilità del suicidio, senza necessariamente rendere conto agli altri. Generoso ed empatico verso le persone della sua cittadina di provincia ma totalmente autocentrato per quanto riguarda i suoi sentimenti, egli si perde amaramente nella visione ripetuta dei video registrati insieme a Lisa o, in alternativa, dei video che Lisa gli ha preparato prima di morire per sostenerlo, conoscendo il suo carattere autodistruttivo. È ferreo, al limite della pedanteria, nel non voler trasformare un’amicizia in una nuova relazione sentimentale, perché semplicemente non vuole avere un mondo diverso rispetto a quello che ha avuto con Lisa. Le sue uniche vie di fuga sono le lunghe passeggiate solitarie con il suo adorato cane e i dialoghi filosofici con un’anziana vedova che incontra ogni giorno al cimitero e che cerca di fargli vedere la realtà da un’altra prospettiva. Nel corso del tempo le persone che vogliono bene a Tony riusciranno – almeno, in parte – a scuoterlo, a mutare la sua generosità innata in una nuova ragione esistenziale, benché il suo disincantato nichilismo non riesca mai del tutto a nutrire il barlume della rinascita.

Ora, ciò che rende brillante After Life, a mio avviso,non è certamente l’idea che non ci sia speranza di superare la sofferenza per un lutto importante e che non si debba cominciare a vivere in un nuovo mondo senza il proprio caro. Semmai, è la capacità di non reprimere in alcun modo il legittimo e autonomo bisogno di sentirsi disperati all’interno di una società che, totalmente votata alla performatività e alla forza psicofisica di stampo machista, vede il dolore come un negativo segno di debolezza. Tony accoglie con lucidità il carattere radicale della morte e l’irrimediabilità della perdita. Il suo legame con Lisa, nella dimensione successiva al lutto, non si traduce nell’infantile non accettazione, aspetto che ritroviamo in molte narrazioni o riflessioni sulla perdita dei propri cari (mi vengono in mente Elias Canetti con il suo libro incompiuto contro la morte o alcune riflessioni contenute in Dove lei non è di Roland Barthes). È invece un legame che tiene conto in maniera razionale che non si può tornare indietro, che le regole del gioco sono queste. Le soluzioni sono allora due: voltare pagina adattando a sé – il più velocemente possibile – il fastidioso motto the show must go on o rinunciare a farlo, per un certo lasso di tempo o addirittura per sempre. Tony sceglie la seconda soluzione, convinto che sia lui a dettare i tempi alla sua sofferenza e alla sua eventuale ripresa. Se nessuno di noi può reclamare dei diritti nei confronti della vita mortale e se è una favola da cartone animato l’idea che l’amore più puro renda immortale nel qui e ora un legame sentimentale, allora ogni singolo individuo ha il diritto di fare della propria sofferenza ciò che vuole, a prescindere dal bon ton produttivistico delle società in cui viviamo. Si può anche decidere di non essere positivi, di non essere forti. Ma questo non è un inno alla debolezza, al suicidio, alla fragilità, è semmai la consapevolezza che ci sono tempi e modi diversi per affrontare la sofferenza soggettiva. E l’aiuto altrui diventa fondamentale rispettando questo bisogno di far proprio il dolore, non prevaricandolo. Semmai, trovando il percorso che meglio aderisce al carattere di chi sta soffrendo. In questo senso, si capisce perché le persone che hanno apprezzato After Life parlino di senso di liberazione e di emancipazione. Il tema è certamente delicato e può anche essere letto come una nociva individualizzazione del lutto che toglie peso al benevolo sostegno dello spazio pubblico. Ma, come sempre, si possono trovare delle vie di mezzo tra ciò che impone la società per il bene del singolo, spesso non rispettando i suoi bisogni, e ciò che pretende il singolo di contro alla società, rimanendo intrappolato nel labirinto dell’autodistruzione. Gervais mira, durante le tre stagioni di After Life, a cercare questa mediazione tra due vie che risultano entrambe fallimentari. E lo fa evidenziando quanto sia difficile raggiungerla.

Dal mio punto di vista, si tratta di una narrazione molto matura per quanto concerne la perdita. Voi cosa ne pensate? Avete apprezzato After Life? Fateci sapere.

Parlare della morte con gli adolescenti: una sfida che dobbiamo raccogliere, di A. Cristina Vargas

Gli interventi formativi sul fine vita rivolti ai giovani, specialmente quando si usano metodologie partecipative e si dà spazio alla loro voce, sono momenti preziosi per promuovere una maggior consapevolezza su questo tema e per sviluppare risorse importanti di fronte alle sfide inevitabili dell’esistenza come la resilienza, la capacità di auto-osservazione e l’ascolto reciproco. E voi che ne pensate? Quali sono le vostre esperienze, positive o anche faticose, nel parlare della morte con gli adolescenti e i giovani?

La narrazione guidata e l’elaborazione del lutto, intervista a Nicola Ferrari, di Marina Sozzi

Abbiamo intervistato Nicola Ferrari, dell’associazione Maria Bianchi, che da anni si occupa di sostegno al lutto, su una strategia che ha chiamato “La narrazione guidata”.

Tu hai studiato una strategia di elaborazione del lutto che si chiama Narrazione Guidata. È un metodo che permette alle persone in lutto di trovare le “parole giuste”. Perché è importante trovarle?

Trovare le parole ‘giuste’, cioè quelle vere, quelle che cor-rispondono a ciò che sentiamo e desideriamo, non è importante. È decisivo. Scoprire le frasi e i termini che definiscono il nostro dolore, il lascito di chi abbiamo perduto e le modalità per continuare ad amarlo, permette di creare una separazione tra l’Io e l’esperienza di perdita, crea dei confini all’assenza. Il dolore che si può esprimere, che ha parole per se stessi autentiche e autorevoli, si trasforma: da un vissuto nel quale affoghiamo ad una realtà che ha caratteristiche e aspetti definibili. E tutto ciò che si può esprimere, che ha parole per raccontarsi, può essere affrontato, non solo subìto.

Alle spalle di questo metodo c’è una particolare teoria del lutto?

Se intendiamo teoria come modalità di lettura dell’evento, assolutamente sì. La Narrazione Guidata non a caso l’abbiamo denominata ‘sistema logico-linguistico’ proprio per sottolineare quanto sia importante partire da un progetto che inizia proprio dal modo in cui si intende il lutto, i processi elaborativi, la ricostruzione esistenziale, per poi procedere con la stessa logica rispetto a definire cosa è una relazione d’aiuto, come si decidono gli obiettivi da raggiungere… Bisogna in altri termini oltrepassare idee e modelli, fortemente radicati in Italia, che attribuiscono ad esempio alla narrazione un’efficacia che per il solo fatto che  si condivide con altri produca cambiamenti in chi vive un lutto. Dotarsi di un modello interpretativo sull’esperienza del lutto significa mettere in pratica un progetto di supporto, non solo una vicinanza e solidarietà umana a chi soffre, esperienza certamente importante ma non strategica in chi fatica a superare questa fase della vita. In questa sede sarebbe troppo lungo spiegare questo sistema ed eccessivamente riduttivo sintetizzarlo in poche frasi ma c’è l’assoluta disponibilità ad approfondirlo con i lettori di questo blog tramite contatti individuali.

Come funziona concretamente la Narrazione Guidata?

E’ l’attenzione assoluta al linguaggio, cioè alla forma che si utilizza nel raccontare il proprio vissuto di perdita nelle sue dimensioni emotive, esistenziali, cognitive, pratiche… Si tratta cioè di aiutare la persona in lutto, durante gli incontri individuali ma anche nei gruppi o tramite la scrittura, attraverso domande esplicite e implicite, riformulazioni, richieste dirette di chiarimenti, proposte alternative di parole, rimandi e tante altre strategie linguistiche, a trovare il linguaggio che esattamente gli cor-risponde, che in maniera sempre più precisa, e quindi vera, lo definisce. Questo percorso linguistico, alternato ovviamente all’ascolto silenzioso, alla condivisione di emozioni ed esperienze e a tutto quello che si mette in campo in una relazione d’aiuto, permette a chi soffre di rivelarsi a se stesso con lo scopo finale di rispondere alla domanda centrale di questo processo: amore mio, amore che non sei più qui con me, come posso continuare ad amarti?

Ci sono dei facilitatori. Chi sono? Come vengono formati?

Abbiamo un gruppo di operatori della Narrazione Guidata all’interno dell’Associazione Maria Bianchi e molti altri esterni ne abbiamo formati in questi ultimi quindici anni. Ci sono adesso gruppi di auto aiuto per il lutto in Italia che utilizzano questo metodo e/o che lo integrano con ciò che già fanno, vari professionisti come psicologi e psicoterapeuti, cerimonieri e operatori funebri, docenti che vivono l’esperienza della comunità scolastica in lutto. Il percorso non è breve, non si tratta di lezioni frontali, perché quello che voglio è far sperimentare in prima persona ai partecipanti la Narrazione Guidata. Per questo partiamo sempre dai vissuti personali di lutto o di perdita: ognuno prova su di sé, con i nostri stimoli, cosa provoca la riflessione e il continuo aggiustamento delle parole utilizzate. Poi si tratta di trovare insieme il modello interpretativo di cui parlavo prima per costruire un progetto che sia a ognuno realmente corrispondente. Tutto questo prevede tempi distesi, pause di riflessione e approfondimenti tra un incontro e l’altro, totale coinvolgimento personale. Bisogna in altri termini imparare a guidare la narrazione, non il narrato. È un’esperienza, almeno per me e noi dell’associazione, tanto impegnativa quanto magnifica.

La Narrazione Guidata ha qualcosa in comune con la medicina narrativa? Hai tratto spunto da questa disciplina?

Ho rubato da molte parti. Non credo ci sia più la novità assoluta, la scoperta di una innovazione che cambi tutto lo scenario. Si tratta di conoscere ciò che già si fa, che altri hanno studiato, messo in pratica e sperimentato per poi piegarlo allo specifico nostro, in questo caso i processi di ricostruzione esistenziale dopo una perdita. Senz’altro tutta la riflessione e la pratica della Medicina Narrativa costituisce una bacino enorme da cui attingere, così come gli studi classici e più frequenti sul lutto, una parte della PNL, le fondamenta dei gruppi di auto aiuto ma anche, almeno per me, ciò che attraverso altre strade illumina il buio: la poesia di Emily Dickinson, i racconti di Raymond Carver, la pittura di Van Gogh, la musica di J.S.Bach, alcuni film e serie (Six Feet Under, After Life solo per citarne alcune). Credo che sia necessario riempirsi degli altri, dei risultati dei loro cuori e delle loro menti, e poi tenerseli dentro, farli vivere, accoglierli per trasformarli in qualcosa di totalmente personale e unico.

C’è qualcosa che desideri dirmi e che non ti ho chiesto?

C’è stato un momento nella mia vita che ho sempre impresso come assolutamente decisivo perché mi fece capire il valore e l’efficacia della Narrazione Guidata. Ero a Parigi con la mia famiglia, molti anni fa, a visitare il Museo Rodin. C’era un caldo terrificante ed io ero all’esterno con mio figlio piccolo di 2 anni nel giardino di questa villa-museo. Lui si avvicina ad una ragazza che stava copiando con fogli e matite le sculture poste all’esterno. Li vedo entrare in contatto, ero a qualche metro: qualche parola, sguardi reciproci, mio figlio che tocca i fogli, lei disponibile. Sento che gli chiede come si chiama e lui risponde: Andrei. In quel momento la ragazza inizia a piangere, si guarda intorno smarrita. Mi avvicino. Era la compagna di uno dei vigili del fuoco intervenuti per primi l’undici settembre. Iniziamo a parlare e mi racconta. Aveva saputo dagli altri vigili presenti che il suo fidanzato aveva capito che il grattacielo sarebbe crollato ma decise di entrare e uscire, entrare e uscire per salvare più persone possibili. Ha preferito salvare loro invece che il nostro amore, mi disse ad un certo punto. Era arrabbiata, delusa, vinta. Una persona così, come la definiresti? le chiesi.

Ricordo che rimase in silenzio, lo sguardo verso l’altro, gli occhi a destra, a cercare la parola cor-rispondente. Poi si rilassò, un sorriso appena accennato. Il con-tatto con il suo sé più profondo era avvenuto, in un contesto assolutamente non strutturato, senza preparazione e nulla di quello che cerco di attivare quando c’è una relazione d’aiuto con una persona in lutto. Quella parola era e resta sua ma fu, me lo disse l’anno dopo quando andammo a trovarla a New York, decisiva: smise di fare la guida a Ground Zero, iniziò una nuova relazione che portò alla nascita di due figli. Mi ricordo ancora con stupore e incredulità quando alla fine mi disse che Andrei era il nome che, insieme al suo compagno deceduto, si erano promessi, durante un viaggio in Italia vicino a Mantova (dove io abito), di dare al loro figlio se fosse rimasta incinta.

Quando sarà il prossimo corso per facilitatori di narrazione guidata?

Inizieremo in marzo, con un percorso a distanza per i motivi ben noti, in collaborazione con Scuola Capitale Sociale; i dettagli qui.
Mi preme sottolineare, perché la vivo come una risorsa, come in questi percorsi partecipino persone che hanno ruoli diversi rispetto all’esperienza della perdita: professionisti, facilitatori di gruppi AMA, operatori nelle agenzie funebri, cerimonieri laici, studenti, singoli che vogliono acquisire competenze spendibili sul campo. Questo dato conferma sempre di più quanto sia importante apprendere ciò che si può utilizzare, ciò che favorisce un reale cambiamento e non solo perché aggiunge conoscenze, riflessioni, idee.
È da un po’ di tempo che cerco di affrontare questa questione con altre persone impegnate nel campo del lutto che hanno ruoli e competenze diverse per cercare di trovare una maggiore correlazione e arricchimento reciproco tra ricerche, studi, pratiche, analisi. Non è affatto facile, ci sono molte resistenze ma questa è un’altra storia.

Per approfondimenti è disponibili il libro: Narrazione Guidata: un modello logico-linguistico. Teoria e pratica di un modello d’intervento nelle situazioni di lutto.

La versione cartacea si può richiedere direttamente all’Associazione Maria Bianchi, la versione e-book (anche in inglese e spagnolo) è disponibile su tutte le principali piattaforme.

Cosa pensate di questo approccio? lo conoscevate? pensate possa essere adeguato all’elaborazione del lutto?