La teoria della gestione del terrore, uno sguardo antropologico, di Cristina Vargas

Proposta per la prima volta nel 1986 da Rosenblatt, Greenberg, Solomon e altri autori, la Terror Management Theory (TMT) ha guadagnato molti consensi negli ultimi vent’anni e ha ottenuto un importante numero di convalide esperimentali in diversi paesi. Partendo da una descrizione sintetica dei principali postulati della TMT, nel presente articolo vorrei proporre alcune riflessioni critiche su questo approccio, che trovano fondamento in uno sguardo antropologico, caratterizzato dall’attenzione alla diversità e dall’apertura rispetto a modi “altri” di intendere la morte.

L’assunto di base della Teoria della gestione del terrore prende spunto dal lavoro dell’antropologo Ernest Becker, in particolare il volume The Denial of Death (1973). Partendo dalla rilettura di Freud, Otto Rank e altri psicanalisti, Becker sostiene che il terrore della morte e il desiderio di immortalità siano fenomeni universali, presenti in tutte le culture e in tutti gli esseri umani. La paura della morte è “il verme che ci divora dall’interno”, da cui scaturisce un profondo bisogno inconscio di negazione che ci porta ad allontanare difensivamente lo sguardo dal carattere precario e transitorio della nostra esistenza. Resi codardi dalla consapevolezza di dover morire, prosegue l’autore, abbiamo bisogno di aggrapparci alle religioni o alle strutture socio-culturali che ci offrono un’illusione di immortalità.

Le tesi di Becker ebbero una grande influenza in quel momento storico e contengono alcune riflessioni sulla condizione umana che, a mio avviso, a tutt’oggi meritano un’attenta considerazione.

Come evidenziato da altri antropologi, ma anche da filosofi, psicologi e neuroscienziati, siamo dotati di un sistema neurofisiologico che ha fra le sue funzioni primarie anche quella di garantirci la sopravvivenza di fronte alle minacce esterne (si pensi per esempio ai meccanismi di attacco e fuga). Nel contempo, siamo dotati di abilità cognitive che rendono inevitabile la consapevolezza della nostra mortalità. Siamo, dunque, biologicamente programmati per sopravvivere, ma sappiamo che in qualsiasi momento potremmo morire e che, di fatto, a un certo punto moriremo.

Partendo da questo nostro tratto specie-specifico, ci si potrebbe interrogare su come le varie società umane si siano confrontate con i grandi quesiti esistenziali della finitezza e del limite. Becker, e con lui gli autori della Terror Management Theory, rinunciano invece a soffermarsi sulla pluralità e scelgono invece di postulare l’esistenza di una “natura umana” immutabile, scollegata dalla cultura, astorica e non suscettibile all’influenza esterna.

In ogni caso, nella prospettiva della TMT, il terrore della morte genera un’intensa ansia, una sorta di angoscia latente, ma sempre presente, che deve essere costantemente tenuta a bada (managed) e condiziona in modo molto rilevante le nostre scelte e il nostro agire. Le due strategie più efficaci per contrastare la paura della morte sarebbero l’adesione a un sistema sociale in grado di provvedere una visione del mondo dotata di senso e il percepire sé stessi come persone di valore, qualcuno che può contribuire a preservare o a difendere il sistema di cui fa parte (aumentando quindi la propria autostima).

Partendo da queste premesse gli autori sostengono che, in situazioni che “ricordano” la mortalità (Mortality Salience), le persone innescheranno comportamenti orientati al rafforzamento delle strutture sociali e culturali a cui si sentono appartenenti e da cui traggono sicurezza. Esse inoltre compiranno maggiori sforzi di essere meritevoli di riconoscimento; le opinioni politiche o religiose si irrigidiranno e si polarizzeranno; si enfatizzeranno i simboli di appartenenza; aumenterà la possibilità di scontro con coloro che vengono percepiti come minacce e si cercheranno leader forti ed “eroi” che sottolineino la difesa del “noi”.

Negli anni, la presenza di alcune ricerche in cui non si ottenevano gli effetti sperati ha reso necessario raffinare questo modello originario, ed è stata adottata l’ipotesi di un processo duale, secondo il quale l’attivazione dei comportamenti difensivi non avviene quando il pensiero della morte è prevalente a livello conscio ed esplicito, ma solo quando esso ha un elevato di accessibilità a livello inconscio, ma non è il focus dell’attenzione.

Al di là di proporre una visione universalistica dell’umano, che si discosta in modo netto da quella di Geertz, Foucalt, Remotti e numerosi altri studiosi che hanno messo in discussione il concetto di “natura umana” e hanno adottato un approccio attento alla particolarità di ogni cultura, mi sembra interessante notare che la ricerca nel campo della TMT si basa quasi completamente su dati quantitativi sperimentali, quindi realizzati in situazioni artificiali, spesso in laboratorio e con campioni limitati. Questo tipo di studi ha certamente dei vantaggi – fra cui il rigore e la replicabilità – ma ha anche dei limiti rilevanti, soprattutto per quanto riguarda la validità al di fuori dei setting sperimentali.

Che cosa avviene in contesti sociali fortemente esposti alla violenza, in cui la salienza della morte è inevitabilmente elevata?

Nella mia esperienza di ricerca sul campo in Colombia, mi sono confrontata non con la paura della morte e con un’unica tipologia di risposta ad essa, ma con una pluralità di rappresentazioni del morire non riducibili a un’unica, universale, verità.

In numerosi casi il rischio costante innescava effettivamente reazioni orientate alla polarizzazione delle opinioni e alla percezione dell’altro come nemico, ma in altre occasioni la risposta era di segno opposto. Per esempio, ho avuto la grande opportunità di frequentare una rete di supporto reciproco creata in modo autonomo da un gruppo di donne i cui figli erano stati uccisi nel conflitto armato, che era in quel momento in una delle sue fasi peggiori. Si trattava di mamme di ragazze e ragazzi; alcuni di loro erano vittime civili, altri erano attori armati: guerriglieri, miliziani, galoppini dei narcos, paramilitari. Poiché la società era frammentata e non c’erano divisioni territoriali chiare fra gli armati in lotta, nel gruppo capitava di incontrare le mamme dei “nemici” e persino quella di chi aveva ucciso il proprio figlio. Questo però non le aveva scoraggiate, anzi, avevano capito che l’unica via per tornare a vivere era quella di perdonarsi e di supportarsi a vicenda. Si erano così organizzate senza appartenenze né distinzioni, unite dal dolore profondo del lutto e dalla consapevolezza della loro comune vulnerabilità.

Esperienze come che ho appena descritto non sono forse maggioritarie, ma esistono trasversalmente in molti contesti segnati dalla violenza e testimoniano la possibilità di un approccio all’angoscia di morte fondato non sul terrore, ma sull’incontro e la condivisione.

Come ci ricorda Francesco Remotti non tutte le società percorrono le stesse vie. Ci sono società – come la nostra – in cui il desiderio e la ricerca dell’immortalità vanno di pari passo con una concezione individualistica della persona. Ma esistono molte altre società che hanno una visione relazionale del sé; società in cui la persona è intesa non come individuo, ma come “con-dividuo” in permanente rapporto con gli altri e con l’ambiente: una visione di questo tipo favorisce l’idea che la vita e la morte non siano poli opposti e separati, ma aspetti integrati e necessari del ciclo vitale.

Sebbene la teoria della gestione del terrore possa offrire spunti interessanti di riflessione, credo sia importante evitare la sua tendenza all’universalismo e aprirsi al dialogo (scientifico e umano) con società che hanno una visione meno terrificante della morte e che la approcciano con strumenti diversi dallo scontro “noi” /“altri”.

Cosa ne pensate? Credete che la paura della morte sia universale e origini sempre le medesime risposte? Aspettiamo, come sempre, le vostre riflessioni, e vi ringraziamo in anticipo.

4 commenti
  1. Alessandra
    Alessandra dice:

    La mia esperienza in ambito sciamanico e insieme di death study mi porta a concordare con l’idea che non ci sia un unico modo di concepire l’idea della morte e men che meno un’universalità riguardo la paura.
    Nello sciamanesimo andino e nordamericano la vita è considerata (e vissuta) come un flusso di coscienza, che non finisce.
    Ciò che cambia è la dimensione corporea o meno dell’esperienza.
    Lo sciamano affina la capacità di viaggiare tra i mondi – quello materiale e l’aldilà – da “vivo” e in piena consapevolezza. Quindi fa esperienza della morte ogni volta che intraprende un viaggio di conoscenza o guarigione.
    Avendone fatta esperienza mi trovo in una condizione paragonabile, ma non dico a voce alta che non temo la morte, semplicemente perché appare arrogante e poco comprensibile.

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    • Cristina Vargas
      Cristina Vargas dice:

      Grazie Alessandra per questa bella testimonianza. Concordo, lo sciamanesimo ci mette a contatto con la continuità fra ip mondo dei vivi e quello dei morti e, in molti sensi, ci fa temere meno la fine.

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  2. Daniela Coggiola
    Daniela Coggiola dice:

    La morte è diventata da un processo sociale ad uno individuale, quasi da nascondere e “anormale”, anche nei luoghi di cura e rappresentano la “sconfitta” della medicina.
    La TMT non può essere considerata al di fuori della società e del grado di socializzazione , del momento storico e dalle precedenti esperienze.
    È particolarmente evidente in questo momento storico che inneggia al bello, al potere , al tutto e subito e nasconde quanto ritenuto imbarazzante..come la morte con conseguenti sensi di colpa da parte di curanti e morenti..
    “La solitudine del morente” è sempre più figlia di questa società e quindi non così universale e ferma nel tempo.
    Evolve (e involve) con il mutare della società .
    L’ospedale può rappresentare il luogo di studio per eccellenza per osservare questa trasformazione, non solo del concetto e del
    processo di morte ma anche delle reazioni che ne conseguono.

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  3. Domenico Loglisci
    Domenico Loglisci dice:

    Articolo molto interessante davvero,sono un giovane studente di scienze politiche che sta facendo la sua tesi in filosofia politica trattando il tema del fine vita e della morte e confesso che sto a fare molta difficoltà ad iniziare a parlarne perché spulciando su internet trovo diversi approccio filo sociologici e medici sul tema.
    Ho iniziato leggendo il libro famoso la morte e il morire della kubler-gross e devo dire che mi sta sconvolgendo molto,anzi mi sta aiutando a capire con chiarezza il tema
    Questo articolo confesso che mi ha aiutato e sarei ben lieto di citare la tmt e questo articolo nella mia tesi se Lei me lo concedesse

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