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Il ritorno della morte nello spazio pubblico? di Cristina Vargas

Nell’ultimo fine settimana di settembre si è svolta la rassegna annuale Torino Spiritualità, che quest’anno era intitolata Agli assenti. Della morte ovvero della vita. Oltre a questa, diverse altre manifestazioni culturali importanti in tutta Italia hanno scelto di soffermarsi su questo tema ed è crescente l’importanza dei festival specificamente incentrati sul fine vita (ad esempio in questo momento si sta svolgendo Il rumore del lutto a Parma, che esiste da 17 anni e che ha fatto scuola, ma ricordiamo anche nuove iniziative: Mortali. Vivere nonostante a Trento, o il festival culturale di Vidas, a Milano, appena concluso, o ancora Da Vivi, Il miracolo della finitezza, del Teatro Metastasio a Prato, e altri ancora): dopo decadi di impronunciabilità, sembra che nel periodo post pandemico il tema del fine vita stia riguadagnando terreno.

Quali riflessioni possiamo trarre dal successo di queste e altre iniziative? Siamo forse di fronte a un ritorno della morte nello spazio pubblico? È presto per dirlo. Tuttavia, rispetto a vent’anni fa, quando ho cominciato ad avvicinarmi questo ambito, le differenze sono molto significative. Allora gli eventi richiamavano con fatica poche persone e, se si avanzava la proposta di organizzare qualcosa di un po’ più ampio, da tutte le parti arrivavano richiami alla cautela. Sono innumerevoli le occasioni in cui ci siamo sentiti rispondere: “C’è la parola morte nel titolo? Meglio di no! Potrebbe spaventare il pubblico”. Oggi, al contrario, sembra che il clima sociale stia lentamente mutando e che, più che in passato, si percepisca un bisogno sociale di confronto, condivisione e dialogo. Questo stesso blog, Si può dire morte, sembra cominci a vincere la sua scommessa.

Il Death café organizzato in occasione dell’inaugurazione di Torino Spiritualità e il laboratorio “Le assenze, gli assenti”, che ho avuto la possibilità  di co-condurre insieme alla psicoterapeuta e psicodrammatista Caterina di Chio, rappresentano per me due punti di osservazione privilegiata per cominciare ad abbozzare qualche ipotesi sul perché le persone, oggi, scelgono di prendere parte attiva ai momenti pubblici di riflessione sui grandi quesiti esistenziali sollevati dalla morte.

Al Death café inaugurale hanno partecipato circa seicento persone che, in gruppi da dieci e guidati da conduttori esperti, hanno riflettuto sulla domanda «In che senso la morte può far parte della vita?». Fra i presenti c’erano medici, infermieri, psicologi, operatori funebri e altri professionisti che a vario titolo si confrontano con il fine vita, ma soprattutto c’erano i cittadini, che si sono messi in gioco a partire dalle proprie riflessioni e vissuti personali (cfr. il report dell’evento a cura di Marina Sozzi). Il laboratorio, invece, era rivolto a un piccolo gruppo e utilizzava metodologie attive, con lo scopo di esplorare i molti modi in cui chi ci ha lasciato continua ad abitare dentro di noi. In entrambe le occasioni i contenuti sono stati ricchi e profondamente umani, ma in questa sede mi interessa evidenziare che, al termine, molti dei partecipanti hanno sottolineato – in alcuni casi con un pizzico di sorpresa – quanto fosse stato importante e significativo vivere un momento in cui era stato possibile parlare della morte in modo aperto, in un clima di condivisione e reciprocità.

L’incontro autentico e paritario fra persone ha offerto un momento comunicativo e relazionale diverso rispetto a quelli che normalmente sperimentiamo nei nostri contesti di vita.

Il rinnovato interesse a parlare della morte, cui stiamo assistendo, infatti, non vuol dire che questo tema sia ormai familiare a tutti, o che il “tabù”, di cui abbiamo più volte parlato, sia tramontato. Parlare della morte, del morire e del lutto rimane molto difficile, in particolare nelle situazioni che ci coinvolgono in modo diretto e personale.

Un recente progetto di ricerca di interesse nazionale, i cui risultati sono stati presentati nel volume Morire all’italiana (2022, a cura di Asher Colombo), ci restituisce l’immagine di una società eterogenea, con modalità di rapportarsi con la fine della vita non facilmente schematizzabili. Tuttavia, in molti ambiti gli autori hanno notato che persiste una diffusa difficoltà nell’accettare la morte e nell’accompagnare i morenti. Emerge inoltre la tendenza a relegare l’esperienza del lutto in una dimensione privata e intima, che lascia poco spazio alla sfera collettiva. Ciò conferma un più generale processo di mutamento storico: da una gestione prevalentemente familiare e comunitaria della morte, siamo passati nel secondo Novecento a una modalità fortemente individualizzata (e per molti versi individualistica) di approcciare le ultime fasi.

Questa progressiva individualizzazione si esprime in diversi modi, con risvolti positivi e negativi. Si pensi, per esempio, all’importanza che ha assunto il concetto di autodeterminazione per quanto riguarda le scelte di fine vita. L’individualizzazione, inoltre, si manifesta anche sul piano delle credenze e dei riti: la secolarizzazione, più che eliminare il bisogno di spiritualità, ha favorito l’affermarsi di forme nuove e personalizzate di vivere il rapporto con l’aldilà, con il sacro e con i defunti. A questo proposito, l’indebolirsi delle forme tradizionali di gestione della morte e del lutto da un lato solleva dal peso (a volte gravoso) dei “doveri sociali”; ma dall’altro può generare un senso di incomunicabilità e di solitudine.

Il nostro rapporto con la morte oggi, in sintesi, si sviluppa in uno scenario caratterizzato dalla frammentazione e dalla complessità.

In quest’ottica, il rinnovato interesse per il fine vita fa tornare alla mente le riflessioni proposte più di vent’anni fa dal sociologo britannico Tony Walter nel suo noto volume The Revival of Death. Secondo Walter il  bisogno di parlare della morte, del morire e del lutto, che egli riscontrava già allora (forse perché il suo sguardo partiva dalla realtà anglosassone), deriva non tanto dal desiderio di rompere il tabù della morte (un concetto su cui questo autore è critico), ma dalla necessità di trovare risposte di fronte alle nuove sfide e incertezze generate dal mondo contemporaneo e dal rapido mutamento delle pratiche sociali.

A queste considerazioni, a mio avviso, si aggiungono le ricadute del periodo pandemico, durante il quale la possibilità di accompagnare i malati e i morenti, di essere presenti fisicamente nelle ultime fasi, di dire addio e di ritualizzare la morte è stata fortemente limitata. Ciò, da un lato, ha acuito il senso di isolamento di chi ha subito delle perdite; dall’altro, per contrasto, ha aumentato la consapevolezza dell’importanza, e del valore, dei momenti collettivi di condivisione, rito e memoria.

Il dialogo e il confronto sono risorse che non solo aiutano a lenire la solitudine connessa alla sofferenza, ma consentono anche di ripensare e di rielaborare i quesiti esistenziali con cui tutti ci confrontiamo di fronte alla fine, tanto sul piano professionale, quanto sul piano personale. Essi, inoltre, sono potenti strumenti per riflettere sui dubbi e le incertezze della contemporaneità. Se non c’è una narrazione univoca a cui possiamo aggrapparci, o convenzioni sociali che – per quanto limitanti – ci dicano cosa è giusto dire o fare, come facciamo a sapere se siamo sulla buona strada nel percorso di lutto? Chi ci assicura (e rassicura) sul fatto che le emozioni difficili che intimamente proviamo siano normali e non il segnale di qualche anomalia? In mancanza di linguaggi sociali consolidati per gestire la morte, la condivisione a livello comunitario o di gruppo ha una funzione non solo espressiva (di per sé importantissima), ma anche rielaborativa, nella misura in cui permette di chiarire, di riorganizzare e conferire significato a pensieri, esperienze ed emozioni di cui non è semplice parlare in altri contesti.

E voi cosa ne pensate? Quali sono le vostre sensazioni in merito? Avete seguito uno di questi festival?

Morire altrove, di Cristina Vargas

Che cosa succede quando la malattia terminale coglie la persona in un luogo lontano dal proprio paese di origine? Quali pensieri, sofferenze e sfide si aggiungono alla complessità delle ultime fasi, quando queste si devono affrontare in un “altrove”, dove non si hanno radici profonde? Questo tema di riflessione mi ha accompagnata lungo tutto il mio percorso professionale e, in quanto straniera radicata in Italia da molti anni, mi risuona in modo profondo a livello personale.

Affrontare la malattia grave o terminale, la morte e il lutto in un paese lontano dal proprio pone infatti difficoltà specifiche, che si collegano alla storia migratoria della persona e al modo in cui si articolano le sue appartenenze e i suoi legami affettivi. La migrazione, soprattutto quando comporta un cambiamento significativo a livello culturale, non è solo un evento biografico, è innanzitutto un’esperienza esistenziale che comporta una brusca discontinuità nella storia di vita. Essa, infatti, è un processo che inizia prima del viaggio e non si conclude con l’approdo nella nuova destinazione, ma si snoda in un lungo arco temporale.

Che si emigri per scelta o per necessità, cambiare nazione comporta una trasformazione identitaria che investe ogni aspetto del sé. Chi emigra in un luogo lontano vive nelle prime fasi un senso spaesamento radicale: cambiano la lingua, i paesaggi, i cibi, e il clima; le abitudini e la normalità vengono stravolte e molte certezze crollano. Col passare del tempo questo senso di estraneità si attenua, ma sovente permane un sottofondo nostalgia, che si alterna ad aspettative, speranze e progetti nel nuovo ambiente.

La soggettività del migrante si struttura intorno al bisogno di trovare un bilanciamento fra vecchi e nuovi radicamenti, fra referenti simbolici ed esperienziali che devono trovare un equilibrio.  Nell’incontro, sovente faticoso, con il nuovo ambiente di vita le reti relazionali e affettive si ridefiniscono, al pari dei ruoli familiari, sociali e lavorativi. Gradualmente, in modi diversi e molto soggettivi, l’identità e il senso di appartenenza vengono ripensati e ridefiniti per far nascere un nuovo equilibrio vitale.

Dove vorrei trascorrere gli ultimi mesi della vita? Dove vorrei che il mio corpo fosse seppellito quando arriverà il momento? Quale sarà il mio luogo finale? Queste domande testimoniano un movimento interiore che va nella direzione di una ridefinizione finale delle proprie appartenenze e i propri radicamenti. La domanda di fondo, che può essere espressa in molti modi e che vale sia per chi è straniero, sia per chi è italiano, è “qual è, in fin dei conti, casa mia?”.

In alcune culture la scelta del luogo ultimo ha una valenza simbolica di «localizzazione» delle proprie radici e della propria memoria e, in quanto tale, è una scelta che ha un’elevata portata esistenziale ed è intimamente connessa con la storia di vita.
Accanto al nodo dell’appartenenza, possono esserci motivazioni molto pragmatiche (“meglio tornare ora, perché il rimpatrio della salma da morto costa troppo”), religiosi (la mia religione lo prescrive) o relazionali (vorrei essere sepolto vicino ai padri o ai figli).

In alcuni casi il ritorno in patria può essere desiderato, ma precluso dalle circostanze. È il caso dei rifugiati e dei profughi, che non hanno la possibilità di scegliere di tornare, ma anche di chi ha vissuto percorsi migratori di lunga data, in cui le radici si sono perse e il tempo e la distanza hanno creato nuovi radicamenti.
In altri può essere possibile, ma la scelta è non di meno costellata da interrogativi, dubbi e timori.

Il confronto con il luogo d’origine può essere faticoso, soprattutto se si tratta di una migrazione di lunga data, in cui il tempo e la distanza hanno scavato un solco profondo fra il «paese ricordato», che non esiste se non nella memoria, e il «paese reale» con le sue problematiche e i suoi lati negativi. Penso al caso di un paziente rumeno seguito in cure palliative domiciliari, che aveva chiesto di tornare in patria e aveva chiesto l’aiuto dell’équipe. Gli operatori si erano adoperati per facilitare questo trasferimento, facendo di tuto, compreso portare il paziente all’aeroporto e imbarcarlo sull’aereo. Dopo poco, tuttavia, il paziente ritorna dicendo “No. Io a casa non ci voglio più stare”.

L’apertura rispetto alla possibilità che il paziente trascorra all’estero le ultime fasi della malattia non è uguale in tutti i contesti di cura. Ci sono contesti in cui prevale un focus sulla patologia anche in presenza di una prognosi infausta, si tende a ritenere l’idea di tornare in patria un rischio, e a non sostenere la persona, che è costretta a organizzarsi contro il parere dei curanti.

Per contro, nell’ambito delle cure palliative e, più in generale, nei contesti in cui c’è un orientamento che pone al centro la persona, è invece possibile dare al tema del ritorno in patria la giusta attenzione, nell’ottica di avviare un dialogo con il paziente e con la sua famiglia – vicina e lontana –  sulle implicazioni e le modalità di un eventuale ritorno nel paese di origine.

Avete mai riflettuto su questo tema? vi tocca da vicino? Cosa ne pensate?

Normalità e trauma: la paura della morte in tempi di pandemia, di Cristina Vargas

Come molte altre persone che si occupano del fine vita nel campo delle scienze sociali, in questi ultimi due anni mi sono più volte interrogata su quali implicazioni abbia avuto la pandemia sulla rappresentazione del fine vita. Come è cambiata la percezione della morte nel nostro contesto sociale? Quali conseguenze avrà questa esperienza epocale che abbiamo vissuto – e stiamo ancora vivendo – sul modo in cui conferiamo senso al morire? E, ancora, in che modo possono contribuire le varie discipline che si occupano di tematiche tanatologiche (la filosofia, la storia, la sociologia, l’antropologia, la psicologia e altre ancora) a comprendere meglio l’impatto questi cambiamenti?

È ancora presto per dare delle risposte e per fare dei bilanci, ma quel che è certo è che la malattia grave e la morte sono tornate prepotentemente alla ribalta. La pandemia, e in queste ultime settimane la guerra in Ucraina, molto più vicina di altre guerre contemporanee, ci hanno costretti a fare i conti con l’incertezza, a riconoscere la nostra vulnerabilità, a confrontarci con la paura di ammalarci, con il lutto e, in alcuni casi, con il rischio concreto di morire.

Può sembrare contraddittorio, ma in molti sensi, l’onnipresenza della morte ha innescato due reazioni opposte. Se in alcuni contesti il tema della morte è stato “sdoganato” e si è sviluppata una maggior consapevolezza rispetto a questo argomento; in altri si è creato l’effetto opposto: il bisogno di distogliere lo sguardo e di voltare pagina hanno avuto il sopravvento.

Partiamo dal secondo scenario, quello della normalizzazione, un meccanismo che si osserva oggi in molti paesi e che ricorda da vicino quello che è storicamente avvenuto in contesti colpiti dalla violenza protratta. Ed Yong, giornalista scientifico e vincitore del premio Pulitzer per il suo lavoro durante la pandemia, ha ricordato recentemente che, nel maggio del 2020, quando gli Stati Uniti avevano appena raggiunto i 100.000 morti, il New York Times aveva riempito la prima pagina con i nomi di ognuna delle persone scomparse: un gesto che aveva profondamente commosso i lettori ed era diventato un simbolo della drammaticità di una perdita sentita da tutta la nazione. Eppure, ora che gli Stati Uniti si avvicinano a un milione di morti, l’opinione pubblica sembra quasi insensibile, come una cifra così sbalorditiva fosse in qualche modo troppo grande per essere sentita o pensata. C’è chi è in lutto, ma i parenti delle persone decedute sovente si ritrovano a elaborare il loro dolore “in mezzo alla fuga precipitosa della maggioranza verso la normalità”.

La storia insegna che l’abitudine smussa la paura; vivere a lungo in una situazione, per quanto critica essa sia, crea una sorta di “assuefazione” (uso, non a caso, l’espressione con cui Vovelle descriveva la familiarità con la morte che aveva caratterizzato altri periodi storici). Un po’ come avviene nelle guerre che accadono altrove, chi non ha subito le conseguenze più dirette del Covid può fare ricorso a una sorta di “distanza di sicurezza”, che depersonalizza le vittime e attenua, almeno in parte, l’intensità della sofferenza. Questa distanza è in parte necessaria per riprendere il movimento vitale dopo una fase di stallo. Essa, tuttavia, impedisce il riconoscimento dell’angoscia, rallentando la costruzione di una memoria condivisa e l’elaborazione del trauma che, in maggior o minor misura, ognuno ha subito. Molti dati confermano che le conseguenze psicologiche sono state rilevanti anche in chi non ha vissuto in modo diretto la perdita di una persona cara o le conseguenze gravi della malattia. Il Covid, per tutti noi, rimarrà nelle autobiografie come uno spartiacque, ci sarà un “prima” e un “dopo”: uno di quei momenti storici di svolta, un’ondata che, anche se non ci ha travolti, ha sicuramente creato delle discontinuità nella nostra storia personale.

Vale quindi la pena riflettere, per tornare alla prima delle due reazioni che abbiamo inizialmente descritto, sulla possibilità di sviluppare una nuova consapevolezza sulla morte e sulla vita.

Alcune interessanti ricerche, condotte nel corso del 2020 e del 2021 fra gli operatori sanitari in varie nazioni, hanno messo in luce l’importanza della resilienza e della crescita post traumatica, in inglese Post Traumatic Growth (PTG), nel gestire lo stress correlato al lavoro e il rischio di burn out in una delle categorie professionali che ha subito in modo più diretto le conseguenze della pandemia.

Pur senza sottovalutare le conseguenze negative sulla vita psichica di eventi gravi, il concetto di Post Traumatic Growth (PTG) parte dall’idea che le persone che si trovano ad affrontare situazioni drammatiche possano scoprire di avere più risorse di quanto credessero e, in alcuni casi, riemergerne rafforzati. La crescita post traumatica porta a integrare le “cicatrici”, fisiche e simboliche, in una nuova immagine di sé. Per spiegare questo concetto alcuni autori orientali usano la metafora del kintsugi, una forma di artigianato giapponese in cui le crepe della ceramica rotta vengono riempite con delle sottili linee dorate o argentate, che restituiscono la bellezza all’oggetto spezzato. I segni del “trauma” non scompaiono, al contrario, nel restare visibili riescono a trasformare una normale ciotola in un pezzo unico e irripetibile che può avere una nuova vita.

Quando il periodo critico può considerarsi concluso, esso può essere riletto come qualcosa che ha innescato un ripensamento del senso complessivo che prima veniva attribuito alla propria vita. Non è un caso che la pandemia abbia portato molte persone a rivedere le proprie priorità e i propri valori. Anche se non abbiamo dati sufficienti ad affermarlo con certezza, questo processo di cambiamento valoriale e identitario sembra essere alla base della cosiddetta “great resignation”, ovvero il significativo aumento delle dimissioni volontarie che si è verificato a partire dalla fine del 2020 negli Stati Uniti, in molti paesi europei e, in modo più limitato, anche in Italia.

Dato l’impatto negativo della pandemia a livello economico, molti analisti si aspettavano un ritorno celere al lavoro appena l’allentamento delle restrizioni l’avesse consentito. Tuttavia, questo non è avvenuto: molte persone hanno deciso di rivedere complessivamente il proprio percorso professionale e hanno deciso di cambiare radicalmente vita. È come se, durante i mesi della pandemia, la consapevolezza di non avere davanti a sé un tempo infinito avesse permesso di ripensare alle cose importanti, di dare più spazio agli affetti e, quando possibile, di fare scelte concrete in questa direzione. Forse come società non siamo diventati migliori – come nelle prime settimane della pandemia speravamo – ma i cambiamenti individuali fondati su una nuova e più consapevole rappresentazione della vita, in cui la finitudine è presente ma non diventa un pensiero angosciante, sono un primo passo da cui partire per ripensare il nostro futuro. Che ne pensate? Voi come avete vissuto la paura in questi due anni?

Il virus e la morte rimossa? di Davide Sisto

Martedì 9 marzo Alessandro Baricco, sul Il Post, firma un pezzo giornalistico intitolato Mai più, prima puntata, in cui riprende e sviluppa un concetto molto in voga tra gli intellettuali, almeno in questo periodo segnato dalla pandemia mondiale da Covid-19: “rinunciamo a vivere per non morire”. Baricco si sofferma lungamente sugli effetti provocati dal lockdown e da tutte le limitazioni statali imposte alle attività sociali e lavorative quotidiane, che svolgevamo più o meno serenamente prima della fine del febbraio 2020. “E di questa altra morte quando parliamo? La morte strisciante, che non si vede. Non c’è Dpcm che ne tenga conto, non ci sono grafici quotidiani, ufficialmente non esiste. Però ogni giorno, da un anno, lei è lì: tutta la vita che non viviamo, per non rischiare di morire”.

Simili sono le parole espresse dal noto filosofo sudcoreano Byung-Chul Han, nel libro Una società senza dolore (Einaudi 2021), nel quale si sostiene che la nostra sia una società algofobica poiché si cerca in tutti i modi di anestetizzare ed evitare il dolore e la sofferenza. Han dice che “ci si scorda che il dolore purifica, emana un effetto catartico”; pertanto, la medicalizzazione e la farmacologizzazione del dolore gli toglie la possibilità di farsi linguaggio e di manifestare il suo benevolo valore simbolico. Quando affronta il tema del Covid-19, il pensatore sudcoreano riconosce un nesso tra l’algofobia e la tanatofobia: “oggi la sopravvivenza assume un valore assoluto, come se fossimo costantemente in guerra”. Addirittura, Han riconduce all’ossessione della sopravvivenza, dunque alla fobia nei confronti della morte, la rigorosità del divieto di fumare e rimane stupito dal fatto che anche i sacerdoti adottino il distanziamento sociale e indossino la mascherina.

Come dicevo, sono piuttosto ricorrenti in questo periodo le riflessioni che stabiliscono una specie di correlazione tra il non rischiare di morire a causa del Covid e la rinuncia a vivere, interpretando tale correlazione come effetto primo della rimozione sociale e culturale della morte.

Queste riflessioni risultano essere improprie, a mio avviso, sotto molteplici punti di vista. Innanzitutto, non è un unicum nella storia dell’umanità il comportamento adottato dalle istituzioni politiche nei confronti di una pandemia: basta leggere il bel libro di Frank M. Snowden Storia delle epidemie. Dalla morte nera al Covid 19 (LEG 2020) oppure le analisi più stringate, ma non meno efficaci da un punto di vista storico, di Marzio Barbagli nel libro Alla fine della vita (Il Mulino 2017), nonché – ancora – le interpretazioni date ai comportamenti nei confronti delle epidemie dal filosofo Elias Canetti in Massa e potere. Se ci si vuole addentrare nella dimensione più letteraria, i classici di Camus e Defoe sulla peste delineano un quadro sociale, politico e culturale in cui possiamo – a grandi linee – riconoscerci, pur tenendo conto delle ovvie differenze tra le epoche storiche. È, in fondo, elementare: se i nostri corpi rischiano di contagiarsi stando a contatto, la prima e necessaria soluzione razionale è quella di eliminare il contatto fisico per limitare il numero di decessi.

In secondo luogo, credere che vi sia una correlazione tra la cosiddetta “ossessione” per la sopravvivenza e il non vivere è esattamente l’effetto primo e tangibile della decennale rimozione della morte. Riconoscere la propria intrinseca finitezza e non dimenticare che vita e morte sono strettamente legate l’una all’altra, per cui l’una non può essere definita senza il riferimento all’altra, non significa in alcun modo vivere in maniera irresponsabile e mettendo a rischio la salute propria e delle altre persone. Su questo punto ho scritto nel blog già diverse volte, ma – leggendo determinate riflessioni – capisco che è necessario ritornarci ancora.

Attualmente sto guardando su Netflix la mitica serie televisiva Vikings, che rielabora – in sei lunghe stagioni – le eroiche vicende di Ragnarr Loðbrók, leggendario re norreno vissuto nella seconda metà del IX secolo. Il leitmotiv costante delle rappresentazioni belliche dei norreni, intenti a lanciarsi in imprese titaniche di conquista territoriale, è la non paura della morte. Anzi, la morte, decisa dagli dei, risulta essere una specie di fissazione: morire senza paura significa entrare gloriosamente nel Valhalla. Odino stabilisce che ogni uomo potrà godere del bottino accumulato in vita dopo la morte. Sentiamo di continuo simili frasi: “Non temete la morte. Se arriva abbracciatela come se fosse una bellissima donna” (Ragnar). Ecbert, re del Wessex e di Mercia, si rivolge a Ragnar nel modo seguente: “Tu non te ne fai una ragione. Non pensi che alla morte. Tu non pensi che al Valhalla”.

Ora, chi crede che stiamo rinunciando a vivere per non morire potrebbe lanciarsi in una delle imprese belliche dei norreni. Quindi, uscire di casa e abbracciare e toccare più corpi possibili per preservare il sacrosanto diritto a vivere, garantendosi il suo Valhalla (e garantendolo anche a coloro che non hanno un Valhalla di riferimento).

Al di fuori della battuta, occorre capire che la coscienza di non essere immortali e il riconoscimento di un proprio destino mortale inevitabile non hanno rapporto alcuno con la temerarietà e, soprattutto, la mancanza di rispetto della vita e del dolore altrui. Possiamo, certamente, riconoscere l’enorme fatica di un anno intero vissuto senza tutto ciò che ha, finora, reso viva la nostra esistenza. Dobbiamo, altresì, riconoscere le terribili conseguenze sul piano economico, educativo, sociale del distanziamento sociale e del lockdown, quindi criticando senza pietà le istituzioni politiche nel caso ci rendessimo conto che hanno agito superficialmente. Ma, al tempo stesso, è indelicato e approssimativo ignorare le conseguenze di un messaggio di per sé pericoloso: quello che ci dice che oggi vogliamo sopravvivere, rinunciando a vivere. Se la sopravvivenza, minacciata da un pericolo mortale, fosse messa in secondo piano rispetto alla vita di tutti i giorni, ci ritroveremmo in una realtà in cui dominerebbero la morte, il dolore, la sofferenza, molto di più di quanto già stanno dominando.

«La meditazione della morte è meditazione della libertà. Chi ha imparato a morire ha disimparato a servire. Il saper morire ci affranca da ogni soggezione e costrizione». Le sagge parole di Montaigne, punto di riferimento del nostro modo di affrontare la morte, devono però essere controbilanciate dalle parole che John Keating rivolge al suo studente Charlie nel film L’attimo fuggente. Charlie, che ha cercato di farsi espellere dalla scuola che sta frequentando, rimane stupito dalla reazione negativa di Keating, il quale non approva il suo comportamento. Charlie dice: “Sta dalla parte del signor Nolan (il preside N.d.A.)? E allora il ‘Carpe Diem’, ‘Succhiare il midollo della vita’ e tutto il resto? e Keating risponde: “Succhiare il midollo della vita non significa strozzarsi con l’osso. C’è un tempo per il coraggio e un tempo per la cautela, e il vero uomo sa come distinguerli”. Forse, dovremmo non dimenticarlo in questo periodo difficile che stiamo vivendo, pur nella comprensibile consapevolezza di tutti gli aspetti drammatici che ne derivano e che segnano tragicamente la nostra esistenza.

Cosa vuol dire morire? Riflessioni a partire da un fatto di cronaca, di Davide Sisto

I quotidiani nazionali hanno dedicato, negli ultimi giorni di gennaio 2020, un ampio spazio alla notizia di una bambina siciliana – di appena nove anni – morta suicida in circostanze tutt’altro che chiare (perlopiù collegate all’uso del social network TikTok, per quanto sia ancora una supposizione priva di riscontro oggettivo). Al di là delle svariate analisi giornalistiche che si sono succedute per diversi giorni, mi ha colpito leggere più volte le seguenti parole: “molti ragazzini oggi non sanno cosa vuol dire morire”.

Questa affermazione implica una serie di ragionamenti, che sono – di fatto – alla base degli articoli che da anni fanno parte di questo blog. Innanzitutto, cosa vuol dire morire? Quando ciascuno di noi – adolescenti o adulti, poco importa – si pone questa domanda, si rende immediatamente conto che non vi è modo di andare oltre a quanto sostiene il filosofo tedesco Gadamer: «Un pensiero della morte, che lascia che io continui a vivere, non sembra essere molto diverso né essenzialmente differente da tutti gli altri sogni di vita che noi sogniamo e nei quali viviamo. Ci troviamo, a quanto pare, di fronte a un’aporia, la quale tiene separati la morte e il pensiero. Pare che il pensiero della morte trasformi di già la morte in qualcosa che essa non è». Una volta che ne facciamo esperienza non abbiamo ovviamente modo di descriverla e di spiegarne il significato; possiamo, molto banalmente, soltanto attribuire un significato all’esperienza che facciamo della morte altrui.

Ovviamente, l’affermazione summenzionata allude ad altro, cioè alla ipotetica scarsa consapevolezza che i bambini e gli adolescenti del XXI secolo hanno nei confronti della propria connaturata mortalità, aspetto che li porta – sempre ipoteticamente – a sottovalutare la fragilità e la precarietà della propria esistenza.

Non mi interessa sapere se ciò sia vero oppure no. Mi interessa semmai, facendo finta che sia plausibile tale pensiero, evidenziare un altro aspetto: se “molti ragazzini oggi non sanno cosa vuol dire morire”, non è forse colpa degli adulti impegnati costantemente a eludere ogni tipo di discorso relativo alla morte? Sono oramai decenni che parliamo di rimozione della morte e che sottolineiamo la necessità di percorsi educativi per mezzo dei quali “imparare a morire” (dunque, a vivere). Tuttavia, ancora oggi non riusciamo a superare l’imbarazzo che ci irretisce ogniqualvolta occorre prestare attenzione al limite della nostra esistenza e di quella dei nostri figli. Un imbarazzo che risulta poi fatale nella vita quotidiana.

Riprendiamo un attimo il discorso relativo alla pandemia da Covid-19: è palese che la maggior parte dei comportamenti negativi dei cittadini sia riconducibile al non voler pensare di essere mortali. Tra i tanti atteggiamenti oggettivamente riconducibili alla negazione del pensiero della morte e di cui abbiamo già parlato nel blog, uno mi ha, ultimamente, colpito in maniera particolare: diversi miei conoscenti, che sono stati contagiati (e che, per fortuna, sono guariti), si sono ammalati perché, se da una parte hanno chiaramente riconosciuto il pericolo della pandemia, dall’altra lo hanno applicato soltanto alle altre persone e non a se stessi. Vale a dire: ho notato un’enorme premura nel consigliare ai propri cari di prendere tutte le necessarie precauzioni e, al tempo stesso, una altrettanto grande sciatteria nel prenderle personalmente. Come se, di nuovo, si proiettasse il rischio di morte sugli altri, perché consci del dolore che deriva da una perdita, ritenendo però se stessi immuni da tale rischio. Della serie: io, comunque, non corro il pericolo di morire. Io sono immortale. Mi ha impressionato soprattutto un conoscente che, scoperto di essere positivo al Covid, mi ha chiesto: “tanto non si muore mica di Covid, vero?”. Non me lo ha chiesto a fine febbraio 2020, quindi in una fase in cui ne sapevamo ancora poco, ma nel periodo natalizio appena trascorso, dopo mesi di reportage giornalistici e di trasmissioni televisive dedicate al tema. Capisco molto bene la paura, la quale può spingerci a evitare i pensieri più drammatici (cfr. il famigerato “andrà tutto bene”), ma questo tipo di rimozione posteriore al contagio è lo stesso tipo di rimozione che ha reso possibile il contagio. Dunque, tornando alla domanda di partenza: come possono i ragazzini sapere cosa vuol dire morire se i loro punti di riferimento adulti non lo sanno o non lo vogliono sapere?

In conclusione, è fondamentale parlare della morte a tutte le età, a partire dall’infanzia. Ma per poterne parlare in maniera consona e vincente da un punto di vista educativo è necessario, in primo luogo, che gli adulti si sforzino di sottrarsi alla rimozione e al tabù. In caso contrario, non saranno mai capaci di educare attentamente i propri figli e i propri studenti, limitandosi poi – quando hanno luogo drammatici casi di cronaca – a fare affermazioni come quella indicata, dal sapore ipocrita e moralistico. In altre parole, ci si toglie di dosso ogni tipo di responsabilità, colpevolizzando chi – a soli 9 anni – dovrebbe lucidamente conoscere ciò che gli adulti stessi ignorano.

Cosa ne pensate? Attendiamo i vostri commenti e le vostre riflessioni.

Si può ridere della morte, e come? di Davide Sisto

Negli ultimi anni, non c’è utente dei social network più famosi (Facebook, Instagram, Twitter) che non si sia imbattuto, almeno una volta, nella pubblicità delle onoranze funebri Taffo, il cui leit motiv è fare ironia sulla morte. Durante i periodi elettorali, Taffo rende virale una fotografia in cui sotto la scritta “italiani, vi aspettiamo alle urne” vediamo le immagini di diverse urne che, come potete intuire, nulla hanno a che fare con le cabine del voto. In un’altra fotografia, diffusa quando il Governo italiano ha legiferato a favore del reddito di cittadinanza, leggiamo: “nella vita solo una cosa è sicura. E non è il reddito di cittadinanza”. Sotto, di nuovo, l’immagine di una gigantesca urna. Ancora, durante l’estate, Taffo condivide un’immagine che raffigura due ragazzi che stanno “morendo” dal caldo. Sopra campeggia la scritta “Funeral boom”. Sotto, invece, un esplicito invito: “uscite nelle ore più calde e bevete poca acqua”. Addirittura, in questi giorni, Taffo ha ideato la canzone dell’estate, Magari muori, visualizzata su YouTube da oltre cinquecento mila persone e il cui testo è un invito a godersi la vita, proprio perché consapevoli di morire prima o poi. Una strofa del testo: “Dai, goditi la vita che poi magari muori – e vivi al massimo da qui fino ai crisantemi – non rimandare più che poi magari muori – baciami e stammi addosso che domani sei in un fosso”.

Ridere della morte non è certo una prerogativa esclusiva di Taffo. Nei social network, in Italia, sono molto seguite pagine come Il Salone del Lutto e Necrologika, le quali adottano un atteggiamento in parte dissacrante in parte sarcastico nei confronti di tutto ciò che riguarda il morire, dal lutto al desiderio di immortalità.

Innumerevoli sono, poi, gli esempi cinematografici, musicali e letterari che hanno adottato l’ironia nei confronti del morire. Uno dei più noti esempi tratti dal cinema è quello de Il significato della vita (1983) dei Monty Python, la cui ultima parte è dedicata al Tristo Mietitore, che si presenta alla porta di una graziosa casetta di campagna. “Pare sia un certo signor La Morte, venuto per la mietitura. Non credo ci serva per il momento”. La frase divertente di uno dei protagonisti del film è smentita, ahinoi, dai fatti: una mousse di salmone avariata determina la morte di tutti i partecipanti del pranzo. “Offrire una mousse scaduta è socialmente morire”, dice lo spettro digitale della padrona di casa prima di avviarsi – in automobile – verso il Paradiso. O, ancora, ricordiamo Funeral Party (2007), completamente incentrato sulla risata durante la celebrazione di un funerale: si parte dalla consegna al figlio della salma del padre sbagliato fino ad arrivare alle disavventure provocate da uno degli ospiti il quale ha preso, per sbaglio, un potente allucinogeno invece del Valium.

Si può ridere della morte? Si può, cioè, assumere un atteggiamento scanzonato e irriverente nei confronti di uno degli eventi più dolorosi della nostra esistenza? Quella di Taffo è una strategia pubblicitaria geniale o di cattivo gusto? Dal mio punto di vista, credo che, sì, si possa assumere un atteggiamento ilare anche nei confronti della morte. Ma con dei doverosi distinguo. L’ironia deve, cioè, nascere da una consapevolezza specifica: proprio perché la morte ci spaventa, ci fa soffrire, ci crea ansia, ci paralizza, ecc. possiamo – spesso, dobbiamo – attutirne il peso mettendo a frutto la nostra intelligenza. E l’ironia è, forse, il suo più potente strumento, poiché riesce a ridimensionare il dramma della realtà, cercando di tirare fuori dal tragico l’elemento comico che in esso spesso si cela. Una sorta di detonazione della propria e della altrui tristezza, che fa leva sulla capacità di individuare quel gesto o quella smorfia capaci di ridimensionare, anche per un solo momento, la negatività che ci assale. È, in fondo, un aspetto classico dei comici di professione essere persone, di per sé, malinconiche. La loro comicità è l’arma che gli permette di descrivere quello che provano, forse addirittura di presentarlo per quello che effettivamente è. L’ironia e la comicità, dagli albori dei tempi, sono collegate alla coscienza della nostra mortalità e, senza tale coscienza, probabilmente si sarebbero sviluppate con minor forza tra gli esseri umani.

Assumere questo tipo di atteggiamento nei confronti della morte e della mortalità non deve, però, essere un modo per giustificare qualsivoglia forma di superficialità o la mancanza di empatia. Non deve, cioè, diventare un mezzo con cui deresponsabilizzarci e difendere l’apatia emotiva. In altre parole, il comportamento di Taffo è lodevole se è frutto di una delicatezza interiore, non se è una geniale trovata commerciale che non tiene conto del dolore e della sofferenza che accompagna l’evento della morte.

“Comica o tragica, la cosa più importante è godersi la vita finché si può, perché ci tocca soltanto un giro e quando l’hai fatto l’hai fatto”, diceva Woody Allen in Melinda & Melinda. Ma il godimento della vita non deve, al tempo stesso, essere una scusa per un disimpegno emotivo e una mancanza di condivisione del dolore che, quotidianamente, fa parte del nostro stare al mondo.

E voi cosa ne pensate?

Morire in braccio alle Grazie: intervista a Sandro Spinsanti, di Marina Sozzi

Le_Tre_Grazie_(Botticelli)Abbiamo intervistato Sandro Spinsanti (che è anche un assiduo lettore di questo blog) in occasione della recentissima uscita del suo ultimo libro, Morire in braccio alle Grazie. La cura giusta nell’ultimo tratto di strada.

Come mai questa metafora delle Grazie, dee greche e romane della bellezza, della fertilità, della gioia di vivere: qual è il loro legame con la morte?

Spero che le Grazie, col loro fascino, possano sedurre coloro che ancora non riflettono sulla morte, ma preferiscono tenerla nascosta; vorrei sconcertare, portare fuori dagli schemi di pensiero abituali la riflessione sul morire e sulle scelte di fine vita, fuori dai percorsi triti della bioetica, con i suoi massimi sistemi e i suoi principi assoluti. La dimensione estetica, il “morire con grazia” può forse dirci qualcosa di nuovo sull’etica. La sfida consiste nel pensare la morte come avvolta dall’abbraccio delle Grazie, ossia come crescita e compimento.

Abbiamo avuto, sulla rivista Janus. Medicina, Cultura, Culture, una rubrica nella quale abbiamo chiesto ai palliativisti come mai spesso la gente muoia male. Il nostro intento era seguire le orme dello psicologo Paul Watzlawick, che ha scritto le Istruzioni per rendersi infelici: Watzlawick ironizza sul paradosso per cui gli uomini, pur desiderando la felicità, agiscono per crearsi infelicità. Per quanto riguarda la morte la faccenda è analoga. Gli individui affermano di volere una buona morte, ma fanno di tutto per ottenerne una cattiva. E come si fa per avere una cattiva morte? E’ facile: è sufficiente, spesso, lasciare fare agli altri, affidarsi a una famiglia conflittuale, essere passivi.

A che punto è oggi la medicina di fronte al tema della morte e del suo accoglimento?

Purtroppo buona parte della medicina è intrappolata, schiava della logica del “fare sempre di più”, come ha scritto Atul Gawande. Invece di fare cose diverse, si insiste in quel “sempre di più”. La grande sfida della medicina, invece, sta nel comprendere quando insistere e quando desistere, lasciar andare, cambiare registro e arrestare le cure futili.

Oggi abbiamo in Italia realtà molto differenziate. Da un lato ci sono molti medici, e cittadini, che conoscono le cure palliative e ne condividono profondamente la cultura, e che sono aperti a un nuovo sguardo, quello della medicina narrativa. Ma abbiamo anche a che fare anche con la sordità o addirittura l’ostilità di altri gruppi di professionisti, che giudicano futile occuparsi delle “emozioni dei pazienti”, come mi ha detto un chirurgo.

Anche per quanto riguarda le cure palliative, ci sono ottime esperienze, modelli di accompagnamento eccellenti; mentre talvolta capita di vedere hospice pessimamente gestiti, in cui la degenza è così breve che nessun intervento è possibile, e che sono diventati dei “moritoi” contemporanei. Occorre evitare che la palliazione si integri in un modello di medicina a due tempi, dove prima si tenta il tutto e per tutto, poi (quando non c’è più speranza di guarigione) subentrano le cure palliative, nuova specializzazione all’interno della biomedicina, accanto a tutte le altre. Le cure palliative, al contrario, devono far parte del bagaglio di tutti i medici.

Diventiamo sempre più vecchi. Cosa possiamo dire di come muoiono i grandi anziani?

A Firenze con la Fondazione File abbiamo istituito una scuola di cure palliative geriatriche, e siamo entrati nelle Residenze Sanitarie Assistenziali. Abbiamo trovato un’enorme esigenza di formazione. Oggi infatti le residenze per anziani sono diventate grandi ospedali per lungodegenti, o addirittura hospice, perché sono luoghi dove gli ospiti abitano negli ultimi anni o mesi, e poi muoiono (a meno che non abbiano la sfortuna di essere trasportati in emergenza in un Pronto soccorso e di morire magari su una barella, in corridoio). Per questo occorre che le cure palliative facciano parte del sapere e del saper fare degli operatori che lavorano in RSA.

In genere che cosa possiamo fare per migliorare la situazione?

Va valorizzata la figura del medico di medicina generale, per disinnescare l’estrema ospedalizzazione. Il modello ideale è un medico di famiglia che continui a curare anche in hospice, anche in RSA. Su questo, vi sono interessanti esperienze in Toscana e in Emilia. Occorre potenziare le cure sul territorio e la continuità assistenziale.

Aggiungo che dovremmo conoscere di più su questi temi, fare più ricerca, avere più informazioni ed essere in grado di confrontare i modelli di cura.

C’è qualcosa nel suo libro che vuole sottolineare per i lettori del blog?

La presenza di brani di letteratura: da Philip Roth, Everyman e Patrimonio, fino a scrittori meno noti fra chi si occupa del tema del morire, come Stephen King, Il miglio verde. E’ incredibile quanti romanzi e opere cinematografiche ci mettano di fronte ai problemi della fine della vita e ci sollecitino riflessioni…

Cosa vi sollecitano le riflessioni di Spinsanti? Siete d’accordo con lui?

Eutanasia e Stato etico

age, sadness, trouble, problem and people concept - sad senior woman sleeping on pillow at home

Ai primi di marzo le Commissioni congiunte di Giustizia e Affari Sociali hanno cominciato a discutere sul tema dell’eutanasia, con l’obiettivo di accordarsi su una proposta di legge che dovrebbe approdare in parlamento intorno a luglio. Qualche breve articolo sull’argomento ci ha informati che ci sono tre proposte di legge da esaminare, il cui testo, con l’esclusione di quello dell’associazione Coscioni (http://www.eutanasialegale.it/content/progetto-di-legge-diniziativa-popolare-rifiuto-di-trattamenti-sanitari-e-liceita), è difficile se non impossibile da reperire sul web (cattivo segno per la discussione democratica). Non mi dilungo sulle proposte, perché è già stato fatto: le tre proposte di legge si differenziano solo su due punti, la presenza o meno di organismi di controllo, e la possibilità (negata in due di esse) data ai medici di obiettare.

Faccio subito qualche considerazione che, ammetto, sono quasi stanca di riproporre.

E proprio per questo mi faccio prestare le parole dalla presidente di Libera Uscita, Maria Laura Cattinari, che non può essere tacciata di essere contraria all’eutanasia, e che – in un condivisibile Comunicato stampa sul tema – ha affermato: «Oggi in Italia si muore ancora troppo male. E’ urgente, per cominciare, una buona legge che legalizzi il testamento biologico, prevedendo che tutte le terapie, idratazione e alimentazione artificiale comprese, siano rinunciabili, e che le nostre direttive siano vincolanti per i medici».

Dovremmo inoltre poter nominare un nostro fiduciario, che possa rappresentare efficacemente la nostra voce qualora dovessimo trovarci in stato di incoscienza o di volontà debole a causa del nostro stato di salute compromesso. Altrettanto indispensabile, scrive Cattinari «il potenziamento delle cure palliative domiciliari, giustamente inserite nei LEA (livelli essenziali d’assistenza) dall’ottima Legge 38/2010, di cui gli effetti positivi appaiono ancora in dose omeopatica».

Invece di riflettere sul problema (molto complesso) di come permettere ai cittadini di lasciare un legittimo testamento biologico, si dà la priorità all’eutanasia, ben sapendo che la discussione parlamentare non potrà che creare aspri e inutili scontri, portando il Paese a un nulla di fatto. Ancora una volta, è evidente che valutazioni di opportunità politica hanno la meglio sul benessere dei cittadini e sulla tutela della loro salute e delle loro scelte di vita e di fine vita.

E’ evidente a chiunque rifletta in modo concreto, infatti, che l’eutanasia è l’ultimo dei problemi, alla fine della vita: le cure palliative e la sedazione terminale – che sopprime la coscienza – sono perfettamente in grado di garantirci una morte senza sofferenza. Solo che le cure palliative non sono applicate a tutte le patologie (disattendendo la legge 38 che le definisce come un “diritto” per tutti i cittadini), e spesso non sono applicate (anche per incompetenza) a chi muore in ospedale.

Per altro verso, viviamo in un paese con pochissima creatività istituzionale, in cui gli anziani, il cui numero è destinato a crescere esponenzialmente, sono chiusi (con o senza demenza senile) in case di riposo, dove la maggior parte di loro perde progressivamente l’autonomia e la consapevolezza residue. E anche in questi luoghi si muore male, o meglio si vive un processo del morire lunghissimo, abbandonando ogni giorno una parte del piacere di vivere.

Qualcuno mi ha rimproverato, anche su questo blog, di avere “resistenze” di fronte all’eutanasia: è vero, io resisto, perché credo che la depenalizzazione dell’eutanasia oggi (sottolineo oggi, perché la mia contrarietà non è di principio) avrà come esito di risolvere al ribasso una serie di sfide del nostro tempo, create da una medicina cresciuta nelle sue possibilità di cura ma anche nella sua capacità di nuocere, prolungando il morire.

Non vorrei che il problema dell’umanizzazione della medicina si smorzasse attraverso una legittimazione troppo superficiale dell’eutanasia, ottenuta per via parlamentare, senza un vero dibattito pubblico. Non hai più gusto per la vita? Soffri? Ti permetto di chiedere la morte. E’ corretto? E se cercassi invece di ascoltare in che modo la vita potrebbe avere ancora sapore per te (fosse anche per pochi mesi o giorni), e utilizzassi le risorse della medicina per provare a restituirtelo?
Non esiste solo il diritto (sacrosanto) di non soffrire, ma anche quello di decidere che cosa è più importante per noi nell’ultimo tratto della nostra vita; quali sono i compromessi che siamo disposti ad accettare per vivere un po’ più a lungo e quali no; cosa vogliamo lasciare di noi ai nostri cari, quale ricordo, quale messaggio.

E’ curioso peraltro che l’eutanasia sia presente in alcune utopie di epoca moderna. Permettetemi una sola citazione dotta: nel volume settecentesco La terre australe connue di Gabriel de Foigny ogni vegliardo, che decide la propria eutanasia, va “gaiamente” incontro alla morte, e i sopravvissuti accolgono con gioia il suo successore designato. I vecchi, però, interrompono la loro vita ad un’età prestabilita, mangiando i frutti di un albero che produce una dolce follia, e poi la morte. E’ lo Stato etico, in utopia, a stabilire quando bisogna morire. Gli utopiani si adeguano, perché in loro prevale la razionalità.
E noi? Sappiamo pensare alla morte come esseri senzienti, con la consapevolezza delle nostre emozioni?

Infine, c’è in me un’ultima resistenza, di cui voglio mettervi a parte: la vicenda dell’eutanasia è legata a un mito della modernità (non a caso è presente nelle utopie di epoca moderna), un mito inaugurato da Descartes: il controllo pieno dell’uomo sulla natura. Siamo sicuri che vogliamo procedere su questa direttrice culturale? Che è anche quella che ci ha portati a distruggere il pianeta? Pensiamoci, almeno. Facciamo entrare altri spunti nella nostra riflessione sull’eutanasia.

E INFINE…si può dire morte

Cari amici,
come sa chi mi conosce personalmente o ha letto Sia fatta la mia volontà. Ripensare la morte per cambiare la vita, sono vent’anni che studio la controversa relazione di noi esseri umani con il proprio e l’altrui morire, con i lutti, con i riti, con la memoria dei defunti, con i luoghi dei morti; con la malattia, la medicina, le cure palliative e le scelte che si possono fare alla fine della vita; con la paura d’invecchiare, con l’estrema vecchiaia, con le demenze dei propri cari.

Tutti temi che fanno tremare anche i più coraggiosi tra noi, che fanno fare gli scongiuri ai più superficiali, ma che rappresentano pure il destino comune a tutti, anche ai tanti che preferiscono mettere la testa sotto la sabbia. Temi, inoltre, che restituiscono, a chi vi si addentra, un significato non solo al proprio diventare vecchi e morire, ma soprattutto alla vita di ciascuno, nella sua pienezza.

Da un paio d’anni scrivo questo blog, ma ora sento l’esigenza di agire, negli anni che mi restano, per aiutare chi soffre e per condividere con quante più persone possibile un messaggio che mi ha cambiato la vita: la consapevolezza della morte ci insegna che ogni singolo istante è unico e, se sappiamo assaporarlo, restando nel presente, ciò che ci viene restituito è il tempo, che di solito fugge impietoso. E inoltre, se sentiamo (nel corpo, non solo nella mente) il senso della fragilità, della vulnerabilità umana, possiamo essere più solidali e responsabili, e dare il giusto peso alle relazioni (in questo mondo frammentato, regno dell’autismo di massa).

Molti sono coloro che mi hanno invitata a fare qualcosa di più sull’invecchiare e il morire, temi sui quali le persone, oggi, desiderano riflettere. Mi hanno convinto facilmente, perché ci stavo pensando. Ho pensato a un’associazione, che trasformi i mei studi in aiuto a chi attraversa una difficoltà o un dolore, e in azione sociale.
Vorrei, prima di definire in modo preciso il profilo di questa associazione, avere le vostre considerazioni. E, vi prego, andate a ruota libera. Se esistesse una siffatta associazione (chiamiamola INFINE Onlus…), quali dovrebbero essere le sue priorità?
Quali i temi su cui impegnarsi a fondo, sia in ambito sociale sia sul piano della ricerca e della divulgazione?
Quali i contesti in cui agire? Quali battaglie condurre? Con quali strumenti?
Vi sono grata in anticipo per le vostre opinioni e i vostri suggerimenti, che sono certa arriveranno numerosi.
A presto in associazione!

Per favore non dite niente

Ho letto d’un fiato il recente romanzo di Marco Ciriello, edito da Chiarelettere, che parla di malattia, di morire, di perdita, e di… calcio, e ho voluto intervistare l’autore.

Perché ha voluto scrivere questa storia? Un’affezione per il personaggio che l’ha ispirata? O piuttosto un interesse per l’esperienza della malattia e della morte di una persona insostituibile?

Questa storia l’ho scritta riconoscendo un dolore mio nelle parole di un’altra persona, ed ho cominciato un lungo percorso di immaginazione, ho messo insieme più storie e personaggi e il risultato è “Per favore non dite niente”. È un romanzo che contiene un mucchio di cose che esplora il dolore attraverso l’amore strutturandosi in ragionamenti filosofico calcistici. Senza André Gorz o Ernesto De Martino non avrei avuto la forza di pensare una storia così. C’è Carver applicato al calcio, e il calcio applicato al racconto carveriano sulla normalità della vita, in un percorso di perdita. Mi serviva una dimensione precisa, con una disciplina e degli obiettivi certi, per questo ho scelto il calcio.

Questo suo libro, frammentario, con molti salti temporali, sembra dirci che stare accanto a chi è malato, e poi muore, sia arduo, e produca una sorta di sgretolamento del mondo interiore. E’ così?

Sì, ho provato con la scrittura a restituire la perdita e il percorso della malattia. Ogni giorno di dolore è una discesa, uno spostamento. Il dolore e la perdita sono principalmente stupore, uno stupore che ci rende nomadi, non credo che ci renda migliori, nomadi sì, ci portano in spazi che non ci appartengono, stupendoci, e lì comincia un lavoro di adeguamento, senza essere mai educati, non c’è metodo, solo possibilità di provare e riprovare, cercando di adeguarsi, a volte riesce a volte no, con una amarezza di fondo, fino a quando il vuoto diventa presenza, con una lingua e una immagine diversa.

“Magari si potessero barattare le prodezze sul campo con un solo giorno in più con la donna che ami”. Il lutto non è dunque solo dolore bruto, ma anche potenziale ricchezza, cambiamento in grado di farci dare un nuovo ordine alle priorità, per maturare. E’ ciò che pensa?

Chiunque abbia avuto a che fare con l’irreversibilità della perdita entra in questa ottica, baratterebbe tutto per tornare indietro, c’è persino chi non ne esce più da questa fase, soprattutto se scambia la perdita per una punizione di Dio. Io ne ho avute di perdite devastanti ed è ovvio che abbia riflettuto a lungo su dolore e irreversibilità, in ogni romanzo c’è molto di quello che ci accade ma almeno nei miei niente è una confessione.

Il titolo “per favore non dite niente” richiama la convinzione del protagonista che chi cerca di esprimergli vicinanza dica in genere frasi inopportune, o poco sentite. Crede che sia molto difficile stare vicino a chi ha perso un congiunto?

Bisogna distinguere: io non mi riferisco all’elaborazione del lutto che ha bisogno di molte discussioni, né a come amici e parenti declinano il ricordo di chi è andato via, ma parlo del funerale, del congedo. Si dicono un mucchio di banalità davanti alla morte, è preferibile abbracciare, e parlarne dopo, magari senza improvvisare. Generazioni di filosofi e scrittori non sono riusciti a dare una risposta efficace, figuriamoci se può riuscirci uno che magari è andato al funerale per educazione e si sente elevato a rispondere a un mistero. Avrei preferenza di non conoscere quelle risposte.

Personalmente, non so nulla del gioco né del mondo del calcio. Ma ho pensato che questo libro abbia anche il pregio di parlare a un numero di persone maggiore rispetto a quelle raggiunte, di solito, dalla letteratura che tratta di malattia e di morte. Lo pensa anche lei? E’ un obiettivo che le interessa?

Non lo so, me lo auguro, quando scrivo penso alla credibilità di quello che racconto non al numero di lettori. In molti mi dicono di aver pianto durante la lettura, e poi di quello che hanno vissuto o rivissuto. Il mio obiettivo è scrivere storie credibili, mescolando persone vere e personaggi che invento, e nella confusione di tempo e realtà, nella riproduzione e invenzione di vite che credo si trovi la letteratura. Se non parliamo di morte e amore di cosa dobbiamo parlare? Mi hanno detto che la mia storia “ha la forza dei romanzi russi” non so se è vero, di certo ho molto studiato Dostoevskij e Albert Caraco che non è russo ma ne ha la forza, e molti altri, e nemmeno sto lì a gongolarmi, per questo che ritengo un complimento enorme. Penso che sì, magari è anche così, ma lo dirà il tempo che, come per la vita, è un critico spietato, obiettivo, concretissimo.

Quali nuove sull’eutanasia in Europa?

L’eutanasia attiva (uccisione mediante iniezione di farmaco letale) è legale in Olanda e in Belgio. In entrambi i paesi c’è stato, negli ultimi anni, un picco di richieste, accolte dai medici, di eutanasia e suicidio assistito. In Olanda si parla di un incremento del 75%. In Belgio s’ipotizza di estendere ai minorenni e ai malati di demenza senile la possibilità di accedere alla “dolce morte”.
Come interpretare questi dati? Come il fisiologico ampliamento di un diritto e della sua conoscenza da parte del pubblico? O come inquietanti segnali di uno scivolamento verso una gestione della morte troppo sbrigativa?
L’European Institute of Bioethics, che ha sede in Belgio, ritiene che non ci siano stati sufficienti controlli sull’applicazione della legge, e stima che l’8% dei pazienti non fosse in stato terminale e che nel 94% dei casi mancasse la domanda scritta, prevista dalla legge.
Anche in Francia c’è stata discussione, e si è creata una frattura tra Hollande (che ha annunciato per giugno 2013 un disegno di legge che prevedrà la depenalizzazione dell’eutanasia) e Didier Sicard, presidente onorario del Comitato di Bioetica Francese, contrario a questa decisione. Sicard ha piuttosto invitato il governo a perseguire una migliore applicazione dell’ottima legge Leonetti sulle cure palliative, del 2005.
Nel 2011 la Svizzera, dove è legale il suicidio assistito (insieme agli Stati di Washington, dell’Oregon e del Montana negli Usa), ha dibattuto sull’opportunità di fermare il “turismo della morte”: ma i cittadini hanno deciso, con un referendum, di non togliere agli stranieri l’opportunità di cercare nel paese la fine della propria sofferenza. Un’opportunità colta, come forse ricorderete, anche da Lucio Magri, uno dei fondatori de Il Manifesto.
Che dire di queste tendenze? Si tratta di riforme “ad alto tasso d’ideologia”, come scrive Francesco Ognibene su Avvenire, volte a distogliere l’attenzione dalla crisi economica?
O occorre tener conto della vasta popolarità della soluzione eutanasica tra i cittadini?
Rigidamente contrari all’eutanasia restano in Europa soprattutto i governi di due paesi, la Gran Bretagna, e l’Italia. La Gran Bretagna prevede fino a quattordici anni di carcere per eutanasia, assimilata all’omicidio. E’ noto il caso di Tony Nicklinson, che soffriva di locked-in-syndrome, e si trovava, lucido, prigioniero nel suo corpo immobile, a cui è stata negata la possibilità di morire.
Anche in Italia l’eutanasia è oggi accomunata con l’assassinio di consenziente. E tuttavia, se ne discute molto. All’interno della Chiesa vi sono posizioni diverse, benché accomunate dal rifiuto dell’eutanasia attiva. Basti fare due nomi, il cardinal Martini e il cardinal Bagnasco.
Recentemente, una proposta di legge d’iniziativa popolare per la depenalizzazione dell’eutanasia è stata depositata dalle associazioni Exit e Coscioni insieme alla UAAR (Unione degli Atei, Agnostici e Razionalisti). Ci vorranno 50.000 firme per portarla in Parlamento, e non è detto che i proponenti ci riusciranno.
Ma è davvero questa (l’eutanasia attiva) la priorità italiana (ed europea) a proposito di buona morte? Perché non concentrarci in primo luogo sulla diffusione delle cure palliative, che prevedono anche, contro la sofferenza, adeguate dosi di morfina e la sedazione terminale (che, a scanso di equivoci, nulla ha a che fare con l’eutanasia)? Perché non approfondire il ragionamento sul diritto di ciascuno a sospendere le cure salvavita, chiarendo che né Welby né Englaro furono casi di eutanasia? Perché non mettere l’accento sull’esigenza di una legge seria sul testamento biologico, diversa da quella in discussione (che di fatto nega valore al testamento stesso, considerato solo orientativo e non cogente per il medico)? Non è per caso perché dire SI all’eutanasia richiede meno riflessione, e permette di dare il proprio parere senza aver veramente fatto i conti con la morte?

Before I die I want…

Cari amici, buon inizio anno, tempo di bilanci e di progetti.
Voglio raccontarvi un’iniziativa che mi ha conquistata. L’idea è di Candy Chang, un’artista e designer. In un agosto sonnacchioso, all’improvviso, Candy perse una persona a lei cara: il suo pensiero andò a tutto quello che quella donna avrebbe ancora voluto fare: imparare a suonare il piano, vivere a Parigi, vedere l’oceano Pacifico. Fu un’occasione per pensare alla morte e per riflettere sulle priorità della vita, sulle cose veramente importanti. Solo che, anche quando ebbe capito cosa veramente contava per lei e cosa no, si accorse di trascurarlo, di perdersi facilmente nei meandri della quotidianità.
Allora Candy ebbe un’idea. Per non dimenticare, volle condividere con quanta più gente possibile la sua riflessione. Trovò, nel suo quartiere a New Orleans, una casa abbandonata, e trasformò un muro esterno di questa casa in un’enorme lavagna, sulla quale scrisse: “Before I die I want to______” (Prima di morire voglio______), seguito da uno spazio bianco. Chiunque passasse di lì poteva prendere un gessetto e terminare la frase, riflettere sulla vita e condividere le proprie aspirazioni in uno spazio pubblico.
Era un esperimento, Candy non poteva essere certa che riuscisse. Ma già il giorno dopo, la lavagna era zeppa di scritte e considerazioni, alcune spiritose, altre commoventi. Quello spazio abbandonato era divenuto un luogo costruttivo, meditativo, intenso, capace di illuminare la vita, e di mostrare a ciascuno che non siamo soli nelle nostre battaglie e nelle nostre speranze.
Ora lo propongo a voi, in uno spazio virtuale come questo blog: cosa vorreste, più di ogni altra cosa, prima di morire?

I cinesi, la morte: un mistero?

Una delle vette dell’intolleranza, nel nostro paese, è quella che riguarda le elucubrazioni e le battute di spirito sulla morte dei membri della comunità cinese.

I cinesi sono immortali? O bruciano clandestinamente i morti per riciclarne i passaporti? Addirittura i più volgari insinuano perfino, credendosi spiritosi, che i defunti siano serviti nei ristoranti cinesi agli ignari avventori occidentali.

Su questi temi Associna, associazione dei cinesi in Italia, ha scritto una lettera di denuncia e protesta. I cinesi considerano sacri i propri defunti, che diventano spiriti antenati e protettori dei vivi. Per questo le insinuazioni nostrane, anche se sussurrate o scherzose, feriscono profondamente la comunità cinese.

Ma perché sono così rare le morti cinesi in Italia, e perché non ne parlano? I cinesi considerano la morte un tabù, una sfera da non nominare, che porta sfortuna. Le madri insegnano ai figli a non dire “ho fame da morire”, ma semplicemente “ho fame”.

L’auspicio è quello di morire nel proprio paese e nella propria casa, circondati dai propri cari. Così i cinesi, che in Italia portano avanti imprese familiari, raggiunta la maturità cedono l’attività ai figli e tornano in Cina.

Tuttavia i rappresentanti della comunità cinese di Mantova, in un seminario organizzato dall’associazione “Gli Sherpa”, ci hanno raccontato alcuni aspetti dei riti per i defunti. Nello Zheijang, regione orientale della Cina da cui provengono la maggior parte degli immigrati in Italia, ai morti vengono dedicati altari e tombe grandiose, prevalentemente sulle montagne. La festa dei morti si celebra in aprile. Le famiglie, tutte riunite, salgono sulle montagne con la colazione al sacco, accendono due lumini presso le tombe, bruciano rettangoli di carta gialla che rappresenta il denaro offerto per la vita dei defunti nel mondo degli antenati, e raccontano a questi ultimi come si è svolta la vita familiare nell’ultimo periodo.

Non ci hanno narrato, però, del funerale vero e proprio, generalmente sontuoso ed elaborato, che comporta ingenti spese e cortei con canti, suoni e scoppio di petardi. Il colore del lutto, come in buona parte dell’Oriente, è il bianco, cioè l’assenza del colore. Il pianto è sentito come necessario, e come giusta espressione del rimpianto. Nella Cina contemporanea, come in situazione di migrazione, si tende a semplificare questi riti. C’è nei cinesi un forte spirito di adattamento, e la semplificazione è accettata di buon grado, come è accaduto a Bolzano, dove un ristoratore cinese è morto vittima di un pirata della strada, che viaggiava contromano in autostrada. Il funerale è stato celebrato nella Sala del Commiato della città.

Perché questo blog?

Non possiamo continuare a far finta di niente.
A ritrarci con disagio o a fare scongiuri se qualcuno nomina la morte, come avesse agito in modo sconcio o molto imbarazzante.
A rimandarne il pensiero.
A evitare i conoscenti in lutto (oddio cosa gli dico?)
A raggirare noi stessi, come se la vita e la morte non fossero strettamente interconnesse e saldate insieme.

Interveniamo su questa vuota convenzione sociale.
Qui vogliamo rompere il divieto, ignorare il sorriso ironico di chi non vuole saperne di essere mortale.
Vogliamo aprire uno spazio dove sia possibile parlare, discutere, accalorarsi, piangere, ridere, riflettere, cambiare.
Vogliamo stare vicino a chi è triste perché ha perduto qualcuno che era importante.
Vogliamo imparare a convivere più serenamente col tempo che scorre e porta cose buone e cattive, e poi le porta anche via.
E’ il nostro vivere, è il nostro invecchiare. Ci sono la paura, il dolore, il disincanto del mondo, la solitudine, la malattia; ma accanto, a volte dentro, il coraggio, la gioia, il mistero, la saggezza, l’amore.
Vogliamo imparare a ricordare e dimenticare, onorare i nostri morti e andare avanti a vivere.
Vogliamo parlare di religioni e di laicità, purché vere, aperte, tolleranti. Vogliamo ragionare di etica, aggirando i pregiudizi e lasciandoli stecchiti sul terreno.
Vogliamo riflettere sui nuovi riti che si affacciano al nostro tempo.
Vogliamo dibattere di arte, letteratura, fotografia, cinema, perché oggi molti artisti trovano nuove lingue per dire morte.