After life, una salubre rappresentazione del lutto, di Davide Sisto
Il 14 gennaio scorso è uscita la terza stagione di After Life, la serie tv Netflix scritta e diretta da Ricky Gervais, uno dei comici britannici attualmente più noti al mondo per la sua geniale irriverenza. Il successo mondiale di After Life è riconducibile al modo in cui, nel corso delle tre stagioni, è stato raccontato un lutto, quello vissuto dal protagonista Tony – interpretato dallo stesso Gervais – nei confronti della moglie Lisa, morta prematuramente a causa di un tumore. Sotto i video dei trailer su YouTube e nelle pagine social dedicate alla serie e ai suoi protagonisti si contano decine, se non migliaia, di commenti da parte di persone di tutte le età le quali ringraziano di cuore Gervais per l’aiuto dato attraverso la serie tv, raccontando a loro volta le proprie personali perdite. In particolare, molti utenti sostengono che i contenuti narrativi delle tre stagioni sono dotati dell’encomiabile capacità di trasmettere un gigantesco senso di liberazione e di emancipazione. In parte, ciò dipende da una sceneggiatura che dosa sapientemente i momenti drammatici con gli istanti scanzonati, questi ultimi al limite del politicamente scorretto. Un mix che, nel delineare i contorni della tipica dark comedy britannica (in stile Funeral Party), riesce a risultare convincente nella descrizione di quel carattere agrodolce che caratterizza ogni evento della vita. In parte, dipende dal legame tra Tony e la perdita: Tony soffre e non vuole razionalmente smettere di soffrire, vuole essere libero di soffrire come e quanto vuole. La rappresentazione del lutto elude qualsivoglia semplicistica chiave di lettura volta a una riappacificazione con le dinamiche della vita che spesso, nelle sceneggiature cinematografiche, risulta stucchevole, moralistica e irreale. Tony è lucidamente consapevole del carattere irrimediabile della perdita e del significato radicale della morte, quindi della fine ultima del mondo in cui ha vissuto insieme a Lisa. Non pretende un suo ideale ritorno, si limita ad accettare le dure leggi della vita, sentendosi libero di provare dolore, di tener conto della possibilità del suicidio, senza necessariamente rendere conto agli altri. Generoso ed empatico verso le persone della sua cittadina di provincia ma totalmente autocentrato per quanto riguarda i suoi sentimenti, egli si perde amaramente nella visione ripetuta dei video registrati insieme a Lisa o, in alternativa, dei video che Lisa gli ha preparato prima di morire per sostenerlo, conoscendo il suo carattere autodistruttivo. È ferreo, al limite della pedanteria, nel non voler trasformare un’amicizia in una nuova relazione sentimentale, perché semplicemente non vuole avere un mondo diverso rispetto a quello che ha avuto con Lisa. Le sue uniche vie di fuga sono le lunghe passeggiate solitarie con il suo adorato cane e i dialoghi filosofici con un’anziana vedova che incontra ogni giorno al cimitero e che cerca di fargli vedere la realtà da un’altra prospettiva. Nel corso del tempo le persone che vogliono bene a Tony riusciranno – almeno, in parte – a scuoterlo, a mutare la sua generosità innata in una nuova ragione esistenziale, benché il suo disincantato nichilismo non riesca mai del tutto a nutrire il barlume della rinascita.
Ora, ciò che rende brillante After Life, a mio avviso,non è certamente l’idea che non ci sia speranza di superare la sofferenza per un lutto importante e che non si debba cominciare a vivere in un nuovo mondo senza il proprio caro. Semmai, è la capacità di non reprimere in alcun modo il legittimo e autonomo bisogno di sentirsi disperati all’interno di una società che, totalmente votata alla performatività e alla forza psicofisica di stampo machista, vede il dolore come un negativo segno di debolezza. Tony accoglie con lucidità il carattere radicale della morte e l’irrimediabilità della perdita. Il suo legame con Lisa, nella dimensione successiva al lutto, non si traduce nell’infantile non accettazione, aspetto che ritroviamo in molte narrazioni o riflessioni sulla perdita dei propri cari (mi vengono in mente Elias Canetti con il suo libro incompiuto contro la morte o alcune riflessioni contenute in Dove lei non è di Roland Barthes). È invece un legame che tiene conto in maniera razionale che non si può tornare indietro, che le regole del gioco sono queste. Le soluzioni sono allora due: voltare pagina adattando a sé – il più velocemente possibile – il fastidioso motto the show must go on o rinunciare a farlo, per un certo lasso di tempo o addirittura per sempre. Tony sceglie la seconda soluzione, convinto che sia lui a dettare i tempi alla sua sofferenza e alla sua eventuale ripresa. Se nessuno di noi può reclamare dei diritti nei confronti della vita mortale e se è una favola da cartone animato l’idea che l’amore più puro renda immortale nel qui e ora un legame sentimentale, allora ogni singolo individuo ha il diritto di fare della propria sofferenza ciò che vuole, a prescindere dal bon ton produttivistico delle società in cui viviamo. Si può anche decidere di non essere positivi, di non essere forti. Ma questo non è un inno alla debolezza, al suicidio, alla fragilità, è semmai la consapevolezza che ci sono tempi e modi diversi per affrontare la sofferenza soggettiva. E l’aiuto altrui diventa fondamentale rispettando questo bisogno di far proprio il dolore, non prevaricandolo. Semmai, trovando il percorso che meglio aderisce al carattere di chi sta soffrendo. In questo senso, si capisce perché le persone che hanno apprezzato After Life parlino di senso di liberazione e di emancipazione. Il tema è certamente delicato e può anche essere letto come una nociva individualizzazione del lutto che toglie peso al benevolo sostegno dello spazio pubblico. Ma, come sempre, si possono trovare delle vie di mezzo tra ciò che impone la società per il bene del singolo, spesso non rispettando i suoi bisogni, e ciò che pretende il singolo di contro alla società, rimanendo intrappolato nel labirinto dell’autodistruzione. Gervais mira, durante le tre stagioni di After Life, a cercare questa mediazione tra due vie che risultano entrambe fallimentari. E lo fa evidenziando quanto sia difficile raggiungerla.
Dal mio punto di vista, si tratta di una narrazione molto matura per quanto concerne la perdita. Voi cosa ne pensate? Avete apprezzato After Life? Fateci sapere.
Mi sono preventivamente confrontato con Davide prima d’inserire questo post in modo da essere certo di non scrivere un commento inadatto rispetto allo spazio che viene qui offerto. E quindi dopo lo scambio positivo che abbiamo avuto, includo un capitolo del mio libro ‘amore della mamma’, dedicato specificatamente ad After Life (riferito alla seconda stagione perché l’ho scritto prima che uscisse quest’utlima) e alla persona di Ricky Gervais.
E’ una riflessione autobiografica nel senso che non mi era interessato allora analizzare e riflettere sulla serie e sulle implicazioni varie legate al lutto, che Davide ha già qui esposto molto lucidamente, ma far emergere come le varie puntate ma anche Ricky Gervais come singolo individuo avevano interagito e smosso la mia vita passata e presente e come ancora lo fanno.
Scrivere quel capitolo, come tutto il libro d’altronde, fu veramente (e parzialmente) catartico.
ehi Ricky
Ehi Ricky, Ricky Gervais, tu parli, parli parli, parli, parli parli parli parli ed io non sono mai rimasto così, senza parole e pensieri. Pensavo di aver già visto tutto e che niente mi avrebbe più dato qualcosa perché ne ho guardati, minchia se ne ho esaminati di film, documentari, video amatoriali, spettacoli, interviste sul lutto e compagnia bella. Sono trentacinque anni che ne vedo e li cerco. Ma da quando ti ho incontrato, un po’ per caso, un po’ perché non c’è serie di qualunque genere che sopporto più di dieci minuti, sono ancora lì, a osservarti mentre interpreti un uomo che vuole suicidarsi perché sua moglie è morta di cancro.
Non c’è stata puntata in cui non abbia pensato cosa potevo fare per contribuire alla diffusione nel mondo della serie After life che hai scritto, prodotto, diretto e interpretato.
Mi prende una sorta di non so che, che arriva da non so dove e si esprime non so come ma alla fine ha proprio ragione Emily, Emily Dickinson.
Sempre.
È un brivido lungo la schiena che ti fa riconoscere la vera poesia.
A dire il vero i miei non sono brividi e se sento qualcosa non è sul groppone ma questi sono dettagli. È che il vero, il semplice, il bello, mi fanno vivere da smarrito. Non so cosa dire in quei momenti, i pensieri sono tutti fottutamente stupidi, regredisco alla fase adolescenziale, gli occhiali si appannano e ho bisogno di una sedia.
Ma i guai, si sa non vengono mai da soli.
Infatti fu uno shock ulteriore e supremo scoprire che avevi ricevuto premi ovunque, dagli Emmy Awards ai Golden Globes, che hai il costante supporto di centinaia di migliaia di fans nel mondo non perché mai, per una volta in due serie, una sola volta sorridi o ridi o scherzi, ma perché sei un comico.
Cosa c’entri tu con tutto questo? – mi ero chiesto la prima volta che scoprii la stramberia ed ero pure assai incazzato.
Lascia stare Ricky, lascia che di queste faccende se ne occupi chi ne sa, chi le vive, le studia e le cerca. Lascia stare: l’angoscia sta con l’angoscia, l’allegria con l’allegria. Le macedonie fanno schifo: un pezzo di qui, un pezzo di là e alla fine non sai cosa metti in bocca.
Comunque la questione è che tu Ricky, Ricky Gervais, sei proprio fatto così: te la ridi di tutto o quasi e godi da matti. Sei felice di spassartela e si vede proprio. Che poi tu abbia trasformato tutto questo in un remuneratissimo, talentuoso lavoro, ben per te.
Ma chi se ne frega. È la tua predisposizione che mi turba, la struttura naturale della tua anima geneticamente consacrata a risa e ilarità. Il piacere è la tua tensione e la costante delle giornate: non c’è un momento, che sia di lavoro, in famiglia, prestabilito o spontaneo, che questo bisogno fagocitante, libero e luminoso non invada te e chiunque ti stia intorno.
Si diffonde come le onde concentriche nell’acqua piatta dopo che arriva dall’alto un sasso. Io però non sopporto chi lancia i sassi, turba l’armonia e ride troppo, cioè più di tre volte al giorno; non riesco a tollerare chi si diverte, non ci trovo niente di spassoso, proprio no, neanche un po’.
Mi ricordo quando ero ragazzo: Angela si chiamava, probabilmente.
Hai rotto il cazzo, le dissi una volta.
Con entrambe le mani che vanno un po’ verso l’alto, ad accompagnare le parole per renderle più vere. Il concetto era: non ne posso più di vederti ridere e sorridere ed essere felice e divertirti e godere di ogni cosa come se fosse una meraviglia ed essere serena e quieta e stare bene con me dimmi quanto stai bene con me come siamo fortunati non lo avrei mai creduto godiamoci questo dono teniamocela stretta questa gioia teniamocela stretta non facciamola scappare.
Hai rotto il cazzo, le ripetei.
Non mi piace ridere, non mi piace vederti ridere, non mi piace vedere gli altri mangiare, non sopporto quel rumore fottuto e sordo della bocca e della lingua che sbrodagliano il cibo, nessuno chiude mai la bocca quando mangia, ma da dove arrivi che non sai neanche tenere la bocca chiusa quando mangi e quando ridi, deglutisci in silenzio ridi in silenzio pensa in silenzio respira piano che anche quando respiri si sente il rumore.
Mi tagliano come succede alla pelle quando il bordo millimetrico di un foglio di carta scivola sulla mano: la cute si apre, brucia un casino ma il taglio praticamente non si vede perché è sottile, la lacerazione è così fine che sembra non esista. Perché se la ferita non si vede, si sa, la ferita non esiste. E se ti lamenti con qualcuno, un po’ ti senti imbarazzato perché sai già che ti dirà:
– Ma dai, non c’è neanche il sangue!
E pensa che sei un fifone, che la tua capacità di sopportare il dolore è ridicola, quel ridicolo che non fa ridere. Allora ti trattieni, tieni il male per te per evitare di dare l’idea di essere una fighetta. Perché se non ti lamenti, si sa, il lamento non esiste.
Le risate altrui intendo, sono quelle che mi tagliano. Non sono affatto invidioso di chi è così, ci mancherebbe, ma figurati, è che proprio non capisco. Cioè, non è che mi sfugge perché uno dovrebbe spassarsela, che so, a prendere in giro qualcuno che non ha la forza di replicare, a raccontare una barzelletta dove tu ridi ancora prima di dirla così fai capire che sei tu a te stesso tanto divertente e cose del genere. Non è questo, è che sono troppo stupefatto e stordito che si possa o nascere così o addirittura diventarlo. Non so cosa sia peggio.
Perché se siete nati così, Ricky, Ricky Gervais ed Angela (forse), Angela Nonsochi, allora non esiste Dio, e questo è un brutto guaio. Ma anche se esistesse, io non sono interessato ad un Dio così, e questo è un altro bruttissimo guaio, soprattutto pensando all’eventualità della vita eterna. Non ti voglio, o Dio, così: uno che distribuisce la gioia e il divertimento e li instilla nei cromosomi di chi, non si sa, come li sceglie, è buio pesto, perché io no, è notte fonda.
Non ride mai, dicevano alla mia mamma e al mio papà i loro amici quando ero piccolo.
Insomma voglio dire, in altre parole, che non ero il massimo della simpatia, non veniva voglia a nessuno di chiamarmi per giocare, chiacchierare, mangiare il gelato (sicuramente avrei accettato pur con il rumore assordante delle leccate e la visione inammissibile delle lingue gocciolanti di rosso, marrone, verde). A dirla tutta, non è che mi sconvolgevano queste assenze, anzi, mi trovavo proprio bene, senza persone e senza gelati.
Mica ho subito un trauma per questo. Però non l’accetto ‘sta cosa di essere in difficoltà quando riconosco la leggerezza e la gioia, che sono diverse, lo so benissimo, ma hanno un comune denominatore: mi fanno stare bene (‘grazie al cazzo che ti fanno stare bene’ mi avrebbe detto Angela che, pare fosse lei, non aveva peli sulla lingua).
La bellezza non salva il mio mondo. Lo disgiusta.
C’è un’energia inoculata in ogni frutto amabile, incantevole, commovente e ingegnoso sulla terra, non importa se si muove o meno, che spinge nella sua esatta direzione opposta.
Avvertivo come una forza che mi respingeva, mi disse settimane dopo che ci eravamo lasciati. Si riferiva all’ultima sera nello stesso letto, quando cercò di avvicinarsi. Io non ricordo niente di allora ma questo non l’ho dimenticato: ero girato dall’altra parte, mi raccontò, probabilmente dormivo, di certo ero inconsapevole. Di me e di questa forza.
Non sarò mai come Ricky Gervais. Devo mettermi il cuore in pace. Per destino, scelta divina, dinamiche familiari, influenze socio-culturali, non sarò mai in grado di godermela così tanto.
Anche quando beve la birra, lo vedo nelle dirette su Facebook, non la beve come me: ha il suo bicchiere, sempre quello, che prende proprio perché gli piace bere da lì, da nessun altro calice al mondo se non da lì. Il vetro è opaco perché l’ha messo preventivamente in frigo sino a creare la giusta, fresca temperatura; la birra ha sempre quel meraviglioso colore arancione pieno, la schiuma compatta e discreta, di pochi centimetri, non come le terribili birre tedesche da pizza con quell’effervescenza che sembra plastica, alta una spanna, piena solo di aria e di niente. E beve un sorso alla volta, poco, con una lunga pausa tra l’uno e l’altro che è già piacere, gode nell’attesa del piacere che lo farà godere.
È un altro mondo il suo e quando lo vedo su YouTube, devo stare attento: se mi capita di incontrarlo alla sera, prima di andare a letto, io disteso sul divano, da solo, dopo aver bevuto una birra – fresca, arancione, con schiuma compatta – sono garantiti i guai notturni.
La sua capacità, chissà se è un dono, di attraversare la vita con quel desiderio stupendo e quella passione incrollabile di divertirsi, stare bene ed essere felice come se niente valesse di più, mi fa piangere, mi fa incazzare, mi disturba e attrae senza dignità. Vado allora su ‘cerca’ e clicco MMA Fighter, Jahal Prank, goal impossibili, poi ritorno da Ricky mi allontano ritorno mi allontano e così via sino a quando l’iPhone ordina di andare a nanna.
Spengo tutto, do retta agli ordini.
Vado a letto, penso al mio amore: hai rotto il cazzo, le ho detto proprio ieri.
Si era girata di colpo, incredula e furente, per cercarmi con lo sguardo: l’aspettavo.
Occhi negli occhi.
Ancora un poco e ce la facevamo addosso.
Ti ringrazio molto per il tuo contributo. Come ti ho scritto in privato, apprezzo la chiave di lettura che dai a Gervais e alla sua serie tv. Un caro saluto.