Il lutto delicato per gli animali domestici, di Davide Sisto
Cinque anni fa ho pubblicato sul blog un articolo sul lutto per gli animali domestici, partendo da un mio racconto personale. L’articolo ha generato una discussione – tutt’oggi in corso – che conta diverse centinaia di interventi, a dimostrazione di quanto l’argomento sia sentito. Vorrei, pertanto, tornarci a partire da una mia nuova esperienza.
Da circa un anno ho in casa un gatto, di nome Apollo, che ha 18-19 mesi. Il suo arrivo è stato improvviso e non pianificato: io e la mia compagna lo abbiamo salvato da un abbandono da parte dei suoi precedenti proprietari. Tuttavia, la sua adozione è avvenuta in una fase per noi emotivamente delicata: solo dieci giorni prima ci era morta, di colpo, una gattina – Lagertha – di sette mesi a causa di una leucemia fulminante. Un’esperienza terribile e dolorosa, per come si è evoluta rapidamente la malattia e si è ridotto il corpo di quella cucciola, quasi quanto quella relativa alla morte di un essere umano.
Proprio le emozioni che abbiamo provato, oltre alla lettura dei tanti racconti lasciati dai nostri lettori sotto il precedente articolo, mi spingono a ragionare ulteriormente sul perché questo tipo di lutto sia percepito dalla collettività come importante e delicato. Un lutto che, perciò, non va sottovalutato né ridimensionato per non creare un surplus di sofferenza rispetto a quella che già di per sé produce.
Un primo elemento fondamentale è il senso di accudimento prodotto dall’animale domestico nell’essere umano. Ci si sente responsabilizzati nei confronti di un essere vivente che ci appare, in nostra assenza, privo di autonomia, dunque incapace di nutrirsi, di creare relazioni interpersonali, di vivere bene. Proprio come avviene con i bambini. Non rappresenta una semplice compagnia. Ci sembra proprio bisognoso di quell’insieme di cure che stimola il nostro spirito genitoriale. Questo rapporto non paritario chiama immediatamente in causa un secondo elemento importante: la proiezione. In altre parole, proiettiamo sull’animale domestico quanto non troviamo più o non abbiamo mai trovato nelle relazioni tra esseri umani. I gatti e i cani non ti giudicano. Basta che tu li nutra e che li tratti con attenzione e loro restituiscono immediatamente l’affetto. Ti fanno percepire quanto dipendono da te e quanto hanno necessità che tu ci sia. La relazione con loro è, dunque, l’esatto contrario dei legami intricati e complessi che sviluppiamo all’interno delle famiglie, del mondo lavorativo, delle coppie, tra amici, ecc. Questi non sono mai legami lineari di causa ed effetto. Non sono razionalizzabili, dunque comportano dinamiche imprevedibili che – il più delle volte – generano delusioni, sofferenze, amarezze, forme di disincanto. Gli animali domestici, pertanto, sembrano sopperire a quelle ripetute sensazioni di fallimento che si reiterano costantemente man mano che passano gli anni, rendendoci guardinghi o addirittura indifferenti nei confronti dei nostri simili. Un mese fa sono stato a Seattle e mi ha colpito moltissimo una contrapposizione: da una parte, la cura meticolosa da parte degli autoctoni nei confronti dei loro cani. Non c’è luogo cittadino in cui non si veda un umano che corre insieme al proprio cane, tenuto benissimo. La città è, inoltre, piena di asili lussuosi per i nostri amici a quattro zampe. Dall’altra, l’abbandono totale di migliaia di homeless per le vie cittadine nell’indifferenza generale.
All’accudimento e alla proiezione si aggiunge un terzo elemento su cui occorre riflettere: la solitudine. Le precedenti riflessioni sulle difficoltà relazionali tra esseri umani, all’interno di una società basata sulla performatività individuale e sempre più priva di legami sociali forti, non possono che spiegare l’empatia nei confronti di un gatto o di un cane che dorme insieme a te sul tuo letto, che ronfa o scodinzola se non lo trascuri, che ti tiene compagnia senza chiedere nulla in cambio, a parte le esigenze primarie per la sopravvivenza. La sua morte è, pertanto, drammatica perché spezza un legame percepito quasi come puro, come disinteressato, come immediato.
Riflettere sull’importanza del lutto per un animale domestico diventa, in definitiva, l’occasione per ripensare al nostro modo di vivere nelle società umane. Dunque, per ripensare a tutte le mancanze, privazioni e assenze che, nel corso della nostra vita, ci portano a preferire la compagnia di un animale non umano a quella di un nostro simile. Forse, senza sottovalutare in alcun modo la relazione con il gatto e il cane di casa, occorre anche chiedersi se non sia necessario un impegno collettivo per rifondare le basi dei legami intersoggettivi nello spazio pubblico. Quindi, è necessario domandarsi se sia veramente corretta la sproporzione emotiva e sentimentale che spesso viene a crearsi tra le due differenti forme di relazione.
Il tema è importante, dunque attendiamo le vostre riflessioni in merito.
Caro Davide, mi ricordo benissimo. E apprezzo il fatto che impegni la tua grande intelligenza per ricondurre anche questo tema a quello più vasto delle relazioni. Ma il gatto è come Maradona: da qualunque angolo lo guardi, è superiore; puoi trovargli tutti i limiti, però non ha termini di confronto. Il gatto è La Mano de Dios.
E quando La Mano de Dios se ne va da questo mondo, si porta via qualcosa di unico.
Post Scriptum: Seattle è la città in cui fu girato “Il Piccolo Buddha”, proprio per contrapporre la perfetta compassione all’estremo egoismo che la permea e che nel film sta per schiacciare i genitori del bambino: una città gelida, livida, che ha spinto all’autodistruzione persone dotate e sensibili. Lo sai, che nell’immaginario tibetano esistono sedici inferni di fuoco e sedici inferni di ghiaccio? Se volessimo collocare uno degli inferni di ghiaccio nel mondo che possiamo percepire, Seattle sarebbe un luogo di dannazione ideale. Ma ogni manifestazione è illusoria, nella saggezza i fenomeni sono vacuità e il dualismo è apparente. Proprio in un posto dannato come Seattle, in compassione, si manifesta il Budda. La relazione che respingiamo davvero è la relazione con noi stessi. La manifestazione del Budda è lo sguardo rivolto all’interno, l’accettazione dell’essere oltre il “me e te”, come i bambini che incarnano i diversi aspetti imparano a riconoscersi l’uno nell’altro. Solo in questo modo si può affrontare l’impermanenza, la morte, lo svanire dell’individuo nel ciclo infinito della vita.
Grazie, Antonella, per la riflessione. Riguardo a Seattle potrei scrivere un libro. Ma c’è soprattutto una profonda affinità nordica che è alla base di tutto il bene (e anche il male) che potrei dire.
Grazie, prima di tutto, per questo contributo, come sempre pacato, intenso, meditato, capace di interrogare.
Partirei dalla domanda posta garbatamente nel testo e, in modo più esplicito, in coda, che mi permetto di radicalizzare: vogliamo bene più ai nostri amici pelosi che agli altri esseri umani? Se è così, non è qualcosa di irriverente?
Con mia moglie e con me vive una cagnolina, Lilli, che abbiamo accolto quando mamma è mancata. La chiamiamo “l’eredità”. La chiamiamo anche “la nostra terza figlia”. L’affetto sincero che abbiamo nei suoi confronti ci interroga: dovremmo sentirci in colpa perché proviamo più affetto per lei che per altri esseri umani? Forse pecchiamo di antropocentrismo?
Credo che ci troviamo di fronte a contraddizioni insanabili, nelle quali è molto difficile mettere ordine: ci nutriamo di animali, ma nei confronti di alcuni di questi abbiamo un tabù; amiamo i nostri animali di affezione più di altri esseri umani, ma gli animali e gli esseri senzienti che non entrano in relazione con noi è come se non esistessero; siamo (spesso) contrari alla caccia, ma non all’allevamento intensivo; elaboriamo il lutto per la perdita dei nostri amici a quattro zampe, ma non prendiamo posizione netta non dico contro ogni guerra, ma nemmeno contro una società sempre più ineguale; non consideriamo gli animali soggetti di diritto, ma chiediamo provvedimenti drastici se un lupo aggredisce una pecora e l’abbattimento dell’orso che si avvicina troppo alle nostre case.
Grazie mille per le riflessioni e per i tantissimi spunti la cui complessità è, di fatto, inestricabile. Grazie!
Caro Davide,
che argomento ricco d’infinite riflessioni che hai tirato fuori dal cilindro, grazie!
Ho una sensibilità profonda legata agli animali che considero nostri fratelli, non solo quelli domestici, pur non definendomi un “animalista” di quelli integralisti.
Da piccolo ero smisuratamente affascinato dalle laboriose formiche, cui portavo spesso del cibo, nel meraviglioso parco dei nonni (purtroppo andato distrutto dopo una controversa eredità): da lì, forse, ho ereditato l’amore e il senso di meraviglia per la natura. Ma proprio a una gatta è legata la mia prima esperienza della morte. Avevo 6 anni e, con la mia famiglia, eravamo in trasferta nel Lazio per il lavoro di mio padre: avevamo un appartamento in affitto nei pressi di una famiglia frequentata da ogni sorta di animali: innanzittutto le galline spesso lasciate libere di razzolare. Poi, in primavera, l’arrivo rondini e quaglie e sul mare, i ricci, le “telline”, ecc. Lì una gatta ci scelse e, come spesso accade, s’installò in casa nostra. Rimase incinta e quando arrivò il momento del parto, tutto andò male: non si parlava , allora, di veterinari, specie fra gente di origini umili come i padroni di casa: la portarono a morire in campagna, o forse così mi fu raccontato. Travolto dal pianto non riuscii a dormire per varie notti, preoccupando mia madre. Fu un vero e proprio trauma, il primo contatto con la morte.
Mi rifeci dopo poco meno di 20 anni, quando un altro cucciolo di gatto, buttato nel giardino del condominio, ancora una volta ci scelse. Ma il giardino era frequentato dai cani, per cui fu relegato in cantina, e poco dopo traslocammo nella nuova casa. Con la scusa di portargli da mangiare, un giorno lo portai a casa nostra, e fu accettato e amato da tutta la famiglia. Fu una vita un po’ movimentata per tuttti perché mi rifiutai di farlo castrare, anzi gli insegnai ad uscire: conseguenze, frequenti ferite nelle lotte con altri gatti e con un cane lupo, una pallottola nel costato di un vicino insofferente, e un avvelenamento. Ebbe una vita non lunga, ma intensa. Il lutto ci colpì ancora. Ma sapevamo che aveva vissuto e fatto parte della famiglia. Non sono di quelli che sostituiscono un animale con un altro, come se fosse un oggetto.
Più grande, ripiegai su animali meno impegnativi, i pappagallini (prima cocorite, poi i cosiddetti “inseparabili”), che lasciavamo uscire liberamente dalla gabbia. Uno ci stupì venendo volentieri a posarsi sulla nostra spalla. Quando morì, di un tumore, fu un altro lutto, non ne volli altri per molti anni, ma poi cedetti ancora, perché una casa senza animali mi sembra priva di vita. Anche i nostri balconi sono qualcosa che ha preceduto il Bosco verticale di Boeri: sone pieni di piante, con la sola differenza che non abbiamo un impianto di irrigazione, e devo innaffiarle io, e pagare qualcuno quando andiamo via. E’ popolato, nella bella stagione, da farfalle e dai cosiddetti “bombi” che qui stanno benone (mentre invece le api rischiano e sarebbe una catastrofe), e d’inverno da ogni specie di uccelli, dalle cince ai merli al pettirisso, al picchio.
Allargando il discorso – e andando un po’ fuori tema: ma, a proposito di morte, stiamo rischiando la morte del nostro habitat e di noi stessi- penso che ogni animale sia addomesticabile – o meglio, potenzialmente non nemico -, perfino – con qualche accorgimento – i più aggressivi (penso, ad es. al film “Balla coi lupi”). Ne ho avuto la riprova alle Galapogos, dove gli animali non temono assolutamente l’uomo, non essendo mai stati preda di caccia. Gli uccelli nidificano per terra, ti vengono incontro, curiosi, quando scendi sulle isole; si cammina in mezzo alle iguane assolutamente tranquille, le foche giocano con te quando si fa il bagno, le tartarughe giganti, dopo l’arrivo, con l’uomo, di cani e topi che mangiano le uova, sono allevate dagli uomini.
Abbiamo sviluppato un mondo “antropocentrico”, con una pretesa superiorità sugli animali, (e sulla natura) che maltrattiamo con gli allevamenti intensivi – sottraendo cibo alle popolazioni più povere – e con la caccia dissennata (penso in special modo agli elefanti uccisi per l’avorio e ai rinoceronti per il corno “afrodisiaco”). Penso anche alle foreste, specie quella amazzonica, sempre più devastata e decimata, con gli indigeni che vengono privati del loro habitat. Personalmente, mi fa male anche l’abbattimento, soprattutto se immotivato, anche di un albero, specie se scolare. Che non puo’ difendersi, né gridare. L’avidità e l’idiozia umana non hanno limiti. Centinaia di specie ogni anno spariscono o rischiano l’estinzione in un pianeta quasi ormai per loro (fra un po’ anche per noi) inabitabile. Facciamo guerra a tutto, ci crediamo “padroni” della Terra, che è solo un delicato puntino in precario equilibrio nell’Universo, di fronte al quale non siamo che microbi, anche piuttosto molesti. Certo, non dimentico gli umani, specie in questi giorni, oltre all’orrenda guerra in Ucraina (e alla situazione in Iran in Siria, in Afghanistan, in Africa), c’è anche la tragedia dei migranti, lasciati annegare nell’indifferenza della politica. Cecità, indifferenza di fronte alla vita altrui, così fragile e precaria. Come non riconoscere un proprio simile negli altri, specie se bisognosi?
In questo senso, vorrei rispondere anche ai tuoi interrogativi: più che addomesticarli, proiettando su di loro le nostre istanze e i nostri bisogni – gli animali dovrebbero essere lasciati liberi, nel rispetto del loro essere in natura. Ho usato il termine “essere scelti” da un animale domestico, perché è una cosa che mi commuove – forse perché è così raro fidarsi e affidarsi incondizionatamente a qualcuno e trovare quel tipo di “innocenza” -, ma del resto è vero che alcuni animali (il cane, il gatto) sono ormai inestricabilmente legati agli umani , e da loro dipendenti, almeno in Occidente. Nel nostro quartiere proliferano gli scoiattoli, quelli grigi, non autoctoni: viene naturale nutrirli, specie d’inverno, pur senza cercare di addomesticarli. Ma cerchiamo di non dimenticare gli uomini, specie quando hanno bisogno di aiuto.
Personalmente, da 25 anni non mangio carne, ma il pesce me lo concedo perché mi piace assai e mi appare “meno simile”: ma ugualmente un po’ mi dispiace.
Consiglio due documentari sul tema “My octopus teacher” (in italiano “Il mio amico in fondo al mare”), sull’incredibile amicizia fra un uomo e un… polipo. E “La pantera delle nevi”, girato da una donna (Marie Amiguet) con due avventurosi esperti di montagna (con una precisa visione filosofica della vita, del mondo e della sua fragilità) in una zona ancora isolata e impervia del Tibet, dove l’essitenza è quasi impossibile per l’uomo, ma la natura pur così aspra pullula di vita e di animali meravigliosi.
Perdonate la lunghezza, ma vorrei chiudere con dei bellissimi e preveggenti pensieri di Marguerite Yourcenar sul mondo e sugli animali (tratti dal libro-intervista, ormai fuori catalogo, “Ad occhi aperti”- Bompiani):
” Forse non sono nata per l’inquietudine. Per il dolore, forse, per l’infinito dolore della perdita, uomini e bestie, che mi sconvolge e m’indigna, per la sofferenza di sapere che tanti esseri umani sono così smarriti e così poveri.” “Ma non c’è mattino, da tanti anni a questa parte, in cui, alzandomi, io non pensi prima di tutto allo stato del mondo per partecipare, condividere per un istante la sofferenza universale. Pure, a volte, nonostante questo, si riesce ad essere felici, ma è un’altra specie di felicità”. “[La dipartita di un essere caro] è ogni volta una catastrofe non solo emozionale, ma anche metafisica: come comprendere la parola dipartita, la parola assenza? Ed è chiaramente un sentimento di cui non ci si dà pace, benché la vita, nel suo potente fluire, assicuri spesso, miracolosamente, un cambio.” “Pessimismo ottimismo… ancora due parole che rifiuto. Si tratta di avere gli occhi aperti. Ma, se posso usare questa parola così inadeguata, mi sento pessimista quando vedo quanto poco è cambiata la natura umana in tanti millenni. I più grandi riformatori si sono generalmente urtati contro la quasi impossibilità di cambiare l’uomo, e la loro lezione è andata perduta.” “Le civiltà antiche e orientali erano più sensibili di quanto lo siamo noi al carattere ciclico delle cose, alle generazioni divine e umane che si succedono, al mutamento in seno all’immobile. Non c’è che l’uomo occidentale che ha voluto fare del suo Dio una fortezza, e dell’immortalità personale un baluardo contro il tempo.”
“Inoltre, c’è sempre, per me, quell’aspetto sconvolgente dell’animale che non possiede niente, tranne la propria vita, che così spesso gli prendiamo. C’è quell’immensa libertà nell’animale, chiuso sì nei limiti della sua specie, ma che vive esclusivamente la sua realtà di essere, senza tutto il falso che noi aggiungiamo alla sensazione di esistere. Per questo la sofferenza degli animali mi commuove tanto. Come la sofferenza dei bambini: vi sento l’orrore del tutto particolare del coinvolgere nei nostri errori, nelle nostre follie, degli esseri che sono totalmente innocenti. Quando ci arriva addosso qualche calamità, possiamo sempre dire a noi stessi che abbiamo la nostra intelligenza per trarci d’impaccio, e, fino a un certo punto, è vero; possiamo sempre dirci, ed è pure tristemente vero, che siamo di fatto implicati, che tutti abbiamo, fino a un certo punto, fatto del male, o l’abbiamo lasciato fare, che è ancora peggio. Mentre rispondere con la brutalità alla totale innocenza del bambino o dell’animale, che non capisce che cosa gli stiamo facendo, è un crimine veramente ripugnante.”
Grazie davvero per questo contributo così ricco, che non fa che ampliare il tema trattato. Grazie!
Quando incontro persone in lutto nei colloqui e poi nel gruppo di mutuo aiuto, all’inizio sono come annichilite, senza voce , senza forza, non hanno parole, sono confuse, sono solo rabbia e dolore, hanno difficoltà anche a mettere insieme anche pochi ricordi. Ma ciò che mi sorprende sempre, anche se sono tanti anni che svolgo il ruolo di facilitatrice, è come poco a poco si instaura quella fiducia, quell’alleanza che ti consente di chiedere , approfondire, con risultati inaspettati, le parole che vengono fuori. Ultimamente ho suggerito di descrivere la loro perdita con una metafora. Una di loro, vedova da qualche mese, ha buttato giù un vero e proprio racconto, I due scalatori, la sua storia d’amore “interrotta”, come dice spesso Nicola, paragonata ad un percorso , all’inizio pieno di speranze, aspettative, progetti, facile, poi quando durante la salita , Iniziano le prime difficoltà , confidano in quella corda che li unisce e che pensano li salverà ma ad un certo punto la corda si spezza…. Il racconto si è rivelato una miniera di vocaboli , aggettivi, su cui tornare, e chiedere chiarimenti, senza timore,e come dice qualcuno di loro , “riescono ad aprire e loro anime lesionate “. Meraviglia e privilegio ed me.