Il pensiero magico e le parole immutabili nel lutto, di Nicola Ferrari
Riceviamo e pubblichiamo volentieri questo articolo di Nicola Ferrari, responsabile del servizio di sostegno al lutto dell’associazione Maria Bianchi. (Le immagini sono di Catrin Welz-Stein).
Le tre amiche salgono sul pulpito, alla fine del funerale.
Sono coetanee della ragazza di 20 anni morta nel sonno, di notte, nella casa dei genitori del suo fidanzato. Verrà trovata cadavere la mattina successiva dalla mamma del suo compagno, uscito presto senza svegliarla per andare a lavorare. Una ragazza atletica, appassionatissima di ballo moderno, che non aveva mai manifestato problemi fisici.
La chiesa del piccolo Comune è ovviamente gremita: c’è tutto il paese, sento dire da un vigile che cerca di gestire la viabilità davanti al sagrato. La bara, di legno semplicissimo e chiaro, è ricoperta di frasi scritte da tutte le persone sue amiche: ora balla lassù, ti amerò per sempre, insegnami a vivere, prenditi cura di noi, il cielo ora ha un’altra stella, quando ci rivedremo sarà meraviglioso, nell’attesa piango.
L’emozione, come accade ogni volta nella fase conclusiva del rito funebre, è palpabile tra la folla che riempie la chiesa e chi è rimasto fuori per mancanza di spazio. Una dopo l’altra le sue amiche leggono i pensieri che nei giorni successivi al decesso hanno affollato i loro cuori e le loro menti.
Sono al 90% le stesse parole che si leggono o si ascoltano in casi simili: cielo, stelle, cuore, amore, per sempre, ogni giorno, destino…; l’amica è stata fonte di gioia e affetto ineguagliabili, un essere umano meraviglioso e amabilissimo, i difetti e i limiti erano un niente se paragonati al resto, i ricordi sono indimenticabili, le esperienze vissute hanno indissolubilmente segnato la vita che c’è stata e tutta quella che verrà, l’aiuto ricevuto non sarà mai paragonabile a nessun altro, lo strazio della perdita resterà sempre dentro.
Non si tratta, ovvio, né di valutare né di mettere in discussione quello che ognuno di noi sente e pensa quando vive un lutto; ma è altrettanto ovvio che le parole che utilizziamo per esprimere quello che ci accade fanno la differenza. E la fanno nella misura in cui sono più o meno cor-rispondenti alla nostra personalissima vita interiore. Narrare ad esempio il dolore intimo con un linguaggio che è lo specchio fedele (o il più fedele possibile) di ciò che proviamo, significa riuscire a definirsi, a dare confini e caratteristiche al tormento e iniziare così ad affrontarlo.
Purtroppo è ancora molto presente in Italia un pensiero magico che attribuisce totale verità, assoluta immodificabilità a ciò che una persona in lutto narra scrivendo o parlando, come se da un lato fosse mancanza di rispetto per il suo dolore aiutarlo a trovare espressioni che comunicano con più precisione ciò che vive e dall’altro sostanzialmente inutile perché le parole sono, appunto, solo parole. Sperimento direttamente invece, da alcuni decenni, quanto una vera, precisa, dettagliata, approfondita scelta dei termini che si usano per raccontare, e quindi raccontarsi, durante il lutto crei una reale possibilità di cambiamento. Ciò che può fare la differenza è la correlazione tra vissuto e linguaggio che deve essere appunto vero, preciso, dettagliato e approfondito non per chi lo riceve ma per chi lo esprime.
Quando la forma, che tutto è meno che involucro, prima somiglia poi coincide con le emozioni profonde, può diventare poi un’opportunità importantissima per ridefinire la personale condizione senza la persona amata e attivare una riprogettazione esistenziale.
Ma perché tutto questo accada, serve interagire con il linguaggio che la persona in lutto utilizza considerandolo passibile di modifiche e approfondimenti.
Non posso più sentirti, non posso più vederti, non posso toccarti, dichiara a voce alta una delle sue amiche dal pulpito continuando a leggere quello che aveva scritto per l’occasione.
E allora cosa posso fare perché tu non te ne vada da me? Me lo sono chiesta tante volte in questi giorni, continua, e ho capito una cosa: posso vivere io la vita al posto tuo.
Dopo queste frasi ho visto nettamente dal fondo della chiesa dove avevo trovato posto, la reazione della folla che gremiva ogni spazio: teste che improvvisamente si alzavano, un’aggiunta di silenzio al silenzio già imperante, coppie e amici vicini che si toccavano lievemente e si scambiavano sguardi complici; all’esterno poi, in attesa dell’uscita della bara, quell’espressione era diventata il primo argomento di scambio. Ecco, a volte basta davvero poco: parole cor-rispondenti, sostantivi, aggettivi e verbi che restituiscono ciò che si sta provando e/o si desidera che accada perché, in queste come in tante altre situazioni della vita meno dolorose, si apra una sorta di nuova visuale, all’inizio incerta, appena accennata ma che può diventare in seguito una méta da perseguire.
Nella pratica però è molto più complesso da realizzare: ci sono pregiudizi e ostacoli di natura intellettuale, abitudini radicate dall’esperienza individuale, regole sociali non scritte assolutamente attive in tanti di noi che convergono tutte verso un unico centro: quello che una persona esprime durante la sofferenza è intoccabile, sacro, immodificabile.
Eppure esiste un’altra strada da perseguire: avvalersi delle situazioni che si incontrano nella vita, impegnarsi in un’attività costante di sensibilizzazione, creare occasioni formative, diffondere con strumenti diversi l’importanza e la straordinarietà di un approccio specifico al linguaggio che non si rifugia, come purtroppo accade, nelle analisi generiche, non si esaurisce nelle riflessioni esistenziali di natura filosofica, antropologica e sociale, non si limita a registrare e analizzare i fenomeni ma cerca di appartenere totalmente e fedelmente al suo proprietario. Perché il linguaggio, quando è la reale e certa espressione di ciò che siamo e vogliamo che accada, non solo consente alla sofferenza di evolversi ma incentiva e sostiene le azioni concrete da mettere in campo per continuare a vivere, non a sopravvivere.
Opporsi al pensiero magico, cioè al tabù che impedisce di intervenire sul linguaggio di chi soffre, è certamente arduo e per molti versi di scarsa efficacia immediata se paragonato a ciò che è dominante, ma ne vale la pena; vale la pena, con tutte le conseguenze annesse, dedicarsi a ciò che aiuta l’amore ad esserci quaggiù.
Cosa ne pensate?
grazie Nicola per la tua esperienza. Spesso o quasi sempre, sono colpita dai commenti a caldo di fronte al corpo freddo della persona morta, più o meno conosciuta, vicina ecc. La prima domanda che mi sorge spontanea è come mai chi muore è (stato) solare, altruista, pieno di vita…Tutto ciò, nell’immediato…Anche nelle commemorazioni/funerali. Io non trovo, non ho parole quando qualcuno, soprattutto conosciuto, muore. Mi rimane solo il silenzio. La parola richiede (anche) la fisicità della presenza del corpo. Il corpo caldo, vivo. Che non è più. Occorre silenzio, farsi vuoto insieme al vuoto della persona-corpo che non è più. La parola viene a mancare perchè la vorremmo indirizzare/rivolgere a chi non è più (e infatti quasi sempre nelle commemorazioni, funerali ci si rivolge al defunto) ma la sua assenza fisica smaterializza, scarnifica la parola fino a renderla vana, impronunciabile, indicibile (per me). Nell’immediato e per un po’ di tempo dopo. Occorre tempo per asssuefarsi all’assenza del corpo, dell’ascolto e della voce di “quel” corpo e permettersi di formulare parole rivolte (anche) a chi non è più, che diano corpo/fisicità/consistenza al proprio sentire di ora e di prima dell’evento. Per esperienza, diretta e ascoltata, nel tempo seguito alla morte, i sentimenti mutano, le parole, anche se possono essere usate le stesse, acquistano nuova valenza, nuovo suono, nuova vibrazione perchè si evolve la mancanza, il lutto procede con i suoi ritmi personalizzati facendo emergere altro sepolto o rimosso nel subito dopo la morte. La parola, quando arriva, può essere liberatoria ma anche inchiodare per un po’ in una rivelazione fino allora sconosciuta o sopita e occorrerà altro tempo, altre parole, altra fisicità per fare il passo successivo. Quindi, le parole si modificano, sì, con l’avanzare del tempo dall’evento morte, con la restituzione di una immagine diversa e sempre nuova, tassello dopo tassello, della persona morta; ma le parole si modificano se la persona, che ancora vive e si concede di vivere nonostante la morte, accoglie in sè la mancanza e si fa vuoto insieme al vuoto dell’assenza. Grazie per la possibilità di questa ulteriore riflessione Luciana
M’interessa particolarmente la tua riflessione riguardante il rapporto tra il divenire delle parole, la loro capacità liberatoria o di rimozione/fissazione rispetto al passare del tempo cronologico dal decesso. E’ decisamente interessante e utile questa lettura evolutivo-temporale della narrazione soprattutto se si entra nel dettaglio. Ovviamente ogni esperienza è assolutamente soggettiva ma cercare di capire se esistono, quali sono e come si manifestano questi cambiamenti del linguaggio a seconda del tempo che passa è molto, molto coinvolgente. Dovremmo approfondirlo.
grazie Nicola della tua ulteriore sollecitazione, provo ad articolare, a spiegare il mio pensiero, che è personale e quindi, forse, può risultare banale ma è una riflessione che arriva. La parola “nomina” cioè dà nome, identità, riconoscimento, corpo, deità a un sentimento, un’emozione. Può inchiodare quando ad es. emerge (cioè è nominato, reso dicibile, fisico) un sentimento, perchè si dà ad esso un nome, una identità permettendogli di vivere e di viverlo. Quella emozione venuta alla luce fuori da sè può inchiodare (penso alla rabbia che talvolta perdura per anni) fino a che succede un qualcosa che consente di farla sfumare, a volte scomparire, e la parola che la esprime può alleggerirsi pur significando la stessa emozione. Quindi evolvendo, modificandosi l’emozione, la parola narrante si modifica, segue l’evoluzione dell’emozione stessa. Arrivano, si dà la possibilità di essere ad altri sentimenti legati a ricordi immagini odori ecc. che si affacciano. La narrazione di un lutto, le parole che la caratterizzano credo si modifichino in base al suo procedere, alla ri-costruzione dell’immagine (peraltro sempre in costruzione e mai terminata) della persona morta. Per questo credo che la narrazione e le parole che la compongono subiscano, seguano il cambiamento del rapporto con il morto e con il lutto. Non credo possa esserci una narrazione statica, come non sono statiche le parole, le emozioni. Ogni narrazione, ogni parola rappresenta la fotografia di un preciso momento nel processo del lutto, con sempre nuove immagini che si aggiungono a comporre un quadro che, come scrivevo sopra, non finisce mai, non è mai esauriente nè esaustiva.
Ciao Nicola, attraverso la Narrazione guidata, ho imparato ad ascoltare di più le persone ospiti del nostro Hospice, ho approfondito e cercato di dare un senso a ciò che il malato mi sta dicendo, a volte sono dei veri e propri lasciti di pensiero e come se il malato volesse lasciare un pezzo di sé attraverso la persona che gli sta di fronte. Ci sono persone che desiderano raccontarsi e in questo contesto per me è ancora più facile trovare un giusto equilibrio sul dare una risposta, poi ci sono persone che dicono solo poche parole, ma dono quelle più dirette ed efficaci. L’ascolto in assoluto è la chiave d’oro per aprire il cuore di chi soffre e muore ed è la medicina per assistere chi testa e cercare di aiutare a colmare il vuoto che rimane. Grazie
Sarà banale e scontato Matteo ma ogni volta che sento quanto la Narrazione Guidata crea in chi l’accoglie, resto tra il commosso e l’ncredulo. Dovrei essermi un pò abituato in realtà perché accade davvero da tanti anni ma ogni volta è davvero come se fosse la prima. Nel tuo caso poi l’esperienza che abbiamo visto è stata decisamente breve, con tante persone diverse, in modalità online eppure sembra realmente che ti abbia aiutato. Spero potrai trovare l’occasione per continuare ad approfondire ciò che hai e avete vissuto quasi solo come un primo accenno ma nel frattempo ribaltiamo i ringraziamenti.
Grazie caro Nicola Ferrari per questo contribuito così profondo e vero che proviene dalla tua grande esperienza sul campo.
Riprendo questa parte: “Ciò che può fare la differenza è la correlazione tra vissuto e linguaggio che deve essere appunto vero, preciso, dettagliato e approfondito non per chi lo riceve ma per chi lo esprime”
Nella mia esperienza è il punto di svolta nella narrazione, il primo passo per cambiare paradigma e procedere, nel tempo, alla riprogettazione della vita.
Leggendoti mi si è ulteriormente confermata la consapevolezza che riuscire a cogliere dal linguaggio altrui (non importa se orale o scritto), ciò che si riconosce corrispondente al proprio pensiero è un’azione per niente scontata e del tutto significativa. E’ un pò come se le parole di altri diventassero nostre perché sono solo un modo differente di esprimere ciò che già si cerca e in cui si crede.
E questo dona ulteriore convinzione interiore e stimola ad agire coerentemente. Almeno così a me accade quando riconosco parole altrui come mie.
Caro Nicola grazie. Come sai ho sempre apprezzato la tua professionalità e il tuo porti verso l’altro con assoluta attenzione, con quell’ascolto accogliente che crea fiducia in chi ti porge le sue fatiche. So quanto un linguaggio equilibrato e scevro da giudizi e pregiudizi possa costruire in mitezza e pacificazione nella relazione rendendola forte ed appagante. Sì il caro psichiatra Eugenio Borgna parla delle parole come creature viventi e ci invita a riflettere con profondità sul valore dell’ascolto e sul termine Mitezza, dote necessaria per accogliere chi è ferito, chi naviga nel vuoto interiore. Ogni esperienza umana va considerata sacra e inviolabile, va considerata valore etico da cui attingere per imparare ad approfondire, a discernere il bene dal male, per ritrovare nell’altrui parola anche il senso della nostra vita. La sofferenza o il forte dolore si attutiscono solo attraverso una forte condivisione partecipata, con generosa empatia. Grazie Nicola per il prezioso lavoro che porti avanti con amore.
Grazie a te Sonia: trovo sempre molte correlazioni tra i nostri approcci, pur con le legittime differenze legate anche ai destinatari e agli obiettivi. Sarebbe interessante, e il tuo intervento me l’ha ribadito, poter creare un’occasione di confronto pubblico, mettendo insieme ad esempio in un unico evento le modalità narrative che in Italia vengono più frequentemente utilizzate.
Che ne dici?
Commento articolo Ferrari sulle parole del lutto
4 Aprile 2023 in 00:11
Quando incontro persone in lutto nei colloqui e poi nel gruppo di mutuo aiuto, all’inizio sono come annichilite, senza voce , senza forza, non hanno parole, sono confuse, sono solo rabbia e dolore, hanno difficoltà anche a mettere insieme anche pochi ricordi. Ma ciò che mi sorprende sempre, anche se sono tanti anni che svolgo il ruolo di facilitatrice, è come poco a poco si instaura quella fiducia, quell’alleanza che ti consente di chiedere , approfondire, con risultati inaspettati, le parole che vengono fuori. Ultimamente ho suggerito di descrivere la loro perdita con una metafora. Una di loro, vedova da qualche mese, ha buttato giù un vero e proprio racconto, I due scalatori, la sua storia d’amore “interrotta”, come dice spesso Nicola, paragonata ad un percorso , all’inizio pieno di speranze, aspettative, progetti, facile, poi quando durante la salita , Iniziano le prime difficoltà , confidano in quella corda che li unisce e che pensano li salverà ma ad un certo punto la corda si spezza…. Il racconto si è rivelato una miniera di vocaboli , aggettivi, su cui tornare, e chiedere chiarimenti, senza timore,e come dice qualcuno di loro , “riescono ad aprire e loro anime lesionate “. Meraviglia e privilegio per me.
L’uso della metafora ė davvero una risorsa molto efficace, come hai sperimentato direttamente in tanti anni di esperienza: spesso riescono o a sbloccare delle narrazioni che non procedono per i motivi che hai citato o a donare nuove prospettive a ciò che si sta raccontando. L’efficacia maggiore di una metafora personalmente la identifico nella capacità che ha, per chi la utilizza, di rappresentarsi attingendo ad una differente prospettiva, meno precisa e analitica di quella che emerge quando si utilizza un altro linguaggio ma molto più pregnante emotivamente e ricca di elementi simbolici e valoriali.
Caro Nicola come sai condivido l’importanza della scrittura nel lutto e quindi non è qualcosa da banalizzare, come fosse un semplice sfogo.
Dal mio punto di vista, facendo seguito alla tua riflessione, ritengo utile che lo scritto possa essere condiviso. Saperlo in anticipo che un altro leggerà aiuta la chiarezza, con il dubbio di un vincolo, per pudore o altro.
Si può offrire che nella lettura vengano omessi passaggi ritenuti troppo intimi. Anche questo ha le sue controindicazioni.
Lo scambio diretto, in voce e possibilmente in presenza aiuta sia a comprendere il senso, le risorse le criticità dello scrivente sia a offrire le riscritture opportune.
La condivisione di un gruppo in presenza offre la possibilità di avviare la costruzione di una nuova bellezza antropologica, come tu sai, con la serenità conseguente, una buona cosa in assoluto e che facilita anche il lavoro di chi ri-scrive in forma più aderente allo sguardo retrospettivo, alla considerazione del presente, alle prospettive future
Emerge in maniera molto netta e precisa dalle tue riflessioni la lunga e specifica esperienza che porti avanti rispetto alla condivisione del lutto in un gruppo. È sempre molto interessante scorgere come il vissuto che ognuno di noi vive, in questo caso in qualità di helper, direzioni lo sguardo, condizioni efficacemente il modo di intendere e agire. Così come è successo leggendo un messaggio precedente, anche con te Luigi mi viene da pensare quanto potrebbe essere arricchente potersi confrontare sullo stesso approccio narrativo ma vissuto da angolazioni diverse, come appunto il gruppo ama, gli incontri individuali, la scrittura…
Sarebbe un’opportunità per considerare dinamiche e specificità che altrimenti non potremmo vicendevolmente conoscere così a fondo.
Sono sempre favorevole al confronto costruttivo per un approfondimento, uno scambio. Lo credo un valore per tutti
Mi innamorai della mission di Maria Bianchi dal primo momento in cui la conobbi.
Oltre vent’anni fa.
Il coraggio, l’onestà e l’audacia nel trattare un tema così scomodo e fastidioso come la morte, mi conquistò.
Prima di tutto perché con la morte avevo a che fare quotidianamente ma poi, perché avevo fatto esperienza della morte molto presto ma solo attraverso la Narrazione Guidata riuscii ad elaborare quel primo drammatico lutto. Quello di mio padre, avvenuto diciassette anni prima dell’incontro con Nicola Ferrari.
La perseveranza, l’andare contro la corrente del pensiero e del fare comune, quello di rinnegare, occultare, nascondere la morte.
Credere nel valore della parola che salva!
Il viaggio che si compie attraverso un dialogo guidato è un percorso introspettivo che spesso rivela risorse inaspettate. Nel buco nero del vuoto si può trovare la concretezza di quel dono prezioso lasciato da chi è defunto. Riporta alla luce aspetti, particolari e caratteristiche di colei/colui, che nel tempo in cui era in vita, ignoravamo; confusi dalla fretta, condizionati dai pregiudizi, ingannati dalla superficialità di un tempo che si credeva potesse non finire mai. Aspetti, particolari e caratteristiche che consentono una conoscenza più approfondita ed una sequela d’amore oltre la morte.
Personalmente, attraverso questa confidenza con la narrazione guidata, ho anticipato l’elaborazione del lutto di mia madre; io e lei ne parlavamo. Come una cosa naturale ed ineluttabile. Come è.
“Se sarà possibile, mamma, tu dovrai aspettarmi se non sarò con te. Io, in quel momento, vorrò starti vicino, vorrò sussurrarti parole d’amore e accompagnarti fino alla soglia del Paradiso.”.
Mi ha fatta cercare. Mi ha aspettata. E solo dopo averle mormorato dolcemente che poteva andare, si è abbandonata al volere di un tempo che doveva concludersi.
Grazie Nicola e Maria Bianchi, perché siete un riferimento certo ed affidabile in un ambito delicato e inevitabile come quello del “fine vita”, ma di cui ancora in pochi si occupano. Con costanza, fiducia e perseveranza, mettete in campo la vostra ultra decennale esperienza, creando opportunità preziose per imparare ad affrontare uno dei momenti più delicati di un essere umano, che, come correttamente affermi, deve continuare a vivere e non a sopravvivere. Per amor proprio. In onore di chi ci ha lasciati.
Ciao Stefania: sono, come ben ricordi, 20 anni che partecipi e contribuisci a portare avanti anche tu quello che hai raccontato nei dettagli. Io posso solo dire che in 20 anni accade tantissimo, sotto ogni aspetto dell’esistenza: a livello personale, famigliare, lavorativo, di esperienze intime e concrete, che riguarda se stessi e gli altri, con momenti pesantissimi e altri pieni di gioia, con cambiamenti voluti e altri subiti. Ma, ed è questo che davvero mi colpisce, in due decenni, con tutto quello che ti è ovviamente capitato, non hai mai interrotto il rapporto e la collaborazione con l’associazione. Ovviamente si sono modificate a seconda delle circostanze le modalità concrete, sia appunto in base a ciò che la vita pone di fronte sia per la distanza considerevole (Mantova-Roma) mani un modo o nell’altro, il nesso e le attività non sono mai sparite. Come se questa tua esperienza che viviamo insieme fosse assolutamente parte di te.
E quindi che altro c’è da aggiungere?
❤️
Ciao Nicola, grazie per darmi la possibilità di poter scrivere questa mia testimonianza. Desidero raccontare la mia esperienza e del gruppo di auto mutuo aiuto per il lutto che facilito, per quanto riguarda il lutto perinatale.
Il 2 luglio 1972 ho partorito un maschietto, purtroppo nato morto perchè si è soffocato con il cordone ombelicale.
Il mio lutto è sempre stato considerato un lutto di serie B, avevo perfino vergogna a parlarne. Anche nei diversi gruppi che ho facilitato cercavo sempre di non dire che io avevo perso un bambino al momento del parto, perchè magari mi dovevo confrontare con genitori che avevano perso dei figli più grandi.
Dopo 46 anni leggendo una paginetta del libro Il lutto di Enrico Cazzaniga, improvvisamente mi sono detta che forse era arrivato il momento di prendere fuori dal cassetto dove l’avevo riposto, questo mio grande dolore. Con l’associazione Stare Bene Insieme abbiamo deciso di organizzare un convegno aperto alla cittadinanza dal titolo ” Il lutto perinatale “.
Ho invitato come relatrici due psicologhe e una ostetrica del reparto maternità del ns Ospedale. Mi sono fatta aiutare dalla tanatologa d,ssa M.Angela Gelati e da una mamma che ho conosciuta tramite internet che aveva il mio stesso problema.,
Ho aperto il Convegno raccontando la mia esperienza , il mio dolore tenuto nascosto per 46 anni e finalmente dare “Vita” a Matteo..Al pomeriggio organizziamo sempre un gruppo di auto mutuo aiuto, erano rimaste circa dieci mamme. Ognuna ha raccontato per la prima volta la loro storia personale, magari successa anche una ventina di anni fa.Il gruppo le ha aiutate a prendere fuori i loro dolore, con la condivisione e l’ascolto , Sapersi mettere alla pari, anche noi facilitatori,è molto importante per aiutare le persone a parlare dei propi sentimenti, delle proprie angosce, senza sentirsi giudicati,
Alla fine ci siamo sentite tutte più leggere, contente e pronte andare avanti a donare amore a chi ne ha bisogno.
Grazie Mirella di questo tuo racconto: in poche righe hai condensato dubbi, risonanze e possibilità che vivono molte altre mamme che hanno subito una perdita come la tua. Ti avevo già sentito parlare di questo tuo lutto in altre occasioni ed ho sempre avuto l’impressione di un cambiamento nella narrazione, volta dopo volta; anche in questo ultimo caso, se lo collego al racconto precedente che avevi fatto in un incontro online, si respira in modo molto più intenso l’andare avanti, come lo definisci, il donare a chi ne ha bisogno. Sembra, a mio avviso, che quel trauma del 1972 continui a parlarti, continui a muoversi dentro di te e tu lo ascolti.
Buonasera, sono un ex partecipante ai gruppi di ama per l’elaborazione del lutto e sto continuando come volontario con Annalisa, facilitatrice.
Avete stimolato in me l’argomento della metafora che e’ stato di molto aiuto quando ho subito la perdita di mia moglie.
Mi sentivo naufrago vedendo tutti i sogni e i progetti a filo d’acqua inabissarsi e le uniche certezze erano delle luci lontanissime.
Avevo bisogno di parlarmi, sentirmi, entrare in comunione con me stesso, anche se con la solitudine ci stavamo cercando, ma allo stesso modo, anche per inerzia e qualche bracciata, quelle luci sembravano avvicinarsi sempre più’.
Come diceva Annalisa nella sua considerazione, una partecipante al gruppo, qualche incontro fa, aveva difficoltà a ricordare e a buttare fuori il suo dolore ma metaforizzando e’ riuscita a vincere quei freni.
I ‘progetti a filo d’acqua’ che si inabissano, le ‘luci lontanissime’ e il vivere da ‘naufrago’ sono davvero delle immagini che comunicano un’intensità e varietà di riflessioni e sensazioni che probabilmente sparirebbero se iniziassimo a descriverle in maniera precisa, organizzata, specifica.
E’ questa la potenza e il fascino della metafora: è insostituibile,
In questo momento storico in cui, secondo i ricercatori, il dizionario terminologico dei giovani e degli adulti si sta rimpicciolendo per la prevalenza della tecnologia sugli scambi relazionali interpersonali, la narrazione guidata di cui Nicola è maestro si evidenzia come una interessante suggestione. Nicola ne parla come di una pratica inerente il processo doloroso del lutto. Mi viene in mente che potrebbe essere un efficace modello di scoperta di sè (e dell’altro) e di stimolo a ricevere e donare, non solo nelle fasi complesse che seguono la perdita di una persona cara, ma in ogni momento della vita. Cercare le parole più indicative del nostro stato d’animo è già di per sè indice di rallentamento della nostra corsa, riflessione, ascolto di noi stessi. Un lusso, di questi tempi! Un delicato esercizio finalizzato a raccontarsi, a farsi meglio comprendere da chi ci circonda. Una mia paziente vedova da poco mi parlava del suo travaglio interiore come di una “paralisi” che le impediva di esprimersi, ma anche di muoversi come prima. Il “gelo” del lutto l’aveva costretta a una specie di piccola morte delle emozioni. Alla parola “gelo” lei disse che quella era la parola giusta, che più le si addiceva. E fu l’inizio di una lunga narrazione (da cui emerse tra l’altro il ricordo di inverni freddissimi e da lei molto sofferti della sua infanzia) che prosegue tutt’ora. Mi
piace concludere scrivendo che le lezioni di Nicola per me e per altre collaboratrici del mio gruppo non sono state solo efficaci indicazioni per accompagnare le persone in lutto, ma anche preziosi suggerimenti per guardare ogni nuovo giorno con occhi più attenti ai segnali dell’io più profondo
Grazie Daniela di queste tue considerazioni e dell’esempio del tutto concreto che fa capire l’efficacia della N:G. meglio di qualunque dissertazione o analisi.
Penso sempre poi, a proposito delle esperienze formative alle quali ti rifersici, che ciò che le rende davvero così significative è la flessibilità mentale e la capacità di coinvolgersi dei partecipanti: sono due aspetti, uno culturale e l’altro emotivo, che, quando si attivano, fanno letteralmente sparire la ‘lezione’ e la sostituiscono con un processo di scoperta di sé e di nuove modalità per essere di aiuto.
Io mi considero solo un ‘facilitatore’ di questo processo che, ogni volta, ogni volta da vari decenni, mi fa sentire onorato e grato (non so di preciso a chi) di poterci essere.
Caro Nicola,
leggendo l’articolo mi sono fermata alla frase: “i difetti e i limiti erano un niente se paragonati al resto”. I commenti che mi precedono sono davvero molto belli e stimolanti. Quelle due parole, però, mi hanno fatto pensare che ho amato mio padre anche per i suoi difetti e limiti, perché, ancora oggi, le loro conseguenze mi si ripresentano davanti, concrete, reali e a volte senza pietà molto vive. Non penso mai a lui con rancore, anzi!, certi suoi difetti e limiti li ho davvero amati molto. Certo è che il linguaggio cambia con il tempo e, quando mi ritrovo a leggere ciò che ho scritto in passato di lui, provo come una struggente tenerezza perché mi accorgo che oggi sono meno aggressiva. Nel mio lavoro mi capita di raccontare della vita di persone a me sconosciute che sono decedute e posso assicurarti che l’emozione che provo nell’usare anche le parole di coloro che le amavano e le conoscevano, fa nascere in me sentimenti sorprendenti, come se si creasse un transfert emotivo. Non vorrei essere fraintesa e considerata macabra nel dirlo ma è un’esperienza straordinaria. Credo che le parole che usiamo siano come la nostra carta d’identità, documento che col tempo occorre rinnovare, poiché tutte le nostre esperienze mutano profondamente i nostri connotati . Un saluto a tutt*
Mi fai venire in mente, leggendo del ricordo di tuo papà, una Cerimonia commemorativa per i defunti da Covid-19 che abbiamo realizzato alcuni anni fa a Mantova, presso il Cimitero monumentale: una donna che aveva appena perso il papà appunto di Coronavirus e non aveva potuto nemmeno vederlo per tutto il periodo della degenza precedente al decesso, prese una vecchia cartolina. Era scritta da suo papà per Lei: c’erano poche parole, semplici, dirette, vere, piene di amore. Quella cartolina nessuno la lesse a voce alta ma passò di mano in mano tra tutti i numerosi presenti. Io guardavo le persone man mano che toccavano questo vecchio foglio di cartoncino ingiallito e lo giravano leggendo il breve testo: una scossa, un brivido dalla testa ai piedi, un pugno nello stomaco, un abbraccio interminabile, un sorriso complice. Questo, e tanto altro, mi sembrava travolgesse ogni persona in un transfert emotivo così chiaro e visibile che ancora oggi m’impressiona moltissimo e che ricordo come una delle ‘esperienze straordinarie, come tu la definisci, più potenti mai vissute.
Nel momento in cui avviene l’incontro con chi vive la dimensione della perdita e del lutto diventa impegnativo e necessario mettere insieme le giuste parole , senza cadere in forme stereotipate e cercando di esprimere con naturalezza la propria vicinanza alla persona dolente .
La domanda “come scelgo le parole?“ direi che diventa la domanda cruciale sulla quale sostare in questo processo di aiuto e che trovo essere anche piuttosto rivoluzionaria proprio rispetto al già noto , a tutte quelle parole stereotipate che si possano utilizzare per confortare ed aiutare il dolente, ossia il mondo magico delle parole del lutto come le chiama Nicola Ferrari .
Rompere il tabù che impedisce di intervenire sul linguaggio di chi soffre è davvero arduo ma ne vale la pena per ciò che aiuta l’amore a continuare quaggiù.
Grazie Nicola Ferrari e Marina Sozzi per il vostro continuo ed incessante impegno su ciò che riguarda la dignità di espressione del dolore della perdita, della morte e tutto ciò che purtroppo ancora oggi rappresenta un forte tabù in questa società di stampo machista che nega di esprimere e narrare questi dolori in quanto concepiti solo come segni negativi di debolezza.
La domanda che tu sottolinei (‘come scelgo le parole?’) è uno dei passaggi chiavi della formazione riguardo l’apprendimento dell’approccio Narrazione Guidata. Non è questo il luogo (virtuale) per entrare nel dettaglio specifico di questo aspetto ma colgo l’occasione dalla tua sottolineatura per evidenziare un aspetto a mio avviso davvero cruciale: molto spesso la narrazione nel lutto, l’ascolto e più in generale il processo di aiuto vengono identificati con atteggiamenti generici di vicinanza ed empatia. Sono a mio avviso un’eccessiva banalizzazione/semplificazione della relazione d’aiuto che tradisce un’oggettiva difficoltà a voler entrare nel dettaglio delle questioni linguistiche; è anche per molti versi ‘comodo’ per chi supporta ridurre il tutto ad un ascolto empatico perché facile da attivare, piuttosto generico e retorico e soprattutto meno implicante nella realtà di quello che si vorrebbe far credere. Dotarsi invece di criteri e attenzioni linguistiche, come hai vissuto tu Stefania durante la formazione, per scegliere, come nel caso qui citato, le parole del nostro interlocutore con lucidità ed efficacia, aumenta la possibilità di attivare una riprogettazione esistenziale.
Grazie Nicola, credo che il tema che tocchi sia centrale nella nostra cultura. Poter esprimere il proprio dolore senza doverlo subito addolcire o quasi negare – da un lato – e senza cadere solo nella disperazione priva di possibilità trasformative. Le parole possono tenere insieme le emozioni e le visioni più diverse, specie quelle che affiorano più o meno forti e spiazzanti di fronte al dolore. Credo che il timore di essere giudicati o allontanati per ciò che si esprime – perché troppo doloroso anche per chi ascolta – imponga parole poco capaci di definirci nel dolore e lasciare che nel tempo quel dolore trovi vie di elaborazione e memoria.
Riprendo una tua sottolineatura che hai messo tra due lineette, quasi fosse solo una piccola aggiunta, ma che in realtà emerge in maniera molto intensa: “-perché troppo doloroso anche per chi ascolta-“, in riferimento all’intensità del riverbero che spesso esplode e travolge chi aiuta.
Per chi supporta, non importa con quale ruolo o rapporto rispetto al dolente, uno delle più potenti e oscure (a se stesso) difficoltà risiede proprio nel gestire le risonanze interiori che il dolore altrui attiva per tanti, ovvi motivi: proiezioni, ricordi, anticipazioni di vissuti che si temono, esperienze non sufficientemente incontrate intimamente, conseguenze ancora molto disturbanti…
Non penso, vivendolo in prima persona in tante esperienze formative con numerosi helper, che l’obiettivo finale sia ‘far pace’ con questi vissuti che riemergono incontrando altri che soffrono, come se questa sorta di ‘risoluzione’ fosse la chiave che permette di mettersi poi a sostegno di altri; vivo invece come decisivo o comunque di enorme aiuto ‘posizionarsi’ rispetto ai propri dolori: scegliere deliberatamente, e posso farlo solo se ho attraversato l’esperienza in tutte in tutte le dinamiche e sfaccettature, cosa farmene delle conseguenze dell’assenza e delle fluttuazioni della pena. Vivere cioè, con un’espressione non mia (per fortuna!) e che tutto è meno che retorica e teorica, ‘ad occhi aperti’.
Gentile Marina e caro Nicola, grazie infinite per la straordinaria occasione d’incontro di stati d’Animo così preziosi che in questo blog si fanno Parola. Ogni commento riflette e risuona del nostro “Essere quaggiù” con fiducia, coraggio e speranza.
Ricordo come se fosse adesso quel Silenzio immacolato intorno al profondo lutto che stavo vivendo e quella forza miracolosa che mi condusse a scegliere di scrivere una lista di 500 parole positive per raccontarmi e ritrovare significato ai miei giorni. Attraverso l’esperienza della scrittura autobiografica è iniziato il mio Viaggio di trasformazione del senso del vivere del morire e in questi dieci anni, grazie al potere della scrittura, da un progetto di Vita è nato un progetto di Death Education: per sapere cosa dire, cosa fare, dove andare, fino alla fine ♾️
La partecipazione all’indimenticabile per-Corso di Narrazione Guidata è stata una tappa fondamentale per “una méta da perseguire, per le azioni messe in campo e la riprogettazione esistenziale” che oggi sento e vivo misteriosamente tangibile, concreta.
Aprire spazi e tempi di conversazione sul fine Vita è un invito ad un’esistenza autentica e consapevole. Con la speranza che dare voce al nostro Sentire possa “donare Amore” e nuovi sguardi oltre il dolore, confido che tutti noi faremo tesoro di questa sincera condivisione.
Grazie per i tuoi rimandi così significativi rispetto al percorso formativo che hai vissuto in prima persona riguardo la ‘Narrazione Guidata’; continuo a pensare, ma soprattutto a vivere, la diversità dell’impatto che le parole hanno quando sono la ricerca di una correlazione tra il vissuto personale e le azioni concrete conseguenti. Spesso infatti ci riempiamo di parole generiche, ripetitive, non nostre, con il rischio di essere per gli altri retorici e per noi stessi un (auto)impedimento al cambiamento e/o alla gestione dei vissuti complessi che si affrontano durante la vita. Quando invece, paradossalmente, la ricerca e l’utilizzo di un linguaggio che è specchio di ciò che proviamo e desideriamo creare diventa un’attività costante e puntuale, le parole stesse vengono oltrepassate perché hanno quel potere, in parte magico in parte razionale, di attivare azioni e scelte da vivere nella quotidianità..
Sono tra le persone che non hanno fruito della formazione della Associazione Maria Bianchi sulla “Narrazione guidata”: ne conosco alcuni punti fondanti attraverso molti tra i lavori di Nicola Ferrari e la partecipazione ai recenti momenti di confronto dal titolo “VERSUS: parole da difendere e contestare” promossi dalla Associazione. L’articolo qui pubblicato ha ampliato la mia visione.
Ho letto quindi con molta attenzione e rispetto, tutti i precedenti commenti e le successive riflessioni di Nicola. Ogni persona ha scritto certamente solo una piccola della sua esperienza e su ciò che ne è scaturito. Il tutto è sempre indicibile.
Mi sono soffermata sul tema del “cambiamento” perché riguarda da vicino anche il mio lungo operare come facilitatrice in gruppi di automutuo aiuto composti da caregiver di famigliari anziani gravemente non autosufficienti, in particolare malati di Alzheimer. Al termine di un percorso di gruppo tutti i partecipanti – helper compresi – cercano di valutare i cambiamenti avvenuti, i superamenti delle impasse, le nuove strade intraprese.
Ogni volta ho pensato a quanto potesse essere vitale per ciascuno connettere il cambiamento con ciò che era avvenuto nel e con il gruppo. Ma anche a quanto d’altro restava misterioso perché, è stato possibile constatare come alcune persone abbiano trovato – al di fuori del gruppo – luce, forza per un cambiamento anche radicale, andando su sentieri nuovi, inaspettati, nella vita quotidiana, nelle relazioni con altri, nel modo nuovo di guardarsi attorno. Forse, con il tempo, alcuni fili rossi tra quella specifica esperienza nel gruppo e il dopo si saranno riannodati, in altri casi avranno avuto storie distinte.
Ci sono, a mio avviso, comunque due fattori che accomunano i contesti di aiuto differenti di cui sto scrivendo: da un lato la profonda fiducia che va costruita tra chi si affida e chi accoglie, e l’altra è l’assoluto rispetto dovuto a ogni narrazione, a ogni parola detta, perché solo su queste basi si può continuare a far vivere la relazione di aiuto e portarla a compimento, con le sue compiutezze e le sue imperfezioni.
Grazie Patrizia di queste tue precisazioni e correlazioni tra esperienza all’interno ed all’esterno di un gruppo e di quanto, come suggerisci, resti un legame ‘misterioso’ ma evidente e reale nel ‘modo di guardarsi attorno’ dopo un vissuto del genere.
Credo poi che la questione della fiducia ‘tra chi si affida e chi accoglie’ sia assolutamente fondamentale in una relazione d’aiuto con chi sta vivendo una perdita o un lutto: nei percorsi di formazione specifici che realizziamo sulla Narrazione Guidata, questo aspetto è da sempre oggetto di particolare attenzione e approfondimento. Questa ‘fiducia’ si declina nello specifico in credibilità personale, lucidità metodologica e attenzione linguistica; è, a mio avviso, da conquistare sul campo, non da considerare come un prerequisito e assolutamente imprescindibile per poter attivare un rapporto che inneschi i cambiamenti.