Una malattia o una guerra? di Marina Sozzi
Ancora troppo frequentemente, quando si parla di malattie che mettono a rischio la vita, e soprattutto del cancro, si sentono da più parti incoraggiamenti alla lotta, alla guerra, al coraggio, al braccio di ferro con la malattia-intruso.
Se c’è un richiamo così ampio, così socialmente diffuso al combattimento, è perché il cancro viene sentito, ancora ai nostri giorni, come una minaccia terribile, che richiede una mobilitazione generale. Genera inquietudine in tutti. Nei pazienti, naturalmente, che scoprono la precarietà della vita in generale, e la fragilità della loro in particolare; nei familiari, che li amano, e sono a loro legati o attaccati, o da loro dipendenti; negli oncologi, per l’imprevedibilità frequente del decorso della malattia e per il tasso ancora alto di fallimenti della medicina; in tutti gli operatori sanitari, medici, infermieri e operatori socio-sanitari, che lavorano in un reparto oncologico o in un Day Hospital, e che non possono ignorare di essere anch’essi vulnerabili al cancro, che colpisce trasversalmente le persone più differenti, con storie e abitudini di vita diverse.
Di fronte all’inquietudine, la risposta più rassicurante è quella della battaglia all’ultimo sangue. Per questo la rappresentazione del tumore-bestia da battere, unita all’appello alla lotta contro il nemico alieno, è ancora, forse, la più diffusa socialmente, e quella che tiene uniti in un’unica visione pazienti, familiari e medici. Ora, è vero che l’uomo porta con sé un istinto guerriero per la difesa della vita, quello di conservazione, che è il più radicato, e rimonta alla preistoria. Tuttavia, nella richiesta che si fa al malato di tumore di lottare ci sono anche altri significati, meno evidenti.
In primo luogo, il richiamo alla battaglia è strettamente connesso al modello del “buon malato” che, indipendentemente da come il paziente si sente con se stesso, lo rende funzionale al sistema di cure dell’oncologia medica: è il malato che si adegua al contesto di cura, non viceversa.
Se il paziente “è su di morale”, combattivo e ottimista (a volte contro ogni evidenza) è più facile mantenere il controllo dei luoghi di terapia, si possono circoscrivere i dialoghi medico/paziente alla razionalità della cura e alla speranza di guarigione, non si perde tempo a consolare persone che si lasciano andare all’emotività. Resta così fuori dalla porta dell’ospedale, degli ambulatori medici, dei Day Hospital, eccetera, tutta la parte dolente dell’umano minacciato dalla malattia, la solitudine di vite in cui ogni aspetto della quotidianità viene stravolto, dal lavoro alle relazioni affettive.
I medici e gli infermieri non intendono permettere che i pazienti crollino davanti a loro. Di fronte alle lacrime o alla disperazione, non sanno cosa fare o cosa dire, e si sentono a disagio, perché nessuno li ha preparati a tale eventualità. Se possibile, meglio prevenirle. La desertificazione emotiva richiesta ai pazienti oncologici durante le cure, perlomeno in pubblico, garantisce così lo svolgimento ordinato e senza sbavature delle azioni terapeutiche, che, nella loro estrema violenza sui corpi, proprio ai corpi, oggettivati dalla medicina, devono restare confinate. Qualora si potesse menzionare la violenza insita nelle cure, necessaria ma pur sempre terribile, la loro somiglianza con la tortura, potremmo dire che l’oncologia medica ha saputo umanizzarsi, e raggiungere la consapevolezza di sé.
Inoltre, dobbiamo chiederci: questo modo di affrontare la malattia grave è efficace? E soprattutto, cosa ne pensano i pazienti?
Nel 2020 l’associazione inglese di sostegno ai pazienti oncologici Macmillan Cancer Support ha condotto un’indagine su duemila persone ammalate, chiedendo loro di narrare la propria percezione di come il cancro è raccontato, sia nei mass media, sia dalle persone che li circondano, medici, amici e familiari. La maggioranza di loro ha affermato di essere stanca delle metafore belliche usate per parlare della loro malattia. Tuttavia, dall’indagine inglese pare che la comunità dei malati sia divisa su questo punto: alcuni si riconoscono nel linguaggio militare, e affermano che considerare il cancro come una sfida da vincere sia stato per loro un modo per prendere consapevolezza dell’accaduto e per sostenere la fatica delle cure. E’ normale che, quando una visione del mondo (in questo caso della malattia) sia molto condivisa socialmente, le persone vi aderiscano, la facciano propria.
Sono interessanti, però, i molti che hanno parlato del loro disappunto a sentir parlare di battaglie da vincere, segno che nella mentalità dominante si stanno producendo alcune crepe.
Le metafore guerresche hanno seri effetti collaterali: se colui che guarisce è visto come qualcuno che ha combattuto, che ha vinto, e in ultima istanza come un eroe, colui che muore può essere interpretato come qualcuno che non ha lottato abbastanza, che non ha avuto abbastanza voglia di vivere, in una parola un perdente.
Implicitamente, siamo di fronte a una colpevolizzazione della vittima, che viene svalutata in quanto non ha saputo reggere la sfida.
Tuttavia, la visione del malato di cancro come un guerriero sta venendo sostituita, lentamente (come sempre accade nei cambiamenti di mentalità) da altre interpretazioni. Mi viene in mente Gianluca Vialli, che ha definito il suo cancro “un compagno di viaggio indesiderato”, e ha affermato che non intendeva “combattere”, perché sarebbe stata una lotta impari.
VIDAS, uno dei principali enti non profit italiani che si occupa di cure palliative, sul suo sito dà alcuni suggerimenti ai familiari e agli amici dei malati, esaminando alcune frasi da non dire. Tra queste, “Coraggio, non mollare” e “Devi essere forte”.
La prima non deve essere mai pronunciata. Infatti, “in questa frase il desiderio di incoraggiare diventa involontariamente un’attribuzione di responsabilità, come se l’esito della “battaglia” dipendesse dalla forza di volontà di chi si è ammalato. Arriva un momento, prima o poi, in cui invece quella persona ha bisogno di sentirsi autorizzata proprio da chi ama a “mollare”, a lasciare che la malattia faccia il suo corso, senza sentirsi in colpa per aver gettato la spugna.”.
E la seconda è inopportuna perché il malato deve poter manifestare ed esprimere la propria fragilità, e ad essere forti (e di sostegno) devono piuttosto essere coloro che si prendono cura di lui ogni giorno.
L’inopportunità del discorso bellico sul tumore si accompagna, per fortuna, anche a un miglioramento e cambiamento delle terapie. Poco per volta, su molte forme di tumore le cure diventano meno invasive, più efficaci, e la metafora della guerra sempre più inadeguata.
Che ne pensate? Voi usate le metafore belliche per parlare del cancro? Vi ci ritrovate? Ritenete che si possa costruire una nuova narrazione dell’esperienza della malattia?
La cura credo sia una questione anche di relazione, e di conseguenza anche di linguaggio.
Il linguaggio bellico adattato al percorso della persona malata mi ha sempre infastidito, lo trovo poco calzante alla situazione nonostante ne colga l’efficacia, che a mio avviso si annida in una semplificazione eccessiva, densa di problemi nella fase successiva.
Problemi che possono accentuarsi anche in seguito ad un linguaggio utilizzato in precedenza.
Si tratta di una semplificazione che crea illusioni, che le alimenta aprendo spesso nuove narrazioni di “battaglia in battaglia”, facendo scordare che, tumore o meno, siamo tutti esseri mortali.
Ad un cambio di chemio sento dire: “abbiamo perso questa battaglia, ma ora cambiamo strategia per vincere la guerra”.
Quando mi immedesimo in questa situazione mi chiedo quanta voglia possa avere io di sentirmi “soldato paziente” nelle mani di un “generale medico”.
Mi riallaccio quindi alla frase di Marina “E soprattutto, cosa ne pensano i pazienti?”
Attualmente non posso rispondere da paziente, in questo momento non lo sono, ma mi spaventa l’idea che in futuro il mio corpo possa essere paragonato ad un campo di battaglia e bombardato, preferirei mi si dicesse che venga curato, ed eventualmente, sentito il mio parere, anche lasciato in pace.
Appunto, pace, non guerra. Anche per il corpo. Soprattutto di una persona malata. Che da persona va sempre trattata.
Grazie Domiziano per questo bellissimo commento, del quale mi sento di sottoscrivere ogni parola.
Cara Marina,
sembra che tu sfondi una porta che è già stata aperta: non per tutti, ovvio, specie per i media, ma certo lo sai e fai bene a riproporre il tema. Già nel 1977 Susan Sontag, in un saggio che resta fondamentale, “Malattia come metafora” (che prendeva in considerazione, oltre al cancro con cui conviveva e che l’avrebbe infine uccisa, anche l’AIDS, all’epoca incurabile), si scagliava contro il tabù della malattia grave (che induceva perfino vergogna e solitudine nei malati) e le metafore belligeranti che l’accompagnavano.
Anche a me questi termini “battaglieri” danno molto fastidio. La fragilità e la morte ci appartengono, e malattie come queste – riconnesse proprio al fantasma della morte – rendono i pazienti ancor più vulnerabili dal punto di vista fisico e psicologico e mettono a dura prova anche per le terapie, spesso pesanti (tantomeno apprezzo chi, per aggirare il problema, ti dice “andrà tutto bene”, oppure “pensa positivo”: con la bacchetta magica?). Combattere contro chi? Contro se stessi? Contro i mulini a vento, visto che il cancro è un nostro compagno di viaggio per quanto indesiderato, come ha detto Vialli che, opportunamnete, hai citato. Personalmente, io lo chiamo “Monsieur”, un coinquilino molto invadente che bussa alla porta insistente anche quando non ne vorresti sapere e vorresti dimenticarlo. A tutto questo preferisco il termine “cura”, in senso lato. Cura – reciproca – delle persone care, dei medici: e soprattutto cura per me stesso, nel tentativo di coltivare cose che mi fanno stare bene – eliminando il superfluo – e mi rendono più consapevole su questi temi che restano fondamentali nella nostra esistenza: di più, ineludibili.
Proprio su questi argomenti scrissi tempo fa alla rubrica su Repubblica di Concita De Gregorio, che mi pubblicò. Erano i tempi in cui impazzavano i titoli dei giornali sul caso Nadia Toffa, definita “la guerriera”: sappiamo come è andata a finire. Ripensamenti, dopo, dei media? Macché!
Mi piace chiudere con la stessa citazione che usai allora, tratta dal libro di Severino Cesari “Con molta cura”: lui era credente, ma vale per tutti. “L’esercizio quotidiano dell’amore, questo infine auguro a tutti, a tutte. Non c’è altro, credete. Se non avete sottomano l’opportunità di una cura da fare – scherzo, ma fino a un certo punto! – potete sempre però prendervi cura. Prendervi cura di voi stessi, e di quelli cui volete bene. E magari anche degli altri. Non c’è davvero altro, credete.”
Un caro saluto.
Caro Giovanni, grazie per il tuo commento. Hai ragione, non è un tema nuovo, io stessa ne ho parlato a lungo nel mio libro sul cancro. Tuttavia, credo sia opportuno ribadire. Per cambiare una mentalità radicata, occorre parlare e scrivere, a lungo.
Sontag non amava la parola cancro, perché era usata come metafora di male assoluto (è un’opinione un po’ diversa dalla mia): io non credo sia un problema di definizione della patologia, ma di approccio ai pazienti, di rispetto nei confronti della fragilità indotta dalla malattia. Un saluto affettuoso anche a te.
Mio marito è morto a causa del cancro. Mio figlio aveva 1 anno. Ancora oggi che mio figlio di anni ne ha 7, la stessa famiglia di suo papà a volte gli dice: “purtroppo tuo papà non è stato abbastanza forte da riuscire a starti vicino”. In quei momenti vorrei avere un lanciafiamme in mano. Mio marito ha mantenuto tutta la sua dignità fino all’ultimo respiro, per dimostrarci nè che stava perdendo, nè che era un eroe. E non voglio che nella mente di mio figlio ci sia nessuna di queste immagini. Perchè come mi ha detto mio marito sul finale: “è semplicemente andata così.” Io credo che il messaggio di considerare i guariti dei vincitori e i defunti dei perdenti sia potente e terribile al tempo stesso. Mi auguro che presto, sia nel mondo medico, dove purtroppo ora anch’io devo sentirmi dire certe parole, che non mi fanno davvero stare peggio, e nel resto della vita sociale, si comincino ad usare parole diverse, che spingano le persone a affrontare ogni evento con lucidità e quiete. Grazie
Gentile Francesca, la sua esperienza la dice lunga… grazie per la sua testimonianza.
Può forse cominciare a dire a suo figlio, e alla famiglia di suo marito, che vivere o morire non è questione di forza… a volte, senza lanciafiamme, si può però contestare con fermezza un pensiero che è certamente nocivo per tutti.
Buon pomeriggio, dal 2005 il cancro mi abita, ora silente, per i medici guarigione, ma per me cronicità. Già da allora ebbi a confrontarmi sul linguaggio guerresco usato, allora anche da U. Veronesi…non mi ha mai appartenuto quel linguaggio e quei termini, essendo io anche negli altri ambiti della vita, contro ogni forma di violenza e quindi di guerra, battaglie o come le si vogliono chiamare. Ho sempre parlato del cancro come un evento della vita che ho attraversato, mi attraversa, sto attraversando, a seconda della situazione clinica del momento. Mai ho pensato di “combatterlo”: era un evento, un qualcosa che accadeva al mio corpo, a me, in una modalità diversa e altra dal normale funzionamento del corpo stesso. E come tale ho convissuto con lui. Ne ho scritto diverse volte in articoli e nella mia testimonianza Mani sul mio corpo. Diario di una malata di cancro, già nel 2006…Perciò, no, non ho mai condiviso quei termini e ancora mi ripugna sentire parlare ha combattuto, ha lottato, non ce l’ha fatta…meglio pensare e far di tutto perchè la morte, se e quando arriverà, sia la meno dolorosa e sofferta possibile e come la desideriamo e accanto o senza le persone che vogliamo. Cura e rispetto anche della morte, oltre che della vita, in un accettare e accogliere ciò che arriva, coscienti consapevoli e comunque sempre attenti e rispettosi e amorevolmente disposti alla cura, in senso ampio, non solo nel fine vita o nella malattia ma in ogni attimo della vita, nostra e di tutti gli altri esseri, animati ed inanimati, cioè della Terra Madre in toto. Grazie e buon tutto
Gentile Luciana, io vivo la sua stessa esperienza e sottoscrivo ogni sua parola. Grazie mille a lei!
Tutta la medicina saccheggia metafore e terminologia dalla dimensione militare: guerra (contro la malattia), divisione (ospedaliera), presidio (sanitario), difesa (immunitaria), attacco (ai virus), lotta (contro la malattia), debellare, sconfiggere … La verità è che la partita – non chiamiamola guerra – tra la vita e la morte l’abbiamo già persa sottoscrivendo il contratto che ci ha fatti venire al mondo: è solo questione di tempo. In realtà, la sola cosa che differenzia chi sa di essere condannato da chi non lo sa è il tempo entro il quale verrà eseguita la sentenza. Ma la realtà sorprende e, spesso, imbroglia. La differenza non è da poco: è quella che passa tra chi ha una diagnosi che mette in dubbio la sua stessa sopravvivenza e chi può credere, in maniera illusoria, che questo riguardi qualcun altro.
Mettere in discussione la metafora bellica significa mettere al centro delle nostre vite le idee di malattia, di fragilità, di sconfitta, contro una cultura prevalente in cui dominano valori abusivi: la massima prestazione, il successo, la vittoria. Spero e credo in una cultura (e in una legislazione) in cui, finalmente, si possano abolire non la morte e le malattie, ma le sofferenze inutili.
Buon pomeriggio dottor Antoniacomi, e grazie per il suo commento. Sono d’accordo, probabilmente questa lettura militare della medicina ha a che fare con la nostra difficoltà culturale a fare i conti con la fragilità, la malattia e la morte, ed è vero che la battaglia contro la morte non può essere che una Waterloo… tuttavia, dobbiamo provare, secondo me, a fare anche cambiamenti più piccoli di un’intera rivoluzione culturale sul tema della morte. Ad esempio, dire ai nostri medici e ai nostri familiari che non vogliamo porci nell’ottica della lotta, quindi sono pregati di usare altre metafore…
Penso che per poter dare una risposta, se risposta esistesse, sarebbe importante partire un po’ a monte. Siamo immersi nel concetto del combattere: si combatte per la libertà. per un ideale, per vincere, si combatte contro il male, contro la depressione, per la vita , e non parliamo di tutte le metafore del ‘lottare’ che ci accompagnano fin da bambini. Più o meno diventano parte di noi e del nostro modo di vivere, quindi il ‘combattere’ sembra diventare quasi una reazione spontanea ed emozionale a ciò che sta accadendo , specialmente all’inizio di una malattia oncologica, seppure accompagnata dal trauma e dal senso di disorientamento-.
Questo in pazienti e famigliari. Il combattere può quindi diventare anche una speranza.
In tanti anni ho constatato che alcuni hanno avuto bisogno di quell’atteggiamento per affrontare le cure e per trovare in sé la forza di reagire., per guarire, ritornare alla vita di prima, dimenticare. Non tutti, ma un buon numero e sento che ciò vada accolto e rispettato, anche se forse non è il nostro modo, ma la scelta del proprio modo di essere.
Ho conosciuto persone, anche molto giovani, che ho accompagnato per mesi, che hanno voluto proprio combattere fino a che hanno potuto, ma ho anche verificato che, se opportunamente accompagnate durante la malattia fino alle cure palliative e alla morte, strada facendo possono decidere serenamente di deporre le armi, senza sentirsi sconfitti, ma con la consapevolezza di aver fatto tutto il possibile e quindi accogliendo con serenità una resa con l’onore delle armi.
Personalmente non sceglierei un linguaggio da combattimento e competitivo, ma non mi sono mai sentita di contraddire i pazienti che l’hanno scelto e praticato, se a loro giovava in quella fase della loro vita. Nel decorso della malattia verso l’exitus cambiano poi spontaneamente l’atteggiamento ed il linguaggio delle stesse persone, ma senza quel senso di sconfitta che si pensi . Questo almeno nella mia esperienza di accompagnamento. Penso che lo stesso Vialli, grande persona già di per sé, sia stato opportunamente accompagnato in questo percorso .
Ciò che non amo è piuttosto il linguaggio superficiale e spesso giornalistico in questo campo, fatto spesso di luoghi comuni ,di inconsapevolezza e di pseudocircostanza. Lasciamoli combattere, se decidono di farlo, e che non sia considerato sconfitto chi non ce la fa. Come dice Ostaseski, la resa ad un certo punto è l’accoglimento, non l’accettazione, che le cose vadano come devono andare.
Grazie per il suo profondo commento, dottoressa Buvoli. Certamente, come dimostra la ricerca inglese, ci sono persone che si ritrovano in questa metafora, per poter affrontare le terapie e le loro terribili conseguenze. Alla fine, ciò che lei raccomanda (e non posso che essere d’accordo) è il rispetto nei confronti del malato. Lasciamo scegliere a lui il suo modo di affrontare la malattia, ma proviamo, come accompagnatori (medici, psicologi, infermieri, familiari) ma anche come giornalisti e persone che a vario titolo parlano della malattia, di provare a usare parole non inflazionate dal luogo comune…