La scuola della dignità, di Marina Sozzi
Quando siamo più fragili, quando ci colpisce la malattia o entriamo nella vecchiaia, e necessitiamo di cure mediche e di sostegno, abbiamo bisogno che la nostra dignità, che abbiamo tutelato da soli nel corso della nostra vita, sia invece protetta anche con l’aiuto degli altri.
Invece, purtroppo, è proprio nei luoghi di cura che spesso le preoccupazioni di ordine organizzativo hanno la meglio sulla difesa della dignità dei pazienti. Vi racconto solo un breve episodio, che è rimasto scolpito nella mia mente. Qualche mese fa ho dovuto portare mio padre novantacinquenne al Pronto soccorso di un ospedale della mia città, che gode di un’ottima reputazione. Abbiamo atteso diverse ore, e papà era molto stanco, ma presente. Infine, un medico ci ha fatti entrare, ha cominciato a parlare con me ignorando totalmente mio padre, rivolgendosi a lui solo per brevi ordini, dandogli del tu. L’ho rimproverato «perché gli sta dando del tu?», allora si è scusato con freddezza. Poi l’ha fatto sdraiare sulla barella e l’ha spogliato davanti a tutti, senza alcuna privacy. Infine, mi ha cacciata fuori, e quando sono riuscita a rientrare papà aveva il pannolone ed era molto confuso. Ho firmato e l’ho portato via, indignata. Quel giorno, in quel Pronto soccorso, ho visto diversi anziani mortificati nella loro umanità e dignità, tra cui una vecchia suora minuta e spaurita che mi ha fatto molta tenerezza. Uscito da quell’esperienza, mio padre ricordava poco, ma non aveva dimenticato di essere stato “denudato in pubblico”. Analoghe mancanze di rispetto ho visto accadere in alcune RSA che ho visitato. Per questo vi propongo una riflessione.
Come spesso mi è già capitato di scrivere in questo blog, la percezione della propria dignità dipende anche dallo sguardo con cui gli altri ci osservano. Se quando siamo particolarmente vulnerabili diventiamo numeri, o organi malati, o molecole, è ovvio che andiamo incontro alla mortificazione della nostra persona. Se siamo poi considerati semplici ingranaggi di un sistema che privilegia il funzionamento della macchina ospedaliera, con criteri aziendalistici, è naturale che ci sentiremo umiliati nella nostra umanità, sviliti e semplificati, in una parola non rispettati.
Siccome però, nonostante le buone leggi che abbiamo, le cose non cambiano dall’alto (l’organizzazione della sanità continua a sottovalutare per lo più la legge 219 del 2017, e i suoi preziosi articoli sul consenso informato), occorre quindi la crescita di una consapevolezza dal basso, di un’educazione alla salute dei cittadini, che provochi un cambiamento di mentalità anche in chi cura.
A prima vista sembra un controsenso, ma la prima cosa da fare è abbandonare l’illusione che la medicina sia onnipotente. Se l’aspettativa è che io (o il mio familiare) siamo sempre salvati, i curanti si sentiranno esposti al rischio di una denuncia (il numero di denunce che ricevono è molto più alto degli episodi documentabili di malasanità), e lavoreranno sulla difensiva, irritabili e certo non attenti allo sviluppo di un atteggiamento di autentica compassione (in senso etimologico) ed empatia. La nostra pretesa infantile di respingere sempre la morte opera contro di noi.
Quando il nostro atteggiamento non è aggressivo e comprendiamo i limiti e gli sforzi di chi ci sta di fronte, dobbiamo però esigere il rispetto. Occorre notare i dettagli: dare del tu, parlare ad alta voce agli anziani anche quando ci sentono benissimo, portare farmaci senza spiegare di cosa si tratta e perché se ne propone l’assunzione, svegliare i malati per futili motivi, ignorare il dolore delle persone con demenza, usare in modo errato strumenti di contenzione, solo per alleggerire il lavoro degli operatori, usare indiscriminatamente il pannolone per non dover accompagnare i pazienti in bagno, e la lista potrebbe allungarsi indefinitamente, con tutti gli atteggiamenti paternalistici e irrispettosi con cui certamente anche voi vi siete scontrati in qualche luogo di cura.
Su questo fronte, le cure palliative hanno molto da insegnare, perché considerano fondamentale la tutela della dignità del malato, che viene messo al centro dell’attenzione e pensato come persona complessa di cui prendersi cura.
La parola “cura” è la chiave di volta di questa nostra riflessione. Occorre chiedere di essere “guariti” solo quando è possibile, ma pretendere sempre di essere “curati”. Curare anche quando non si può guarire è uno slogan per le cure palliative. Ma la cura (il prendersi cura della persona, e della sua qualità di vita) non va riservata solo alle persone alla fine della loro esistenza, a domicilio o in hospice, ma va estesa progressivamente alla dimensione sanitaria tout court. E’ la grande sfida che le cure palliative stanno intraprendendo dal punto di vista culturale. In primo luogo, portare le cure palliative in tutti i luoghi di cura, quindi contagiare con la propria cultura della cura rispettosa tutto il mondo sanitario. La pandemia ci ha dato un esempio della potenza trainante delle cure palliative: nei pochi centri in cui erano presenti dei medici palliativisti, le cose sono andate in modo meno drammatico.
Harvey Max Chochinov scrive, nel bellissimo Terapia della dignità: «Se la vita è una specie di camminata sul filo, la probabilità di cadere aumenta a mano a mano che ci si avvicina alla fine. Pensiamo, allora, alle cure palliative come a una rete di protezione. Nessuno può evitare la caduta, ma le cure palliative possono dare un atterraggio più morbido». Io aggiungerei che questa rete potrebbe essere stesa con il dovuto anticipo, per garantire un po’ di morbidezza anche a coloro che magari guariranno, ma che stanno attraversando un’esperienza difficile.
Sarà un percorso lungo, perché richiede un cambiamento di mentalità, ma ciascuno di noi potrebbe abbreviarlo per sé e per i propri cari, informandosi sui propri diritti e sulle cure palliative, e chiedendo una cura rispettosa, trasmettendo anche ai curanti l’esigenza di salvaguardare la percezione dei malati di essere portatori di dignità. Parliamone, raccontiamo, contribuiamo a modificare la medicalizzazione priva di umanità.
Che ne pensate?
Avete esperienze che volete raccontare? Vi è capitato di sentirvi privi di dignità in sanità?
Il mio compagno tanti anni fa ha fatto l’infermiere per 4 anni . È una persona molto sensibile e una delle prime cose che mi ha raccontato di quel lavoro è stata la mancanza di tempo da dedicare ai pazienti,ascoltarli e farli sentire il meno disagio possibile a chi si sente ovviamente spaesato e spaventato trovandosi in ospedale. Ciò mi ha spaventato molto.
Io nel mio piccolo ,lavorando con gli anziani (gestisco una piccola biblioteca popolare) cerco di dedicare loro il massimo tempo e attenzione . Ogni giorno è un regalo . Ho già perso molti utenti e sono andata a molti funerali .mi affeziono molto e cerco a modo mio di trovare il libro giusto per loro in modo che quando leggono si sentano meno soli (perché molti anziani si sentono tremendamente soli e abbandonati ma non lo dicono ma si percepisce ). Li cerco a telefono quando non si fanno vedere da un po’. Porto loro i libri in bucalettere se non riescono a passare direttamente da me. (La pandemia mi ha fatto conoscere le vie del mio paese e le bucalettere di molti utenti)Appena iniziai a lavorare lì 7 anni fa misi una sedia davanti alla mia scrivania perché li vedevo anziani e affaticati e con tanta voglia di parlare. Immediatamente è scattato il click!è bastata una semplice sedia . In questi anni si è creato un legame magico con tutti loro. Mi raccontano pezzi della loro vita e mi vogliono bene e io altrettanto. Premetto che ho sempre avuto facilità a comunicare con gli anziani perché mi hanno sempre affascinato ,le loro storie i loro vissuti e loro saggezza . Quando sono sola a sistemare i libri penso a quanto sarebbe piaciuto tal libro alla signora X che ora non c’è più o al signor Y . Le loro voci e le risate . Sono ancora con me ,nella mia memoria finché ne sarò capace.
Un saluto a chi legge e grazie per questo angolo di profonda riflessione e analisi di Marina Sozzi.
Sara
Grazie a lei, Sara, il suo racconto è meraviglioso e meriterebbe di essere usato come sceneggiatura per un film.
Purtroppo sono consapevole del poco tempo che hanno gli operatori per stare vicini ai pazienti. Però in molti casi la storia del tempo diventa un alibi, perché anche in un secondo si può, ad esempio, guardare una persona in modo che si senta vista.
Salve Marina, proprio recentemente parlavo con un’amica, che si occupa di consulenza psicologica per le aziende e con la quale ho creato uno spazio per celebrare in natura, di come le parole siano fondamentali per far si che vengano accettati nuovi concetti. Nel mio caso “ritualità e cerimonie laiche” e tutto quello che gira intorno a questo concetto. I più non comprendono e fanno fatica a dare una valenza sociale a questi argomenti. Come fare? Abbiamo convenuto che occorre forse modificare le parole usate per definire l’argomento senza attribuirgli valenze che possono essere valutate superficiali. Un esempio è nella definizione “decrescita felice”, un concetto che a livello sociale è stato piuttosto fallimentare. Allo stesso modo abbiamo citato proprio la definizione di “cure palliative”, alla quale tante persone, per prime soprattutto nel settore sanitario, non danno la giusta valenza con tutto quello che ne consegue. Sono convinta che la “rivoluzione” inizi dal linguaggio. Comprensibile, privo di riferimenti fuorvianti, immediato nella comprensione. Per quanto riguarda noi, ci stiamo provando a modificare i termini in modo da rendere il concetto chiaro da subito… ma che fatica! Cordialità
Cara Lucia, grazie per il suo commento. Il linguaggio che usiamo è senz’altro importante, ma rappresenta solo una piccola parte della nostra comunicazione. C’è tutto lo spettro del non verbale, che è, probabilmente, ancora più rilevante.
Vero, indubbiamente la parte non verbale riguarda il rapporto operatore/paziente. Forse sono fuori tema. Ma chi ancora non è “paziente” e, soprattutto, gli operatori, forse, avrebbero necessità di far loro parole come dignità, consenso informato …e palliativo. Lei stessa afferma che alcuni medici non conoscono le cure palliative. Sarà perché la parola stessa ai loro occhi forse è fuorviante? La mia dottoressa di famiglia non sapeva cosa fossero le DAT. C’è tanto lavoro da fare. Grazie per questo spazio che offre sempre molti spunti.
Su questo ha perfettamente ragione Lucia, occorre parlare di queste cose il più possibile, dentro la sanità ma anche fuori.
Questo articolo mi ha fatto ricordare l’ultimo mese di vita di mia madre ricoverata in una struttura per anziani. Ho ancora grossi sensi di colpa per non averla difesa da quello che era un evidente accanimento terapeutico. Non si muoveva, non parlava, non mangiava, aveva tubi per mangiare e per urinare, brutte piaghe da decupito e gambe e piedi gonfi. Quando per la seconda volta il tubicino al braccio per l’alimentazione forzata si è staccato ho tentato di capire dal medico della struttura se erà proprio necessario portarla di nuovo in ospedale per rimettergielo. Il medico senza nemmeno guardarmi in faccia mi ha chiesto se volevo far morire mia madre. Allora non sapevo molto delle cure palliative. Oggi riporterei a casa com me mia madre dove avrebbe potuto passare i suoi ultimi giorni in un ambiente famigliare e morire circondata dai suoi famigliari.
Come la capisco. Alcuni medici sono veramente degli incompetenti quando si parla di fine vita. E non hanno alcuna cultura delle cure palliative. Speriamo che ora, con la scuola di specialità in cure palliative, ci sia, poco per volta, una maggiore consapevolezza.
Ha ragione su molte cose. Aggiungerei che c’è un grosso problema di personale infermieristico e medico oltre che carenze strutturali in alcuni ospedali. Potrebbero in parte risolvere assumendo molti OSS ma non viene fatto … criteri aziendalistici. Se in un reparto di medicina, per 25 pz ci sono 2 infermieri e 1 oss di notte, non è possibile assicurare la cura come dovrebbe essere. E avrei molto da dire di situazioni non adeguate che portano a un impoverimento delle attenzioni. Dobbiamo chiedere a gran voce una ripresa di investimenti nel sistema sanitario pubblico universalistico.
Come non essere d’accordo?
Accade anche alle donne quando vivono la gravidanza, il parto, il puerperio. Chi lavora con le persone vulnerabili dovrebbe soprattutto rispettarne la dignità, considerando che l’efficacia degli interventi è relativa. E invece molti operatori si pongono come gli unici padroni della situazione. L’esperienza di non essere considerati come persone lascia un segno: avrei dovuto reagire? Chi era lì con me avrebbe dovuto proteggermi?
Come sempre, leggere i vostri articoli e commenti è un arricchimento. Grazie!
Grazie Giovanna, è assolutamente vero, accade anche per il parto e i reparti maternità. E’ un momento delicato, spesso trattato in modo seriale.
Grazie, ancora, sempre, per queste riflessioni.
Ci sono due narrazioni che convivono nella descrizione della sanità di questo nostro faticoso presente. Entrambe, al netto di ogni semplificazione e di ogni retorica, hanno un fondo di verità. Una è quella che riguarda il disagio – in termini di motivazioni, rischi, orari di lavoro, riconoscimento sociale – del personale medico e paramedico, chiamato a farsi carico di gravi irrazionalità e disfunzioni delle politiche sanitarie. L’altra è quella di chi, situato dall’altra parte (non vorrei usare la parola barricata) e spesso privo di contrattualità, si trova in balìa di attese estenuanti, di diagnosi approssimative, di prognosi difensive. Semplice a dirsi, meno a farsi, le due narrazioni dovrebbero trovare un punto di convergenza. L’esperienza che posso portare riguarda l’incidente occorso a mia moglie dieci anni fa. Ero stato avvisato che sarebbe arrivata al pronto soccorso per una caduta in bicicletta ed ero arrivato lì per aspettarla. Non sapevo di più e non ero preparato a quello che avrei poi trovato. Dopo un’attesa che mi sembrò infinita, uscì dal Pronto soccorso un’operatrice con un sacco di plastica trasparente, che mi consegnò dicendo: “Intanto le do i vestiti di sua moglie…”. Dopo un’ulteriore attesa, arriva una dottoressa con altri due colleghi che si rivolse a me con queste parole: “La circondiamo, altrimenti Lei ci cade per terra”. La medesima vicenda, che proseguì per alcuni mesi, lasciando conseguenze che durano ad oggi e dureranno ancora, ci mise di fronte a manifestazioni di rispetto e di premura incondizionati per il paziente e ad espressioni di “banalità del male”. Credo che si debba lavorare su più versanti: quello organizzativo, che mostra evidenti lacune ma, nello stesso tempo, quando le cose funzionano, fa vedere che “è possibile”; quello culturale, che non può risolversi in un corso di bioetica nel programma di studi di Medicina; quello politico, che deve trovare risorse adeguate e dare indicazioni precise e chiedere conto della loro realizzazione; quello della direzione delle strutture, perché le differenze, ceteris paribus, si vedono e sono molto manifeste; quello della formazione; quello della rilegittimazione delle professioni sanitarie. Purtroppo viviamo in un Paese che risolve leggi anche moto avanzate in proceduralismo: basti pensare al significato teorico, e poi a quello reale, del consenso informato. E in ogni caso, la verità che non può essere smentita è che, quando le cure non possono fare più nulla per guarire, ma devono fare tutto per escludere il dolore inutile, cioè per assicurare qualità (non è un paradosso) persono al dolore, la dignità personale è tutto quello che ci rimane.
Grazie anche a lei per il prezioso commento. Ci sono più fronti, e lei li ha perfettamente descritti. Quando c’è complessità (e questo è il caso) è sempre errato dare soluzioni semplicistiche. Nel mio piccolissimo, mi sono data il compito di fare cultura tra le persone e, quando mi capita e vengo invitata, formazione per gli operatori.
È un mio pensiero continuo, visto che sono sola, anziana, e con un reddito basso. Ho lavorato per anni nelle RSA come educatrice e conosco quindi, ahimè, i tanti modi di ritrovarsi soli,,indifesi , privati della dignità ( ho visto negare un antidolorifico “perché intanto….”. Si apre uno scenario buio perché sempre più sarà probabile ritrovarsi da soli, alle prese con un sistema sociosanitario ormai allo sfascio. Oggi ti salvano i figli amorosi, se ne hai, e, triste dirlo, i soldi. Ma per chi non ha nulla di ciò, solo una costruzione di solidarietà potrebbe alleviare la sofferenza
Alessandra, è vero, fa paura. Ma siccome la percezione della dignità dipende dalla relazione che abbiamo con gli altri, perlomeno finché siamo lucidi il nostro atteggiamento conta molto. E poi, mi raccomando, scrivere delle disposizioni anticipate di trattamento molto dettagliate, trovare un fiduciario e consegnarne copie agli amici e ai parenti.
Due mesi fa mia mamma è stata ricoverata in una nota clinica privata per la riabilitazione dopo la frattura del femore. Purtroppo qualcosa è andato storto e mia mamma si lamentava di dolori fortissimi. Ci sono voluti giorni per capire la causa , ma purtroppo, nel mentre, i medici pensavano esagerasse e non volevano alleviare il dolore della paziente. Si sono convinti quando ho detto a un operatore queste parole: “senta , ho perso mio marito di 55 anni in un incidente, so bene che mia madre ha 80 anni e quindi non faccio la lamentosa, ma sta soffrendo, le allievi per favore il dolore”. Volevo dire quello che voi avete scritto in modo decisamente migliore: “non pretendo che guarisca, la morte è una possibilità che conosco, ma allievi a mia madre l’inutile sofferenza fisica”, che poi si è rilevata fondata. Quello che mi ha stupito della struttura era il totale scollamento della parte riabilitativa da quella neurologica, quando mi risulta che molti anziani operati al femore ne risentono psicologicamente e dal punto di vista neurologico. Grazie.
Grazie a lei per la sua testimonianza!