Death education? di Marina Sozzi

foto-di-A.Zhuravleva
L’espressione “Death education” è così diffusa tra coloro che si occupano di morte e morire che pare che il suo significato sia arcinoto e scontato. Tuttavia, se ci fermiamo un attimo a riflettere, è piuttosto fumosa e poco concreta.
Desidero quindi pormi degli interrogativi su questa locuzione: chi, come e a che scopo dobbiamo educare alla morte?
Cominciamo dal chi: i bambini? gli adulti? gli operatori sanitari e sociosanitari? le persone in lutto? coloro che aiutano le persone in lutto? coloro che affrontano la propria morte? tutti i cittadini del mondo occidentale?
E come? Con interventi nelle scuole, facendo cultura, formazione, proponendo riflessioni sulla morte, moltiplicando blog come questo, pagine Facebook o altri canali social? Questi interrogativi, come vedete, ci spalancano la visione di un insieme complesso di problemi differenti, che sarebbero da affrontare separatamente. La Death education appare una sintesi che, invece di essere funzionale, ci impedisce di entrare nel merito di ogni singolo aspetto.
Ma ora arriva la parte più ardua. A che scopo dobbiamo educare alla morte? E perché esiste questa necessità?
La Death education è infatti la risposta che si usa dare a un altro luogo comune, ossia l’idea che esista nella nostra cultura un diffuso tabù, o rimozione, o negazione o evitamento della morte. In concreto, quando pensiamo alla negazione della morte ci vengono in mente i nostri contemporanei che denunciano gli operatori sanitari quando muore una persona cara; ci ricordiamo di coloro che ignorano la vulnerabilità propria disprezzando quella altrui (migranti, poveri, malati, vecchi, disabili, morenti, come scriveva in modo magistrale Norbert Elias in La solitudine del morente); pensiamo ai medici che non si arrendono davanti alla morte neppure quando è tempo, e continuano a proporre terapie futili e inappropriate, privando i malati della consapevolezza; pensiamo ai familiari che mettono in atto la congiura del silenzio; pensiamo ai genitori che non dicono ai bambini che è morto un nonno o l’altro genitore. Sono problemi sociali sui quali è bene mettere pensiero, e che non intendo certo minimizzare.
Tuttavia, dopo le grandiose opere di Philippe Ariès e Michel Vovelle, le riflessioni di Geoffrey Gorer e Norbert Elias, manca oggi un lavoro che approfondisca questo specifico tema, quello dell’evitamento della morte. Davvero neghiamo la morte? O la paura e l’orrore per la morte ha assunto forme differenti nelle varie culture, e ci troviamo oggi di fronte non a una svolta storica (che ci permetta di contrapporre un passato di familiarità con la morte all’odierna difficoltà) quanto a una forma storicamente determinata di risposta alla morte? E’ una domanda che dobbiamo porci, perché è anche vero che la conoscenza della propria mortalità (il sapere di morire) rappresenta una minaccia esistenziale per l’uomo in quanto la morte è in contrasto con l’istinto di sopravvivenza che caratterizza tutti gli esseri. Esiste quindi una quota di ansia legata al pensiero della mortalità, che non dipende solo dall’atteggiamento di una cultura nei confronti della morte, ma che è un elemento antropologico.
La risposta contemporanea alla morte è magari poco efficace. Ma si tratta pur sempre di una elaborazione culturale complessa, che è riduttivo interpretare semplicemente come una carenza, alla quale rispondere con la Death education, intesa come una sorta di bacchetta magica.
Intanto, mi viene spontaneo notare che è pressoché impossibile fare “educazione alla morte”. La consapevolezza della morte non è possibile raggiungerla se non si è in prossimità della fine della vita, nel momento in cui la propria morte assume contorni di realtà e attualità.
Quello che è possibile fare è educare alla mortalità, che è cosa diversa, e non è solo questione di termini. Saper riconoscere la propria finitezza, quindi la propria vulnerabilità, fa di noi esseri migliori, più tolleranti nei confronti degli altri, più capaci di vicinanza, più attenti alla sofferenza altrui (ma anche più capaci di individuare la propria e comprenderla). Il modo migliore per educare alla finitezza sembra essere aiutare le persone, se possibile fin da bambini, ad accettare qualche frustrazione, ad accogliere il limite, che ci segnala appunto la nostra imperfezione e fragilità. Educare alla finitezza significa dare il senso del limite.
Il che ha a che fare con la morte solo parzialmente. La morte è la Finitezza per antonomasia, con la maiuscola, e certo può servire far comprendere ai bambini, per gradi, e seguendo la loro capacità di comprensione, che siamo mortali. Accanto a questo è altrettanto indispensabile l’alfabetizzazione emotiva, che è altrettanto fondamentale. Saper riconoscere le proprie emozioni e dare loro un nome significa anche riuscire più facilmente a tollerarle.
Questo discorso complesso non è certo concluso, anzi è appena dissodato. Ma credo sia importante, passo dopo passo, provare a mettere in forse le certezze troppo radicate che hanno preso forma in quel meraviglioso crocevia di saperi che è la tanatologia, il discorso sulla morte.
Avete voglia di seguirmi in questa riflessione, che avrà altre puntate?
E intanto: voi che cosa pensate della Death Education?
Io ho iniziato a pormi il problema della morte dopo aver perso genitori e suoceri dopo lunghe malattie e tanta fatica.
Nel 2018, dunque solo da quattro anni e ne avevo allora 58.
Conosco però il senso del limite fin dalla nascita, con periodi di infermità anche lunghi, seguiti da altri episodi di traumi fisici pesanti con conseguenze di dolori forti e cronici.
Per questo, penso, la sofferenza degli altri da sempre mi tocca, mi lascia pensieri su cui poi mi trovo a riflettere.
Ed ho capito che riflettere su questi significa riflettere sul senso della vita, che è qualcosa di molto più grande di me ma è un cantiere che ho aperto e a cui intendo lavorare costantemente. Leggendo, la filosofia in particolare, facendo corsi e percorsi, abitando il volontariato e ascoltando le testimonianze di tutti quelli che sono in contatto con la fine della vita.
Ormai quando mi arriva la notizia della morte un pò “prematura” di qualcuno a me vicino o noto o altro invece di cercare di scacciare questo pensiero che comunque mi pesa corro alla mia cassetta degli attrezzi, apro il testo che sto leggendo o ne inizio un altro o riascolto un intellettuale di cui qualcosa ho trattenuto.
Qualcosa mi impone di darmi da fare, sento proprio che quella cosa può arrivare a me o ad un familiare e devo farmi trovare – per quanto possibile – pronta.
Il concetto di death-education è davvero vastissimo, da parte mia posso solo dire che difficilmente trovo persone con cui posso parlare di questo mio “interesse”, le persone scappano, mi dicono ma è triste, o sei depressa….persone di 70 o anche 80 anni e questo si che è triste.
Non so suggerire da dove si dovrebbe cominciare, io personalmente ho iniziato un piccolo lavoro di preparazione se così si può dire ma individuale.
E vorrei avere persone con cui poter parlare di bilancio di vita, di integrazione nella vita di questa cosa terribile che è la morte ma che c’è, condividere paure, instaurare pratiche di dialogo o scambio di esperienze, insomma momenti per esercitarsi a pensare ai limiti della condizione umana.
E poterlo fare pensando alla mia morte perché mi rendo conto che temo e penso sempre con paura di perdere marito, o un fratello o un nipote. Devo lavorare al pensiero della mia morte che poche volte contemplo, vorrei addirittura lasciare un buon esempio a chi resta……
“Lì dove c’è la tua paura c’è anche il tuo compito” come dice Jung. Ecco, questo è in estrema sintesi.
Grazie mille Rossana per la sua testimonianza!
Gli antichi non mettevano in opposizione vita e morte ; semplicemente credevano in un’unica Vita. Nella modernità lo abbiamo dimenticato e abbiamo trasformato la vita nel fine e non nel mezzo ( con la morte) per entrare nella Vita che sempre si autorigenera .Una parziale educazione alla mortalità , fin dall’età in cui il concetto di morte diviene irreversibile , può solo essere integrazione di conoscenza ed esperienze che promuovano la scoperta di territori sottili che non si identificano con le mappe … educando a non afferrare ma a lasciar andare . Per le coscienze i tempi sono indefinitamente più lunghi per realizzare una trasfigurazione della morte come unica Realtà esistente .
Grazie per aver sollevato questo tema.
Io non voglio essere presuntuosa nel dire che mi sembra di avere abbastanza consapevolezza della morte già adesso che ho 43 anni e anzi, ormai da tempo.
È vero, ho perso una sorella quando avevo 18 anni, mio padre quando ne avevo appena compiuti 30, lavoro per un’associazione che supporta bambini e adolescenti in lutto, e, in quanto fundraiser e philanthropy adviser, accompagno le persone che lo desiderano nella definizione dei loro obiettivi filantropici anche per dopo la loro morte, che tra l’altro penso essere un dolcissimo modo per dare un ultimo senso alla propria vita e un forte insegnamento a chi rimarrà anche dopo. Oggi qualcuno mi ha detto che sono estremamente più sensibile degli altri perché alla mia età, con tre bambini, ho già scritto un testamento. Ma a me non sembra possibile. Non mi sembra possibile che per la gente sia così impossibile capire che ad un certo punto, all’improvviso o dopo una lunga malattia, non ci saremo più.
E credo fermamente che una “death education” sarebbe un’importante promozione di una cultura dell’essere umano, della bellezza della vita, dell’importanza di dare un senso, quello che si vuole, ma di trovare quello che si vuole e di lasciarlo, prima che sia troppo tardi. Tuttavia, io penso anche che il mondo si divida tra chi ha capito (non per forza accettato) che alla morte non c’è scampo e chi, invece, di morte non vuole sentir nemmeno parlare. E visto che non sono i primi ad aver bisogno di una death education, trovo m estremamente difficile convincere i secondi a lasciarsi educare…ma sono sicura che voi, più esperti di me, saprete trovarlo…grazie ancora!
Gentile Caterina, grazie per il suo commento. Le iniziative di sensibilizzazione su questi temi si stanno moltiplicando, ma in genere mobilitano le persone già sensibili, come lei.
Io cercherò di approfondire però, anche nei post successivi, cosa significhi davvero “avere consapevolezza della mortalità”, se è vero che la nostra epoca ne sia priva, e per quali ragioni.
Mi ritrovo pienamente nel bel commento di Rossana. Io ho incominciato a pensare di dover riflettere sulla morte quando sono andata in pensione. Da allora cerco di leggere libri che affrontano questo argomento e mi capita anche di parlarne con amici e conoscenti ricevendo talvolta reazioni insofferente. Come genitore di 2 figli già adulti credo di dover mostrare loro come affrontare serenamente la morte. Soltanto in quel momento considereró completato il mio compito di madre.
Grazie Ersilia, è un bel modo di intendere il proprio ruolo di madre. Trasmettere la possibilità di affrontare anche le cose più difficili e dolorose della vita.
La morte dei miei genitori ed, in modo improvviso, di mio fratello (ragazzo down), mi ha fatto conoscere il dolore lancinante e quella solitudine, che sempre rimane nell’anima, ma l’amicizia, l’affetto delle persone hanno contribuito a dare quel senso alla vita, che non riuscivo a trovare. Cerco a mia volta di “ricambiare” quanto ho avuto, in attesa che arrivi anche per me quel momento….
Come è stato per me, così ognuno di noi ha modalità diverse per pensare, parlare ed affrontare la morte, che si concretizzano per lo più di fronte alla situazione vissuta realmente. La propria personale concezione del fine vita determina anche la gestione dei rapporti con gli altri: non a caso chi teme la morte, rifiuta qualsiasi percorso di riflessione e cerca di allontanare anche le persone che ne parlano in modo naturale, chi, invece, ha affrontato eventi luttuosi e considerato la fine della vita come un evento, dal quale non si può fuggire, comprende ed accetta l’esistenza della morte. Proprio perché soluzioni precise e risolutive non esistono, si è cercato attraverso lo studio della morte di individuare le modalità più incisive di comprensione scientifica e di studio della “vita con la morte inclusa“, come Kastenbaum la definisce, in the study of life with death left. E in effetti, da punti di vista diversi – biologico, psicologico, culturale, legislativo ed economico – la tanatologia si è occupata e tuttora si occupa di analizzare, in una prospettiva interdisciplinare, come la morte condizioni la vita dell’uomo e le sue aspettative.
I progressi della medicina e della tecnica, infatti, hanno introdotto un nuovo sguardo e aperto nuovi interrogativi che sfidano le tradizioni, l’etica e la legislazione, ma che non possono sempre trovare risposte all’interno della medicina stessa: vi sono eventi come la morte cerebrale e l’eutanasia, o soluzioni – che soluzioni non sono – come l’accanimento terapeutico, o le direttive per il fine vita che hanno reso il dibattito sul significato e la natura della morte, sicuramente non semplice, ma meno arduo e più consapevole.
Di certo, la death education (anche se negli Stati Uniti, dove è nata, l’educazione alla morte è una normale modalità di studio utilizzata ovunque: nelle scuole, nelle università, nell’ambito della formazione professionale e del volontariato) non risolve i problemi legati all’accettazione della morte, ma può essere considerata uno strumento per chi vorrebbe conoscere, imparare ed approfondire quali possono essere le destinazioni ed i percorsi, per raggiungere questo ultimo obiettivo, perché la morte, per quanto paurosa, terribile e difficile da accettare, altro non è che un altro obbligato traguardo della nostra vita, che si desidererebbe raggiungere con la minore sofferenza possibile.
Beh mica da ridere, più di altre volte.
Penso che ci sono più tipi di morte, quando arriva alla fine di un percorso naturale è più facile accettarla, diverso il caso della gioventù o nel mezzo del cammino di vita.
Parli di educazione, impresa ardua, è che non si può scindere la tematica della morte con gli scenari della società.
Dovrebbe essere unisona la cosa, finché siamo spinti verso sempre nuove aspettative e desideri è
difficile averne il controllo.
Ci sono anche altri cofattori che tralascio per ovii motivi.
È una nicchia interessante, un vuoto da colmare ma non mi spingerei oltre.
Educare al morire sta all interno della educazione all impermanenza. Arduo in tempi in cui ci si spende per mantenere il proprio volto al riparo dalle rughe in ogni modo!
Forse fare conoscere la possibilità, la necessità e anche L utilità e la piacevolezza di riuscire a Stare nelle cose che cambiano costantemente , potrebbe aiutare?
Molte pratiche meditative sono volte a indagare il morire è pur non essendo affatto fruite, sono illuminanti per come investigano la vita (e quindi la morte)
Grazie per il suo lavoro!