Instagram e le influencer della morte, di Davide Sisto
Da alcuni anni, in Italia, i social network sono diventati testimoni di un significativo numero di influencer piuttosto particolari: i cosiddetti “tanato-influencer” o “influencer della morte”. In altre parole, come succede in Gran Bretagna e negli Stati Uniti, ci sono alcune persone – per lo più di genere femminile e di età relativamente giovane – che utilizzano i social media (soprattutto, Instagram) per parlare colloquialmente di morte, di lutto, di riti funebri con i propri followers. Ciascuna di loro ha un seguito di decine di migliaia di followers, a dimostrazione dell’interesse nei confronti del tema e della loro attività. Il primo nome che mi viene in mente è quello di Giulia Depentor, creatrice di contenuti digitali per aziende e brand, dunque non tanatologa in senso proprio. Tuttavia, è divenuta alquanto nota per il podcast Camposanto, dedicato agli amanti dei cimiteri e a chi è interessato a conoscere le storie e le immagini fotografiche più curiose delle lapidi. Depentor gira per il mondo alla ricerca dei cimiteri più peculiari, ricostruendo le storie degli abitanti delle città e dei piccoli borghi che sono passati a miglior vita. L’attenzione per Camposanto è stata tale che oggi possiamo leggere un sunto delle sue esperienze nel libro “Immemòriam. I cimiteri e le storie che li abitano”, edito da Feltrinelli. Un secondo nome che merita menzione è quello di Lisa Martignetti, il cui nickname su Instagram è “la ragazza dei cimiteri”. Martignetti è una funeral planner, cioè aiuta le famiglie a organizzare i funerali dei propri cari. Ha circa 25.000 followers e utilizza Instagram per parlare dei principali temi che riguardano la morte: il tabù e il processo di rimozione sociale e culturale, il ruolo dei riti funebri e dei cimiteri nelle nostre vite, nonché ogni aspetto che permetta di razionalizzare la paura della morte e di prendere così coscienza della propria mortalità. Tanatolady, alias Irene Nonnis , è invece una tanatoesteta intenta, anche lei, a servirsi dei social media per raccontare storie legate al suo lavoro, al nostro rapporto culturale con la morte e con i riti funebri. Cito ancora, tra i diversi nomi che si occupano di diffondere idee sulla morte tramite le piattaforme digitali, Carolina Boldoni, antropologa culturale dallo spiccato senso dell’umorismo, la quale si definisce “la Chiara Ferragni dell’antropologia” nonché “l’influencer della morte”. Oltre a utilizzare Instagram per divulgare in modo estremamente acuto e intelligente gli studi su cui si è formata da un punto di vista accademico, ha creato un format intitolato “Lutto alle 8” e condotto insieme a Laura Campanello, il quale affronta ogni tipo di tema che riguarda il fine vita.
Depentor, Martignetti, Nonnis e Boldoni sono solo alcuni esempi di un fenomeno che sta lentamente crescendo e che italianizza, in linea generale, lo splendido lavoro compiuto da Caitlin Doughty negli Stati Uniti. Ciò che è interessante notare, almeno dal mio punto di vista di studioso del tema della morte, è il mix di creatività e di acume con cui le influencer della morte confezionano i loro video, i loro testi scritti, le loro immagini fotografiche. In altre parole, dimostrano come si possano utilizzare in maniera matura gli strumenti offerti dalle piattaforme digitali, veicolando messaggi socialmente e culturalmente rilevanti attraverso i linguaggi che vanno per la maggiore, soprattutto tra le nuove generazioni. Il contributo offerto alla causa dei Death Studies è piuttosto prezioso, ragione per cui le influencer della morte sono coinvolte negli eventi pubblici che riguardano il fine vita (festival, conferenze, dibattiti, ecc.). In un’epoca storica in cui stiamo lentamente scardinando il tabù, riportando la morte e il morire all’interno del dibattito pubblico, i processi culturali tanatologici messi in moto tramite i social media controbilanciano la ritrosia, ancora assai presente, da parte dei mass media tradizionali di trascendere con forza la rimozione. Forse, le influencer della morte sono l’ennesimo esempio di un cambiamento profondo dei linguaggi e delle espressioni pubbliche, figlio della progressiva disintermediazione generata dall’epoca dei social media. Mi azzardo a dire che rientrano all’interno del campo della tanatologia digitale o Digital Death, quali testimonianze oggettive di come il mondo online offra spazi per affrontare esplicitamente ciò che si evita, di solito, nel mondo offline.
Conoscete qualche influencer della morte? Le seguite? In tal caso, cosa pensate della loro attività? Fateci sapere.
Da vecchio (in tutti i sensi) osservatore dei comportamenti e delle attitudini umane di fronte alla morte sono un po’ disorientato da questa ulteriore trasformazione dei luoghi della morte nella contemporaneità. Istintivamente vivo queste iniziative come uno dei tanti esercizi commerciali che tradiscono il desiderio di apparire, più che finalità “didattiche” e di comprensione del senso dell’estremo limite. Mi riesce difficile, per ora, comprendere come un social possa affrontare il tema se non solo sotto la forma della tanatoprassi e della tanatomorfosi.
mah…. sinceramente dividerei l’interesse sui cimiteri e in generale su quello che succede “dopo la morte” da quello che è il concetto del “morire”.
Non credo che sia così improvvisamente semplice affrontare il “morire” . Speriamo che non sia una moda , con tutta la superficialità che ne consegue. Interiorizzare la consapevolezza del morire è un processo così soggettivo che vedo difficile possa essere facilitato da un social.
Ma magari sono troppo vecchia anche io (72) per comprendere questo nuovo trend…..speriamo sia una roba …efficace alemno per qualcuno
Ho letto con piacere l’articolo che mi ha mostrato nuovi pezzi di questo nuovo caleidoscopico modo di parlare di morte
Sono oltre la metà della vita
Sono vecchia?
Trovo molto educativo il lavoro di queste giovani donne
L’educazione alla morte è l’educazione alla vita. È quello che dovremmo capire
Provate a seguire i seminari tenuti da Carolina Boldoni e da Laura Campanello (il Lutto alle 8) e scoprirete che c’è molto spessore in ciò che propongono.
Sono rispettivamente un’antropologa e una filosofa e ascoltarle fa molto bene
Tiene in moto neuroni e cuore
Da “ragazza” del 72 invece io seguo da tempo alcune delle influencer della morte (anche se tale titolatura non mi fa impazzire) e devo dire che gli argomenti non sono mai trattati con superficialità, anzi. C’è molto rispetto e si intuisce che non sono derivati da una moda bensì da una vera e sincera passione ed interesse personale che trattano con molto coraggio visto l’argomento. Facendo riflettere, sorridere e anche piangere. Considerando i tanti post, blog, siti ecc di una banalità avvilente, io ascoltando ad esempio Giulia Depentor mi tiro su il morale.
Quello che faccio fatica a riconoscere – ma lo dico per esprimere sinceramente una mia fatica e inquietudine, non riguarda le nuove, evidentissime possibilità offerte in maniera crescente e sempre più diversificata dal mondo online rispetto alle questioni legate appunto alla morte e connessi vari, ma proprio il costrutto di fondo che afferma che parlarne sia un modo ‘efficace’ per affrontarle. Forse è questione di deformazione legata all”attività di supporto a chi vive un lutto, forse è dovuto all’esperienza così lunga da decenni che vivo e che inevitabilmente condiziona, ma non basta per me parlare, ascoltare, riflettere, condividere, fare cultura, spettacoli, eventi, libri, cose che comunque, nel mio piccolo, provo anch’io a mettere in campo (e questo per sottolineare la totale assenza di critica).
C’è una sorta di ‘pensiero magico’ imperante e trasversale in Italia: parlare di morte, lutto, fine vita permette di modificare la personale modalità di vivere appunto l’attesa della fine, la perdita, le malattie altrui. Magari fosse così, magari bastasse questo o fesse comunque decisivo. A mio avviso non lo è affatto. Certo che serve, certo che è meglio parlare che non parlare, leggere che non leggere, ascoltare che non ascoltare ma il percorso perché la narrazione propria e altrui diventi davvero occasione di cambiamento personale su questi aspetti della vita è più profondo, complesso, lungo e può accadere se passa attraverso differenti e più precise modalità narrative, di sicuro meno social, meno pubbliche, meno da convegno, meno culturali-antropologiche-sociali. Capisco anche che questo tipo di approccio non sia in linea e completamente congruente a tutto ciò che si definisce ‘death education’, così in voga (per fortuna, per molti aspetti) in questi anni e, non catturando molti followers, viene facilmente liquidato.
Non rispondo a ogni commento, come di solito tendo a fare, perché le questioni messe in campo sono tante. Mi limito a sottolineare che questa modalità di narrazione, figlia del proprio tempo, intercetta un pubblico abituato a utilizzare i social con una mentalità differente rispetto a chi ha imparato a usarli in un’età non più giovane. Mi capita continuamente, a lezione con studenti e studentesse in Università, di confrontarmi proprio sull’impatto di queste nuove narrazioni. Credo che sia importante affrontare le novità senza troppi pregiudizi e cercando soprattutto di capire il fenomeno in oggetto. Le persone nominate costruiscono narrazioni profonde e intelligenti, anche legate alla loro formazione culturale. Credo che ul loro lavoro vada integrato all’interno di un contesto più ampio che, soprattutto, deve scendere a patti con una realtà diversa rispetto a quella di qualche decennio fa. Anche perché, tra qualche decennio, la stragrande maggioranza della popolazione sarà formata da individui cresciuti all’interno della dimensione online. Dunque, avremo a che fare con un cambio generazionale che si nutre anche e soprattutto di nuovi linguaggi e nuove narrazioni. Il mondo va avanti e occorre non assumere un atteggiamento di retroguardia che lascia il tempo che trova. Grazie per ogni spunto e stimolo di riflessione.
Per scelta (e anche per l’età) non sono iscritto ad alcun social. Ma sono assolutamente d’accordo su quello che afferma Davide. Soprattutto se a portare avanti queste tematiche sulla morte sono persone sensibili e intelligenti, come lui afferma. Rispondo anche a Nicola: parlare serve, sempre. E’ un primo passo per condividere e sensibilizzare: poi ci vuole molto altro, spessore, esperienze di vita, ecc.. Ma che i giovani – sia pure sui social, ma è giusto un inizio – siano ora più sensibili a questo argomento, il fatto che la morte non rimanga un tabù che ci lascia smarriti e senza strumenti per elaborarla e affrontarla, è una notizia da accogliere positivamente. Credo che sia un errore lasciare il tema in mano ai soli “specialisti” o sociologhi o intellettuali che dir si voglia, censurando, o alzando il sopracciglio su ogni movimento che sorge dal basso. Faccio un esempio concreto, sia pur leggermente fuori tema: per far conoscere e visitare a più persone il Binario 21 (testimonianza della deportazione degli ebrei di Milano e quindi della Shoah), Liliana Segre si è rivolta all’influencer Chiara Ferragni. Forse ha ottenuto di più e di meglio guidando la visita dello stesso sito in TV lo scorso anno con Fabio Fazio a Che tempo che fa, ma la sua è stata una strategia lungimirante ed attenta ai nostri tempi attuali. Il tema del fine-vita è sempre più portato avanti da vari movimenti. So che Marina non è d’accordo sull’attività di Marco Cappato, ma oggi salutiamo, a Trieste, il primo suicidio assistito di Stato, a completo carico della Asl. Qualcosa si muove anche in Italia.
Ciao Giovanni, ti rispondo perché mi hai chiamata in causa… in realtà ho conosciuto recentemente un aspetto della Coscioni che non conoscevo (e che emerge meno nella loro comunicazione), l’attenzione per le cure palliative. Quindi, sono più disponibile nei confronti del loro lavoro, perché per me ciò che conta è che le persone possano scegliere, ma per davvero, nel profondo. Mi interessa che l’autodeterminazione non sia un diritto astratto, ma il concreto risultato di una buona assistenza.
Grazie, Marina, Condivido in toto! Un caro saluto.
Rispondo anch’io a Giovanni perché chiamato in causa. La questione non è ‘alzare il sopracciglio’ quando ci sono movimenti che partono dal basso o lasciare la questione in mano a presunti specialisti o intellettuali, men che meno evitare social o persone come Ferragni che possono veicolare come nessuno di noi può riuscire. Penso che bisognerebbe sforzarsi di andare oltre a queste reazioni quando s’impatta con pensieri non nella media o critiche, legittimamente non condivisibili ma che non sono mai offensive e denigranti.
La questione invece per me è proprio quando si afferma che parlare serve sempre, che è un primo passo per condividere. È questo che, e sottolineo per l’ennesima volta, a mio avviso, dalla mia esperienza, in base solo ai miei vissuti, non è corrispettivo alla realtà, se ci si riferisce alle persone che hanno bisogno di aiuto, ridefinizione e cambiamenti, non solo di conoscenze culturali. È da come si parla che può succedere qualcosa, non perché se ne parla e questo ‘come’ va costruito, allenato e perseguito. Altrimenti resta una narrazione che vale come un ‘primo passo’. Ma come può essere tutto, sempre un primo passo? Quando e come si fa il secondo? Perché se ogni evento, incontro, blog, podcast, presentazione, convegno e altro sono sempre e solo una sensibilizzazione, un confronto o un’emozione, una nuova idea, questo certifica che serve altro di più efficace e incisivo per chi ha, a diversi livelli, bisogno.
Caro Nicola. Posso partire solo dal mio percorso. Parlare, anche a chi non voleva sentire, è stato il mio primo passo. Poi ne servono molti altri, sono d’ccordo, sta ad ognuno di noi cogliere l’occasione. Ma credo che dare questa opportunità di ascolto (per chi vuole) sia già positivo. Questo blog ne è testimone.
Sono d’accordo con te, Davide.
Va bene Davide, capisco le tue contro riflessioni, probabilmente non riesco a spiegarmi bene io o forse questo spazio è adatto per scambi differenti. Non penso però che sia una questione di età, nuove realtà con le quali scendere a patti, cambi generazionali, retro e/o avanguardie; comprendo, perché la vivo spesso, che un’altra lettura non in linea con la stragrande maggioranza dominante in questi anni inneschi reazioni che chiedono all’altro di ‘svecchiarsi’ e aprirsi al nuovo. Ma, ripeto, dipende in parte anche da me; quello che cerco sempre di dire, perché lo vivo costantemente, è che la narrazione personale su questi temi, scritta e pubblicata su TikTok, Instagram, Facebook e vari social, approfondita su podcast, festival e dibattiti vari, necessita di un altro passaggio perché diventi, per il soggetto interessato, fonte di cambiamento e/o di nuove prospettive. E questo passaggio si realizza se la parola detta o accolta diventa cor-rispondente cioè se acquisisce correlazione con i propri pensieri, vissuti, progetti. Per fare questo non basta (ma ovviamente aiuta tantissimo)) scrivere o leggere, taggare e condividere, ipotizzando persone che sono alla ricerca di altro rispetto ciò che già posseggono. Ci vogliono tempi, relazioni, approfondimenti narrativi diversi rispetto a quelli che avvengono in rete quasi sempre, che certamente sono iniziati nella dimensione online con una diffusione mai successa prima nella storia del mondo ma, a mio avviso per fortuna, non si concludono lì se vogliono essere davvero completi.
E’ che le parole ci si limita a dirle, come se facessero accadere ‘cose’ per il solo fatto che sono pronunciate.
Comunque sia grazie di questo scambio, se ci sarà occasione più distesa sarebbe interessante approfondirlo.
Confrontiamoci volentieri in una occasione a voce. Mi farebbe piacere. Ho capito quello che intendi, ma mi viene naturale porre l’accento su ciò che hai scritto in questo ultimo commento tra parentesi: “ma ovviamente aiuta tantissimo”. Cioè, io vedo questo tipo di fenomeni come delle basi, delle fondamenta. Tutto qui. Ma davvero dialoghiamo sul tema una volta. Un caro saluto!