Morire altrove, di Cristina Vargas
Che cosa succede quando la malattia terminale coglie la persona in un luogo lontano dal proprio paese di origine? Quali pensieri, sofferenze e sfide si aggiungono alla complessità delle ultime fasi, quando queste si devono affrontare in un “altrove”, dove non si hanno radici profonde? Questo tema di riflessione mi ha accompagnata lungo tutto il mio percorso professionale e, in quanto straniera radicata in Italia da molti anni, mi risuona in modo profondo a livello personale.
Affrontare la malattia grave o terminale, la morte e il lutto in un paese lontano dal proprio pone infatti difficoltà specifiche, che si collegano alla storia migratoria della persona e al modo in cui si articolano le sue appartenenze e i suoi legami affettivi. La migrazione, soprattutto quando comporta un cambiamento significativo a livello culturale, non è solo un evento biografico, è innanzitutto un’esperienza esistenziale che comporta una brusca discontinuità nella storia di vita. Essa, infatti, è un processo che inizia prima del viaggio e non si conclude con l’approdo nella nuova destinazione, ma si snoda in un lungo arco temporale.
Che si emigri per scelta o per necessità, cambiare nazione comporta una trasformazione identitaria che investe ogni aspetto del sé. Chi emigra in un luogo lontano vive nelle prime fasi un senso spaesamento radicale: cambiano la lingua, i paesaggi, i cibi, e il clima; le abitudini e la normalità vengono stravolte e molte certezze crollano. Col passare del tempo questo senso di estraneità si attenua, ma sovente permane un sottofondo nostalgia, che si alterna ad aspettative, speranze e progetti nel nuovo ambiente.
La soggettività del migrante si struttura intorno al bisogno di trovare un bilanciamento fra vecchi e nuovi radicamenti, fra referenti simbolici ed esperienziali che devono trovare un equilibrio. Nell’incontro, sovente faticoso, con il nuovo ambiente di vita le reti relazionali e affettive si ridefiniscono, al pari dei ruoli familiari, sociali e lavorativi. Gradualmente, in modi diversi e molto soggettivi, l’identità e il senso di appartenenza vengono ripensati e ridefiniti per far nascere un nuovo equilibrio vitale.
Dove vorrei trascorrere gli ultimi mesi della vita? Dove vorrei che il mio corpo fosse seppellito quando arriverà il momento? Quale sarà il mio luogo finale? Queste domande testimoniano un movimento interiore che va nella direzione di una ridefinizione finale delle proprie appartenenze e i propri radicamenti. La domanda di fondo, che può essere espressa in molti modi e che vale sia per chi è straniero, sia per chi è italiano, è “qual è, in fin dei conti, casa mia?”.
In alcune culture la scelta del luogo ultimo ha una valenza simbolica di «localizzazione» delle proprie radici e della propria memoria e, in quanto tale, è una scelta che ha un’elevata portata esistenziale ed è intimamente connessa con la storia di vita.
Accanto al nodo dell’appartenenza, possono esserci motivazioni molto pragmatiche (“meglio tornare ora, perché il rimpatrio della salma da morto costa troppo”), religiosi (la mia religione lo prescrive) o relazionali (vorrei essere sepolto vicino ai padri o ai figli).
In alcuni casi il ritorno in patria può essere desiderato, ma precluso dalle circostanze. È il caso dei rifugiati e dei profughi, che non hanno la possibilità di scegliere di tornare, ma anche di chi ha vissuto percorsi migratori di lunga data, in cui le radici si sono perse e il tempo e la distanza hanno creato nuovi radicamenti.
In altri può essere possibile, ma la scelta è non di meno costellata da interrogativi, dubbi e timori.
Il confronto con il luogo d’origine può essere faticoso, soprattutto se si tratta di una migrazione di lunga data, in cui il tempo e la distanza hanno scavato un solco profondo fra il «paese ricordato», che non esiste se non nella memoria, e il «paese reale» con le sue problematiche e i suoi lati negativi. Penso al caso di un paziente rumeno seguito in cure palliative domiciliari, che aveva chiesto di tornare in patria e aveva chiesto l’aiuto dell’équipe. Gli operatori si erano adoperati per facilitare questo trasferimento, facendo di tuto, compreso portare il paziente all’aeroporto e imbarcarlo sull’aereo. Dopo poco, tuttavia, il paziente ritorna dicendo “No. Io a casa non ci voglio più stare”.
L’apertura rispetto alla possibilità che il paziente trascorra all’estero le ultime fasi della malattia non è uguale in tutti i contesti di cura. Ci sono contesti in cui prevale un focus sulla patologia anche in presenza di una prognosi infausta, si tende a ritenere l’idea di tornare in patria un rischio, e a non sostenere la persona, che è costretta a organizzarsi contro il parere dei curanti.
Per contro, nell’ambito delle cure palliative e, più in generale, nei contesti in cui c’è un orientamento che pone al centro la persona, è invece possibile dare al tema del ritorno in patria la giusta attenzione, nell’ottica di avviare un dialogo con il paziente e con la sua famiglia – vicina e lontana – sulle implicazioni e le modalità di un eventuale ritorno nel paese di origine.
Avete mai riflettuto su questo tema? vi tocca da vicino? Cosa ne pensate?
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