Vulnerabilità, violenza e cura, di Marina Sozzi
Negli ultimi mesi molte persone e anche alcuni giornalisti mi hanno chiesto se durante la pandemia si sia sviluppata negli individui una maggiore consapevolezza della propria vulnerabilità, e quindi una maggiore inclinazione alla cura e all’attenzione per gli altri.
E’ stata una speranza che si era affacciata nel primo lockdown, quando era prevalsa per qualche tempo un’atmosfera di solidarietà tra le persone e di gratitudine per gli operatori sanitari.
E’ durata poco, come era prevedibile per chi conosce i limiti dell’umano. Raggiungere una più alta consapevolezza della propria fragilità è un compito arduo, che richiede uno sforzo continuo, un lavorio incessante su se stessi: lo choc dovuto a un evento inatteso e avverso non è sufficiente.
La vulnerabilità è infatti la possibilità di essere esposti al “vulnus”, alla ferita altrui, corporea nell’etimologia latina, ma poi anche psicologica. Nel profondo, tutti sappiamo che l’uomo è vulnerabile, ma questa vulnerabilità non è uguale per tutti. Ci sono individui più vulnerabili di altri, per storia individuale, per status socioeconomico, per caratteristiche psicologiche, e così via. La percezione che qualcuno sia più vulnerabile di noi può portare alla cura ma anche alla violenza. Non si tratta però di inclinazioni nette e definite, bianco o nero, bene o male. Ciascuno di noi ha dentro di sè una tendenza violenta, che non necessariamente si esplica con la ferita fisica. La prevaricazione, l’indifferenza, la passione per l’esercizio del potere, l’egocentrismo, il paternalismo, sono forme di violenza, perché contribuiscono a tenere l’altro in una posizione di minorità e di fragilità. Si può essere anche violenti contro se stessi, quando non si riconosce il proprio valore, quando ci si impedisce di provare ed esprimere le emozioni, quando si è troppo esigenti.
Questa tendenza alla violenza può essere contrastata con un paziente lavoro di coltivazione della cura. Cura di sè, innanzitutto. Perché la mente umana è relazionale, e ciò che è irrisolto o bloccato in chi cura interferisce con la qualità della cura. Senza una presa in carico della propria fragilità non può esserci buon ascolto e buona cura.
Credo che questo ragionamento ci spieghi come mai sia così difficile avere una buona qualità della cura, sia nelle istituzioni sanitarie, sia in quelle sociali. E anche come mai ciascuno di noi faccia così fatica a offrire una buona qualità di cura ai propri familiari e amici che attraversano una fase di fragilità.
Non ci sono scorciatoie, il percorso verso una buona cura è un percorso innanzitutto di crescita umana. Altrimenti si può essere dei buoni o talvolta ottimi tecnici, operare correttamente dal punto di vista professionale (è il caso di molti medici), senza entrare però nella vera e propria dimensione della cura. La cura è un accompagnamento, che mira a attivare le risorse altrui per affrontare quanto la vita gli ha posto davanti. E’ una tensione verso un’uguaglianza non solo formale (siamo tutti uguali, abbiamo gli stessi diritti e doveri), ma sostanziale (cerco di colmare il fossato della disuguaglianza reale). E’ inoltre una tensione verso la realizzazione dell’autonomia decisionale della persona di cui ci si prende cura. Anche l’autodeterminazione, come l’eguaglianza, non è solo un diritto riconosciuto dalle leggi (tra cui l’ottima legge 219/2017), ma un obiettivo della cura. Se c’è rispetto della dignità altrui, riconoscimento, attenzione, le persone riescono più facilmente a decidere per sè.
Per questo buona parte della formazione che si fa in sanità dovrebbe riguardare la crescita umana necessaria per la buona cura, l’ascolto attivo, e le strategie per far prevalere l’istanza della cura sull’istinto della violenza.
Che ne pensate? Siete d’accordo? Potete raccontarci qualche episodio di buona o cattiva cura?
Una buona cura è ascolto, autenticità e silenzio nella presenza con l’altro; so che ci sei che puoi capirmi ma rispetti me,
la mia dignità. Unico, vero traguardo della crescita umana è la compassione e questa
si esplica nel Servizio.
Siamo ancora immersi in un sistema ancora “grossolano” rispetto a questi valori che sono certa andremo a riscoprire
Grazie per il suo contributo, Marianna. Speriamo che, come lei dice, riusciremo davvero a riscoprire, o a scoprire, questi valori.
Grazie, intanto, per la riflessione.
Il raro intervento che squaglia come neve al sole le desolanti banalizzazioni mediatiche e, se fa inevitabile riferimento ai “limiti dell’umano”, non è per stracco diisncanto – che è sempre pigrizia del cuore e della mente – ma per avvicinarci alla verità in tema di vulnerabilità e cura.
Grazie caro amico. In effetti credo che il disincanto non mi appartenga. Al contrario, lavorerò finché mi saranno date energie per una cultura della cura.
Grazie, una riflessione profonda come una confessione e ricca come un racconto.
L’essere umano che ci sta accanto puo’ essere per noi amico o nemico. All’
auspicabile atteggiamento di compassione, solidarieta’ e cura si contrappone l’istinto di individuale affermazione e sopravvivenza che pensa solo a sé e non serba alcuna pietà. I mesi di “chiusura” hanno moltiplicato a dismisura le patologie psicologiche e comportamentali. D’altra parte non scopriamo oggi che ogni tipo di reclusione “fisica e/o psicologica” genera violenza….
Grazie Marina, sono pienamente d’accordo con la tua riflessione. Mi esprimo su un paio di punti in particolare.
Mi piace molto la sottolineatura dell’importanza della consapevolezza della vulnerabilità propria e altrui che comporta un “venire a patti” con questa, un atteggiamento di tolleranza/ indulgenza verso se stessi e verso gli altri che favorisce l’empatia.
E così la sottolineatura della violenza intesa non solo come violenza fisica ma nelle sfumature più sottili dell’indifferenza, della disattenzione, della mancanza di riconoscimento nei confronti dell’altro/a, generatrici di rabbia e di risentimento.
E sulla formazione in sanità: penso soprattutto ( ma non solo) alla medicina di base, a un medico che ponga attenzione alla storia e alle condizioni di vita della persona, che colga la sua richiesta di aiuto e risponda alla fiducia che gli/le si manifesta e si prenda cura della relazione.
Mi vengono in mente storie molto belle di cura come capacità di mettersi al posto dell’altro/a, imparando a percepire il suo vissuto e favorendo la sua crescita di libertà e autonomia ( e quindi l’uguaglianza), a vari livelli, nei rapporti familiari, amicali e nelle relazioni di aiuto. Vorrei ricordare in particolare l’esperienza di Severino Cesari che lui racconta in “Con molta cura”, che mostra come la cura generi gratitudine mettendo in moto un processo positivo.
Grazie, Marina, per aver sottolineato la centralità della “cura”. Saper prendersi cura degli altri passa per il saper prendersi dura di se stessi. Il che, ovvio, presuppone la consapevolezza della nostra fragilità: cosa fondamentale per capire anche quella degli altri. E questo vale non solo nella malattia grave, nei lutti e in tutti i drammi della nostra esistenza, ma in ogni questione della vita quotidiana. Quindi, riguarda non solo i medici curanti, psicologi, infermieri e i pazienti, ma tutti noi, tutta la società.
Servirebbe una vera e propria “educazione” verso l’empatia, che esorcizzi l’odio e la violenza, a partire dalle scuole, che scontano la “mala educazione” di molti genitori non all’altezza del ruolo. Onestamente, credo che ne siamo molto lontani: sempre più si affermano la istanze del “branco” che ha radici tribali, dove l’individualità si dissolve nella legge selvaggia del gruppo – reale o virtuale. Forse si tratta solo di una minoranza, quella degli “haters” e dei violenti. Forse, però, è anche peggio l’indifferenza, l’alzata di spalle, la superficialità, o la totale incapacità di comunicare e di affrontare certi argomenti, che riguardano cose cruciali della nostra vita, e soprattutto questo tema così importante.
Mi unisco a Gabriella nel ricordare il libro di Severino Cesari:
“L’esercizio quotidiano dell’amore, questo infine auguro a tutti, a tutte.
Non c’è altro, credete.
Se non avete sottomano l’opportunità di una cura – scherzo, ma fino a un certo punto! – potete però prendervi cura.
Prendervi cura di voi stessi e di quelli cui volete bene.
E magari anche degli altri.
Non c’è davvero altro, credete.”
Grazie, ciao Severino!