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Tag Archivio per: elaborazione del lutto

Le app per il lutto: opportunità o rischio? di Davide Sisto

5 Maggio 2025/3 Commenti/in Aiuto al lutto/da sipuodiremorte

In un’epoca sempre più segnata dal progressivo sviluppo delle tecnologie digitali e dell’intelligenza artificiale si stanno diffondendo, in tutto il mondo, nuove modalità per affrontare problemi di natura psicologica o addirittura psichiatrica, soprattutto legati all’elaborazione del lutto. In altre parole, sono state create svariate app, alcune scaricabili gratuitamente altre a pagamento, che offrono supporto sia collettivo sia personalizzato al lutto in una maniera molto particolare: in primo luogo, una volta creato il proprio account, permettono all’utente di accedere a gruppi di supporto e a forum collettivi i quali, moderati da professionisti umani e generalmente intenti a usare la lingua inglese, offrono molteplici testimonianze personali relative a una perdita dolorosa. Ciascun utente, in altre parole, può o solo leggere passivamente i racconti altrui o intervenire attivamente con la narrazione delle proprie vicende private. Ci si ritrova, pertanto, immersi all’interno di gruppi di supporto in cui incontrare persone provenienti da tutto il mondo, le quali hanno vissuto esperienze simili alla propria, confrontandosi con loro senza uscire di casa, usando il solo smartphone e la mediazione dello schermo. In queste sezioni dell’app sono inoltre incluse vere e proprie bibliografie dedicate al tema del lutto e della salute mentale.

In secondo luogo, queste app forniscono – di solito, sottoscrivendo un abbonamento – anche un supporto del tutto personalizzato. Vi sono, cioè, professionisti riconosciuti – psicologi, psichiatri, svariati terapeuti e addirittura notai e giuristi – a disposizione del singolo utente, di modo da fare sedute terapeutiche tramite gli schermi e da ottenere le consulenze necessarie in merito alla gestione delle eredità del caro estinto, compreso il supporto per la compilazione di documenti legali e finanziari.

Oltre ai professionisti umani, vi sono anche – in alcuni casi – veri e propri chatbot basati sull’intelligenza artificiale generativa, i quali offrono la loro assistenza come terapeuti virtuali 24h su 24. Pertanto, il singolo utente può decidere di parlare delle proprie vicende private con un programma di intelligenza artificiale, in grado di adattarsi alle risposte e di creare un legame emotivo con il paziente, riuscendo spesso ad affrontare anche le situazioni più critiche, come – per esempio – la minaccia di un atto suicidario (o, almeno così, viene garantito). La peculiarità di questi chatbot è la loro disponibilità totale e senza pause. Li si può contattare in qualsiasi momento del giorno e della notte, essendo privi delle esigenze tipicamente umane.

Le app per ora più utilizzate sono Untangle, DayNew, Empathy. Recentemente, un team di ricercatori del Dartmouth ha condotto la prima sperimentazione clinica su un chatbot terapeutico basato su IA generativa, chiamato Therabot. “Dopo otto settimane, tutti coloro che avevano usato Therabot hanno registrato una riduzione significativa dei sintomi, superiore alla soglia considerata clinicamente rilevante”, leggiamo in questo articolo.
La diffusione progressiva di questo tipo di supporto tramite app, soprattutto negli Stati Uniti ma anche nel continente europeo, ovviamente non può non sollevare tutta una serie di domande. In primo luogo, c’è da chiedersi a chi, effettivamente, raccontiamo le nostre vicende personali e confidiamo i nostri problemi di salute mentale. Come spesso capita nel mare magnum delle app, non abbiamo idea di come vengano utilizzati i nostri dati e, soprattutto, se vengono protetti e preservati con cura, tenuto conto dell’estrema vulnerabilità in cui si trova il dolente. Siamo davvero preparati a barattare i nostri bisogni di condivisione e di assistenza con la condivisione sregolata di informazioni estremamente delicate? In secondo luogo, là dove vengono offerti supporti sia da professionisti umani sia da programmi di intelligenza artificiali, ci si chiede se dall’altra parte dello schermo, nel caso l’utente voglia interagire soltanto con un essere umano, se è davvero soddisfatta la sua richiesta oppure se siano utilizzati chatbot a sua insaputa. Se l’utente usa la tal app in piena notte, a causa di un’improvvisa crisi, chi gli risponde? O, detto meglio: chi gli garantisce che a rispondere sia davvero una persona in carne e ossa? Inoltre, i chatbot sono programmati generalmente per trattenere il più possibile gli utenti che ne fanno uso: questo non inficia la relazione terapeutica? Non rischia, ad esempio, di creare subdole forme di dipendenza emotiva e psicologica? In terzo luogo, il supporto mediato dagli schermi, che sia offerto da un terapeuta umana o da uno artificiale, ha la stessa rilevanza di quello fatto in presenza?

L’innovazione tecnologica si evolve più rapidamente del modo di vivere degli esseri umani, dunque c’è da chiedersi se gli strumenti finora utilizzati dai terapeuti nelle sedute in presenza possano essere così facilmente sostituibili da quelli usati a distanza, tramite lo smartphone. Difficile dare oggi una risposta oggettiva. A mio modo di vedere, trovo positivi i forum e i gruppi di supporto presenti in alcune di queste app che, come negli altri gruppi presenti sui social media, possono offrire calore e vicinanza a chi fa fatica a rapportarsi con le persone che lo circondano. Più delicata la questione relativa alla vera e propria terapia tramite app. Di certo, è indice di una realtà in continua trasformazione, la quale intercetta i cambiamenti sociali e culturali degli esseri umani. Occorre, pertanto, non censurare ma tenere gli occhi aperti, facendo in modo che queste innovazioni possano rappresentare un surplus di aiuto, non una sostituzione.
E voi cosa ne pensate? Avete mai provato un app per il lutto? Fateci sapere.

https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2025/05/evidenza.jpg 265 350 sipuodiremorte https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2024/05/93409bba-2fe8-4231-86b3-36648bff989e.png sipuodiremorte2025-05-05 10:39:252025-05-05 10:39:25Le app per il lutto: opportunità o rischio? di Davide Sisto

Il linguaggio della colpa, di Cristina Vargas

26 Novembre 2024/0 Commenti/in Aiuto al lutto/da sipuodiremorte

Il senso colpa, in tutte le sue forme, è un’emozione forte, che segna profondamente il nostro agire e che spesso costella il percorso di elaborazione del lutto. Potente regolatore del comportamento individuale, il senso di colpa è una delle emozioni sociali, nel senso che esso ha la funzione di collegare il sentire e l’agire di ciascuno di noi a codici morali che hanno radici culturali, storiche e religiose.

Il filosofo e teologo ebraico Martin Buber, in polemica con le correnti psicologiche individualistiche allora dominanti, proponeva di ancorare la colpa alla relazione che la persona ha con il mondo e con gli altri. La colpa, spiegava Buber, non è solo un faticoso movimento intrapsichico da cui liberarci, ma ha un aspetto vitale, inevitabile (e forse necessario), poiché l’essere umano ha la potenzialità di commettere dei danni, lo sa, e deve occuparsene. In questa prospettiva, questa emozione si situa nello spazio intersoggettivo, che è anche il luogo del legame affettivo e della responsabilità reciproca.

La colpa però è un’arma a doppio taglio. Essa, per esempio, ha avuto un ruolo importante nel portare le donne a interiorizzare le disuguaglianze di genere, oppure può bloccarci in ruoli che non ci appartengono, oppure che non riusciamo ad abbandonare per timore di deludere qualcuno che ci sta (o che ci stava) a cuore.

Questa linea di pensiero critico è fondamentale, perché ci permette di affermare che esistono sensi di colpa infondati, che non hanno agganci nella realtà, ma che sono il frutto di convenzioni sociali introiettate, o di una percezione distorta di quello che è accaduto.
Fondato o infondato, razionale o irrazionale, il senso di colpa accompagna le esperienze di perdita, ed è una delle emozioni che sovente caratterizzano il lutto. Ne coglie bene la portata Michele Reich, in arte ZeroCalcare, quando scrive:

“Però c’è un’altra parte del corpo a cui le risposte non cambiano nulla. Che se ne frega del cervello. È tipo qui, all’altezza dell’esofago, circa. Dove ci sta quel groviglio brutto di nostalgia. E di rimpianti. E di rimorsi. Di quello che non sei riuscito a dire. Di chi non sei riuscito a capire. Finché eri in tempo…”

Queste sue parole, che nelle ultime settimane stanno circolando nei social media, non solo intercettano vissuti in cui ognuno di noi può riconoscersi, ma ci ricordano anche che c’è una grande ricchezza lessicale nell’ambito semantico della colpa.

Il rimpianto e il rimorso si assomigliano, ma non sono la stessa cosa. Ci sono differenze etimologiche e concettuali importanti, che conferiscono sfumature di significato diverse a queste due emozioni.

La parola rimorso, letteralmente “mordere di nuovo”, indica quel tormento interiore provocato dalla nostra coscienza che “rode” lo spirito. Il morso evoca un dolore atroce; qualcosa che dilania il nostro corpo e la nostra anima quando emerge la consapevolezza degli errori che abbiamo commesso o dei danni che abbiamo inflitto. Ho in mente una figlia devota, che aveva compiuto rinunce personali importanti per occuparsi della madre anziana, malata e molto richiedente. In un’occasione, sovraccarica e affaticata, aveva reagito con rabbia, aveva urlato ed era arrivata a darle uno strattone sul braccio. Dopo la morte della mamma il ricordo di quell’evento divenne un pensiero fisso, che divorava tutti gli altri e la tormentava continuamente, impedendole di vedere il proprio ruolo e le proprie reazioni in una prospettiva più equilibrata. Queste situazioni non sono rare: è come se l’irrevocabile finalità della morte ci togliesse ogni possibilità di riparazione e quindi amplificasse a dismisura situazioni che in altre circostanze avremmo risolto con un “mi dispiace”.

Il rimpianto, invece, si riferisce al ricordo doloroso delle occasioni perdute; alla sofferenza che provoca il pensiero di ciò che non abbiamo fatto o da ciò che abbiamo perso. Un uomo, che era sempre stato un marito presente e responsabile, ma per formazione e carattere tendeva a esprimere poco le sue emozioni, condivise una volta in un gruppo che il suo più grande rimpianto era non aver detto “ti amo” qualche volta di più.

Altre volte il rimpianto si affaccia nella forma del dubbio. Avrò fatto tutto il possibile? Sarò stato abbastanza presente? Avrei potuto fare qualcosa di più?

Oppure si manifesta come “rammarico”, un termine spesso presente nelle parole dei dolenti, che risale al tardo latino ‘amaricare’, rendere amaro, e, ancora una volta, coglie la dimensione sensoriale, subdola e allo stesso tempo viscerale, del senso di colpa.

In altri casi, invece, vi è un potente e irrazionale senso di colpa per essere vivi, quando la persona che amiamo non lo è più. O, ancora, la colpa può farsi strada in modo insidioso, come un malessere difficile da collocare, che si manifesta proprio quando si è un po’ più sereni, quasi come se star meglio fosse un tradimento alla memoria di chi ci ha lasciato. Una giovane vedova mi raccontava che, ogni volta che faceva qualcosa di piacevole, una voce nella sua testa le diceva “non è giusto! Non è giusto che tu sia qui a mangiare la pizza con le amiche, o a passeggiare in montagna, mentre lui è sottoterra!”. E quella voce era talmente angosciosa e pesante, che spesso preferiva rimanere a casa e “non fare nulla” pur di evitarla.

Ci sono infatti rimpianti, rimorsi e rammarichi che ci perseguitano, che ci intrappolano e che ci impediscono di tornare a vivere. Non è affatto facile, ma possiamo gradualmente imparare a conoscere e a gestire queste emozioni, per arrivare a liberarcene senza remore, per aprirci a una dimensione di maggiore libertà.

In un mondo poco disposto a valorizzare (o quantomeno a tollerare) la fallibilità, conoscere e comprendere i meccanismi legati al senso di colpa può aiutarci a comprendere che non tutto può essere previsto o controllato e ad accettare la nostra umana imperfezione.

Sapere che abbiamo fatto quello che potevamo tenendo conto degli innumerevoli limiti dati dalla realtà; che abbiamo scelto ciò che – in quel momento – pensavamo fosse meglio; che siamo essere umani e dunque sbagliamo, ci aiuta a ridimensionare i rimpianti e i rimorsi, per evitare che si trasformino in un fardello che ostacola, anziché motivare, il cambiamento. La condivisione, il dialogo con altre persone che abbiano vissuto esperienze analoghe, ma anche la scrittura, il rito, l’arte e tutte le vie che ognuno trova per dare parola anche alle emozioni più faticose, facilitano la chiusura dei sospesi e permettono l’accesso a una memoria più serena di chi non c’è più.

Avete voglia di condividere le vostre esperienze e pensieri?

https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2024/11/Rimorso-della-coscienza-copia.jpg 265 351 sipuodiremorte https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2024/05/93409bba-2fe8-4231-86b3-36648bff989e.png sipuodiremorte2024-11-26 09:40:282024-11-26 09:40:28Il linguaggio della colpa, di Cristina Vargas

Su TikTok il lutto diventa narrazione, di Davide Sisto

24 Ottobre 2024/0 Commenti/in Aiuto al lutto/da sipuodiremorte

Negli ultimi anni ho parlato spesso di TikTok, nel nostro blog, in relazione ad alcuni modi di affrontare pubblicamente il lutto e la morte al suo interno (per esempio qui e qui). Al di là delle singole iniziative, ciò che è veramente interessante notare è come questo bizzarro luogo online, per lo più incline ad aderire alle esigenze delle generazioni più giovani, abbia intercettato i comportamenti social degli utenti in merito all’esposizione del lutto, cambiandone in maniera radicale le caratteristiche.

Da quando è cominciata l’epoca dei social media, quindi dai primi anni del Duemila, abbiamo assistito a una collettiva trasposizione online del dolore privato, sia esso frutto di una malattia, di un lutto o di qualche sofferenza psicologica. Da questo punto di vista risulta veramente lungimirante Michael Kibbee, il creatore del World Wide Cemetery nel 1995. Le parole con cui ha presentato trent’anni fa il progetto, tutt’ora online, anticipano con estrema previdenza ciò che sarebbe successo da lì in avanti. E, infatti, soprattutto da quando circa 3 miliardi di persone si sono iscritte a Facebook ci siamo abituati a vedere esposto il dolore privato per una perdita secondo modalità più o meno standard, le quali aderiscono alle prerogative specifiche del social media di Zuckerberg. In altre parole, è la scrittura a essere la protagonista assoluta dell’esposizione pubblica del lutto su Facebook, perlopiù mediata con qualche immagine fotografica o poche registrazioni audiovisive. Inoltre, man mano che la data di morte del proprio caro si allontana diminuiscono i riferimenti specifici alla perdita. Al massimo, le celebrazioni si rinnovano nel giorno dell’anniversario del compleanno, della data di morte o di qualche evento simbolico importante, riportato in auge dalla sezione Ricordi.

TikTok presenta aspetti radicalmente opposti a Facebook. Innanzitutto, è l’algoritmo a determinare ciò che vediamo nella timeline, secondo i gusti personali o gli hashtag digitati. I contatti che creiamo lì dentro non dipendono dalla conoscenza diretta o indiretta delle persone ma dal tipo di contenuto che desideriamo osservare (Gabriella Taddeo, nel libro Social. L’industria delle relazioni, definisce TikTok appunto come “Algorithm driven”). Inoltre, i singoli utenti tendono a trasformare i brevi video, generati utilizzando specifici filtri, contenuti musicali e altro, come tanti singoli tasselli di una narrazione che si estende temporalmente, la quale dà una connotazione specifica a ognuno di loro. In altre parole, l’attivista politico utilizza i singoli video per prolungare nel tempo le sue battaglie, permettendo ai suoi followers di identificarlo più per i temi trattati che per il suo nome e cognome, come avviene su Facebook. Ciò fa sì che svariate centinaia di migliaia di utenti trasformino il lutto patito in una storia che si prolunga nel corso dei mesi o, addirittura, degli anni. Per esempio, è canonica una situazione del genere: l’utente di TikTok ha perso il proprio partner. Allora, decide di raccontare la sofferenza che prova attraverso decine di video giornalieri in cui, in primo luogo, mostra la relazione che aveva con il proprio partner (collage di foto o brevi registrazioni audiovisive relative alla loro vita di coppia); in secondo luogo, spiega come il partner è deceduto; in terzo luogo, descrive il percorso compiuto nei giorni e nei mesi successivi alla perdita. Pertanto, vediamo magari il dolente che fa un viaggio in montagna, il primo viaggio senza la persona amata, e vi è un’alternanza tra immagini paesaggistiche e riflessioni audiovisive sull’esperienza. Oppure, siamo testimoni della ripresa del lavoro dopo il lutto, con video che mostrano le problematicità del nuovo inizio. Vi sono, poi, molteplici casi in cui vediamo dei video in cui l’utente, in lacrime, si congeda dal proprio gatto o cane, prima di portarlo dal veterinario per sopprimerlo. Questo video precede e anticipa le rappresentazioni audiovisive della vita vissuta insieme e, poi, senza il proprio animale domestico, di modo da condividere l’esperienza con gli altri followers.

I casi che si possono osservare sono i più disparati. C’è addirittura chi, utilizzando una serie di espedienti mediatici, riproduce se stesso mentre parla con il proprio caro defunto, che è presente nel video mediante la riproduzione di precedenti video che aveva realizzato nel corso della sua vita.

TikTok ha trasformato, in definitiva, l’esposizione limitata nel tempo del lutto su Facebook in una vera e propria narrazione che si protrae ad libitum. Una narrazione che, in un certo qual modo, rende il singolo follower spettatore più del percorso compiuto dal dolente che dell’impatto immediato del lutto nella sua vita. Anche le interazioni nei commenti, per quanto numerose ed empatiche, risultano secondarie rispetto allo scopo principale, che è di natura rappresentativa, comunicativa o, appunto, narrativa. Siamo nel campo dell’autofiction più che in quello della testimonianza. Ovviamente, non sono pochi coloro che interpretano questo tipo di esposizione del lutto nei termini di una spettacolarizzazione del dolore o di una sua capitalizzazione, soprattutto da parte di chi ha profili seguiti da milioni di followers. Il fenomeno, a mio avviso, è troppo recente per trarre considerazioni oggettive e chiare. Mi sembra, tuttavia, evidente il desiderio di mostrare pubblicamente il percorso più che il mero fatto. Ciò, ovviamente, amplia in modo notevole il carattere sempre più pubblico del lutto. Rende, soprattutto, le generazioni più giovani avvezze a una condivisione narrativa che sgretola, quasi del tutto, il carattere privato della perdita. Ogniqualvolta ne parlo con gli studenti, liceali e universitari, emerge da parte loro una consapevolezza della rappresentazione audiovisiva condivisa decisamente differente rispetto al bisogno di tenere per sé le proprie emozioni ed esperienze. Come sapete, non amo dare giudizi netti su questi fenomeni, ma osservarli.

Mi limito soltanto a cogliere l’accelerazione di un processo: dai due, tre post su Facebook, per ricordare il proprio caro defunto, alla narrazione esposta man mano per giorni, mesi, addirittura anni su TikTok. Sarà curioso capire quale sarà l’impatto di questa metamorfosi sui futuri adulti e anziani, all’interno di una società sempre più tecnologizzata e abituata a una morte social.

Voi cosa ne pensate? Attendiamo i vostri commenti.

https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2024/10/lutto-Tik-Tok-copia.png 265 350 sipuodiremorte https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2024/05/93409bba-2fe8-4231-86b3-36648bff989e.png sipuodiremorte2024-10-24 09:29:202024-10-24 09:29:20Su TikTok il lutto diventa narrazione, di Davide Sisto

I gruppi “condotti” di supporto al lutto: una risorsa nel lutto complicato, di Cristina Vargas

24 Agosto 2024/3 Commenti/in Aiuto al lutto/da sipuodiremorte

I gruppi di supporto sono una risorsa fondamentale nell’accompagnamento alle persone in lutto. In questo blog ci siamo più volti soffermati sull’Auto Mutuo Aiuto, evidenziando la validità di questo approccio, che punta sul reciproco supporto fra pari, sulla condivisione e sulla (ri)costruzione di una rete sociale intorno ai dolenti. Esistono, però, altre tipologie di gruppo: ci sono quelli a orientamento analitico o psicodinamico; quelli sistemico-relazionali; quelli psicodrammatici; quelli a orientamento gestaltico, esistenziale o cognitivista e molti altri ancora. Queste diverse metodologie sono accomunate dalla presenza permanente di uno psicoterapeuta di gruppo che conduce il percorso. Infatti, non a caso, essi spesso vengono chiamati informalmente “gruppi condotti”.

In questo articolo vorrei soffermarmi sulle caratteristiche e sulle potenzialità di questi gruppi, partendo dal ruolo del conduttore o conduttrice. La parola “ruolo” non è casuale: essa sta a indicare una specifica posizione di responsabilità verso i partecipanti e un funzione ben precisa, di cura e coordinamento, rispetto al gruppo.

Nei gruppi condotti, il terapeuta ha innanzitutto la funzione di costruire e mantenere un gruppo coeso, in cui tutti i membri provino un senso di appartenenza, accettazione e valorizzazione. Secondo Irvin Yalom, la coesione del gruppo è uno dei principali fattori che permettono il verificarsi di un cambiamento individuale nei percorsi di terapia di gruppo.

La morte di una persona cara, in particolare in una società come la nostra, che tende a confinare il lutto nella sfera individuale, genera un forte senso di isolamento e un dolore profondo di cui non sempre si può parlare. Un gruppo coeso permette il confronto autentico con gli altri e attiva la possibilità di riconoscersi nelle esperienze comuni, cosa che è essenziale per sentirsi meno soli e sperimentare un senso di condivisione e reciprocità.

Il conduttore ha inoltre il compito di garantire un clima di sicurezza, che permetta a ciascuno la libera espressione di sé. A tal fine, egli stabilisce un “patto” che fonda il lavoro del gruppo: la riservatezza, il rispetto della verità soggettiva, l’ascolto reciproco e il non giudizio sono alcuni degli ingredienti essenziali di questo accordo, che consente di lavorare insieme verso il comune obiettivo di stare meglio. Talvolta succede che le persone portino con fatica vissuti carichi di un angosciante senso di colpa (quella volta che, sopraffatta, ho strattonato mio marito malato; quella volta che a mio figlio ho detto “vattene”), e che provino un grande sollievo quando nel gruppo si attiva una modalità orientata al non giudizio e, anziché puntare il dito accusatore o dire “avresti dovuto…”, gli altri partecipanti colgono l’occasione per condividere i loro momenti di rabbia e i loro sensi di colpa.

Il ruolo del conduttore  si differenzia da quello dell’osservatore; da quello dell’esperto tematico (che può portare informazioni ed esperienze al gruppo sulla base delle sue competenze in uno specifico ambito) o da quello del facilitatore. Quest’ultima figura è forse quella con cui ci sono maggiori ambiti di sovrapposizione, ma, in essenza, un facilitatore (soprattutto quando non è un professionista in ambito psicologico) dovrebbe avere il compito di agevolare i processi comunicativi e relazionali, senza però intervenire direttamente sul piano terapeutico.

Un ulteriore aspetto che contraddistingue i gruppi condotti è la costante attenzione che il terapeuta rivolge alla dinamica gruppale. Prendendo spunto dalla teoria dei sistemi complessi possiamo affermare che un gruppo è sempre qualcosa in più della somma dei singoli individui che ne fanno parte. Un gruppo si trasforma con il tempo in una sorta di microcosmo sociale. Fra le persone che appartengono al gruppo si creano relazioni, si intrecciano legami, si sviluppano vicinanze e lontananze: è  compito del conduttore monitorare e gestire al meglio queste dinamiche, restituendole quando opportuno al gruppo, in modo che gradualmente ognuno possa diventare più consapevole delle proprie modalità relazionali.

Nella mia esperienza di ricerca o di lavoro con diversi tipi di gruppi di supporto al lutto,  mi è capitato di imbattermi in numerosi fraintendimenti relativi alla figura del conduttore. A volte si teme si teme che il suo sguardo possa essere giudicante e orientato a stabilire ciò che è “normale” e ciò che è “patologico”.  Sul versante opposto, può nascere l’aspettativa irrealistica che il terapeuta sia una sorta di figura messianica che, in qualche modo, “risolverà” le difficoltà dei partecipanti. Credo invece sia importante ricordare che ogni storia personale è unica e che non esistono modalità prestabilite per elaborare un lutto. Il compito del terapeuta è dunque quello di mettere la propria competenza e la propria esperienza al servizio di ciascun particolare gruppo, in modo da poter ascoltare i bisogni (espliciti e impliciti) dei partecipanti e proporre di conseguenza stimoli che possano favorire il percorso di elaborazione della perdita.

Il lutto non è una patologia, ma un’esperienza esistenziale che ognuno di noi è chiamato ad affrontare. Proprio per questo, con o senza l’intervento di uno psicoterapeuta, ogni gruppo in cui c’è un clima accogliente e orientato alla condivisione, in cui membri possono sentirsi ascoltati e aiutarsi a vicenda, può dimostrarsi un efficace strumento di supporto.

Tuttavia, ci sono situazioni in cui il lutto può complicarsi, destabilizzando l’assetto identitario della persona; il progetto di vita può destrutturarsi; possono slatentizzare disturbi psichici pregressi oppure possono comparire sintomi gravi di disagio psicologico.

In questi casi la presenza di uno/una psicoterapeuta di gruppo rappresenta una risorsa fondamentale per consentire un’adeguata attenzione alle parti più problematiche dei partecipanti e creare un contesto in cui è possibile lo svelamento e la successiva integrazione delle angosce più intime e terrificanti, come il desiderio di morire oppure i pensieri ricorrenti che fanno temere di impazzire.

Infine, una potenzialità spesso trascurata, dei gruppi condotti, è che essi permettono l’uso di metodologie attive, che coinvolgono il corpo e la comunicazione non verbale. Lo psicodramma, per esempio, si avvale dei fattori terapeutici tipici del gruppo, ma anche di quelli dell’azione e della scena teatrale e a mio avviso ha notevoli potenzialità nel campo del lutto.

E voi, avete avuto esperienze l’interno di gruppi condotti? Che ne pensate di questa metodologia di lavoro?

https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2024/08/immagine-lutto.jpg 265 350 sipuodiremorte https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2024/05/93409bba-2fe8-4231-86b3-36648bff989e.png sipuodiremorte2024-08-24 11:14:522024-08-26 18:19:22I gruppi “condotti” di supporto al lutto: una risorsa nel lutto complicato, di Cristina Vargas

Quando a scuola c’è un lutto, di Caterina di Chio e Cristina Vargas

28 Dicembre 2023/2 Commenti/in Aiuto al lutto/da sipuodiremorte

Per i bambini e i giovani, scrive la psicoterapeuta Sofia Massia, la scuola rappresenta la prima casa-altra rispetto alla famiglia; un luogo in cui, parafrasando Rodari, ciascun allievo ogni giorno “fa la punta alle matite e corre a scrivere la propria vita”. In essa, infatti, si  apprendono saperi e competenze, si intrecciano legami importanti, si provano emozioni profonde, si trascorrono molte ore e si fa esperienza di comunità. A scuola dunque si affrontano tutte le sfide della crescita, comprese quelle più difficili come l’incontro con la morte e il lutto. Talvolta, l’incontro è indiretto e avviene attraverso il commento a letture condivise o a racconti che un singolo alunno porta nel contesto classe, ad esempio relativamente alla morte di un animale domestico, di un nonno o di un genitore. Talatra, invece, si verificano esperienze che toccano direttamente e da vicino l’intero gruppo: la morte di un compagno o di un insegnante, di un membro della comunità scolastica.

In questa prospettiva, possiamo considerare la scuola un ambiente ottimale per attuare interventi di prevenzione primaria nell’ambito dell’educazione alla morte. Autori come Stephen Strack, Robert Neimeyer e, in Italia, Ines Testoni, hanno strutturato e promosso progetti che si soffermano sia sul pensiero e sulla riflessione (attivando quindi la sfera cognitiva), sia sulla dimensione affettiva-relazionale, con l’obiettivo di rendere la morte un tema “dicibile”, qualcosa su cui è possibile confrontarsi, ascoltarsi e ascoltare.

Ci sono situazioni in cui gli interventi di prevenzione primaria sono sufficienti, ed altre in cui la prevenzione (qualora ci sia stata) non è sufficiente. Risulta necessario occuparsi di lutti veri e propri.  Gli scenari possono essere molteplici, ma nel presente articolo vorremmo soffermarci in particolare su ciò accade quando è un membro del gruppo classe a morire. In questi casi, la morte irrompe in modo spesso traumatico nella vita scolastica, coinvolgendo allievi, insegnanti e, più in generale, tutta la comunità.

In situazioni di questo tipo gli insegnanti si trovano davanti un compito complesso, e hanno un elevato grado di responsabilità rispetto  al  gruppo classe. Nel corso delle esperienze di supporto a docenti ed educatori che abbiamo avuto modo di seguire negli ultimi anni sono emerse numerose domande e preoccupazioni, che in molti casi si esprimono intorno a un grande quesito: come posso in qualità di docente gestire al meglio la situazione, ed essere di supporto, senza oltrepassare i confini e il mandato del mio ruolo, rischiando di sconfinare in territori non di mia competenza?

Un primo nodo importante, su cui può essere utile proporre alcune riflessioni, è quello di conoscere e comprendere le caratteristiche del lutto nelle varie fasi di età.

Il lutto è collegato a emozioni intense e difficili. Accanto al dolore,  in genere si sperimentano vissuti di rabbia, di senso di colpa, oltre che di confusione, di paura, di angoscia… Mentre nell’adulto queste emozioni tendono ad avere un carattere persistente, nei bambini e nei ragazzi esse hanno un andamento altalenante: in alcuni momenti possono arrivare con forza dirompente, mentre in altri possono attenuarsi, o addirittura sparire. Per un adulto può essere sconcertante vedere quanto siano diverse le modalità di reazione degli allievi e come nel gruppo si passi da un comportamento “come se niente fosse” al manifestarsi del pianto o a scatti di rabbia (apparentemente) eccessivi o ingiustificati. È importante considerare queste oscillazioni come del tutto normali. Esse si presentano con maggiore intensità in chi era più legato al compagno o alla compagna deceduti. Allenarsi a riconoscere queste emozioni aiuta a comprenderle e a gestirle con maggior sensibilità, a tollerare meglio i momenti di crisi senza andare sulla difensiva e a bilanciare accoglienza e contenimento nel rapporto con ciascuno dei propri studenti.

La morte di un membro del gruppo porta  gli altri a confrontarsi con  la consapevolezza della propria morte: “se è accaduto al mio compagno o compagna vuol dire che anche i bambini (o i ragazzi) possono morire e, quindi, può accadere anche a me”. Questo pensiero può essere formulato ad alta voce, oppure può essere espresso in modo indiretto: i più piccoli possono manifestare inquietudine o paura nel momento di addormentarsi, ad esempio, o mostrare preoccupazioni per il proprio stato di salute e sintomi psicosomatici. In ogni caso è importante intervenire tenendo insieme onestà e sensibilità. A seconda dell’età è possibile cercare fiabe, racconti, testi letterari o filosofici e altre suggestioni culturali che aiutino ad affrontare il tema. Molte discipline scolastiche, infatti, offrono vie e strumenti che possono essere utili nel percorso di elaborazione (come la scrittura o il disegno) e che possono rappresentare un canale espressivo per i singoli e per il gruppo.

Offrire uno spazio e un tempo per condividere i propri vissuti intorno alla perdita  è un compito prezioso del docente che, nel suo ruolo, può creare le condizioni affinché nel gruppo le persone possano parlare, essere ascoltate, sentirsi meno sole e avvertire che l’evento viene accolto dalla comunità di appartenenza.

Nei momenti di particolare difficoltà, si può fare riferimento allo sportello di ascolto psicologico, che rappresenta una risorsa importante quando si coglie la necessità di un supporto specifico.

Per quanto riguarda il gruppo classe, un  ambito di grande importanza è quello della comunicazione. Curare il modo in cui si trasmette la notizia alla classe, per quanto non esista  “il modo giusto”,  è essenziale.  Ogni insegnante può trovare le parole che sente più coerenti con il proprio carattere e con il tipo di relazione che ha con la classe, tuttavia, pur mantenendo il proprio stile, l’esperienza di lavoro in setting gruppali insegna che è d’aiuto usare un linguaggio chiaro, empatico e adeguato all’età. La parola “morte” non va temuta: pronunciarla aiuta il gruppo a prendere atto della drammatica irreversibilità di quanto accaduto, facilitando la comprensione di un concetto che, soprattutto per i più piccoli, può essere ancora astratto e difficile da afferrare nel suo pieno significato. Se si tratta di una situazione improvvisa o inattesa è probabile che ci siano delle domande, collegate a un normale bisogno di sapere che cos’è successo. A questo proposito ci sembra di poter dire che è necessario parlare dell’accaduto con tatto,  senza entrare in lunghe descrizioni e senza condividere dettagli intimi per soddisfare a tutti i costi la curiosità, ma fornire, in modo rispettoso e discreto, quelle informazioni essenziali che permetteranno ai compagni di comprendere l’accaduto. In genere, in alcuni casi in particolare, soprattutto se si tratta di morti violente, atti anticonservativi o incidenti, può essere opportuno concordare con la famiglia di chi non c’è più i contenuti da trasmettere.

Infine un tema su cui ci si sofferma poco, ma che invece è fondamentale, è quello degli oggetti. La scuola è piena di tracce del passaggio di ogni allievo o allieva. I quaderni, i disegni, le parole scritte, i compiti in classe, il banco stesso sono l’ancoraggio concreto alla memoria del gruppo e sono testimonianza della vita che in quel luogo ha trascorso chi l’ha lasciato. In quanto tali, tutti questi oggetti d’uso quotidiano, su cui di norma  sorvoliamo, acquisiscono un’importanza significativa sul piano simbolico. Come trattarli allora? Sapendo che sono preziosi per favorire l’integrazione dell’esperienza della perdita, il gruppo stesso può trovare la risposta a questa domanda, decidendo cosa tenere in aula, cosa valorizzare e come utilizzare gli oggetti stessi per creare una memoria condivisa. L’importante è che quest’opportunità  venga offerta, e che si dia la possibilità ai ragazzi stessi di scegliere il da farsi. Decidere insieme qual è il momento migliore per togliere il banco o per raccogliere il materiale da restituire alla famiglia offre l’occasione di condividere le emozioni e i pensieri che stanno circolando nel gruppo, trasformandoli in un gesto significativo. È possibile anche trovare forme condivise per ricordare: creare una scatola in cui ognuno può depositare un pensiero o, ancora, piantare un albero in onore del defunto sono atti che si avvicinano alla dimensione rituale, nel senso che permettono di dire addio attraverso l’azione e creano un senso di vicinanza e condivisione fra chi resta.

Cosa ne pensate? Avete esperienze che potete condividere? Grazie, come sempre, del vostro contributo.

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Estate, lutto e solitudine di Cristina Vargas

31 Luglio 2023/7 Commenti/in Aiuto al lutto/da sipuodiremorte

Il mese di luglio è trascorso. Agosto è alle porte. Anche se meno di quanto capitava in passato, le città si svuotano e molti partono per godersi il mare o la montagna anche solo per qualche settimana. Tuttavia, l’estate, che associamo a un tempo di luce, di vita e di vacanze, non per tutti è un momento gioioso: per le persone anziane, per chi assiste un caro in condizioni di malattia grave o per chi ha vissuto una perdita importante, questo tempo può essere connotato da un profondo senso di solitudine. In un mondo vacanziero che ha poca voglia di soffermarsi sul dolore altrui, la sensazione di avere una coloritura emotiva dissonante, che appesantisce gli altri, rende più acuto il senso di isolamento. Può capitare di  dover vivere in sordina le proprie sofferenze, di mettere a tacere i propri bisogni o di far finta che le cose vadano meglio, per non preoccupare i propri cari.

In questa cornice emotiva, il tema di come trascorrere le settimane delle ferie è stato oggetto di molte riflessioni nei nostri gruppi di sostegno al lutto. Anche se ognuno dei partecipanti ha fatto scelte diverse, per tutti – soprattutto per chi si trova a vivere la prima estate dopo la morte del proprio caro – è stata forte l’angoscia su come attraversare questo periodo dell’anno.

Per alcune persone la solitudine è un dato materiale, una realtà inesorabile che può rendere impossibile  progettare una vacanza: a volte, semplicemente, non si ha la possibilità di viaggiare perché l’età, le condizioni fisiche, gli impegni di cura o fattori economici lo impediscono.

“Ricordo l’estate scorsa…”, raccontava pochi giorni fa una donna che è stata a lungo caregiver di suo marito, “lui stava malissimo e io passavo giorno e notte a stargli accanto. Era seguito a casa e io non sapevo più come fare per aiutarlo a sopportare il caldo tremendo che faceva. Ricordo che lo giravo, gli passavo i panni di acqua, avevo messo due ventilatori, ma non bastavano. Mi aggiravo per la casa come un’anima in pena. I figli e nipoti erano al mare, ed era giusto così. Solo che io ero sola, e mi sentivo sprofondare”. Ora che il marito non c’è più potrebbe fare un po’ di vacanza, o almeno andare a trovare i parenti, ma proprio non se la sente…

Nonostante le buone intenzioni di chi invita e suggerisce di “cambiare aria”, per molte persone in lutto  partire è del tutto impensabile. Non si tratta di un “lasciarsi andare” – come a qualcuno dei membri del gruppo è capitato di sentirsi dire – ma di una vera e propria impossibilità psichica. Chi vive un lutto sovente sperimenta una perdita di interesse per il mondo esterno, a cui si unisce un profondo svuotamento interiore, come se una parte importante del proprio essere fosse morta con il proprio caro. Questo stato d’animo, nelle fasi più acute, impedisce di vivere, di fare progetti, di pensare a qualsiasi cosa che non sia l’assenza. In queste situazioni l’ascolto di se stessi è importante: un viaggio compiuto prima di esserne pronti, o al quale si acconsente controvoglia, può dimostrarsi controproducente e può generare sensi di colpa, risentimento o rabbia.

Chi rimane, tuttavia, si ritrova a dover gestire l’afa, il caldo, la difficoltà a dormire, la disidratazione, l’affaticamento fisico e molti disagi legati al clima, che possono rendere estremamente faticose le settimane estive, in particolar modo per chi è in condizioni di vulnerabilità e non ha una adeguata rete di supporto familiare. Una ricerca pluriennale condotta da Leonardo Palombi, Professore di Igiene, Epidemiologia e Sanità Pubblica dell’Università Tor Vergata di Roma, ha mostrato infatti un aumento della mortalità fra gli ultrasettantacinquenni durante le ondate di calore che si registra quasi tutti gli anni dal 2003 ad oggi. È importante quindi non limitarsi nel chiedere aiuto quando necessario e, per chi ha un genitore o amico che sta attraversando un lutto, mantenere alta la vigilanza rispetto al benessere del proprio caro.

Nel gruppo, comunque, altri hanno scelto di partire.

Alcune partenze sono vie di fuga. Una delle donne che seguo in terapia individuale ha colto l’occasione per fare le valigie e andare il più lontano possibile dai ricordi che ingombrano una casa in cui si sente soffocare. Quando il dolore è così intenso, è umano tentare ogni percorso, perché non esiste un “modo giusto” di vivere il lutto.

Qualcuno, invece, ha trovato la forza di fare un po’ di vacanza nella famiglia: “perché i figli ne hanno bisogno” o “per far piacere ai nipoti”. Una rete familiare solida è una risorsa importante nel percorso di elaborazione, perché in molti sensi rappresenta una motivazione ad “andare avanti” e un ancoraggio alla vita. In questi casi si può avere un’oscillazione fra il senso del dovere (che a volte può essere gravoso), e il piacere di condividere dei momenti con delle persone amate. Contattare questa seconda dimensione non è semplice e avviene in modo graduale e discontinuo, ma lentamente nella vita del dolente si affaccia nuovamente la possibilità di giocare con i nipoti, di cogliere la bellezza di un paesaggio o di godersi le piccole cose che un tempo erano fonte di gioia.

Altri viaggi sono soprattutto ritorni, temuti o desiderati, ma in ogni caso costellati da paure e domande. Una figlia, per esempio, ha scelto di tornare nel paese di origine del padre deceduto qualche mese fa: un luogo del cuore, che evoca le lunghissime estati dell’infanzia, i profumi della cucina della nonna e molte altre immagini piene di bellezza e nostalgia. La sua scelta è un tentativo di riscrivere una relazione che poi divenne conflittuale e rabbiosa, e che venne ritrovata solo negli ultimi mesi della malattia.

Un vedovo, insegnante al liceo, è tornato con un misto di piacere e dolore nel loro paese del Sud dove è nato: lì aveva conosciuto la moglie e l’aveva sposata; lì avevano molti parenti e amici storici; lì c’è la loro piccola seconda casa, in cui sognavano di trascorrere gli anni della pensione. Come mi sentirò, in quel posto che era nostro, senza di lei? Come sarà incontrare tutti, soprattutto le persone che non sono salite per il funerale e che non ho ancora visto? Questo viaggio sarà per me un momento di chiusura, o sarà invece una ferita che si riapre? Queste e molte altre domande si affastellavano nella sua testa nei giorni precedenti al viaggio.

L’estate, quindi, è un momento di fatica e solitudine, ma pian piano, quando il dolore non è più travolgente e incontenibile come nelle prime fasi, può anche essere un’occasione per (ri)contattare luoghi della memoria o per ritrovare spazi vitali e una tappa significativa nel processo di  riorganizzazione della propria esistenza che caratterizza il lutto.

Volete condividere la vostra esperienza?

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Il pensiero magico e le parole immutabili nel lutto, di Nicola Ferrari

3 Aprile 2023/33 Commenti/in Aiuto al lutto/da sipuodiremorte

Riceviamo e pubblichiamo volentieri questo articolo di Nicola Ferrari, responsabile del servizio di sostegno al lutto dell’associazione Maria Bianchi. (Le immagini sono di Catrin Welz-Stein).

Le tre amiche salgono sul pulpito, alla fine del funerale.

Sono coetanee della ragazza di 20 anni morta nel sonno, di notte, nella casa dei genitori del suo fidanzato. Verrà trovata cadavere la mattina successiva dalla mamma del suo compagno, uscito presto senza svegliarla per andare a lavorare. Una ragazza atletica, appassionatissima di ballo moderno, che non aveva mai manifestato problemi fisici.

La chiesa del piccolo Comune è ovviamente gremita: c’è tutto il paese, sento dire da un vigile che cerca di gestire la viabilità davanti al sagrato. La bara, di legno semplicissimo e chiaro, è ricoperta di frasi scritte da tutte le persone sue amiche: ora balla lassù, ti amerò per sempre, insegnami a vivere, prenditi cura di noi, il cielo ora ha un’altra stella, quando ci rivedremo sarà meraviglioso, nell’attesa piango. 

L’emozione, come accade ogni volta nella fase conclusiva del rito funebre, è palpabile tra la folla che riempie la chiesa e chi è rimasto fuori per mancanza di spazio. Una dopo l’altra le sue amiche leggono i pensieri che nei giorni successivi al decesso hanno affollato i loro cuori e le loro menti.

Sono al 90% le stesse parole che si leggono o si ascoltano in casi simili: cielo, stelle, cuore, amore, per sempre, ogni giorno, destino…; l’amica è stata fonte di gioia e affetto ineguagliabili, un essere umano meraviglioso e amabilissimo, i difetti e i limiti erano un niente se paragonati al resto, i ricordi sono indimenticabili, le esperienze vissute hanno indissolubilmente segnato la vita che c’è stata e tutta quella che verrà, l’aiuto ricevuto non sarà mai paragonabile a nessun altro, lo strazio della perdita resterà sempre dentro.

Non si tratta, ovvio, né di valutare né di mettere in discussione quello che ognuno di noi sente e pensa quando vive un lutto; ma è altrettanto ovvio che le parole che utilizziamo per esprimere quello che ci accade fanno la differenza. E la fanno nella misura in cui sono più o meno cor-rispondenti alla nostra personalissima vita interiore. Narrare ad esempio il dolore intimo con un linguaggio che è lo specchio fedele (o il più fedele possibile) di ciò che proviamo, significa riuscire a definirsi, a dare confini e caratteristiche al tormento e iniziare così ad affrontarlo.

Purtroppo è ancora molto presente in Italia un pensiero magico che attribuisce totale verità, assoluta immodificabilità a ciò che una persona in lutto narra scrivendo o parlando, come se da un lato fosse mancanza di rispetto per il suo dolore aiutarlo a trovare espressioni che comunicano con più precisione ciò che vive e dall’altro sostanzialmente inutile perché le parole sono, appunto, solo parole. Sperimento direttamente invece, da alcuni decenni, quanto una vera, precisa, dettagliata, approfondita scelta dei termini che si usano per raccontare, e quindi raccontarsi, durante il lutto crei una reale possibilità di cambiamento. Ciò che può fare la differenza è la correlazione tra vissuto e linguaggio che deve essere appunto vero, preciso, dettagliato e approfondito non per chi lo riceve ma per chi lo esprime.

Quando la forma, che tutto è meno che involucro, prima somiglia poi coincide con le emozioni profonde, può diventare poi un’opportunità importantissima per ridefinire la personale condizione senza la persona amata e attivare una riprogettazione esistenziale.

Ma perché tutto questo accada, serve interagire con il linguaggio che la persona in lutto utilizza considerandolo passibile di modifiche e approfondimenti.

Non posso più sentirti, non posso più vederti, non posso toccarti, dichiara a voce alta una delle sue amiche dal pulpito continuando a leggere quello che aveva scritto per l’occasione.

E allora cosa posso fare perché tu non te ne vada da me? Me lo sono chiesta tante volte in questi giorni, continua, e ho capito una cosa: posso vivere io la vita al posto tuo.

Dopo queste frasi ho visto nettamente dal fondo della chiesa dove avevo trovato posto, la reazione della folla che gremiva ogni spazio: teste che improvvisamente si alzavano, un’aggiunta di silenzio al silenzio già imperante, coppie e amici vicini che si toccavano lievemente e si scambiavano sguardi complici; all’esterno poi, in attesa dell’uscita della bara, quell’espressione era diventata il primo argomento di scambio. Ecco, a volte basta davvero poco: parole cor-rispondenti, sostantivi, aggettivi e verbi che restituiscono ciò che si sta provando e/o si desidera che accada perché, in queste come in tante altre situazioni della vita meno dolorose, si apra una sorta di nuova visuale, all’inizio incerta, appena accennata ma che può diventare in seguito una méta da perseguire.

Nella pratica però è molto più complesso da realizzare: ci sono pregiudizi e ostacoli di natura intellettuale, abitudini radicate dall’esperienza individuale, regole sociali non scritte assolutamente attive in tanti di noi che convergono tutte verso un unico centro: quello che una persona esprime durante la sofferenza è intoccabile, sacro, immodificabile.

Eppure esiste un’altra strada da perseguire: avvalersi delle situazioni che si incontrano nella vita, impegnarsi in un’attività costante di sensibilizzazione, creare occasioni formative, diffondere con strumenti diversi l’importanza e la straordinarietà di un approccio specifico al linguaggio che non si rifugia, come purtroppo accade, nelle analisi generiche, non si esaurisce nelle riflessioni esistenziali di natura filosofica, antropologica e sociale, non si limita a registrare e analizzare i fenomeni ma cerca di appartenere totalmente e fedelmente al suo proprietario. Perché il linguaggio, quando è la reale e certa espressione di ciò che siamo e vogliamo che accada, non solo consente alla sofferenza di evolversi ma incentiva e sostiene le azioni concrete da mettere in campo per continuare a vivere, non a sopravvivere.

Opporsi al pensiero magico, cioè al tabù che impedisce di intervenire sul linguaggio di chi soffre, è certamente arduo e per molti versi di scarsa efficacia immediata se paragonato a ciò che è dominante, ma ne vale la pena; vale la pena, con tutte le conseguenze annesse, dedicarsi a ciò che aiuta l’amore ad esserci quaggiù.

Cosa ne pensate?

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Il lutto delicato per gli animali domestici, di Davide Sisto

3 Marzo 2023/7 Commenti/in Aiuto al lutto/da sipuodiremorte

Cinque anni fa ho pubblicato sul blog un articolo sul lutto per gli animali domestici, partendo da un mio racconto personale. L’articolo ha generato una discussione – tutt’oggi in corso – che conta diverse centinaia di interventi, a dimostrazione di quanto l’argomento sia sentito. Vorrei, pertanto, tornarci a partire da una mia nuova esperienza.

Da circa un anno ho in casa un gatto, di nome Apollo, che ha 18-19 mesi. Il suo arrivo è stato improvviso e non pianificato: io e la mia compagna lo abbiamo salvato da un abbandono da parte dei suoi precedenti proprietari. Tuttavia, la sua adozione è avvenuta in una fase per noi emotivamente delicata: solo dieci giorni prima ci era morta, di colpo, una gattina – Lagertha – di sette mesi a causa di una leucemia fulminante. Un’esperienza terribile e dolorosa, per come si è evoluta rapidamente la malattia e si è ridotto il corpo di quella cucciola, quasi quanto quella relativa alla morte di un essere umano.

Proprio le emozioni che abbiamo provato, oltre alla lettura dei tanti racconti lasciati dai nostri lettori sotto il precedente articolo, mi spingono a ragionare ulteriormente sul perché questo tipo di lutto sia percepito dalla collettività come importante e delicato. Un lutto che, perciò, non va sottovalutato né ridimensionato per non creare un surplus di sofferenza rispetto a quella che già di per sé produce.

Un primo elemento fondamentale è il senso di accudimento prodotto dall’animale domestico nell’essere umano. Ci si sente responsabilizzati nei confronti di un essere vivente che ci appare, in nostra assenza, privo di autonomia, dunque incapace di nutrirsi, di creare relazioni interpersonali, di vivere bene. Proprio come avviene con i bambini. Non rappresenta una semplice compagnia. Ci sembra proprio bisognoso di quell’insieme di cure che stimola il nostro spirito genitoriale. Questo rapporto non paritario chiama immediatamente in causa un secondo elemento importante: la proiezione. In altre parole, proiettiamo sull’animale domestico quanto non troviamo più o non abbiamo mai trovato nelle relazioni tra esseri umani. I gatti e i cani non ti giudicano. Basta che tu li nutra e che li tratti con attenzione e loro restituiscono immediatamente l’affetto. Ti fanno percepire quanto dipendono da te e quanto hanno necessità che tu ci sia. La relazione con loro è, dunque, l’esatto contrario dei legami intricati e complessi che sviluppiamo all’interno delle famiglie, del mondo lavorativo, delle coppie, tra amici, ecc. Questi non sono mai legami lineari di causa ed effetto. Non sono razionalizzabili, dunque comportano dinamiche imprevedibili che – il più delle volte – generano delusioni, sofferenze, amarezze, forme di disincanto. Gli animali domestici, pertanto, sembrano sopperire a quelle ripetute sensazioni di fallimento che si reiterano costantemente man mano che passano gli anni, rendendoci guardinghi o addirittura indifferenti nei confronti dei nostri simili. Un mese fa sono stato a Seattle e mi ha colpito moltissimo una contrapposizione: da una parte, la cura meticolosa da parte degli autoctoni nei confronti dei loro cani. Non c’è luogo cittadino in cui non si veda un umano che corre insieme al proprio cane, tenuto benissimo. La città è, inoltre, piena di asili lussuosi per i nostri amici a quattro zampe. Dall’altra, l’abbandono totale di migliaia di homeless per le vie cittadine nell’indifferenza generale.

All’accudimento e alla proiezione si aggiunge un terzo elemento su cui occorre riflettere: la solitudine. Le precedenti riflessioni sulle difficoltà relazionali tra esseri umani, all’interno di una società basata sulla performatività individuale e sempre più priva di legami sociali forti, non possono che spiegare l’empatia nei confronti di un gatto o di un cane che dorme insieme a te sul tuo letto, che ronfa o scodinzola se non lo trascuri, che ti tiene compagnia senza chiedere nulla in cambio, a parte le esigenze primarie per la sopravvivenza. La sua morte è, pertanto, drammatica perché spezza un legame percepito quasi come puro, come disinteressato, come immediato.

Riflettere sull’importanza del lutto per un animale domestico diventa, in definitiva, l’occasione per ripensare al nostro modo di vivere nelle società umane. Dunque, per ripensare a tutte le mancanze, privazioni e assenze che, nel corso della nostra vita, ci portano a preferire la compagnia di un animale non umano a quella di un nostro simile. Forse, senza sottovalutare in alcun modo la relazione con il gatto e il cane di casa, occorre anche chiedersi se non sia necessario un impegno collettivo per rifondare le basi dei legami intersoggettivi nello spazio pubblico. Quindi, è necessario domandarsi se sia veramente corretta la sproporzione emotiva e sentimentale che spesso viene a crearsi tra le due differenti forme di relazione.

Il tema è importante, dunque attendiamo le vostre riflessioni in merito.

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#grieftok: il dolore di un lutto su Tik Tok, di Davide Sisto

17 Ottobre 2022/0 Commenti/in Aiuto al lutto/da sipuodiremorte

Le irrefrenabili evoluzioni delle tecnologie digitali, quindi dei comportamenti sociali e culturali che ne seguono, ampliano costantemente i modi in cui le persone usano i social media per condividere le proprie esperienze relative al lutto e al ricordo.
Nel corso degli ultimi anni, le persone più giovani, dagli adolescenti ai ventenni, hanno cominciato a popolare in maniera sempre più massiccia Tik Tok, diventato un tale punto di riferimento per il discorso pubblico da spingere – incautamente – i politici italiani a usarlo nell’ultima campagna elettorale.
Ovviamente, anche la morte e il lutto sono diventati argomenti importanti su Tik Tok. Nell’ultimo periodo ha attirato la mia attenzione un particolare hashtag: #grieftok. Con oltre 340 milioni di visualizzazioni, questo hashtag comprende centinaia di migliaia di brevi video, registrati in ogni zona del mondo, mediante cui le persone comuni esprimono ciò che stanno provando o che hanno provato in presenza di un grave lutto. Il mix di immagini fotografiche, video, suoni e frasi scritte, concise e usando i caratteri più disparati, stimola la creatività e la fantasia dei singoli, i quali condividono il dolore per un lutto con modalità spesso complesse. C’è chi si limita a creare un collage di immagini di sé che seguono le varie fasi del lutto: un viso sorridente prima della morte del proprio caro, un viso disperato una volta che è avvenuto il decesso, un viso depresso e colmo di lacrime – magari appoggiato sul cuscino del proprio letto – nella delicata fase successiva, un viso vagamente sereno una volta che è avvenuta l’elaborazione del lutto. Le diverse immagini sono accompagnate da didascalie che riassumono brevemente i vari stadi attraverso cui è passato il dolore della persona. C’è chi costruisce una narrazione più corposa, incentrata sul morto. Il breve video mostra – per esempio – un giovane padre, che corre insieme al figlio e al cane su un prato. Quindi, l’immagine della sua tomba e successivamente quella del bambino e del cane rappresentati prima da soli sul prato e poi insieme alla madre, regista del video. C’è chi quindi si limita a raccontare, senza troppi fronzoli, quello che sta provando; chi celebra un compagno di classe con un collage di immagini e video registrati a scuola; chi, ancora, utilizza Tik Tok per parlare del proprio bambino deceduto. Ci sono anche numerosi video di psicologi che spiegano le fasi del lutto e offrono consigli su come affrontarlo. Va da sé che ogni video viene commentato da centinaia o addirittura da migliaia di utenti, i quali portano le proprie condoglianze o condividono esperienze simili.

L’hashtag #grieftok ha, in altre parole, prodotto una vera e propria comunità globale attorno all’esperienza del lutto e della morte. Vi sono anche altri hashtag utilizzati per la stessa finalità: dai semplici #grief e #rip al più articolato #griefjourney.

Credo che si possa cogliere un’evoluzione interessante del lutto online nel passaggio da Facebook a Tik Tok. Le caratteristiche stilistiche di quest’ultimo non solo vengono incontro all’esigenza, già esplicitata su Facebook, di parlare pubblicamente di morte e di lutto e di fare gruppo per sopperire al senso di solitudine, provato di solito dal dolente nella dimensione offline. Stimolando anche la creatività e la fantasia dei suoi utenti, queste caratteristiche spingono a compiere un passo in più che, a mio avviso, va nella direzione di un uso pedagogico e formativo del social media. In altre parole, Tik Tok mette il singolo dolente nella condizione di dare un senso al proprio dolore attraverso una sceneggiatura di cui è liberamente regista e che trascende l’uso della semplice parola scritta, predominante su Facebook. Non tutti sono abili scrittori né si sentono a proprio agio con la grammatica. Il collage di immagini, suoni, video e parole, all’interno di video assai concisi, mostra invece in modo tanto concreto quanto artistico la metamorfosi personale che ci investe quando subiamo una perdita. In alternativa, ci fa vedere gli effetti immediati nel quotidiano dell’assenza, dunque si spinge nella direzione della conservazione della memoria e dei ricordi. L’impatto visivo è certamente superiore rispetto ai meri contenuti scritti. Può determinare più riflessioni composite e catartiche, può attutite il proprio disorientamento in virtù di storie colme di simboli e metafore. Soprattutto, abitua le nuove generazioni a una certezza a cui le precedenti hanno fatto fatica ad abituarsi: la morte fa parte della vita, non va rimossa, può diventare un argomento prezioso all’interno di luoghi in cui si cerca l’approvazione altrui. Può, in definitiva, creare le condizioni implicite per far sì che gli adulti del futuro superino quella rimozione che ha segnato il secolo scorso.
Nel mentre, #grieftok può diventare un fenomeno a partire dal quale organizzare nuovi percorsi educativi nelle scuole e implementare i percorsi di supporto nell’elaborazione del lutto. Come spesso osservo, la dimensione online – che ci piaccia o no – è diventata parte integrante della nostra vita quotidiana. Usiamola pertanto per finalità che migliorano il modo umano di condividere lo spazio pubblico, soprattutto in riferimento a ciò che ci fa soffrire e che cerchiamo di nascondere o di eludere.
Voi cosa ne pensate? Avete presente cosa è #grieftok? Attendiamo i vostri commenti.

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Narrare la fine, di Cristina Vargas

5 Ottobre 2022/8 Commenti/in La fine della vita/da sipuodiremorte

Nel 2019 venne diagnosticato un mieloma multiplo a Marilyn Yalom, studiosa di letteratura francese e autrice di numerosi libri sulla storia delle donne. Nonostante fosse sofferente tanto per causa della malattia che la affliggeva quanto per gli effetti collaterali della chemioterapia, Marilyn, conscia di avere solo alcuni mesi di vita, chiese a suo marito (il noto psichiatra e psicoterapeuta esistenziale Irvin Yalom) di scrivere un libro insieme per documentare le difficoltà di quei mesi finali. I due coniugi ottantasettenni cominciarono a scrivere spinti dal bisogno di trovare significato e soccorso nella scrittura, ma anche dalla speranza di essere utili ad altri che, come loro, stavano lottando contro una malattia terminale. Nacque così il volume “Una questione di morte e di vita” (Neri Pozza, 2022) che, alternando i capitoli fra i due autori, raccoglie in modo profondo e intimo le riflessioni, le emozioni, i pensieri e le sofferenze di ciascuno dei due lungo il percorso di cura. Nelle pagine finali, Irvin, ormai vedovo, si rivolge a Marilyn dicendo “Sei stata così saggia a invitarmi a scrivere questo libro con te… no, no, non è corretto: non mi hai invitato; hai insistito perché mettessi da parte il libro che avevo iniziato e, piuttosto, scrivessi queste pagine insieme a te. E ti sarò per sempre grato per la tua insistenza: questo progetto di scrittura mi ha tenuto in vita da quando sei morta, centoventicinque giorni fa.”

Meglio di qualsiasi riflessione teorica, queste parole colgono con vivida chiarezza il ruolo della narrazione nelle fasi finali della vita e nel lutto. Byron Good, antropologo e pioniere nel campo della medicina narrativa, descrive il narrare come “uno sforzo di dare forma al dolore, di dare nome alle sue origini nel tempo e nello spazio”. Raccontare è proprio questo, non tanto (o non solo) un modo per registrare o ripercorrere gli eventi vissuti, ma soprattutto un atto che conferisce significato all’esperienza, costruendo una trama che aiuta a integrare la sofferenza e la perdita nella propria autobiografia.

Nel fine vita e nel percorso di elaborazione del lutto la narrazione è infatti una risorsa importante, che ha lo straordinario potere di restituire, quantomeno parzialmente, un senso a un tempo sovente percepito come vuoto, caotico, incerto e disorientante.

La narrazione, e in particolare la narrazione autobiografica, è uno strumento terapeutico che integra e arricchisce il lavoro degli operatori sanitari. Si pensi, ad esempio, alle numerose esperienze di medicina narrativa nelle cure palliative e nell’assistenza ai pazienti affetti da malattie cronico-degenerative; oppure alla terapia della dignità di Harvey Max Chochinov, un intervento psicologico che aiuta il malato a soffermarsi sulle cose che per lui contano di più sul piano esistenziale e che vorrebbe fossero ricordate dalle sue persone care, per aiutarlo a produrre una testimonianza scritta da lasciare ai suoi parenti e amici.

La narrazione è anche una straordinaria risorsa nelle mani di chiunque abbia il desiderio e la motivazione di dare parola al proprio vissuto. Christine Valentine, ricercatrice dell’Università di Bath, ha mostrato come le bereavement narratives siano un modo per preservare il legame con le persone scomparse e per socializzare il dolore del lutto, affrontandolo senza tuttavia patologizzarlo.

Nella mia esperienza di lavoro nel campo del fine vita ho incontrato molte persone che hanno trovato forza e conforto nella scrittura e in altre forme di narrazione. Per alcuni il bisogno di raccontare la propria esperienza è molto forte. Nelle riunioni dei gruppi di Auto Mutuo Aiuto, una delle donne ricordava come nei primi mesi si sentiva quasi soffocata dall’urgenza di parlare della malattia e della morte di suo figlio. Aveva quindi deciso di cominciare a scrivere un diario e, sulle pagine, aveva riversato le parole che premevano per uscire dalle sue labbra e che non sempre poteva pronunciare. Un uomo, invece, aveva usato la scrittura per riorganizzare la memoria di sua moglie scomparsa. Nei primi mesi, egli era attanagliato da timore di dimenticarla e, simultaneamente, faceva un’enorme fatica a ricordare: guardare le foto di lei era straziante e le uniche immagine che gli veniva spontanee erano quelle degli ultimissimi giorni in ospedale. Con sforzo, un giorno come tanti altri si era messo davanti al computer e aveva intrapreso il compito di scrivere i ricordi della vita trascorsa insieme. Gradualmente, egli era riuscito a ricontattare momenti felici, piccoli aneddoti, persino liti e discussioni finite con un abbraccio. Scrivere, inoltre, lo stimolava a “fare” delle cose: telefonare un vecchio amico per ricostruire insieme un episodio di un passato molto lontano; aprire e riordinare i cassetti con i documenti della moglie, che per mesi erano stati intoccabili tanto era doloroso il solo pensiero di avvicinarsi.

Questi due esempi sono eloquenti del ruolo terapeutico della narrazione. Quando raccontiamo si attiva un processo mentale diverso rispetto a quello del pensiero individuale, che sovente assume la forma di un monologo interiore. Raccontare, per quanto si faccia in solitudine, presuppone un atto comunicativo: c’è sempre un “altro” – un lettore, un ascoltatore, un osservatore/osservatrice – al quale “dire” qualcosa. Questo comporta la necessità di spiegare ogni passaggio per renderlo comprensibile al nostro interlocutore; obbliga a trovare le parole giuste per esprimere sensazioni ed emozioni che sovente sono confuse e soverchianti; spinge a esplorare la propria interiorità, a cercare di comprenderla, per poterla condividere con altri.

Che si tratti di storie orali, di scrittura autobiografica oppure di narrazioni che usano altri linguaggi artistici, il narrare è un movimento all’insegna dell’incontro, dell’apertura e della condivisione; un viaggio dentro il sé che, simultaneamente, avvicina all’altro, sostenendo chi soffre nel lungo processo di riconnettersi con la vita.

Voi avete mai usato la scrittura autobiografica o la narrazione in momenti di sofferenza? quale ruolo ha avuto per voi l’esperienza di raccontarvi?

https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2022/10/foto-articolo-econarrazione-e1664957899740.jpg 265 350 sipuodiremorte https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2024/05/93409bba-2fe8-4231-86b3-36648bff989e.png sipuodiremorte2022-10-05 10:23:432022-10-05 10:23:44Narrare la fine, di Cristina Vargas

Normale e complicato, intervista a Sara Ancois, di Marina Sozzi

20 Settembre 2022/0 Commenti/in Aiuto al lutto/da sipuodiremorte

Abbiamo intervistato Sara Ancois, psicologa e psicoterapeuta, che ha appena pubblicato un volume dal titolo Normale e complicato, che parla del lutto attraverso illustrazioni, corredate da brevissime frasi, che sono squarci di luce e di consapevolezza sulle emozioni del lutto. Tutti possono ravvisare i tratti di un proprio lutto in questo delicato e bellissimo libro, che alla fine ha una ventina di pagine più teoriche che spiegano come funziona il processo del lutto, e una ricca bibliografia.

Hai avuto un’idea geniale: parlare del lutto attraverso delle vignette. Come è nato questo progetto e come l’hai realizzato?

Ho scritto quei testi per me: stavo male, e serviva una traccia per monitorarmi mentre il tempo passava (in teoria, sapevo quello cui sarei andata incontro. In pratica, no). Quando sono rientrata in studio, sono arrivati pazienti con sintomi psicosomatici e flessioni depressive collegati ad esperienze di perdita. Tutti lamentavano la passività del momento, e giravano attorno all’idea di essere stati condannati a “subire” qualcosa, mentre ogni terapeuta sa che la rielaborazione di un lutto è un processo molto attivo (anche a livello organico: si modificano le mappe neurali neocorticali, n.d.a). Ho proposto loro i testi, e ho cominciato a raccontare il funzionamento del processo mentale che stavano sperimentando proprio come fosse una storia: non il lavoro del lutto in senso generico, ma proprio “il loro Sig. Lutto al lavoro”. Funzionava. Dicevano di sentirsi partecipi di una dinamica umana, in compagnia, e soprattutto intervenienti, con qualcosa d’importante da fare. Pian piano s’è strutturato un metodo di lavoro. Grazie a Marina è fondato in senso medico e grazie a Danilo, ha un volto. Abbiamo costruito le tavole illustrate per usare meno parole possibili: le emozioni dolorose hanno poca voglia di ascoltare e, se cianci troppo, s’infastidiscono.

Hai fatto anche una ricerca, intervistando cento persone. Che metodo hai usato per le interviste e cosa hai imparato da questo lavoro?

Il questionario (inventato) è stato somministrato via e-mail a contatti reperiti da amici. Ad oggi, gli intervistati restano per me 100 generosi sconosciuti. Era importante costruire un campione anonimo (risposte non condizionate) e il più possibile significativo in senso statistico: ho valutato distribuzione (genere sessuale, età, natura della perdita) e target (esperienza verificatasi negli ultimi cinque anni). Era importante, anche, verificare/confermare quelle che mi sembravano le priorità: cercavo i denominatori comuni dell’esperienza, e non di esprimere opinioni personali.
Ho imparato che i lutti sono un tabù, specialmente per chi non ne ha ancora affrontato uno. Un’amica cui ho chiesto di distribuire il questionario m’ha tacciata di invadenza e ineducazione. È stato un momento triste. Non mi ha nemmeno concesso la presunzione d’innocenza.

Normale e complicato, è il titolo del libro, e tu sei una psicoterapeuta. Non hai scritto normale “o” complicato: si può tracciare una linea di demarcazione chiara tra lutto normale e lutto complicato?

Le due forme stanno – ovvio – ai poli opposti di un continuum. Tuttavia, distinguerle in senso diagnostico è possibile e doveroso. Per fare diagnosi è necessario delimitare i confini di un fenomeno, per quanto artificioso possa sembrare, e le variabili coinvolte in questo caso sono la durata temporale della sintomatologia acuta e la sua carica invalidante.
La mia “e” è un po’ irriverente, in effetti, ma ci tenevo proprio ad interporla.
Gli individui in situazioni francamente psichiatriche soffrono, certo, ma questo non significa che chi affronta un frangente di perdita soffra meno. Ci vuole grande impegno, e fatica, per continuare a far fronte alle proprie responsabilità (lavoro, famiglia, burocrazia: tutto ciò che le persone “normali” fanno) con il dolore addosso. Non è cosa da nulla.

La nostra mente ci protegge mettendo a disposizione un processo fisiologico che ci aiuta ad individuare e ad evitare i traumi secondari – ovvero i cosiddetti fattori “complicanti” il lutto – e l’obiettivo del nostro libro è mostrare in che modo lo fa. Esistono chilometri di letteratura sull’argomento (J. Bowlby , tra gli altri), non ci siamo inventati nulla. Resta il fatto che seguire tali indicazioni non è una passeggiata ed è, appunto, complicato nel senso dell’etimo del termine: cum plico (con piegature).

A partire dalla tua esperienza, cosa consiglieresti a chi vive un lutto?

Dipende. Qual è il genere di perdita che lo innesca? La gamma è ampia (decessi, diagnosi di malattia, relazioni naufragate, tracolli finanziari, perdita di status, animali domestici, migrazione, eccetera) e il processo che parte a protezione dell’individuo, sempre diverso.

Capisco che possa non essere così per altri ma per me, tenuto conto del lavoro che faccio, osservarlo è come assistere ogni volta a un prodigio: una persona viene privata di un pezzo fondamentale della sua esistenza ed è disperata: allora corpo e mente si riorganizzano, insieme, prendono in mano la loro sopravvivenza, e la trascinano in salvo.

C’è qualche altra cosa che vorresti dire e non ti ho chiesto?

Grazie, vorrei dirti. L’ho già fatto ma lo ripeto: grazie per l’aiuto che mi date. Non vedo l’ora di conoscervi di persona e poterlo dire, a voce.

Sono io che ti ringrazio. Quanti di voi vorranno dare la propria testimonianza? come avete vissuto le vostre perdite?

https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2022/09/4-scaled-e1663661396807.jpg 265 350 sipuodiremorte https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2024/05/93409bba-2fe8-4231-86b3-36648bff989e.png sipuodiremorte2022-09-20 10:23:312022-09-20 10:23:31Normale e complicato, intervista a Sara Ancois, di Marina Sozzi

Quando la luce dell’estate incontra il buio del dolore, di Cristina Vargas

13 Agosto 2022/4 Commenti/in Aiuto al lutto/da sipuodiremorte

Abbiamo intervistato Maria Angelica Castelli, psicologa e psicoterapeuta di Torino, esperta nel tema del lutto. (immagine di Yaoyao Ma Van As)

La psicologia ci insegna che il lutto è un processo lungo, complesso e non lineare. Nella tua esperienza, ci sono momenti dell’anno che possono dimostrarsi particolarmente faticosi per chi sta attraversando un lutto?

Ti rispondo partendo da Irvin Yalom, un autore che trovo particolarmente interessante non solo per chi lavora nel campo della psicoterapia, ma anche per chi è interessato al tema del lutto. Come spiega Yalom, anche nel lutto fisiologico, in cui non ci sono elementi patologici di nessun genere, ci sono momenti di passaggio in cui il dolore si fa sentire di più. Questi passaggi sono le ricorrenze, gli anniversari, le date importanti a livello soggettivo, ma sono anche momenti più “oggettivi”, che riguardano tutti, come il Natale o le vacanze estive.

Infatti siamo in agosto… Che cosa comportano questi mesi “vacanzieri” per le persone che stanno affrontando un lutto?

Durante l’estate c’è uno scollamento tra la vita di chi è in lutto, che si è fermata o che è comunque pesantemente inficiata dal dolore, e le vite degli “altri” che invece tendono a diventare più allegre, più frivole e spensierate. La domanda “dove vai in vacanza?”, normalissima per tutti noi, può essere una violenza per chi è in lutto. Il sole stesso è in qualche modo un simbolo della dissonanza fra il buio che si prova dentro e la luce abbagliante che c’è fuori. Uno dei miei pazienti mi ha detto una volta “al funerale di mio padre c’era il sole, ma io avrei voluto che ci fosse la pioggia”. C’è dunque una grande distanza fra il “clima interiore” di chi va in vacanza e quello di chi è in lutto, e questo scollamento crea un profondo senso di solitudine.

Con l’estate, inoltre, la vita di chi lavora, in genere molto frenetica, rallenta. Il tempo aumenta e il lavoro, che è un potente stabilizzatore dell’umore, si ferma; la routine cambia e il contatto con il dolore si fa più diretto, più forte. È come se la pelle si facesse più sottile e la luce potente dell’estate mettesse in risalto la sofferenza interiore. C’è chi tende a mettere da parte il proprio dolore e a buttarsi nel clima vacanziero facendo fatica, e poi pagandone il prezzo. Oppure c’è chi fa il contrario, sentendosi molto distante da quella realtà, si isola ulteriormente e rinuncia anche a ciò che potrebbe alleviare il suo dolore.

Un pensiero, infine, va alle persone anziane in lutto, la cui vita quotidiana è fatta di ritualità: il giro del mercato, la farmacia, il negozio sotto casa, il caffè. In queste azioni c’è una dimensione relazionale importante, si incontrano persone, si compiono gesti e azioni che danno un senso alla giornata. Durante l’estate, seppur meno che in passato, le città si svuotano e la routine viene meno. Il rischio è che la solitudine si faccia più gravosa o si arrivi a un concreto isolamento.

Andare o non andare al mare (o in vacanza) quando si è in lutto… che cosa possiamo dire su questo tema?

Quando stiamo male è importante cercare di proteggerci. Ci sono situazioni che emotivamente possono ferirci, ed è bene dosarle per evitare di ritrovarsi in vacanza, magari in un luogo bellissimo, con l’unico desiderio di ritornare il prima possibile a casa. Un viaggio comporta dei cambiamenti: se stiamo bene le novità stimolano e vengono vissute con entusiasmo, ma se stiamo male esse possono acuire il senso di malessere.  Credo che sia importante rispettare il bisogno – proprio o dei propri familiari in lutto – di stare nei luoghi in cui ci si sente più sicuri. La casa è un luogo che ci protegge, una tana in cui rifugiarsi nei momenti di dolore.

Che ruolo possono avere i parenti e gli amici della persona in lutto? In che modo possono supportare al meglio il loro caro?

A me viene da pensare a cosa non fare, perché cosa fare è un campo molto ampio. A volte ci sono delle rassicurazioni che non aiutano, dei tentativi di “alleggerire” minimizzando la portata del dolore. Questo toglie alla persona in lutto la possibilità di stare nella propria condizione, ma è necessario attraversare la sofferenza per poter stare meglio. Dietro questi tentativi di rassicurazione sovente si nasconde la fatica di amici e parenti rispetto al tema della morte: la morte degli altri ci fa paura perché ci ricorda che è qualcosa che può accadere a noi.

Frasi come “era una persona anziana”, “ha smesso di soffrire”, “ha avuto una vita dignitosa” magari hanno un razionale. A un certo punto del percorso può essere di conforto pensare che il proprio caro ha avuto una lunga vita, o una buona vita, ma sono parole che non andrebbero pronunciate quando il lutto è recente. In quel momento l’unica cosa vera che possiamo fare è stare con… semplicemente accompagnare, far sentire la propria vicinanza, passare del tempo insieme alla persona in lutto. Più che le parole sono proprio le cose fatte insieme che permettono di attraversare i momenti più dolorosi. Mi capita di vedere dei pazienti anziani che mi dicono: “mio figlio (o mia figlia) fa di tutto per me. Mi porta l’acqua, mi fa la spesa, mi porta alla visita medica, ma non sta mai con me.”  Nel tentativo di fare delle cose per l’altro può capitare di perdere di vista l’importanza di fare le cose con l’altro.

Credo che un ruolo importante possano averlo anche gli amici. Un’idea può essere quella di organizzarsi per dare un aiuto concreto. Le persone in lutto, soprattutto nelle prime fasi, non si preoccupano dei loro bisogni primari – mangiare, dormire, sistemare la casa, fare la spesa – in questo gli amici possano essere di supporto, fare rete intorno alla persona che è in lutto

In questo, ma anche in altri periodi dell’anno, esistono dei campanelli di allarme che ci segnalano che è il momento di cercare aiuto?

Dipende molto dal momento del lutto. Quando un lutto è recente non ci sono regole, il dolore si può manifestare nei modi più diversi ed è difficile identificare dei campanelli di allarme.

Quando invece i mesi passano, ci si muove verso il trascorrere dell’anno e nulla cambia, anzi, sembra che le cose siano del tutto ferme e lo spazio vitale si riduca sempre più; quando si sprofonda in una condizione di apatia; quando la giornata è tempestata da pensieri intrusivi che inficiano la capacità di funzionare, quando c’è un vissuto depressivo, il pianto è costante e non è liberatorio, ma è disperato e lascia la persona ancora più avvolta nella sofferenza, è bene cercare aiuto.

Un altro segnale importante è l’assenza del desiderio. Non c’è uno spartiacque, ma a un certo punto del percorso di elaborazione del lutto dovrebbero lentamente fare capolino dei desideri, come se fossero dei semini di qualcosa che deve ancora germogliare. Questo non vuol dire che la sofferenza scompaia, ma che pian piano dovrebbero nascere delle spinte vitali che si alternano al dolore. Può essere il desiderio di qualcosa da mangiare; di andare al cinema; di fare delle piccole cose: in qualsiasi forma si presenti, il desiderio è un segnale di ancoraggio alla vita. Quando invece il desiderio manca del tutto, può essere il segnale che qualcosa si è bloccato e che il lutto si sta complicando.

Può succedere, però, che la persona non riesca a cogliere i propri campanelli di allarme: in questi casi è importante che chi è intorno colga dei segnali: la trascuratezza, l’isolamento, la poca voglia di parlare o, al contrario, l’impossibilità di distogliere la mente dal tema del lutto nonostante oramai siano trascorsi parecchi mesi possono indicare che qualcosa non va e che è il momento di intervenire.

A chi ci si può rivolgere in queste situazioni?

Credo che la prima figura di riferimento sia il medico di medicina generale, a cui è possibile chiedere un consiglio sull’opportunità di chiedere aiuto e delle indicazioni sulle risorse del territorio. Credo sia utile anche confrontarsi con altre persone che hanno vissuto problemi simili. In molte città ci sono dei gruppi di sostegno condotti con diverse metodologie, anche se purtroppo alcune esperienze si sono interrotte con il Covid. Nel nostro caso, a Torino, i servizi di cure palliative offrono un supporto psicoterapeutico ai familiari delle persone che sono state seguite nelle ultime fasi, e nell’autunno sarà avviato un gruppo di sostegno. Credo che intervenire tempestivamente sia importante, anche perché più passa il tempo più è difficile farsi aiutare.

Voi avete esperienze in proposito? Volete condividerle?

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After life, una salubre rappresentazione del lutto, di Davide Sisto

4 Aprile 2022/2 Commenti/in Aiuto al lutto, Riflessioni/da sipuodiremorte

Il 14 gennaio scorso è uscita la terza stagione di After Life, la serie tv Netflix scritta e diretta da Ricky Gervais, uno dei comici britannici attualmente più noti al mondo per la sua geniale irriverenza. Il successo mondiale di After Life è riconducibile al modo in cui, nel corso delle tre stagioni, è stato raccontato un lutto, quello vissuto dal protagonista Tony – interpretato dallo stesso Gervais – nei confronti della moglie Lisa, morta prematuramente a causa di un tumore. Sotto i video dei trailer su YouTube e nelle pagine social dedicate alla serie e ai suoi protagonisti si contano decine, se non migliaia, di commenti da parte di persone di tutte le età le quali ringraziano di cuore Gervais per l’aiuto dato attraverso la serie tv, raccontando a loro volta le proprie personali perdite. In particolare, molti utenti sostengono che i contenuti narrativi delle tre stagioni sono dotati dell’encomiabile capacità di trasmettere un gigantesco senso di liberazione e di emancipazione. In parte, ciò dipende da una sceneggiatura che dosa sapientemente i momenti drammatici con gli istanti scanzonati, questi ultimi al limite del politicamente scorretto. Un mix che, nel delineare i contorni della tipica dark comedy britannica (in stile Funeral Party), riesce a risultare convincente nella descrizione di quel carattere agrodolce che caratterizza ogni evento della vita. In parte, dipende dal legame tra Tony e la perdita: Tony soffre e non vuole razionalmente smettere di soffrire, vuole essere libero di soffrire come e quanto vuole. La rappresentazione del lutto elude qualsivoglia semplicistica chiave di lettura volta a una riappacificazione con le dinamiche della vita che spesso, nelle sceneggiature cinematografiche, risulta stucchevole, moralistica e irreale. Tony è lucidamente consapevole del carattere irrimediabile della perdita e del significato radicale della morte, quindi della fine ultima del mondo in cui ha vissuto insieme a Lisa. Non pretende un suo ideale ritorno, si limita ad accettare le dure leggi della vita, sentendosi libero di provare dolore, di tener conto della possibilità del suicidio, senza necessariamente rendere conto agli altri. Generoso ed empatico verso le persone della sua cittadina di provincia ma totalmente autocentrato per quanto riguarda i suoi sentimenti, egli si perde amaramente nella visione ripetuta dei video registrati insieme a Lisa o, in alternativa, dei video che Lisa gli ha preparato prima di morire per sostenerlo, conoscendo il suo carattere autodistruttivo. È ferreo, al limite della pedanteria, nel non voler trasformare un’amicizia in una nuova relazione sentimentale, perché semplicemente non vuole avere un mondo diverso rispetto a quello che ha avuto con Lisa. Le sue uniche vie di fuga sono le lunghe passeggiate solitarie con il suo adorato cane e i dialoghi filosofici con un’anziana vedova che incontra ogni giorno al cimitero e che cerca di fargli vedere la realtà da un’altra prospettiva. Nel corso del tempo le persone che vogliono bene a Tony riusciranno – almeno, in parte – a scuoterlo, a mutare la sua generosità innata in una nuova ragione esistenziale, benché il suo disincantato nichilismo non riesca mai del tutto a nutrire il barlume della rinascita.

Ora, ciò che rende brillante After Life, a mio avviso,non è certamente l’idea che non ci sia speranza di superare la sofferenza per un lutto importante e che non si debba cominciare a vivere in un nuovo mondo senza il proprio caro. Semmai, è la capacità di non reprimere in alcun modo il legittimo e autonomo bisogno di sentirsi disperati all’interno di una società che, totalmente votata alla performatività e alla forza psicofisica di stampo machista, vede il dolore come un negativo segno di debolezza. Tony accoglie con lucidità il carattere radicale della morte e l’irrimediabilità della perdita. Il suo legame con Lisa, nella dimensione successiva al lutto, non si traduce nell’infantile non accettazione, aspetto che ritroviamo in molte narrazioni o riflessioni sulla perdita dei propri cari (mi vengono in mente Elias Canetti con il suo libro incompiuto contro la morte o alcune riflessioni contenute in Dove lei non è di Roland Barthes). È invece un legame che tiene conto in maniera razionale che non si può tornare indietro, che le regole del gioco sono queste. Le soluzioni sono allora due: voltare pagina adattando a sé – il più velocemente possibile – il fastidioso motto the show must go on o rinunciare a farlo, per un certo lasso di tempo o addirittura per sempre. Tony sceglie la seconda soluzione, convinto che sia lui a dettare i tempi alla sua sofferenza e alla sua eventuale ripresa. Se nessuno di noi può reclamare dei diritti nei confronti della vita mortale e se è una favola da cartone animato l’idea che l’amore più puro renda immortale nel qui e ora un legame sentimentale, allora ogni singolo individuo ha il diritto di fare della propria sofferenza ciò che vuole, a prescindere dal bon ton produttivistico delle società in cui viviamo. Si può anche decidere di non essere positivi, di non essere forti. Ma questo non è un inno alla debolezza, al suicidio, alla fragilità, è semmai la consapevolezza che ci sono tempi e modi diversi per affrontare la sofferenza soggettiva. E l’aiuto altrui diventa fondamentale rispettando questo bisogno di far proprio il dolore, non prevaricandolo. Semmai, trovando il percorso che meglio aderisce al carattere di chi sta soffrendo. In questo senso, si capisce perché le persone che hanno apprezzato After Life parlino di senso di liberazione e di emancipazione. Il tema è certamente delicato e può anche essere letto come una nociva individualizzazione del lutto che toglie peso al benevolo sostegno dello spazio pubblico. Ma, come sempre, si possono trovare delle vie di mezzo tra ciò che impone la società per il bene del singolo, spesso non rispettando i suoi bisogni, e ciò che pretende il singolo di contro alla società, rimanendo intrappolato nel labirinto dell’autodistruzione. Gervais mira, durante le tre stagioni di After Life, a cercare questa mediazione tra due vie che risultano entrambe fallimentari. E lo fa evidenziando quanto sia difficile raggiungerla.

Dal mio punto di vista, si tratta di una narrazione molto matura per quanto concerne la perdita. Voi cosa ne pensate? Avete apprezzato After Life? Fateci sapere.

https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2022/03/after-life-finale-stagione-3-netflix-e1648631946428.jpg 265 350 sipuodiremorte https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2024/05/93409bba-2fe8-4231-86b3-36648bff989e.png sipuodiremorte2022-04-04 12:08:482022-04-04 12:08:49After life, una salubre rappresentazione del lutto, di Davide Sisto

Lutti non riconosciuti, di Marina Sozzi

27 Luglio 2020/14 Commenti/in Aiuto al lutto/da sipuodiremorte

Stanno arrivando le vacanze estive, e come sempre si tratta di un momento particolarmente difficile per chi ha perso una persona cara e si trova immerso nel dolore. Quest’anno, chi ha perduto un congiunto a causa del Covid o durante il Covid, ha un peso ulteriore da sopportare, l’angoscia di non aver potuto accompagnare, salutare, celebrare le vite concluse, o purtroppo talvolta spezzate, con riti funebri degni di tale nome. Abbiamo già scritto molto a tal proposito su questo blog.

Ma vogliamo rivolgere il pensiero anche a quei lutti che nella nostra società sono meno riconosciuti o non sono riconosciuti affatto.

Esiste infatti, in ogni cultura, una sorta di gerarchia della gravità dei lutti, stabilita in funzione dell’importanza attribuita a ogni relazione. Siamo naturalmente, nell’ambito delle norme non scritte, e anche non dette, che tuttavia condizionano gli individui. Per fare un esempio, nel Seicento – quando la mortalità infantile era molto elevata e la rilevanza della famiglia di origine molto forte (la famiglia non era ancora nucleare) – la perdita di un bambino entro i dieci anni era considerata un evento avverso ma tollerabile; oggi, in una società in cui si fanno pochi figli e la mortalità infantile si è fortunatamente quasi azzerata, la morte di un bambino è vissuta come l’esperienza più insopportabile che si possa attraversare. Non si tratta solo di affermare che il dolore per la perdita di un figlio non era espresso nel Seicento, mentre può essere manifestato ai giorni nostri. È proprio la percezione del dolore che è diversa, perché, come è spiegato nel bel libro di David Le Breton, Antropologia del dolore, tale percezione non è né universale né atemporale: anzi, è culturalmente determinata.

Ora, la nostra società, fondata sulla famiglia ristretta, considera lutti gravi e gravissimi la perdita dei figli e dei coniugi, dei genitori (specie se avviene quando i figli sono ancora giovani), dei fratelli e delle sorelle, e legittima emozioni di grande dolore per questi lutti.

Invece, ritiene che la morte di una persona al di fuori di questa cerchia di “soggetti importanti” nella nostra vita non dovrebbe dar luogo allo sviluppo di un vero e proprio lutto, inteso come quell’insieme di processi psicologici, consci o inconsci, suscitati dalla perdita di una persona amata (così Bowlby definiva il lutto).

Il lutto per i nonni è il primo ad essere misconosciuto nella nostra cultura. Si cerca di proteggere i bambini dal dolore della perdita, e si mente frequentemente sulla morte dei nonni. Una morte che viene sovente dapprima occultata (non si permette ai bambini di dare un ultimo addio e non li si porta ai funerali) e poi sottovalutata, da genitori che spesso non sono in grado di sostenere il dolore dei bambini. E si tratta di una trascuratezza che può dare esiti problematici, specialmente quando la relazione con i nonni era stretta e quotidiana. I bambini si trovano così ad affrontare da soli la perdita dei nonni, con un malessere che non riescono a interpretare. In questi mesi, con la morte di molti anziani per Covid 19, abbiamo perso molti nonni. È importante non nascondere l’accaduto ai bambini, non dissimulare il proprio dolore: facendolo, si impedisce ai bambini di riconoscere e processare la propria sofferenza.

Anche la perdita di un amico si inscrive nel novero dei lutti poco riconosciuti: per quanto stretta sia stata la relazione amicale, la perdita non gode dello stesso riconoscimento di quella di un membro della famiglia. Ben diversa era la considerazione della perdita di un amico nella cultura greca e romana, ad esempio, dove l’amicizia godeva di uno status di particolare importanza. Si pensi all’Etica Nicomachea di Aristotele, due libri della quale sono dedicati all’amicizia; o al De Amicitia di Cicerone, opera nella quale Lucio tollerava la morte dell’amico Scipione solo in nome della memoria: “mi godo il ricordo della nostra amicizia, così che mi sembra d’aver vissuto felicemente, perché sono vissuto con Scipione, col quale ho condiviso le cure pubbliche e private, col quale ho avuto in comune la casa e la vita militare, e, cosa in cui è tutta l’essenza dell’amicizia, il massimo accordo delle volontà, delle propensioni, delle opinioni.”

Un altro lutto non ancora del tutto culturalmente accolto è quello della cosiddetta “morte perinatale”, la morte del feto o del neonato: è un tema delicato, di cui talvolta abbiamo parlato in questo blog. Accade ancora che i ginecologi, le ostetriche, in generale i curanti che stanno intorno alla donna che ha perso il figlio minimizzino, e dicano: “ma lei è giovane, può farne un altro”. Lentamente, sta emergendo un altro tipo di comportamento, che prevede la sepoltura del bambino morto, e interpreta la perdita perinatale come lutto. Ma è una sensibilità ancora poco diffusa. Erika Zerbini, una mamma che ha deciso di occuparsi di lutto perinatale a partire dalla propria esperienza, afferma in un’intervista : “Molto raramente si hanno le parole per poter spiegare questo tipo di lutto e quasi mai si hanno le parole legate alla morte. Non ci viene mai detto: “tuo figlio è morto”. Ci viene detto: “il battito non c’è più”. Le parole sono importanti per identificare chiaramente quale sia la situazione e per poter mettere in atto quelle dinamiche utili ad accettarla. Le faccio un altro esempio: il parto del nostro bambino morto viene chiamato “espulsione”.

L’esempio più eclatante di lutto non riconosciuto è la morte dell’amante, etero od omosessuale, in quanto i legami clandestini non godono di quel riconoscimento sociale che è essenziale, essendo gli umani animali sociali, per rielaborare la perdita e condividere il dolore.  Una relazione non riconosciuta con il defunto rende difficoltoso il lavoro del lutto, compromettendo quindi il benessere psico-sociale della persona, a breve e lungo termine.

Ma, come abbiamo visto, a essere private del diritto a un lutto pienamente riconosciuto socialmente non sono solo le relazioni irregolari o segrete. La nostra cultura fatica ad accogliere diversi lutti, che si fondano su legami del tutto “alla luce del sole”, come quello dei nonni con i nipoti o dei genitori con il nascituro. La cultura condiziona, certo, ma la consapevolezza culturale è in grado, seppure lentamente, di cambiare le cose.

Quello che è accaduto col Covid è che tutte le persone in lutto hanno dovuto sostenere la mancanza di condivisione che è solitamente caratteristica dei lutti non riconosciuti. Tutti non hanno potuto dire addio, non hanno potuto organizzare riti, hanno dovuto elaborare la perdita nell’isolamento.
Questa esperienza può forse portarci a ripensare i nostri stereotipi culturali riguardanti il lutto, cercando di esserne consapevoli, e immedesimandoci nel dolore di chi ha perso qualcuno che amava, a prescindere dal ruolo che il defunto aveva nella vita di chi resta.

Cosa ne pensate? Avete fatto esperienza di lutti non riconosciuti? O potete raccontare esperienze di altri? Grazie, come sempre, se vorrete condividerle.

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