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Sulla terra in punta di piedi. Intervista a Sandro Spinsanti, di Marina Sozzi

23 Marzo 2021/3 Commenti/in Interviste, Riflessioni/da sipuodiremorte

Abbiamo intervistato Sandro Spinsanti, bioeticista, fondatore e direttore dell’Istituto Giano per le Medical Humanities e il Management in sanità, sul tema del suo ultimo libro, la spiritualità e la cura.

C’è un’immagine bellissima subito all’inizio del tuo libro, che troviamo anche nel titolo, Sulla terra in punta di piedi. Occorre smettere di calcare la terra da padroni, bisogna minimizzare la nostra impronta ecologica, camminare in punta di piedi. In che senso questo ha a che fare con la spiritualità?

Ho preferito affidarmi a un’immagine, piuttosto che a una definizione. Certo, sia le parole che le immagini possono essere fuorvianti. Per molti lo è sicuramente la parola “spiritualità”: l’associano all’attività del pastore d’anime. Spiritualità ha un sentore di sagrestia, evoca scenari disincarnati, se non addirittura ostili alla vita terrena e corporea. Ma sono consapevole che anche l’immagine della posizione eretta può essere mal interpretata. Dall’antichità greca l’attribuzione della posizione eretta all’uomo è stato il simbolo della sua supremazia rispetto agli animali. È stata la sigla di un antropocentrismo che siamo invitati a scrollarci di dosso. Di questa transizione culturale si è fatto portavoce autorevole il magistero di papa Francesco con l’enciclica Laudato si’. Propone una fratellanza che non si limita agli esseri umani, ma arriva ad affermare come nuovo programma che “niente di questo mondo mi risulta indifferente”. Né gli animali, né le piante, né il pianeta stesso nella sua rude materialità: perfetta antitesi dell’atteggiamento antropocentrico che abbiamo nutrito nei confronti della terra (con le parole dell’enciclica: “Siamo cresciuti pensando che eravamo suoi proprietari e dominatori, autorizzati a saccheggiarla”). È una nuova dimensione della spiritualità, opposta al disprezzo nei confronti della materia, considerata il contrapposto dello spirito.

A questo punto l’immagine dell’essere umano in piedi sulla terra ha bisogno di essere abbinata a quella di un uomo chinato verso la terra stessa, in atteggiamento non solo umile, ma di cura. Le due metafore non si escludono reciprocamente, ma si richiamano e si completano. La spiritualità alla quale siamo chiamati nel nostro tempo non può fare a meno né dell’una, né dell’altra. Se l’uomo in piedi è simbolo dell’umano, quello chinato con atteggiamento di cura richiama il modello post-antropocentrico, verso il quale siamo chiamati a transitare. È molto più che un’evoluzione; qualcuno lo chiama anche coraggioso cambio di paradigma.

La spiritualità è per te strettamente connessa con il tema della cura. Che cosa ne pensi del filone femminista dell’etica della cura, e in particolare della definizione della cura data da Joan Tronto: “La cura è una pratica volta a mantenere, continuare o riparare il mondo”?

Sembra consolidata l’idea che il pensiero spirituale sia sovrapponibile a “pensare al femminile”. Non lo contesto, ma credo che sia opportuno vigilare su forme di sessismo nascoste, che si presentano dove meno ce l’aspetteremmo. Anni fa ha fatto epoca un saggio di Carol Gilligan: Con voce di donna. Denunciava l’apparente neutralità delle teorizzazioni che descrivevano lo sviluppo della capacità di formulare giudizi morali nell’essere umano. In realtà – affermava – per secoli la voce che abbiamo ascoltato era la voce degli uomini nel senso di maschi: era il loro modo di concepire i conflitti e le scelte morali, mentre la struttura etica che emerge dal pensiero delle donne è stata considerata come una deviazione dal modello ideale, una specie di fallimento evolutivo; come se nelle donne, rispetto alla capacità di giungere a un giudizio morale, ci fosse qualcosa che non va…

Il bias sessista nascosto nell’etica ci induce a stare all’erta riguardo a ciò che potrebbe succedere nella spiritualità. Magari a ruoli invertiti: riversando nella spiritualità stereotipi culturali femminili, opposti a quelli riservati alla mascolinità. È succube di questa insidiosa ripartizione di ruoli anche l’attribuire il compito della cura alla componente femminile della società. Se poi passiamo alla medicina, diventa: curare è maschile, prendersi cura è femminile. La spiritualità è un invito a scompigliare questi ruoli predeterminati. In tutti gli ambiti della cura: da quella della salute alla cura del pianeta. Anche il ripiegamento consapevole sulla propria crescita potrebbe essere visto in chiave femminile, mentre al maschio si riserva l’estroversione nel lavoro, nella scalata sociale, nel potere. L’alzarsi sulla punta dei piedi non è né maschile, né femminile: è una potenzialità da sviluppare, alla quale è chiamato ogni essere umano.

Sembri essere critico nei confronti della professionalizzazione del sostegno spirituale. Che ne pensi dunque del “core curriculum” che nell’ambito delle cure palliative è stato definito proprio per diffondere la figura dell’assistente spirituale?

La professionalizzazione è sia un pericolo che un’opportunità: in tutti gli ambiti della cura, non solo nella spiritualità. La professione delimita la cura stessa entro certi confini. Non possiamo aspettarci da un professionista lo stesso coinvolgimento emotivo che auspichiamo da parte di un familiare o da una persona intima. Quello che vorrei fosse associato alla professionalizzazione del sostegno spirituale è la competenza. Mentre questa è facile individuarla nelle cure mediche o infermieristiche, è più difficile quando ci spostiamo nell’ambito della spiritualità. Possiamo dire, in negativo: non bastano la spinta ideale e l’entusiasmo personale. Per questo nei confronti di chi si appresta a fornire un accompagnamento spirituale sono necessari: una selezione (certe persone è più opportuno che si astengano, se hanno un orientamento missionario), una formazione specifica (quindi ben vengano le indicazioni del ‘core curriculum’) e una supervisione che accompagni la pratica attraverso un confronto per le situazioni più difficili.

Nel tuo libro sei molto prudente nel dare definizioni positive di cosa sia spiritualità o di come possa essere esercitata. Ma secondo la tua riflessione c’è un legame tra consapevolezza della vulnerabilità e della mortalità (quando è incarnata, e non puramente intellettuale) e desiderio di spiritualità?

La consapevolezza è il presupposto per la spiritualità, intesa non come una pratica segmentale e confinata in certe situazioni, come quella della terminalità, ma come un percorso che si estende tanto quanto la cura. Se dalla cura ci si aspetta unicamente la ‘restitutio ad integrum’, la spiritualità è fuori gioco.

In quali modi la spiritualità ha a che fare con una riduzione dell’antropocentrismo e dell’individualismo della società occidentale?

Spiritualità e sopravvivenza: è una connessione inedita. Eravamo abituati a coniugare il progresso spirituale dell’umanità o con l’attenzione che sposta il centro di gravità dalla vita terrena alla vita eterna – nella prospettiva religiosa – o con un affinamento della nostra qualità umana. Ora invece siamo stati bruscamente confrontati con la sopravvivenza della specie umana. Lo ha proclamato, in modo scenograficamente efficace, papa Francesco nella sua preghiera in una piazza san Pietro deserta, durante la prima fase della pandemia, quando ha proclamato che ci appoggiamo su un pianeta ammalato per lo sfruttamento a cui lo abbiamo sottoposto. E ancora, nell’enciclica Fratelli tutti, ha evidenziato come il Covid 19 abbia messo in luce le nostre false sicurezze. Non si tratta, dunque, di chiudere una parentesi e tornare alla normalità: “Se qualcuno pensa che si trattasse solo di far funzionare meglio quello che già facevamo, o che l’unico messaggio sia che dobbiamo migliorare i sistemi e le regole già esistenti, sta negando la realtà”. È questa la sfida: mettere la spiritualità non in rapporto con l’ultraterreno, ma proprio con la terra, con la rete dei viventi su di essa. L’alzarci punta di piedi diventa allora una metafora per evocare un peso più leggero. Il contrario dello sfruttamento a oltranza. E proprio qui sta la difficoltà: non ci è richiesto solo qualche piccolo aggiustamento, ma di cambiare il modo di vivere, l’ordine delle priorità. Potremo sopravvivere solo se impareremo a sopra-vivere: ecco, in sintesi, che cosa ci sta chiedendo la spiritualità.

Secondo te la terribile esperienza del Covid ha modificato il nostro rapporto con la spiritualità, e se sì, in che modo? Se ne parla tanto, fin dall’inizio della pandemia, ma io vedo soprattutto un’enorme fatica, il conteggio dei morti la sera, e la fuga dalla realtà dei negazionisti o degli spregiudicati…

Dal punto di vista ideale, la crisi pandemica è un invito a un ripensamento del nostro stile di vita, ovvero uno stimolo ad alzarci sulla punta dei piedi, per ricorrere ancora all’immagine con cui invito a pensare alla spiritualità. Se invece guardiamo all’impatto concreto che la pandemia sta avendo sulle opportunità di crescita spirituale, la tua analisi è molto realistica. Sembra che anche questa opportunità la stiamo perdendo: siamo più orientati a chiudere la parentesi per tornare alla normalità, invece di cercare una diversa e migliore normalità.

Uno sviluppo che mi piacerebbe approfondire è l’interfaccia tra spiritualità e arte. Quali sono i rapporti reciproci?

Nella mia riflessione ho dedicato una particolare attenzione a quelli che ho chiamato “incroci di percorso”. Invece di isolare la spiritualità, l’ho messa in relazione con quanto viene proposto e praticato in ambiti che corrono paralleli nella nostra cultura: con la religione – per dire – e con la psicologia, con l’ecologia e con la filosofia. Uno dei confronti più promettenti è proprio quello della spiritualità nel percorso di cura con l’arte. Sembra una provocazione, perché la cura si presenta come questione di scienza; e la scienza si colloca su un terreno del sapere diverso rispetto all’arte. La spiritualità in questo ambito equivale a un invito ad ampliare il nostro sguardo. La prima guarigione di cui abbiamo bisogno è proprio quella dall’impoverimento della nostra prospettiva. La ricerca della salute richiede anche un nostro orientamento verso la bellezza. In tutte le sue forme: quelle che parlano agli occhi e quelle che percorrono la via dell’udito, così come la cura è costituita da parole, non meno che da farmaci.

Le espressioni dell’arte che ci vengono incontro sono le più varie: dalla parola letteraria (è appena il caso di menzionare in questo contesto l’importanza della Medicina Narrativa, in tutte le sue articolazioni) alla musica, che ha preso dimora nelle strutture sanitarie più all’avanguardia come ospite fisso; dall’arte grafica (l’”arteterapia” è offerta ai malati in percorsi di cura eccellenti) a quella cinematografica. L’arte è un’ottima compagna di strada della spiritualità; le sue articolazioni sono tante quante la nostra creatività riesce a immaginare.

Tags: arte, Covid-19, cura, mortalità, Spiritualità, vulnerabilità
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3 commenti
  1. simone veronese
    simone veronese dice:
    23 Marzo 2021 in 12:04

    E’ difficile commentare Spinsanti, un vero maestro del pensiero, dell’antropologia della cura e della centralità dello spirito nella persona umana. Posso solo dire, da medico palliativista in punta di piedi su questa terra, che le persone sono veramente formate da un corpo, da una mente, dal cuore e dallo spirito e queste componenti sono un unicum inscindibile. Nonostante il tentativo costante parcellizzarci per curarci a pezzi, la nostra identità è unica e complessa. Da qualche parte si deve iniziare a prenderci cura di noi stessi e delle persone che soffrono e la porta spirituale ed esistenziale di noi stessi è spesso considerata la più stretta. Però le porte strette spesso conducono ad atri ampi e stupefacenti. Dico solo più che la cura spirituale appartiene a tutti noi, non credo abbia un sesso, ma certamente ha una sessualità, cioè un modo maschile e femminile di prendersene cura e come sempre servono entrambe. Esiste però anche il bisogno di specialisti che sappiano affrontare i bisogni spirituali (anche e non solo alla fine della vita), quando viviamo esperienze devianti della sfera spirituale-esistenziale: perché in alcune situazioni il bisogno di perdono, la gravità dei rimorsi, la difficoltà di trovare un senso all’esperienza di malattia, le delusioni dovute ad una fede vissuta male, il senso di colpa e di vuoto interiori, sono troppo gravose per essere solo condivise con le persone che ci stanno accanto.

    Rispondi
    • sandro spinsanti
      sandro spinsanti dice:
      23 Marzo 2021 in 16:45

      Grazie. dott. Veronese, per il suo contributo di riflessione. Effettivamente credo che uno dei problemi che sorgono nell’ambito della spiritualità è l’equilibrio tra la spinta generosa a offrire sostegno a chi attraversa una prova che minaccia il senso e l’equilibrio della propria vita e la necessaria competenza. E’ quella che dovrebbero avere gli “specialisti” di cui lei parla. La platea si allarga oltre l’ambito religioso; parliamo anche di filosofi, di counselor… Anche di volontari. Tutti però devono ricevere una formazione adeguata. Perché le parole, come i farmaci, possono essere terapeutiche ma anche produrre effetti dannosi…

      Rispondi
  2. Sonia Tagliapietra
    Sonia Tagliapietra dice:
    24 Marzo 2021 in 01:07

    Purché finalmente se ne parli.
    Ogni cambio di paradigma prevede un processo lungo e a volte difficile.
    Ma grazie ai molti “tam tam” oggi le informazioni corrono velocemente.
    Da anni mi appassiona l’argomento, ma solo la consapevolezza incarnata a cui fa riferimento la Dottoressa Sozzi, mi ha spinto a formarmi. Sono infermiera e da 15 anni lavoro in un hospice. E l’accompagnamento, di cui tanto ci vantiamo in questo luogo, è a tutt’oggi monco e incompleto. Da ciò il desiderio di frequentare un corso di alta specializzazione in assistenza spirituale. L’assistenza appartiene costituzionalmente agli infermieri ed io, infermiera, donna, madre, moglie, figlia e in passato malata, mi chiedo spesso che cura vorrei ricevere se fossi in fase terminale.
    Ora, grazie alla formazione ricevuta da questo corso, posso provare ad assistere in modo nuovo e competente.
    Ma al momento sono ancora un’aliena in mezzo al resto dell’equipe…

    Rispondi

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