La cura come valore, di Marina Sozzi
L’esperienza del Covid ci ha messi di fronte a un’evidenza: siamo fragili, vulnerabili in quanto umani, esposti alla sofferenza e alla morte, e quindi tutti bisognosi di cura. Vorrei che non intendessimo la cura solo in senso sanitario. Il Covid ci ha infatti anche permesso di comprendere una questione molto rilevante, che la cura è un concetto ampio, che implica relazionalità e reciprocità: la cura degli altri e la cura di sé sono due facce della stessa medaglia. La questione delle mascherine, che non tutti colgono, è proprio questa: se tutti la portiamo siamo tutti protetti, tutelando gli altri proteggiamo noi stessi. Questo è un bell’esempio del funzionamento della cura. Facciamone un altro: il tema del surriscaldamento del pianeta. Se ce ne prendiamo cura, se cerchiamo nel nostro piccolo di far parte della soluzione di questo abnorme problema, se scegliamo ad esempio mezzi di trasporto sostenibili, se riduciamo lo spreco di acqua, se mangiamo meno carne e utilizziamo prodotti ecologici, ne beneficeremo noi insieme a tutto il resto del genere umano. Siamo connessi.
Ma cosa è la cura? Joan Tronto, filosofa femminista americana, la definisce come: “una pratica, volta a mantenere, continuare o riparare il mondo.”
Cura quindi non è solo cura delle malattie. Cura è l’allevamento dei figli, l’aiuto prestato agli anziani, l’istruzione, la formazione, lo sviluppo della persona. Cura è la pulizia delle nostre case e delle nostre città, cura è la salvaguardia della terra… eccetera. La cura è un aspetto universale della vita umana: tutti gli esseri umani hanno bisogni che possono essere soddisfatti solo mediante l’aiuto degli altri. Chi presta cura è consapevole del valore di questa pratica. Ma nella nostra cultura chi fornisce lavoro di cura è sovente svalutato e sottopagato. Badanti, OSS, infermieri, insegnanti. Parallelamente, chi ha maggiori esigenze di cura è sovente emarginato e implicitamente disprezzato in quanto “bisognoso”.
Perché questa svalutazione? Ci sono molti e complessi motivi, mi limiterò a indicare il più rilevante. Si tratta dell’idea dell’autonomia dell’individuo come valore assoluto. Questo valore è molto condiviso: si pensi solo al mito del self made man, che si è costruito con le sue sole forze una vita e una carriera di successo. È un mito che si forma a partire dall’oblio del contributo che gli altri (il contesto in cui siamo inseriti) danno alle nostre realizzazioni. D’altra parte, se l’autonomia e l’indipendenza sono un valore assoluto, la dipendenza sarà vista come disvalore: chi è bisognoso di cura viene sminuito. Qui intervengono, accanto all’oblio, anche plurime forme di negazione: negazione della malattia e della vecchiaia, negazione della vulnerabilità, negazione della morte. Eppure, nonostante le illusioni dei nostri contemporanei, verrà un momento in cui anche il più autonomo degli individui avrà bisogno di aiuto. Ciascuno è dipendente e indipendente al contempo, in vari momenti della vita, e questa situazione si può definire come interdipendenza degli uomini tra loro. La cura ci permette di avere l’autonomia come obiettivo, ma senza emarginare e svalutare la dimensione umanissima della dipendenza. L’autonomia e l’indipendenza degli individui sarebbe peraltro un valore accettabile, a patto che non si smarrisca la coscienza che è attraverso la cura che si può raggiungere, insieme, il maggior grado di autonomia possibile. A partire da questa consapevolezza, che scardina la serie di negazioni a cui si faceva riferimento sopra, chi cura potrà avere una diversa considerazione sociale. Ho un sogno, quindi, ed è che la cura possa diventare un valore sociale condiviso, e smetta di essere un lavoro che si svolge nell’ombra, in dimensione privata, fornito da membri svantaggiati della società a beneficio di coloro che possono pagare per procurarselo. Questa argomentazione meriterebbe più ampie riflessioni, ma lo spazio di un post non mi permette di dilungarmi. Sono certa che voi, con le vostre considerazioni ed esperienze, aggiungerete molto a ciò che ho pensato.
Ancora una cosa. Abbiamo un modello che ci permetta di intuire cosa potrebbe essere la dimensione della cura come valore? A mio modo di vedere sì. Il modello è quello delle cure palliative, più efficace del modello della relazione madre bambino, di solito citata come esempio di cura per antonomasia.
Le cure palliative si muovono nel territorio più delicato, quello della prossimità alla morte, e proprio per questo hanno maturato un atteggiamento e delle competenze fondamentali: la consapevolezza della vulnerabilità e la capacità di stare accanto alla sofferenza, l’attenzione per chi riceve la cura (il paziente al centro), la valorizzazione delle capacità residue e delle relazioni, il rispetto per la dignità e l’ascolto, la delicatezza, l’empatia, la presenza, la vicinanza. Queste caratteristiche, che definiscono la buona cura, si riflettono su chi presta la cura. Le équipe di cure palliative valorizzano tutti i ruoli di cura, dal medico al volontario, riconoscendo a ciascuno il valore della sua competenza concreta. Il punto di forza delle cure palliative consiste proprio in questo, la dimensione dell’équipe: la condivisione permette di sostenere chi trova difficoltà nel suo lavoro di cura, minimizzando l’impatto delle debolezze individuali e permettendo a ciascuno di dare il meglio.
Grazie, e grazie, da lettore di questo blog, a tutti coloro che aggiungeranno le loro riflessioni e che si collegheranno per seguire Marina Sozzi ospite di TUTTI A CASA, la diretta web promossa da Casa Italiana Zerilli-Marimo’ di New York University: http://www.casaitaliananyu.org/events/la-cura-come-metafora
Grazie Ennio!
La cura come valore!!! Sì un valore grande, direi capace di rivoluzionare davvero il nostro vivere civile, se fosse riconosciuto come tale. Ma purtroppo non credo che chi presta cura sia consapevole del valore primario di questa pratica, se fosse vero, le persone che da sempre sono artefici del lavoro di cura, cura di sè, cura dei figli, cura della casa, cura degli ammalati, dei disabili e degli anziani lo avrebbero difeso, sostenuto, obbligando la società ad organizzarsi in modo da dare a questo lavoro fondativo del benessere sociale ed individuale il giusto posto. Un benessere autentico, non quello che abbiamo raggiunto che ha trasformato la persona in consumatore consumando l’ambiente e che ha costretto a strappare dal nido i neonati per portarli ai nidi e a rottamare i vecchi negli ospizi.
Certo le cure palliative sono un bell’esempio di una medicina che dà valore al lavoro di cura. Non posso che sperare che l’esperienza della medicina palliativa possa contaminare la medicina tutta.
Lo spero anche io, Maria Laura, e faccio il possibile per diffondere i principi, il pensiero, la cultura delle cure palliative.
Ringrazio Marina Sozzi per il prezioso articolo ed esprimo un contributo in merito. La cura verso un’altra persona è prendersi l’impegno, inteso come accompagnamento a un processo, come realizzazione nel tempo di un percorso partecipato. La cura è manifestare, dichiarare il proprio interesse all’altro, in un flusso di significati che si muove in ambedue le direzioni, in funzione della crescita di entrambi.
Il terreno di cura dovrebbe spaziare nell’ambito del ruolo che abbiamo verso l’altro, tuttavia non dovrebbe rinchiudersi in territori delimitati con rigidità. Fondamento della cura è muoversi in modo creativo e gratuito, cioè nel momento che sono nella cura, io dono qualcosa di me.
Grazie
Sono molto d’accordo. Soprattutto, credo che la cura sia rilevazione del bisogno di cura, impegno, identificazione del processo, realizzazione (co-costruzione con chi riceve la cura) e massima attenzione all’esito del processo. Ma, al contempo, credo che la cura sia anche slancio e dono. Questa complessità è la sua grandezza.
La cura di sé, degli alti e del mondo sarà il nuovo paradigma a cui ispirarsi per la tutela della vita in ogni sua forma.
Le varie discipline scientifiche stanno sempre più portando alla luce un mondo interconnesso, sia nel macrocosmo quanto nel microcosmo, fatto prevalentemente di relazioni, opposto quindi alla cultura del dualismo e del riduzionismo nelle quali siamo cresciuti. Occorre guardare con fiducia a questa nuova visione “olistica”, per la comprensione dei fenomeni della natura, di cui facciamo parte. I nuovi saperi devono rispondere attraverso uno sguardo d’insieme alle complessità di cui è intessuta la vita.
Dare valore alla cura è il dono più prezioso prezioso che possiamo farci.
Grazie Marina Sozzi per la tua “accurata” testimonianza.
Grazie a te, Sonia. Credo che il virus ci abbia insegnato molto, se non disperdiamo questa consapevolezza. Ad esempio, è probabile che la nostra mancanza di cura nei confronti del pianeta possa portare ad una moltiplicazione di eventi come la pandemia da Covid.
“Io sono la cura.
Noi siamo la cura.
La cura sono queste pagine che scrivo.
La cura è questa gioia, questa gratitudine, questa chiarezza dopo il torpore e l’indistinto.”
“L’esercizio quotidiano dell’amore, questo infine auguro a tutti, a tutte.
Non c’è altro, credete.
Se non avete sottomano l’opportunità di una cura da fare – scherzo, ma fino a un certo punto! – potete però prendervi cura.
Prendetevi cura di voi stessi, e di quelli cui volete bene.
E magari anche degli altri.
Non c’è davvero altro, credete”
(Severino Cesari, “Con molta cura”, Rizzoli).
Grazie Giovanni, straordinario libro, questo di Cesari.
Mi ha fatto davvero molto piacere leggere questo articolo, è la mia linea di ricerca da ormai quasi dieci anni e ci credo moltissimo… È sempre bello vedere quando e come i pensieri di persone lontane si incontrano. Anche in questo c’è cura e relazionalitá, pur se non prossime. La cura come incontro, anche “solo” di idee condivise.
Grazie!
Ludovica
Grazie Ludovica, ci siamo già incrociate un paio di volte virtualmente. Spero proprio che potremo avere occasione per conoscerci! Marina Sozzi