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Tag Archivio per: Covid-19

Gli effetti negativi della rimozione del Covid 19, di Davide Sisto

6 Novembre 2023/9 Commenti/in Riflessioni/da sipuodiremorte

Negli ultimi mesi ho condiviso insieme a tanti connazionali una sensazione piuttosto ricorrente: mi sembra che la mia vita sia passata direttamente dal 2019 al 2023 o, viceversa, sia tornata indietro dal 2023 al 2019, perdendo per strada due o tre anni. Mi spiego meglio. Non appena la pandemia da Covid-19 è terminata o, comunque, ha concluso la sua fase più critica, la vita quotidiana ha ricominciato ad avere le stesse identiche caratteristiche che ha avuto fino alla fine del 2019, cancellando – almeno in superficie – gli effetti emotivi e psicologici del difficile periodo vissuto tra il 2020 e il 2022. Quando, nel marzo 2020, un numero sostanzioso di utenti dei social network affermava che il mondo non sarebbe più stato lo stesso a causa della pandemia, probabilmente ha sottovalutato la capacità umana – a volte utile, spesso discutibile – di rimuovere radicalmente i problemi, facendo finta che non ci siano stati o che siamo impermeabili alle loro conseguenze. E così, ci abbiamo messo pochissimo a dimenticare il lockdown, “L’italiano” di Toto Cutugno cantata sui balconi delle abitazioni, la reiterata scritta “andrà tutto bene”, i vaccini, il green pass, il distanziamento sociale e via dicendo. Appena abbiamo potuto, abbiamo cancellato quei due anni così complicati, riprendendo le vecchie abitudini come se nulla fosse successo. Per esempio, nel mondo della formazione universitaria le innovazioni tecnologiche, che hanno sopperito più o meno positivamente alla mancanza del contatto fisico, sono quasi del tutto sparite. Nel mondo editoriale, invece, è diffusa la convinzione che i libri sulla pandemia non abbiano mercato. Gli stessi corsi universitari tendono, generalmente, a non affrontare in alcun modo quello che abbiamo vissuto e le trasformazioni che ne sono seguite.

Ma fa realmente bene la rimozione totale del periodo pandemico dalle nostre vite? È veramente utile far finta di non ricordare il periodo compreso tra il 2020 e il 2022 con tutte le sue conseguenze psicologiche ed emotive? Il 56° Rapporto Censis sulla situazione sociale dell’Italia, presentato nel dicembre 2022, ritrae il popolo italiano come profondamente malinconico, privo di speranza nel futuro, perduto all’interno di un contesto sociale, politico e culturale che non mostra un barlume di luce. La maggior parte dei dati sul benessere psicologico dei cittadini italiani mostra un incremento significativo dei sintomi della depressione e dell’ansia, soprattutto tra i più giovani, a cui si aggiunge un altrettanto importante aumento dei suicidi. Dati sulla salute mentale che trovano un riscontro abbastanza omogeneo tra i paesi dell’Unione europea, come mostra il report Health at a Glance: Europe, nato dalla collaborazione tra l’OCSE e la Commissione europea. Vero che occorre contestualizzare queste informazioni all’interno di un periodo storico che, oltre al Covid-19, sta affrontando sanguinosi e preoccupanti conflitti bellici, gli effetti del riscaldamento globale e un drammatico aumento dei costi. Tuttavia, mi pare che nei confronti della pandemia abbiamo adottato lo stesso atteggiamento che adottiamo sempre nei confronti della mortalità, nostra e degli altri: facciamo finta che non ci riguardi, che siamo automaticamente più forti dei nostri limiti, che le fragilità non ci competono. Nascondiamo, come al solito, la polvere sotto il tappeto, lasciando che i suoi effetti agiscano implicitamente indisturbati fino a presentare, di colpo, un conto salatissimo a cui non sappiamo far fronte.

E dire che la pandemia poteva essere un’occasione importante per migliorarci. La consapevolezza del rischio cagionato dal virus poteva rappresentare il punto di partenza per meditare collettivamente sulla nostra vulnerabilità e mortalità, il senso di isolamento generato dal lockdown, dalla quarantena e dal coprifuoco poteva essere la base per ricominciare a discutere insieme su nuove forme di vicinanza nello spazio pubblico. Soprattutto, la particolare situazione che hanno vissuto le persone più fragili, per età, per condizione di salute o per criticità sociali, poteva – anzi, doveva – aprire importanti spazi all’interno della società per riflettere insieme sulle strategie da adottare in vista di un’etica della cura differente e più umana.

Penso, in altre parole, che sia estremamente negativo il tentativo di cancellare di colpo le esperienze vissute tra il 2020 e il 2022. Dovremmo invece prendere su di noi il peso di quello che abbiamo attraversato, creando nuove modalità di condivisione e, soprattutto, utilizzando la paura provata nei confronti dell’ignoto per riflettere meglio sul senso della morte per la vita, sulla perdita improvvisa di chi abbiamo amato, sull’importanza di riti funebri per la nostra salute mentale.

Non pensate anche voi che quei due anni vadano ripresi, analizzati con attenzione, osservati con il giusto spirito critico, di modo da non credere di non averli vissuti? Non ritenete opportuno evitare la rimozione del Covid-19, proprio per salvaguardare il benessere collettivo? Perché, di fatto, li abbiamo eccome vissuti. Sono lì, nascosti in una parte di noi, pronti spettralmente a riemergere e a far sentire la loro opprimente presenza. Meglio affrontarli direttamente, guardarli negli occhi ed evitare che infestino il nostro quotidiano per un tempo più lungo del dovuto.

Attendiamo, come sempre, vostri commenti a riguardo.

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Il ritorno della morte nello spazio pubblico? di Cristina Vargas

22 Ottobre 2023/3 Commenti/in Riflessioni/da sipuodiremorte

Nell’ultimo fine settimana di settembre si è svolta la rassegna annuale Torino Spiritualità, che quest’anno era intitolata Agli assenti. Della morte ovvero della vita. Oltre a questa, diverse altre manifestazioni culturali importanti in tutta Italia hanno scelto di soffermarsi su questo tema ed è crescente l’importanza dei festival specificamente incentrati sul fine vita (ad esempio in questo momento si sta svolgendo Il rumore del lutto a Parma, che esiste da 17 anni e che ha fatto scuola, ma ricordiamo anche nuove iniziative: Mortali. Vivere nonostante a Trento, o il festival culturale di Vidas, a Milano, appena concluso, o ancora Da Vivi, Il miracolo della finitezza, del Teatro Metastasio a Prato, e altri ancora): dopo decadi di impronunciabilità, sembra che nel periodo post pandemico il tema del fine vita stia riguadagnando terreno.

Quali riflessioni possiamo trarre dal successo di queste e altre iniziative? Siamo forse di fronte a un ritorno della morte nello spazio pubblico? È presto per dirlo. Tuttavia, rispetto a vent’anni fa, quando ho cominciato ad avvicinarmi questo ambito, le differenze sono molto significative. Allora gli eventi richiamavano con fatica poche persone e, se si avanzava la proposta di organizzare qualcosa di un po’ più ampio, da tutte le parti arrivavano richiami alla cautela. Sono innumerevoli le occasioni in cui ci siamo sentiti rispondere: “C’è la parola morte nel titolo? Meglio di no! Potrebbe spaventare il pubblico”. Oggi, al contrario, sembra che il clima sociale stia lentamente mutando e che, più che in passato, si percepisca un bisogno sociale di confronto, condivisione e dialogo. Questo stesso blog, Si può dire morte, sembra cominci a vincere la sua scommessa.

Il Death café organizzato in occasione dell’inaugurazione di Torino Spiritualità e il laboratorio “Le assenze, gli assenti”, che ho avuto la possibilità  di co-condurre insieme alla psicoterapeuta e psicodrammatista Caterina di Chio, rappresentano per me due punti di osservazione privilegiata per cominciare ad abbozzare qualche ipotesi sul perché le persone, oggi, scelgono di prendere parte attiva ai momenti pubblici di riflessione sui grandi quesiti esistenziali sollevati dalla morte.

Al Death café inaugurale hanno partecipato circa seicento persone che, in gruppi da dieci e guidati da conduttori esperti, hanno riflettuto sulla domanda «In che senso la morte può far parte della vita?». Fra i presenti c’erano medici, infermieri, psicologi, operatori funebri e altri professionisti che a vario titolo si confrontano con il fine vita, ma soprattutto c’erano i cittadini, che si sono messi in gioco a partire dalle proprie riflessioni e vissuti personali (cfr. il report dell’evento a cura di Marina Sozzi). Il laboratorio, invece, era rivolto a un piccolo gruppo e utilizzava metodologie attive, con lo scopo di esplorare i molti modi in cui chi ci ha lasciato continua ad abitare dentro di noi. In entrambe le occasioni i contenuti sono stati ricchi e profondamente umani, ma in questa sede mi interessa evidenziare che, al termine, molti dei partecipanti hanno sottolineato – in alcuni casi con un pizzico di sorpresa – quanto fosse stato importante e significativo vivere un momento in cui era stato possibile parlare della morte in modo aperto, in un clima di condivisione e reciprocità.

L’incontro autentico e paritario fra persone ha offerto un momento comunicativo e relazionale diverso rispetto a quelli che normalmente sperimentiamo nei nostri contesti di vita.

Il rinnovato interesse a parlare della morte, cui stiamo assistendo, infatti, non vuol dire che questo tema sia ormai familiare a tutti, o che il “tabù”, di cui abbiamo più volte parlato, sia tramontato. Parlare della morte, del morire e del lutto rimane molto difficile, in particolare nelle situazioni che ci coinvolgono in modo diretto e personale.

Un recente progetto di ricerca di interesse nazionale, i cui risultati sono stati presentati nel volume Morire all’italiana (2022, a cura di Asher Colombo), ci restituisce l’immagine di una società eterogenea, con modalità di rapportarsi con la fine della vita non facilmente schematizzabili. Tuttavia, in molti ambiti gli autori hanno notato che persiste una diffusa difficoltà nell’accettare la morte e nell’accompagnare i morenti. Emerge inoltre la tendenza a relegare l’esperienza del lutto in una dimensione privata e intima, che lascia poco spazio alla sfera collettiva. Ciò conferma un più generale processo di mutamento storico: da una gestione prevalentemente familiare e comunitaria della morte, siamo passati nel secondo Novecento a una modalità fortemente individualizzata (e per molti versi individualistica) di approcciare le ultime fasi.

Questa progressiva individualizzazione si esprime in diversi modi, con risvolti positivi e negativi. Si pensi, per esempio, all’importanza che ha assunto il concetto di autodeterminazione per quanto riguarda le scelte di fine vita. L’individualizzazione, inoltre, si manifesta anche sul piano delle credenze e dei riti: la secolarizzazione, più che eliminare il bisogno di spiritualità, ha favorito l’affermarsi di forme nuove e personalizzate di vivere il rapporto con l’aldilà, con il sacro e con i defunti. A questo proposito, l’indebolirsi delle forme tradizionali di gestione della morte e del lutto da un lato solleva dal peso (a volte gravoso) dei “doveri sociali”; ma dall’altro può generare un senso di incomunicabilità e di solitudine.

Il nostro rapporto con la morte oggi, in sintesi, si sviluppa in uno scenario caratterizzato dalla frammentazione e dalla complessità.

In quest’ottica, il rinnovato interesse per il fine vita fa tornare alla mente le riflessioni proposte più di vent’anni fa dal sociologo britannico Tony Walter nel suo noto volume The Revival of Death. Secondo Walter il  bisogno di parlare della morte, del morire e del lutto, che egli riscontrava già allora (forse perché il suo sguardo partiva dalla realtà anglosassone), deriva non tanto dal desiderio di rompere il tabù della morte (un concetto su cui questo autore è critico), ma dalla necessità di trovare risposte di fronte alle nuove sfide e incertezze generate dal mondo contemporaneo e dal rapido mutamento delle pratiche sociali.

A queste considerazioni, a mio avviso, si aggiungono le ricadute del periodo pandemico, durante il quale la possibilità di accompagnare i malati e i morenti, di essere presenti fisicamente nelle ultime fasi, di dire addio e di ritualizzare la morte è stata fortemente limitata. Ciò, da un lato, ha acuito il senso di isolamento di chi ha subito delle perdite; dall’altro, per contrasto, ha aumentato la consapevolezza dell’importanza, e del valore, dei momenti collettivi di condivisione, rito e memoria.

Il dialogo e il confronto sono risorse che non solo aiutano a lenire la solitudine connessa alla sofferenza, ma consentono anche di ripensare e di rielaborare i quesiti esistenziali con cui tutti ci confrontiamo di fronte alla fine, tanto sul piano professionale, quanto sul piano personale. Essi, inoltre, sono potenti strumenti per riflettere sui dubbi e le incertezze della contemporaneità. Se non c’è una narrazione univoca a cui possiamo aggrapparci, o convenzioni sociali che – per quanto limitanti – ci dicano cosa è giusto dire o fare, come facciamo a sapere se siamo sulla buona strada nel percorso di lutto? Chi ci assicura (e rassicura) sul fatto che le emozioni difficili che intimamente proviamo siano normali e non il segnale di qualche anomalia? In mancanza di linguaggi sociali consolidati per gestire la morte, la condivisione a livello comunitario o di gruppo ha una funzione non solo espressiva (di per sé importantissima), ma anche rielaborativa, nella misura in cui permette di chiarire, di riorganizzare e conferire significato a pensieri, esperienze ed emozioni di cui non è semplice parlare in altri contesti.

E voi cosa ne pensate? Quali sono le vostre sensazioni in merito? Avete seguito uno di questi festival?

https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2023/10/ToSp23-1-e1697992107101.jpg 265 352 sipuodiremorte https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2024/05/93409bba-2fe8-4231-86b3-36648bff989e.png sipuodiremorte2023-10-22 18:34:352023-10-23 18:36:31Il ritorno della morte nello spazio pubblico? di Cristina Vargas

Normalità e trauma: la paura della morte in tempi di pandemia, di Cristina Vargas

25 Aprile 2022/2 Commenti/in Riflessioni/da sipuodiremorte

Come molte altre persone che si occupano del fine vita nel campo delle scienze sociali, in questi ultimi due anni mi sono più volte interrogata su quali implicazioni abbia avuto la pandemia sulla rappresentazione del fine vita. Come è cambiata la percezione della morte nel nostro contesto sociale? Quali conseguenze avrà questa esperienza epocale che abbiamo vissuto – e stiamo ancora vivendo – sul modo in cui conferiamo senso al morire? E, ancora, in che modo possono contribuire le varie discipline che si occupano di tematiche tanatologiche (la filosofia, la storia, la sociologia, l’antropologia, la psicologia e altre ancora) a comprendere meglio l’impatto questi cambiamenti?

È ancora presto per dare delle risposte e per fare dei bilanci, ma quel che è certo è che la malattia grave e la morte sono tornate prepotentemente alla ribalta. La pandemia, e in queste ultime settimane la guerra in Ucraina, molto più vicina di altre guerre contemporanee, ci hanno costretti a fare i conti con l’incertezza, a riconoscere la nostra vulnerabilità, a confrontarci con la paura di ammalarci, con il lutto e, in alcuni casi, con il rischio concreto di morire.

Può sembrare contraddittorio, ma in molti sensi, l’onnipresenza della morte ha innescato due reazioni opposte. Se in alcuni contesti il tema della morte è stato “sdoganato” e si è sviluppata una maggior consapevolezza rispetto a questo argomento; in altri si è creato l’effetto opposto: il bisogno di distogliere lo sguardo e di voltare pagina hanno avuto il sopravvento.

Partiamo dal secondo scenario, quello della normalizzazione, un meccanismo che si osserva oggi in molti paesi e che ricorda da vicino quello che è storicamente avvenuto in contesti colpiti dalla violenza protratta. Ed Yong, giornalista scientifico e vincitore del premio Pulitzer per il suo lavoro durante la pandemia, ha ricordato recentemente che, nel maggio del 2020, quando gli Stati Uniti avevano appena raggiunto i 100.000 morti, il New York Times aveva riempito la prima pagina con i nomi di ognuna delle persone scomparse: un gesto che aveva profondamente commosso i lettori ed era diventato un simbolo della drammaticità di una perdita sentita da tutta la nazione. Eppure, ora che gli Stati Uniti si avvicinano a un milione di morti, l’opinione pubblica sembra quasi insensibile, come una cifra così sbalorditiva fosse in qualche modo troppo grande per essere sentita o pensata. C’è chi è in lutto, ma i parenti delle persone decedute sovente si ritrovano a elaborare il loro dolore “in mezzo alla fuga precipitosa della maggioranza verso la normalità”.

La storia insegna che l’abitudine smussa la paura; vivere a lungo in una situazione, per quanto critica essa sia, crea una sorta di “assuefazione” (uso, non a caso, l’espressione con cui Vovelle descriveva la familiarità con la morte che aveva caratterizzato altri periodi storici). Un po’ come avviene nelle guerre che accadono altrove, chi non ha subito le conseguenze più dirette del Covid può fare ricorso a una sorta di “distanza di sicurezza”, che depersonalizza le vittime e attenua, almeno in parte, l’intensità della sofferenza. Questa distanza è in parte necessaria per riprendere il movimento vitale dopo una fase di stallo. Essa, tuttavia, impedisce il riconoscimento dell’angoscia, rallentando la costruzione di una memoria condivisa e l’elaborazione del trauma che, in maggior o minor misura, ognuno ha subito. Molti dati confermano che le conseguenze psicologiche sono state rilevanti anche in chi non ha vissuto in modo diretto la perdita di una persona cara o le conseguenze gravi della malattia. Il Covid, per tutti noi, rimarrà nelle autobiografie come uno spartiacque, ci sarà un “prima” e un “dopo”: uno di quei momenti storici di svolta, un’ondata che, anche se non ci ha travolti, ha sicuramente creato delle discontinuità nella nostra storia personale.

Vale quindi la pena riflettere, per tornare alla prima delle due reazioni che abbiamo inizialmente descritto, sulla possibilità di sviluppare una nuova consapevolezza sulla morte e sulla vita.

Alcune interessanti ricerche, condotte nel corso del 2020 e del 2021 fra gli operatori sanitari in varie nazioni, hanno messo in luce l’importanza della resilienza e della crescita post traumatica, in inglese Post Traumatic Growth (PTG), nel gestire lo stress correlato al lavoro e il rischio di burn out in una delle categorie professionali che ha subito in modo più diretto le conseguenze della pandemia.

Pur senza sottovalutare le conseguenze negative sulla vita psichica di eventi gravi, il concetto di Post Traumatic Growth (PTG) parte dall’idea che le persone che si trovano ad affrontare situazioni drammatiche possano scoprire di avere più risorse di quanto credessero e, in alcuni casi, riemergerne rafforzati. La crescita post traumatica porta a integrare le “cicatrici”, fisiche e simboliche, in una nuova immagine di sé. Per spiegare questo concetto alcuni autori orientali usano la metafora del kintsugi, una forma di artigianato giapponese in cui le crepe della ceramica rotta vengono riempite con delle sottili linee dorate o argentate, che restituiscono la bellezza all’oggetto spezzato. I segni del “trauma” non scompaiono, al contrario, nel restare visibili riescono a trasformare una normale ciotola in un pezzo unico e irripetibile che può avere una nuova vita.

Quando il periodo critico può considerarsi concluso, esso può essere riletto come qualcosa che ha innescato un ripensamento del senso complessivo che prima veniva attribuito alla propria vita. Non è un caso che la pandemia abbia portato molte persone a rivedere le proprie priorità e i propri valori. Anche se non abbiamo dati sufficienti ad affermarlo con certezza, questo processo di cambiamento valoriale e identitario sembra essere alla base della cosiddetta “great resignation”, ovvero il significativo aumento delle dimissioni volontarie che si è verificato a partire dalla fine del 2020 negli Stati Uniti, in molti paesi europei e, in modo più limitato, anche in Italia.

Dato l’impatto negativo della pandemia a livello economico, molti analisti si aspettavano un ritorno celere al lavoro appena l’allentamento delle restrizioni l’avesse consentito. Tuttavia, questo non è avvenuto: molte persone hanno deciso di rivedere complessivamente il proprio percorso professionale e hanno deciso di cambiare radicalmente vita. È come se, durante i mesi della pandemia, la consapevolezza di non avere davanti a sé un tempo infinito avesse permesso di ripensare alle cose importanti, di dare più spazio agli affetti e, quando possibile, di fare scelte concrete in questa direzione. Forse come società non siamo diventati migliori – come nelle prime settimane della pandemia speravamo – ma i cambiamenti individuali fondati su una nuova e più consapevole rappresentazione della vita, in cui la finitudine è presente ma non diventa un pensiero angosciante, sono un primo passo da cui partire per ripensare il nostro futuro. Che ne pensate? Voi come avete vissuto la paura in questi due anni?

https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2022/04/coronavirus-conseguenze-psicologiche-e1650709432692.jpg 265 349 sipuodiremorte https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2024/05/93409bba-2fe8-4231-86b3-36648bff989e.png sipuodiremorte2022-04-25 10:35:392022-04-25 10:35:40Normalità e trauma: la paura della morte in tempi di pandemia, di Cristina Vargas

Le DAT alla luce del Covid, di Marina Sozzi

1 Marzo 2022/6 Commenti/in La fine della vita/da sipuodiremorte

Le DAT, ovvero le Disposizioni anticipate di trattamento, la cui validità giuridica è stata stabilita dalla legge 219/2017, sono un tema molto importante, che questo blog ha già trattato in passato. Ad oggi, nonostante siano passati quattro anni dall’approvazione della legge, meno dell’1% della popolazione italiana ha testato. Forse negli ultimi due anni hanno avuto un peso le difficoltà create dalla pandemia ad accedere agli uffici comunali preposti, specialmente nelle grandi città. Tuttavia, la percentuale di testatori è irrisoria.

Le persone faticano a immaginarsi in una situazione in cui non siano più in grado di decidere per sé, e spesso non sono sicuri su cosa sia opportuno scrivere su quel modulo di Disposizioni anticipate di trattamento, o non sanno a chi dare il ruolo di fiduciario.

La pandemia, certo, non ha semplificato le cose.

Alcuni avevano ben chiaro di non voler essere attaccati a ventilatori meccanici, quando pensavano che la respirazione artificiale potesse venir loro applicata a seguito di un gravissimo incidente, ad esempio, col rischio di restare in stato vegetativo permanente, come è accaduto a Eluana Englaro. Non ci aspettavamo, però, che potesse colpirci una malattia infettiva gravissima, che ha compromesso la nostra capacità di respirare, ma dalla quale vi era una possibilità di uscire guariti, perfettamente ristabiliti.

E, d’altro canto, invece, in questa epidemia di Covid, in certi casi aver testato sarebbe stato importante per salvaguardare la propria capacità di scegliere, anche nella situazione convulsa in cui versava la sanità nei momenti di diffusione più rapida del virus.

Non siamo tutti uguali, e ci sono persone, magari molto anziane, o un po’ stanche di vivere, che non avrebbero voluto finire in terapia intensiva qualora si fossero ammalati di Covid, ma solo essere accompagnate da buone cure palliative. Invece, nella maggioranza dei casi, hanno deciso i medici, e sappiamo peraltro dai loro racconti quanto sia stato difficile scegliere tra i pazienti malati di Covid che si recavano in ospedale.

Diceva una dottoressa intervistata da Open nell’aprile 2020: «All’inizio avevo paura. Ora no. Ti abitui alle regole di un ospedale in guerra, ti abitui al terremoto, a prendere una decisione al minuto». Tra cui quella più difficile: «Chi puoi salvare e chi no. Io l’ho fatto e devo conviverci ogni notte». «Marzo è stato il mese peggiore della mia vita, lottavamo contro l’invisibile. I letti in terapia intensiva non bastavano mai. E così capitava che dovendo scegliere tra un paziente settantenne, pieno di complicanze, e un altro che poteva farcela, sceglievi di intubare il secondo, lasciando andare il primo». Una decisione in cui ci si consultava tra colleghi, spiega la dottoressa, «ragioni, rifai i calcoli cento volte, litighi. Ma alla fine decidi».

Alcuni di noi si sono scandalizzati (a mio modo di vedere erroneamente) quando, all’inizio di marzo 2020, la SIAARTI, società scientifica degli anestesisti e dei rianimatori, ha pubblicato un documento in cui dava istruzioni ai colleghi che si trovavano di fronte a una scarsità di risorse in rapporto alla quantità di malati. Scrivevano gli intensivisti che lo squilibrio tra necessità cliniche e disponibilità effettiva delle risorse, li obbligava a utilizzare i criteri tipici della medicina delle catastrofi: «Come estensione del principio di proporzionalità delle cure, l’allocazione in un contesto di grave carenza delle risorse sanitarie deve puntare a garantire i trattamenti di carattere intensivo ai pazienti con maggiori possibilità di successo terapeutico: si tratta dunque di privilegiare la “maggior speranza di vita”. Il bisogno di cure intensive deve pertanto essere integrato con altri elementi di “idoneità clinica” alle cure intensive, comprendendo quindi: il tipo e la gravità della malattia, la presenza di comorbidità, la compromissione di altri organi e apparati e la loro reversibilità.»

Sarebbe cambiato qualcosa se la popolazione avesse in maggioranza testato, esprimendo ad esempio le proprie preferenze riguardo alla ventilazione meccanica? Si sarebbe potuto tener conto di quelle disposizioni, sapendo che erano state scritte in una situazione molto diversa, nella quale le malattie letali erano prevalentemente croniche, e la morte come evento improvviso ce la si sarebbe potuta aspettare soprattutto come conseguenza di gravi incidenti?

Credo che sia giunto il momento di ripensare alle DAT, alla luce del Covid, per fare una campagna rilevante, nazionale, di divulgazione. In questi mesi passati l’ha fatta VIDAS, fondazione milanese che si occupa di cure palliative, che ha promosso l’idea di testare con spot su diversi canali, tv, radio, stampa e digitale, che sono stati fruiti da oltre 23 milioni di utenti. Circa 6.000 persone hanno voluto approfondire, e scaricato la guida presente sul sito VIDAS e il modulo per la stesura delle proprie DAT, messo a punto con la collaborazione della bioeticista Patrizia Borsellino. Lo slogan è stato: “Scelgo adesso, perché posso”. La linea telefonica di prima informazione gestita da volontari ha ricevuto tra ottobre e dicembre decine di richieste da parte di persone interessate e desiderose di approfondire. C’è stato anche un servizio di sportello che ha accompagnato alla redazione del proprio biotestamento, valorizzato come un atto di libertà e autodeterminazione. Sarà poi interessante, a campagna conclusa, capire quanti sono stati i testatori in più, e se nell’area del milanese, dove è stato possibile accedere allo sportello di consulenza, ci sia stato uno spostamento interessante delle percentuali di persone che hanno lasciato le proprie disposizioni.

Se dovesse essere così, si renderebbe evidente che occorre una consulenza per indurre le persone a testare, come dimostrano anche i casi dei paesi dove una campagna nazionale seria è stata fatta, come il Canada (12% della popolazione ha scritto il proprio living will) e gli Stati Uniti (25%).

Ma soprattutto, ritengo che il Covid debba indurci a lasciare le nostre volontà dando non tanto precise indicazioni su ciò che si accetta e ciò che si rifiuta, quanto fornendo la nostra visione filosofica della vita e della morte, delle limitazioni della nostra salute che siamo in grado di accettare, e di quelle che invece renderebbero la nostra esistenza non più meritevole per noi di essere vissuta. E per arrivare a questa visione, occorre che ci vengano poste le giuste domande, che ci facciano riflettere, andando in profondità, sul nostro rapporto con la vita e con la morte.

Che cosa ne pensate? Avete riflettuto sulle DAT durante la pandemia? Secondo voi un medico avrebbe potuto, o dovuto, tener conto del testamento biologico eventualmente presente nel contesto dell’epidemia di Covid-19?

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I riti funebri e il Covid, intervista a Cristina Vargas, di Marina Sozzi

22 Dicembre 2021/0 Commenti/in Ritualità/da sipuodiremorte

Abbiamo intervistato l’antropologa Cristina Vargas chiedendole come siano cambiati, a suo parere, i riti funebri in epoca Covid.

1. Il Covid, soprattutto durante la prima ondata, ha stravolto il nostro rapporto con la ritualità. Prima di questa esperienza di privazione dei riti, molti affermavano di essere piuttosto antiritualisti. Ma di fronte all’impossibilità di celebrare riti funebri, è parso che la consapevolezza dell’importanza dei riti sia aumentata. Condividi questa lettura?

Sì, sono d’accordo. Se intendiamo il rito funebri come il momento del funerale in senso stretto, allora il periodo di sospensione è circoscritto. Durante la prima ondata le cerimonie funebri, religiose e laiche, sono state sospese per poco più di tre mesi. Tuttavia, se adottiamo una prospettiva antropologica e intendiamo i riti funebri in un senso più ampio, come tutti quei gesti significativi che accompagnano la morte (l’ultimo addio, la preparazione e la cura della salma, la sepoltura o la cremazione e, infine, se presenti, tutti i momenti rituali che scandiscono il periodo di lutto) ci rendiamo conto che il problema è stato molto più ampio e ha toccato, in modi e misure diverse, moltissime persone.

I riti, in particolare i riti funebri, sono un bisogno profondamente radicato nell’essere umano, eppure la loro importanza qualche volta si perde di vista o tende ad essere data per scontata. Nelle scienze sociali – penso in particolare alla sociologia e all’antropologia – ci fu un interessante dibattito rispetto alla ritualità fra gli anni Sessanta e Settanta del Novecento, che può essere utile ripercorrere brevemente per capire come è mutato il nostro rapporto con i riti. Nodo centrale di questo dibattito è il concetto di “ritualismo”, proposto da Robert Merton per indicare tutte quelle circostanze in cui le persone si impegnavano in azioni e gesti rituali come una mera forma di aderenza alle prescrizioni sociali, senza che ci fosse né un’adesione profonda ai valori espressi da quei gesti, né un coinvolgimento interiore.

Il termine ebbe molto successo perché, di fatto, dava nome a un diffuso scollamento tra le forme rituali dominati e ciò che le persone percepivano come significativo nelle proprie vite. In un contesto sempre più urbano e secolarizzato, il senso dei riti si era svuotato e, per molti, quasi tutte le ritualità divennero “ritualismi”. I funerali cattolici tradizionali, per esempio, erano in molti contesti diventati dei “doveri sociali”, momenti standardizzati e freddi, incapaci di esprimere la dimensione profondamente personale di ogni perdita.

Eppure, come affermava l’antropologa Mary Douglas in quegli stessi anni, “in quanto animale sociale, l’essere umano è un animale rituale”. Il suo invito era quello di ripensare il rito senza pregiudizi, intendendolo innanzitutto come una forma di comunicazione essenziale tanto sul piano individuale quanto sul piano collettivo, poiché ha il potenziale di connettere la sfera simbolica, l’esperienza soggettiva e il gruppo sociale. Nella pandemia, il venir meno delle forme consuete per  accompagnare ritualmente la fine, ci ha reso consapevoli delle conseguenze della mancanza della funzione integrativa del rito funebre, senza il quale è difficile trovare dei linguaggi (e dei momenti) condivisi per dire addio e per socializzare il lutto.

Per tornare alla domanda iniziale, credo che quando il rifiuto della ritualità sia una scelta personale, allora esso abbia di per sé quella funzione comunicativa di cui parla Douglas: “dire di no ai riti esprime qualcosa di profondo su di me al mio gruppo sociale”. Se invece non è una scelta, ma una costrizione, l’impossibilità di ritualizzare priva chi resta di una delle più importanti risorse culturali di cui disponiamo per far fronte alla morte.

2. Il Covid ha determinato anche molte nuove esperienze rituali, con cerimonie “inventate”, come quelle celebrate in alcuni ospedali. Come vedi questo fenomeno?

Al pari di quanto è avvenuto in precedenti situazioni di crisi sociale (le guerre, le catastrofi naturali, altre epidemie che hanno colpito in passato l’umanità), le forme socialmente codificate per accompagnare la morte e per dare risposta al bisogno collettivo di ritualità si sono dimostrate impercorribili o inadeguate a tutti i livelli: individuale, familiare, comunitario e sociale. In questo scenario, nei contesti più consapevoli e attenti molte persone hanno cercato di dare risposta a questi bisogni e si sono adoperate a “costruire” nuovi linguaggi per dire addio. Questi momenti di commemorazione sono stati importanti anche per gli operatori, penso ad esempio al caso degli ospedali e delle Rsa, dove anche chi ha lavorato ha condiviso la fatica, la sofferenza e il trauma della morte non adeguatamente accompagnata.

Anche noi, nel nostro piccolo, abbiamo collaborato con la SOCREM Torino per proporre delle commemorazioni rituali presso il Tempio Crematorio di Torino. Nel rito sono stati centrali i nomi delle persone decedute, i simboli naturali – l’albero, il sentiero, la pietra – e le “parole non dette” che le famiglie hanno potuto deporre in una teca posizionata lungo il percorso. Nelle varie settimane in cui si sono svolte le commemorazioni molti pensieri, poesie, disegni, testimonianze d’affetto e di dolore sono state affidate ai bigliettini bianchi che settimana dopo settimana riempivano la teca.

Credo che questi tentativi siano importanti e abbiano un valore umano e sociale soprattutto quando riescono a mettere al centro il vissuto dei protagonisti e offrono loro spazi di espressione (quando non sono “ritualisti”, ma rituali… per riprendere la prima riposta).

Tuttavia “costruire” nuovi riti non è facile, perché richiede la capacità di identificare i linguaggi giusti, di riconoscere dei bisogni che non sempre sono espliciti e di offrire cornici – luoghi, tempi, oggetti e simboli – perché questi bisogni possano esprimersi in modi significativi, lontani dalle retoriche e vicini piuttosto al vissuto profondo di chi partecipa al rito.

3. In molti casi si è usata la tecnologia per partecipare virtualmente a riti funebri ai quali era impossibile essere presenti. I funerali in streaming esistevano già, per le molte persone che hanno, per svariati motivi, esistenze transfrontaliere e affetti in paesi diversi. Pensi che sia l’inizio di una prassi destinata a diffondersi?

Su questo tema ho una visione ottimista. In passato mi era capitato di assistere a funerali transnazionali e, seppur con notevoli ostacoli tecnici, era stato l’unico modo per “stare insieme” a parenti e amici nonostante la distanza geografica. Non penso che i riti in streaming siano destinati a sostituire i funerali in presenza, ma le tecnologie “virtuali” possono senz’altro essere una risorsa in più. Esse, come hai detto bene, già esistevano, ma sono diventate parte della nostra normalità durante la pandemia: ora siamo più attrezzati e possiamo usarle con maggiore dimestichezza e con maggiore consapevolezza rispetto al passato.

4. Dopo la Prima guerra mondiale, quando in ogni famiglia c’era stato un lutto, si era celebrato un rituale di lutto collettivo a Roma, con l’inumazione del Milite ignoto; e altre cerimonie locali avevano avuto luogo nell’intero paese. Credi che avremmo dovuto (anche se non siamo in guerra) fare qualcosa di analogo per il Covid?

Nonostante le molteplici differenze fra il Covid e la guerra, credo che una risposta rituale istituzionale (che ancora manca)  sia doverosa e necessaria. I riti funebri non hanno solo una dimensione individuale, ma hanno anche una funzione collettiva estremamente potente. A seconda dei linguaggi che vengono utilizzati, un funerale pubblico può aggregare o dividere, ricomporre o spaccare una società. Credo che in questo momento sarebbe utile puntare su ciò che unisce, pensare a ritualità collettive che ricordino la nostra comune vulnerabilità, il dolore subito da tutti, le forme di resilienza e solidarietà messa in campo a livello comunitario. Questo forse faciliterebbe il rafforzamento di legami sociali che oggi sono piuttosto tesi e rischiano di polarizzarsi ulteriormente.

L’esempio della prima guerra mondiale mi sembra utile anche per riflettere sulla dimensione monumentale, parte essenziale della memoria storica: come si racconterà la pandemia attraverso i monumenti? Quali aspetti si sceglierà di inscrivere nella pietra o nel marmo? Sono scelte importanti su cui, con i tempi e le modalità giuste, credo sia necessario aprire un dibattito pubblico.

4. C’è qualcosa che avresti voluto dire e che non ti ho chiesto?

Mi sento di dire che il Covid è stata un’esperienza epocale che, in un modo o nell’altro, ha modificato le vite di ciascuno di noi. La pandemia, e tutto ciò che ad essa si può ricondurre, ci ha costretto a misurarci con il peso della solitudine e della vulnerabilità, a rivedere le nostre priorità e a ripensare molte cose che in passato tendevamo a dare per scontate, non solo la ritualità. Molti lavori in ambito storico e sociologico hanno rilevato che, quando le paure si attenuano, le grandi epidemie sono sovente seguite da fenomeni di amnesia sociale. Credo, dunque, sia necessario attivarsi fin da subito per non rimuovere la sofferenza individuale e collettiva che ha caratterizzato questo tempo complesso che siamo stati chiamati a vivere. Mi sembra che dare spazio a una pluralità di prospettive sulla pandemia, come stai facendo tu in questo blog, sia un primo passo fondamentale in questa direzione.

https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2021/12/153701-md-e1640162751163.jpg 265 350 sipuodiremorte https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2024/05/93409bba-2fe8-4231-86b3-36648bff989e.png sipuodiremorte2021-12-22 09:48:482021-12-22 09:48:48I riti funebri e il Covid, intervista a Cristina Vargas, di Marina Sozzi

La libertà va difesa a costo della salute? L’importanza della Death Education, di Davide Sisto

8 Settembre 2021/9 Commenti/in Riflessioni/da sipuodiremorte

Negli ultimi giorni dello scorso agosto i quotidiani nazionali hanno riportato la notizia della morte per Covid-19 di un uomo di 48 anni, Luca Amaducci, condividendo il suo ultimo post pubblico su Facebook, risalente a inizio mese, nel quale descriveva in maniera minuziosa i drammatici effetti del virus sul suo corpo. Rimpiangeva, quindi, il fatto di non essersi ancora vaccinato e sperava ovviamente di poter guarire. Dopo la sua morte, come spesso succede con i post pubblici sui social media, le sue parole sono state più volte condivise da utenti sconosciuti. Alcuni lo hanno fatto per evidenziare quanto sia pericolosa la scelta di non vaccinarsi; altri, invece, per scovare ogni possibile incongruenza descrittiva tale da avvalorare l’ennesima tesi complottista. Se il 2020 è stato segnato dalle diatribe sulla legittimità del lockdown, il 2021 sarà prevalentemente ricordato infatti per l’estenuante scontro tra pro-vax e no-vax. “La libertà va difesa a costo della salute”: così si è espresso l’attore Enrico Montesano, da tempo fautore di ogni sorta di teoria complottista, durante una diretta telefonica nel corso di una manifestazione di protesta contro il green pass promossa da Variante Torinese.

L’idea che la libertà vada difesa a costo della salute è un’argomentazione ricorrente nel periodo pandemico. Si fa un collegamento tra le decisioni politiche prese a livello internazionale, in vista del contenimento del contagio, e la realtà di una società farmacologizzata, che nega l’inevitabile esistenza del dolore e della morte, preferendo limitare la libertà individuale attraverso estenuanti percorsi di immunizzazione sanitaria. Ne ho già parlato più volte sul blog in passato, ma ritengo necessario tornare una volta ancora sulla questione: è assolutamente privo di senso questo collegamento. Anzi, anteporre prosaicamente il proprio interesse personale alla salute collettiva è un effetto collaterale proprio della rimozione della morte e del dolore. Chiunque lavori nel campo della tanatologia, o abbia a che fare direttamente con il fine vita, conosce le caratteristiche di questa rimozione. Norbert Elias, per esempio, descriveva negli anni Ottanta la cosiddetta “solitudine del morente”, tema ancora protagonista del recente libro Non morire di Anne Boyer, il quale mostra come la diagnosi di un tumore al seno determini immediatamente l’imbarazzo nelle altre persone. Iona Heath, nel libro Modi di morire, parla dei pazienti in ospedale come “unità standardizzate di malattia”, a causa della difficoltà di andare oltre la malattia creando un legame umano con la storia di ogni singolo individuo. E come non notare, infine, la costante incapacità da parte dello spazio pubblico di comprendere che, sì, “si può dire morte”? Fateci caso: è sempre rarissima la dicitura “è morto” in relazione alla notizia di un decesso. Si continua a utilizzare i soliti “è scomparso”, “si è spento” (come il nostro cellulare o pc, sarà un caso?), “ci ha lasciato”. La bibliografia novecentesca sulla difficoltà del mondo occidentale a relazionarsi con il dolore e la morte è sterminata.

Ora, i riferimenti menzionati non sono la prova del fatto che la società, in presenza di una inedita pandemia, penalizza la libertà dell’individuo perché terrorizzata dalla possibilità di ammalarsi e di morire. Semmai, sono la testimonianza di un consolidato modo di vivere che, ignorando la vulnerabilità e la finitezza, si dimostra del tutto spaesato di fronte a una brusca presa di coscienza del limite della vita. Il lockdown prima e la vaccinazione di massa poi generano, cioè, un corto circuito all’interno di una quotidianità vissuta come se il dolore e la morte non ci fossero: rappresentano la prova oggettiva che c’è un problema che non si vuole vedere né affrontare. Dunque, ci si irrigidisce, ci si mette nella condizione di negare a priori, quindi di credere che il problema sia puerile o, se c’è, comunque “andrà tutto bene”. Ci si sente, in un certo qual modo, assediati dal pensiero della vulnerabilità e della finitezza, pertanto – per difendere sé stessi – si accetta l’idea che il periodo che stiamo vivendo sia un complotto, un tentativo di limitare la sacrosanta voglia di vivere in maniera spensierata. Così, ci si affida alla propria auto-narrata immortalità, ritenendo sé stessi e i propri cari al di sopra di ogni rischio. È interessante, tra l’altro, notare una contraddizione di non poco conto: da una parte, si accusa chi stabilisce le regole e chi le segue di aver talmente paura della morte da non voler più vivere. Dall’altra, tuttavia, si rifiuta il vaccino perché si teme che gli effetti collaterali possano condurre alla morte, mettendo – di conseguenza – da parte quel fatalismo che invece viene applicato con leggerezza nei confronti delle paure legate all’eventuale contagio.

Ma, avere coscienza della propria mortalità, essere dunque predisposti a un fatalismo che ci spinge a credere che ogni minuto di vita in più non vada dato per scontato, significa innanzitutto maturare un ragionato senso civico e mostrare attenzione per la vulnerabilità altrui. Se siamo in una fase storica delicata in cui dal nostro comportamento dipende la sopravvivenza delle persone più fragili, allora dobbiamo anteporre il pensiero della morte a ogni altra cosa proprio per tutelare il più possibile il benessere collettivo. Come già detto in un altro articolo, la consapevolezza della propria vulnerabilità e finitezza non si traduce mai in un’ardita ed egoistica mancanza di prudenza: ogni singolo può serenamente decidere di giocare nel corso della propria vita con la mortalità che definisce la sua esistenza, ma non può in alcun modo permettersi di giocare con quella altrui. Dunque, sulla base dei dati di cui disponiamo, bisogna vaccinarsi per il bene di tutti, bisogna comprendere il legame vigente tra il Covid-19 e la possibilità di morire e fare le scelte appropriate. Il superamento della rimozione della morte consiste proprio nell’essere in grado di pervenire a un equilibrio di pensiero tale da distinguere nitidamente il momento della prudenza da quello dell’audacia fatalistica. E, certamente, durante una pandemia sapere quanto è fragile la nostra esistenza significa proteggerla il più possibile, non essendo eremiti ma componenti attivi di una società.

La libertà va a difesa a costo della salute? In un periodo come quello che stiamo vivendo, è la salute – dunque la consapevolezza del carattere mortale della nostra vita – che va difesa a vantaggio dell’esercizio continuo della libertà. Essere imprudenti o complottisti significa, semplicemente, perdere la possibilità di vivere, dunque di esercitare la libertà. Una libertà che non ha mai presupposto, tra l’altro, la possibilità di fare tutto ciò che si vuole all’interno di uno spazio condiviso.

Cosa ne pensate? Attendiamo le vostre considerazioni.

https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2021/09/pol-buffalmacco-trionfo-morte-00-e1631018550765.jpg 263 349 sipuodiremorte https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2024/05/93409bba-2fe8-4231-86b3-36648bff989e.png sipuodiremorte2021-09-08 08:00:002021-09-07 14:48:49La libertà va difesa a costo della salute? L’importanza della Death Education, di Davide Sisto

Formazione tanatologica e Covid-19. Intervista a Maria Angela Gelati, di Davide Sisto

27 Giugno 2021/2 Commenti/in Ritualità/da sipuodiremorte

Abbiamo intervistato Maria Angela Gelati, che si occupa da diversi anni di formazione nell’ambito della Death Education, con sempre maggiori approfondimenti sul tema della morte e del morire. Nel 2007, insieme a Marco Pipitone ha ideato Il Rumore del Lutto, un’importante rassegna culturale che si svolge ogni anno a Parma e che è finalizzata ad attivare un dialogo profondo e multiforme, culturale e scientifico, per accettare la morte. Nel 2016 ha co-fondato l’Associazione Segnali di Vita e il Gruppo Nazionale di Lavoro Stanza del Silenzio e dei Culti. Ha scritto diversi libri, tra cui due favole per bambini: Mi chiamo Happy(Mursia, 2020) e L’albero della vita (Mursia 2015).

Cara Maria Angela, tenuto conto della tua esperienza decennale, come pensi sia cambiata la formazione degli operatori funebri durante il Covid-19?

La formazione dovrebbe essere un aspetto imprescindibile e preliminare rispetto a qualsiasi tipo di attività, in particolar modo per quanto riguarda la delicata gestione dei servizi funerari. Durante il Covid-19, i limiti dettati dalle disposizioni normative per limitare il contagio, hanno però fortemente condizionato i riti del commiato. Gli operatori funerari hanno avuto spazi temporali molto ridotti per adeguarsi alle repentine chiusure e sospensioni dei passaggi rituali destinati ad accogliere i familiari, con sensibilità e rispetto. La mancanza di queste basilari azioni ha inciso sulle modalità di preparazione del defunto, privato anche del rito della vestizione o di altra cerimonia alternativa. L’impossibilità per i familiari di vedere e toccare il corpo del defunto, perché la bara, per ineludibili motivi sanitari, andava chiusa in fretta, ha determinato una sorta di commiato sospeso, quasi pietrificato.

Il non poter fruire delle consuete forme del rito ha determinato nell’operatore funerario e nel cerimoniere la ricerca di soluzioni alternative, nel pensare a modalità che permettessero di restituire quei tasselli di vita sospesi, attivando una dimensione creativa e sempre più personalizza del rito, in accordo con le esigenze dei familiari.

In questa fase, anche la formazione ha dovuto, per forza di cose, essere adattata a tali esigenze. Prima di tutto, con la preparazione di corsi online, il cui positivo riscontro da parte degli operatori funerari ha consentito di attivare moduli formativi destinati a dare immediata risposta alle esigenze professionali. Poi, con la creazione di schemi rituali, adattabili in base alle necessità dei familiari, e di indicazioni per preparare riti di congedo in streaming.

Un aspetto importante della formazione riguarda i partecipanti ai corsi online, poiché nei contesti di cura, all’interno dei gruppi di lavoro, si è avvertito il bisogno, anche per chi non rivestiva il ruolo di cerimoniere, di riservare uno spazio e un tempo di ripensamento virtuale; una sorta di contenitore rituale in cui far rivivere le esperienze personali per restituire il nome e la storia di vita alle numerose persone morte in condizioni di isolamento e anonimato, per rendere possibile la condivisione in gruppo di riti di congedo.

Collegandomi alla precedente domanda, come pensi sia cambiato in generale, dal tuo punto di vista di tanatologa, il nostro approccio alla morte con il Covid-19 e quali pensi siano stati gli atteggiamenti sociali non adatti, sulla base di una generale impreparazione a pensare alla morte?

Se il rito funebre ha costituito il momento cardine di agevolazione nella fase di accompagnamento del morente, nell’attuale era del Covid-19 la fase di elaborazione del lutto inizia senza un abbraccio, con la solitudine dei familiari, inasprita dall’impossibilità di stare accanto ai familiari ospedalizzati e dove l’assenza dei passaggi fondamentali di un rituale priva del racconto delle storie di vita l’identità delle persone.

I tentativi di far scomparire la morte, di condannarla al vuoto culturale, con conseguenti profondi stravolgimenti, hanno minato l’equilibrio e la stabilità delle cerimonie funebri, già incrinata dalla progressiva crisi dei riti comunitari tradizionali.

Gli aspetti più significativi e, al contempo, impietosi hanno riguardato le circostanze del morire e la perdita di significato e di utilità del rito, una sorta di lutto nel lutto, in cui la separazione dal momento del ricovero ospedaliero, l’imposizione delle distanze, la privazione del funerale dopo il decesso hanno paralizzato il riconoscimento del diritto al lutto.

La mancanza delle fasi rituali di accompagnamento del defunto non inibisce il percorso di elaborazione del lutto, che avviene comunque, anche se il processo inconscio di guarigione della ferita psicologica viene diluito e dilatato nel tempo.

L’abitudine culturale a voler escludere e rimuovere il pensiero della morte dalla quotidianità può comportare vere e proprie manifestazioni di paura, come hanno dimostrato le reazioni alla quarantena da parte dei social network – a volte eccessive e irrazionali. Dare uno spazio più consistente alle attività che fanno parte della Death Education significa anche essere consapevoli della propria mortalità, e quindi preparati a disporre del testamento biologico e digitale.

Se, da un lato, la potenzialità degli strumenti digitali, con l’incremento dei funerali telematici, ha costituito e costituisce un’efficace soluzione a superare la carenza degli aspetti rituali tradizionali, dall’altro, l’utilizzo inadeguato e sconsiderato di questi sistemi potrebbe vanificare il significato della cerimonia, rendendo – qualora si utilizzi lo smartphone o si entri in un social network – una patologica sovrapposizione del passato al presente, riproducendo, in continuazione, il saluto d’addio del rito funebre, e quindi rendendo l’elaborazione del lutto più difficile e faticosa di quanto già non lo sia senza la cerimonia funebre.

Infine, sulla base delle tue pubblicazioni per i bambini, ti chiederei due brevi considerazioni sull’educazione infantile alla morte, specie dopo questa lunga pandemia.

Le ultime generazioni degli adulti sono vissute in ambienti in cui ogni aspetto legato alla morte ed al morire è passato interamente ai protocolli degli ospedali e delle case funerarie, privando l’ambiente familiare di questa particolare esperienza. E come gli adulti, anche i bambini, che non hanno visto morire i nonni, i parenti o i conoscenti, non sono in grado di gestire tali eventi.

Il non sapere cosa fare, anche dal solo punto di vista rituale, quando qualcuno muore, ha attivato stravaganti elaborazioni psicologiche, non realistiche, che non tengono conto dei cambiamenti avvenuti e che continuano a verificarsi: ad esempio quella, assolutamente non veritiera, per la quale i bambini non sono in grado di comprendere che cosa significhi morire e, se avessero anche la capacità di comprenderne gli effetti, ne rimarrebbero traumatizzati.

I bambini, che di fronte all’evento luttuoso sono più in sintonia di quanto non si creda con i sentimenti degli adulti, devono invece essere coinvolti nell’esprimere i pensieri e raccontare i loro ricordi legati alla persona che non è più.

È fondamentale, per l’educatore o l’adulto, per l’operatore rituale e il volontario, introdurre e gestire l’argomento morte sulla base di specifiche competenze. Con il ricorso alla Death Education è possibile introdurre una modalità educativa, organizzata su diversi livelli di apprendimento, con la finalità di reinserire il concetto di morte nella autenticità della vita, insinuando nei bambini, adolescenti e adulti la capacità di comprendere che cosa significa vivere e dover morire.

È stato possibile attivare l’educazione del bambino alla morte, anche on line, laddove docenti di scuola e famiglie siano stati in grado di considerarne il valore e l’efficacia.

In questo periodo di cambiamenti e trasformazioni, il momento personalizzante ha necessità ora di creare, seppur a distanza, le condizioni per convertire in parole ed in azioni il dolore e la sofferenza, anche per i più giovani.

Poiché non esistono modalità particolari di commemorazione, i rituali possono essere resi attivi in qualsiasi momento, anche da casa, individuando lo spazio o l’ambiente più consono per rendere solenne quel momento.

https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2021/06/candela-mani-e1624780542382.jpg 265 350 sipuodiremorte https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2024/05/93409bba-2fe8-4231-86b3-36648bff989e.png sipuodiremorte2021-06-27 10:06:452021-06-27 10:08:32Formazione tanatologica e Covid-19. Intervista a Maria Angela Gelati, di Davide Sisto

L’OMS e il controverso rapporto con le cure palliative, di Marina Sozzi

26 Aprile 2021/4 Commenti/in Riflessioni/da sipuodiremorte

Come abbiamo più volte scritto su questo blog, in questa pandemia le istituzioni sanitarie preposte ad affrontare l’emergenza non hanno considerato le cure palliative come una risorsa. E non solo in Italia. Nel Regno Unito (non abbiamo purtroppo dati italiani) le morti in RSA sono aumentate del 220%, quelle ospedaliere del 90%, quelle a domicilio dell’80%, mentre le morti in hospice sono calate del 20%.

Ma il fatto che mi ha maggiormente colpita, e che vorrei condividere con voi, è stato l’atteggiamento incerto e ambiguo dell’Organizzazione mondiale della sanità. Nel 2018, l’OMS aveva scritto una guida sulle emergenze, e sulle cure da prestare in condizione di calamità umanitaria o sanitaria: in quel documento aveva affermato che le cure palliative avrebbero dovuto essere presenti in quei contesti alla stessa stregua della medicina d’urgenza. Occorre salvare tutte le vite che è possibile, scriveva l’OMS, ma l’obiettivo subito successivo è impedire che le persone soffrano. Quel documento, nelle sue illustrazioni e nei suoi esempi, si riferiva a realtà molto distanti dall’Occidente, a contesti di guerra o all’epidemia di Ebola in Africa.

Tuttavia l’OMS – che nel 2018 aveva previsto un intervento massiccio della palliazione nelle crisi sanitarie – solo due anni dopo, quando ha elaborato la guida per la gestione del Covid, si è dimenticata delle cure palliative. La rivista «The Lancet», l’11 aprile del 2020, scriveva a questo proposito un editoriale, nel quale denunciava la grave lacuna costituita dall’assenza delle cure palliative tra le raccomandazioni dell’OMS volte a mantenere i servizi essenziali in sanità durante la pandemia. E metteva viceversa in evidenza il contributo che esse avrebbero potuto dare nell’emergenza Covid.

A giugno, nella nuova edizione della guida, l’OMS reinseriva le cure palliative (anche se non con la stessa rilevanza del 2018), e rendeva indisponibile l’edizione precedente.

Ciò che è accaduto nell’Organizzazione Mondiale della Sanità induce a pensare. Se nel 2018, quando ci si riferiva a contesti diversi e lontani dall’Occidente, le cure palliative venivano considerate altrettanto essenziali quanto le cure d’urgenza, esse scomparivano invece solo due anni dopo, verso la fine della prima ondata, quando la riflessione riguardava in primo luogo l’Occidente, più colpito dal virus. È come se la morte e la sofferenza fossero immaginabili in alcuni contesti, e non in altri. Come se un processo di negazione si fosse impadronito della massima autorità sanitaria mondiale.

Mi pare che ci sia ancora un grande problema culturale, di mentalità, che non permette alle cure palliative di assumere il ruolo che servirebbe. Un problema evidentemente non solo italiano. Ma, per limitarci al nostro Paese, occorrerà nei prossimi anni riflettere sullo straordinario contributo che, dove hanno potuto essere presenti, hanno dato i palliativisti ai colleghi impegnati nella cura del Covid. Infatti, nonostante le cure palliative siano state dimenticate e rese marginali nella cura dei pazienti Covid (malgrado i documenti della Società Italiana delle Cure Palliative e della Federazione delle Cure Palliative), dove i palliativisti ci sono stati la dimensione della cura del Covid è cambiata. Cambiata per i pazienti, cambiata per i curanti. I palliativisti sono stati preziosi perché hanno portato l’approccio palliativo, che è un approccio olistico e attento alla persona, nella cura del Covid. Non hanno solo praticato sedazioni palliative, non si sono limitati a controllare i sintomi, ma hanno usato le loro competenze comunicative con i pazienti, spesso isolati dal resto del mondo e dalle loro famiglie; con i familiari, in trepida attesa di notizie da ospedali divenuti fortini; e con i colleghi, travolti dal sentimento di impotenza per la quantità e la qualità delle morti. Non solo, ma alcuni pazienti, consegnati ai palliativisti perché non vi era indicazione per la terapia intensiva, grazie alle cure palliative, attente alla particolarità dei sintomi e dei bisogni, hanno superato i giorni più difficili e sono guariti.

Ora, un grande lavoro ci attende. Riflettere sull’esperienza fatta, immaginare come dovranno essere le cure palliative del futuro (e senz’altro dovranno entrare in RSA e in ospedale) e ingaggiare una rinnovata battaglia culturale per far conoscere le cure palliative ai cittadini e per formare gli operatori sanitari all’approccio palliativo.

Che ne pensate? Siete d’accordo? Come vedete le cure palliative del futuro?

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Le immagini del dolore altrui: empatia o distacco? di Davide Sisto

14 Aprile 2021/9 Commenti/in Riflessioni/da sipuodiremorte

A marzo è stato ristampato, dall’editore Nottetempo, il libro di Susan Sontag Davanti al dolore degli altri (2003), in cui l’autrice si interroga sul significato non uniforme che assume il nostro guardare un’immagine fotografica raffigurante il dolore o la morte altrui. La fotografia, infatti, immortala una specifica espressione di dolore che ha luogo in un determinato istante, facendo quindi sì che quando guardiamo l’immagine entriamo in contatto con un passato – più o meno recente – che inevitabilmente non c’è più. Questo implica, secondo Sontag, una serie di quesiti sulla natura del nostro guardare il dolore degli altri: percepiamo la presenza concreta del dolore all’interno dell’immagine fotografica oppure, viceversa, la sua lontananza più radicale a causa della separazione netta tra la realtà e la rappresentazione? In altre parole, vedere con i propri occhi l’immagine del dolore altrui ci rende empaticamente partecipi della sofferenza provata, magari prendendo coscienza di ciò che siamo soliti rimuovere dal nostro quotidiano, oppure ci rassicura egoisticamente dal momento che quel dolore è distante, dunque estraneo?

La stessa Sontag, nel tentativo di dare una risposta a questi complessi quesiti, evidenzia come sia alto il rischio di rimanere anestetizzati dall’immagine fotografica, per cui non solo rischiamo di non provare alcun tipo di compassione dinanzi alla visione del dolore altrui, ma addirittura tendiamo a potenziare la rimozione di ciò che ci fa soffrire.

Ovviamente, questo tema è diventato, nel corso degli anni, sempre più complesso a causa di una vera e propria collettiva indigestione di immagini, effetto primo della diffusione popolare delle tecnologie digitali. La furia delle immagini: la vincente espressione coniata da Joan Fontcuberta, per descrivere il nostro attuale rapporto bulimico con le immagini, porta alla luce le trasformazioni antropologiche di una società segnata dalla cosiddetta “cultura visuale”. In fondo, come scrive John Berger nel libro Questione di sguardi, da sempre il vedere viene prima delle parole: oggi, le tecnologie digitali hanno semplicemente portato a compimento questo ruolo primario della vista nella vita dell’essere umano.

Inutile aprire un discorso generale, già affrontato in precedenza: vale a dire, il rapporto più o meno problematico tra la rappresentazione visiva della morte e del dolore e la loro espulsione dalle nostre faccende quotidiane. Abbiamo, per esempio, già parlato su questo blog di come la visione della morte in diretta, tramite una fotografia o una ripresa audiovisiva, intercetti quel senso del proibito che, di solito, prende la forma del guardare pruriginoso attraverso il buco della serratura.

Qui mi preme, invece, prendere spunto dal libro di Sontag per ragionare insieme a voi a proposito dell’effetto della visione quotidiana dei malati e dei morti da Covid-19 sul nostro modo di percepire la pandemia. È innegabile che il Coronavirus sarà ricordato come la malattia più mediatica della storia dell’umanità, non essendoci istante – a partire dalla sua diffusione – che non sia stato raffigurato e condiviso sui social media. Pensiamo, per fare l’esempio più significativo, alla fotografia delle bare trasportate dai mezzi militari per le strade di Bergamo.

Il carattere mediatico del Coronavirus, a lungo andare, sembra aver prodotto quella forma di anestetizzazione a cui fa riferimento Sontag. È stato più volte sottolineato, negli ultimi mesi, come l’immagine dei titoli dei giornali che riportano ogni giorno il numero dei morti italiani a causa del Covid-19 abbia generato una sorta di assuefazione collettiva: sempre meno persone sembrano, cioè, comprendere il pericolo che si cela dietro a quei numeri, a differenza di quanto avveniva durante la primavera 2020, quando la pandemia era ancora una novità. Non c’è più, generalmente, una partecipazione empatica alla condivisione sui social delle immagini dei malati intubati negli ospedali o di coloro che sono addirittura morti. La stanchezza di una vita completamente assorbita dagli schermi, a causa dell’emergenza, unita all’abitudine di guardare fotografie e registrazioni audiovisive, pare aver intensificato il senso di distacco soggettivo provato nei confronti della situazione che stiamo vivendo. L’isolamento casalingo non fa che rendere ancora più radicale la distanza, vanificando il ruolo pedagogico che – a mio avviso – ha finora caratterizzato l’uso delle tecnologie digitali in relazione alla riscoperta del ruolo della morte e della malattia nella nostra vita.

Voi cosa ne pensate? Le immagini del dolore altrui generano in voi più empatia o più distacco? Siamo curiosi dei vostri pensieri a riguardo.

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Sulla terra in punta di piedi. Intervista a Sandro Spinsanti, di Marina Sozzi

23 Marzo 2021/3 Commenti/in Interviste, Riflessioni/da sipuodiremorte

Abbiamo intervistato Sandro Spinsanti, bioeticista, fondatore e direttore dell’Istituto Giano per le Medical Humanities e il Management in sanità, sul tema del suo ultimo libro, la spiritualità e la cura.

C’è un’immagine bellissima subito all’inizio del tuo libro, che troviamo anche nel titolo, Sulla terra in punta di piedi. Occorre smettere di calcare la terra da padroni, bisogna minimizzare la nostra impronta ecologica, camminare in punta di piedi. In che senso questo ha a che fare con la spiritualità?

Ho preferito affidarmi a un’immagine, piuttosto che a una definizione. Certo, sia le parole che le immagini possono essere fuorvianti. Per molti lo è sicuramente la parola “spiritualità”: l’associano all’attività del pastore d’anime. Spiritualità ha un sentore di sagrestia, evoca scenari disincarnati, se non addirittura ostili alla vita terrena e corporea. Ma sono consapevole che anche l’immagine della posizione eretta può essere mal interpretata. Dall’antichità greca l’attribuzione della posizione eretta all’uomo è stato il simbolo della sua supremazia rispetto agli animali. È stata la sigla di un antropocentrismo che siamo invitati a scrollarci di dosso. Di questa transizione culturale si è fatto portavoce autorevole il magistero di papa Francesco con l’enciclica Laudato si’. Propone una fratellanza che non si limita agli esseri umani, ma arriva ad affermare come nuovo programma che “niente di questo mondo mi risulta indifferente”. Né gli animali, né le piante, né il pianeta stesso nella sua rude materialità: perfetta antitesi dell’atteggiamento antropocentrico che abbiamo nutrito nei confronti della terra (con le parole dell’enciclica: “Siamo cresciuti pensando che eravamo suoi proprietari e dominatori, autorizzati a saccheggiarla”). È una nuova dimensione della spiritualità, opposta al disprezzo nei confronti della materia, considerata il contrapposto dello spirito.

A questo punto l’immagine dell’essere umano in piedi sulla terra ha bisogno di essere abbinata a quella di un uomo chinato verso la terra stessa, in atteggiamento non solo umile, ma di cura. Le due metafore non si escludono reciprocamente, ma si richiamano e si completano. La spiritualità alla quale siamo chiamati nel nostro tempo non può fare a meno né dell’una, né dell’altra. Se l’uomo in piedi è simbolo dell’umano, quello chinato con atteggiamento di cura richiama il modello post-antropocentrico, verso il quale siamo chiamati a transitare. È molto più che un’evoluzione; qualcuno lo chiama anche coraggioso cambio di paradigma.

La spiritualità è per te strettamente connessa con il tema della cura. Che cosa ne pensi del filone femminista dell’etica della cura, e in particolare della definizione della cura data da Joan Tronto: “La cura è una pratica volta a mantenere, continuare o riparare il mondo”?

Sembra consolidata l’idea che il pensiero spirituale sia sovrapponibile a “pensare al femminile”. Non lo contesto, ma credo che sia opportuno vigilare su forme di sessismo nascoste, che si presentano dove meno ce l’aspetteremmo. Anni fa ha fatto epoca un saggio di Carol Gilligan: Con voce di donna. Denunciava l’apparente neutralità delle teorizzazioni che descrivevano lo sviluppo della capacità di formulare giudizi morali nell’essere umano. In realtà – affermava – per secoli la voce che abbiamo ascoltato era la voce degli uomini nel senso di maschi: era il loro modo di concepire i conflitti e le scelte morali, mentre la struttura etica che emerge dal pensiero delle donne è stata considerata come una deviazione dal modello ideale, una specie di fallimento evolutivo; come se nelle donne, rispetto alla capacità di giungere a un giudizio morale, ci fosse qualcosa che non va…

Il bias sessista nascosto nell’etica ci induce a stare all’erta riguardo a ciò che potrebbe succedere nella spiritualità. Magari a ruoli invertiti: riversando nella spiritualità stereotipi culturali femminili, opposti a quelli riservati alla mascolinità. È succube di questa insidiosa ripartizione di ruoli anche l’attribuire il compito della cura alla componente femminile della società. Se poi passiamo alla medicina, diventa: curare è maschile, prendersi cura è femminile. La spiritualità è un invito a scompigliare questi ruoli predeterminati. In tutti gli ambiti della cura: da quella della salute alla cura del pianeta. Anche il ripiegamento consapevole sulla propria crescita potrebbe essere visto in chiave femminile, mentre al maschio si riserva l’estroversione nel lavoro, nella scalata sociale, nel potere. L’alzarsi sulla punta dei piedi non è né maschile, né femminile: è una potenzialità da sviluppare, alla quale è chiamato ogni essere umano.

Sembri essere critico nei confronti della professionalizzazione del sostegno spirituale. Che ne pensi dunque del “core curriculum” che nell’ambito delle cure palliative è stato definito proprio per diffondere la figura dell’assistente spirituale?

La professionalizzazione è sia un pericolo che un’opportunità: in tutti gli ambiti della cura, non solo nella spiritualità. La professione delimita la cura stessa entro certi confini. Non possiamo aspettarci da un professionista lo stesso coinvolgimento emotivo che auspichiamo da parte di un familiare o da una persona intima. Quello che vorrei fosse associato alla professionalizzazione del sostegno spirituale è la competenza. Mentre questa è facile individuarla nelle cure mediche o infermieristiche, è più difficile quando ci spostiamo nell’ambito della spiritualità. Possiamo dire, in negativo: non bastano la spinta ideale e l’entusiasmo personale. Per questo nei confronti di chi si appresta a fornire un accompagnamento spirituale sono necessari: una selezione (certe persone è più opportuno che si astengano, se hanno un orientamento missionario), una formazione specifica (quindi ben vengano le indicazioni del ‘core curriculum’) e una supervisione che accompagni la pratica attraverso un confronto per le situazioni più difficili.

Nel tuo libro sei molto prudente nel dare definizioni positive di cosa sia spiritualità o di come possa essere esercitata. Ma secondo la tua riflessione c’è un legame tra consapevolezza della vulnerabilità e della mortalità (quando è incarnata, e non puramente intellettuale) e desiderio di spiritualità?

La consapevolezza è il presupposto per la spiritualità, intesa non come una pratica segmentale e confinata in certe situazioni, come quella della terminalità, ma come un percorso che si estende tanto quanto la cura. Se dalla cura ci si aspetta unicamente la ‘restitutio ad integrum’, la spiritualità è fuori gioco.

In quali modi la spiritualità ha a che fare con una riduzione dell’antropocentrismo e dell’individualismo della società occidentale?

Spiritualità e sopravvivenza: è una connessione inedita. Eravamo abituati a coniugare il progresso spirituale dell’umanità o con l’attenzione che sposta il centro di gravità dalla vita terrena alla vita eterna – nella prospettiva religiosa – o con un affinamento della nostra qualità umana. Ora invece siamo stati bruscamente confrontati con la sopravvivenza della specie umana. Lo ha proclamato, in modo scenograficamente efficace, papa Francesco nella sua preghiera in una piazza san Pietro deserta, durante la prima fase della pandemia, quando ha proclamato che ci appoggiamo su un pianeta ammalato per lo sfruttamento a cui lo abbiamo sottoposto. E ancora, nell’enciclica Fratelli tutti, ha evidenziato come il Covid 19 abbia messo in luce le nostre false sicurezze. Non si tratta, dunque, di chiudere una parentesi e tornare alla normalità: “Se qualcuno pensa che si trattasse solo di far funzionare meglio quello che già facevamo, o che l’unico messaggio sia che dobbiamo migliorare i sistemi e le regole già esistenti, sta negando la realtà”. È questa la sfida: mettere la spiritualità non in rapporto con l’ultraterreno, ma proprio con la terra, con la rete dei viventi su di essa. L’alzarci punta di piedi diventa allora una metafora per evocare un peso più leggero. Il contrario dello sfruttamento a oltranza. E proprio qui sta la difficoltà: non ci è richiesto solo qualche piccolo aggiustamento, ma di cambiare il modo di vivere, l’ordine delle priorità. Potremo sopravvivere solo se impareremo a sopra-vivere: ecco, in sintesi, che cosa ci sta chiedendo la spiritualità.

Secondo te la terribile esperienza del Covid ha modificato il nostro rapporto con la spiritualità, e se sì, in che modo? Se ne parla tanto, fin dall’inizio della pandemia, ma io vedo soprattutto un’enorme fatica, il conteggio dei morti la sera, e la fuga dalla realtà dei negazionisti o degli spregiudicati…

Dal punto di vista ideale, la crisi pandemica è un invito a un ripensamento del nostro stile di vita, ovvero uno stimolo ad alzarci sulla punta dei piedi, per ricorrere ancora all’immagine con cui invito a pensare alla spiritualità. Se invece guardiamo all’impatto concreto che la pandemia sta avendo sulle opportunità di crescita spirituale, la tua analisi è molto realistica. Sembra che anche questa opportunità la stiamo perdendo: siamo più orientati a chiudere la parentesi per tornare alla normalità, invece di cercare una diversa e migliore normalità.

Uno sviluppo che mi piacerebbe approfondire è l’interfaccia tra spiritualità e arte. Quali sono i rapporti reciproci?

Nella mia riflessione ho dedicato una particolare attenzione a quelli che ho chiamato “incroci di percorso”. Invece di isolare la spiritualità, l’ho messa in relazione con quanto viene proposto e praticato in ambiti che corrono paralleli nella nostra cultura: con la religione – per dire – e con la psicologia, con l’ecologia e con la filosofia. Uno dei confronti più promettenti è proprio quello della spiritualità nel percorso di cura con l’arte. Sembra una provocazione, perché la cura si presenta come questione di scienza; e la scienza si colloca su un terreno del sapere diverso rispetto all’arte. La spiritualità in questo ambito equivale a un invito ad ampliare il nostro sguardo. La prima guarigione di cui abbiamo bisogno è proprio quella dall’impoverimento della nostra prospettiva. La ricerca della salute richiede anche un nostro orientamento verso la bellezza. In tutte le sue forme: quelle che parlano agli occhi e quelle che percorrono la via dell’udito, così come la cura è costituita da parole, non meno che da farmaci.

Le espressioni dell’arte che ci vengono incontro sono le più varie: dalla parola letteraria (è appena il caso di menzionare in questo contesto l’importanza della Medicina Narrativa, in tutte le sue articolazioni) alla musica, che ha preso dimora nelle strutture sanitarie più all’avanguardia come ospite fisso; dall’arte grafica (l’”arteterapia” è offerta ai malati in percorsi di cura eccellenti) a quella cinematografica. L’arte è un’ottima compagna di strada della spiritualità; le sue articolazioni sono tante quante la nostra creatività riesce a immaginare.

https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2021/03/in_punta_di_piedi-e1616427079101.jpg 265 350 sipuodiremorte https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2024/05/93409bba-2fe8-4231-86b3-36648bff989e.png sipuodiremorte2021-03-23 10:34:182021-03-23 10:34:20Sulla terra in punta di piedi. Intervista a Sandro Spinsanti, di Marina Sozzi

Il virus e la morte rimossa? di Davide Sisto

15 Marzo 2021/8 Commenti/in Riflessioni/da sipuodiremorte

Martedì 9 marzo Alessandro Baricco, sul Il Post, firma un pezzo giornalistico intitolato Mai più, prima puntata, in cui riprende e sviluppa un concetto molto in voga tra gli intellettuali, almeno in questo periodo segnato dalla pandemia mondiale da Covid-19: “rinunciamo a vivere per non morire”. Baricco si sofferma lungamente sugli effetti provocati dal lockdown e da tutte le limitazioni statali imposte alle attività sociali e lavorative quotidiane, che svolgevamo più o meno serenamente prima della fine del febbraio 2020. “E di questa altra morte quando parliamo? La morte strisciante, che non si vede. Non c’è Dpcm che ne tenga conto, non ci sono grafici quotidiani, ufficialmente non esiste. Però ogni giorno, da un anno, lei è lì: tutta la vita che non viviamo, per non rischiare di morire”.

Simili sono le parole espresse dal noto filosofo sudcoreano Byung-Chul Han, nel libro Una società senza dolore (Einaudi 2021), nel quale si sostiene che la nostra sia una società algofobica poiché si cerca in tutti i modi di anestetizzare ed evitare il dolore e la sofferenza. Han dice che “ci si scorda che il dolore purifica, emana un effetto catartico”; pertanto, la medicalizzazione e la farmacologizzazione del dolore gli toglie la possibilità di farsi linguaggio e di manifestare il suo benevolo valore simbolico. Quando affronta il tema del Covid-19, il pensatore sudcoreano riconosce un nesso tra l’algofobia e la tanatofobia: “oggi la sopravvivenza assume un valore assoluto, come se fossimo costantemente in guerra”. Addirittura, Han riconduce all’ossessione della sopravvivenza, dunque alla fobia nei confronti della morte, la rigorosità del divieto di fumare e rimane stupito dal fatto che anche i sacerdoti adottino il distanziamento sociale e indossino la mascherina.

Come dicevo, sono piuttosto ricorrenti in questo periodo le riflessioni che stabiliscono una specie di correlazione tra il non rischiare di morire a causa del Covid e la rinuncia a vivere, interpretando tale correlazione come effetto primo della rimozione sociale e culturale della morte.

Queste riflessioni risultano essere improprie, a mio avviso, sotto molteplici punti di vista. Innanzitutto, non è un unicum nella storia dell’umanità il comportamento adottato dalle istituzioni politiche nei confronti di una pandemia: basta leggere il bel libro di Frank M. Snowden Storia delle epidemie. Dalla morte nera al Covid 19 (LEG 2020) oppure le analisi più stringate, ma non meno efficaci da un punto di vista storico, di Marzio Barbagli nel libro Alla fine della vita (Il Mulino 2017), nonché – ancora – le interpretazioni date ai comportamenti nei confronti delle epidemie dal filosofo Elias Canetti in Massa e potere. Se ci si vuole addentrare nella dimensione più letteraria, i classici di Camus e Defoe sulla peste delineano un quadro sociale, politico e culturale in cui possiamo – a grandi linee – riconoscerci, pur tenendo conto delle ovvie differenze tra le epoche storiche. È, in fondo, elementare: se i nostri corpi rischiano di contagiarsi stando a contatto, la prima e necessaria soluzione razionale è quella di eliminare il contatto fisico per limitare il numero di decessi.

In secondo luogo, credere che vi sia una correlazione tra la cosiddetta “ossessione” per la sopravvivenza e il non vivere è esattamente l’effetto primo e tangibile della decennale rimozione della morte. Riconoscere la propria intrinseca finitezza e non dimenticare che vita e morte sono strettamente legate l’una all’altra, per cui l’una non può essere definita senza il riferimento all’altra, non significa in alcun modo vivere in maniera irresponsabile e mettendo a rischio la salute propria e delle altre persone. Su questo punto ho scritto nel blog già diverse volte, ma – leggendo determinate riflessioni – capisco che è necessario ritornarci ancora.

Attualmente sto guardando su Netflix la mitica serie televisiva Vikings, che rielabora – in sei lunghe stagioni – le eroiche vicende di Ragnarr Loðbrók, leggendario re norreno vissuto nella seconda metà del IX secolo. Il leitmotiv costante delle rappresentazioni belliche dei norreni, intenti a lanciarsi in imprese titaniche di conquista territoriale, è la non paura della morte. Anzi, la morte, decisa dagli dei, risulta essere una specie di fissazione: morire senza paura significa entrare gloriosamente nel Valhalla. Odino stabilisce che ogni uomo potrà godere del bottino accumulato in vita dopo la morte. Sentiamo di continuo simili frasi: “Non temete la morte. Se arriva abbracciatela come se fosse una bellissima donna” (Ragnar). Ecbert, re del Wessex e di Mercia, si rivolge a Ragnar nel modo seguente: “Tu non te ne fai una ragione. Non pensi che alla morte. Tu non pensi che al Valhalla”.

Ora, chi crede che stiamo rinunciando a vivere per non morire potrebbe lanciarsi in una delle imprese belliche dei norreni. Quindi, uscire di casa e abbracciare e toccare più corpi possibili per preservare il sacrosanto diritto a vivere, garantendosi il suo Valhalla (e garantendolo anche a coloro che non hanno un Valhalla di riferimento).

Al di fuori della battuta, occorre capire che la coscienza di non essere immortali e il riconoscimento di un proprio destino mortale inevitabile non hanno rapporto alcuno con la temerarietà e, soprattutto, la mancanza di rispetto della vita e del dolore altrui. Possiamo, certamente, riconoscere l’enorme fatica di un anno intero vissuto senza tutto ciò che ha, finora, reso viva la nostra esistenza. Dobbiamo, altresì, riconoscere le terribili conseguenze sul piano economico, educativo, sociale del distanziamento sociale e del lockdown, quindi criticando senza pietà le istituzioni politiche nel caso ci rendessimo conto che hanno agito superficialmente. Ma, al tempo stesso, è indelicato e approssimativo ignorare le conseguenze di un messaggio di per sé pericoloso: quello che ci dice che oggi vogliamo sopravvivere, rinunciando a vivere. Se la sopravvivenza, minacciata da un pericolo mortale, fosse messa in secondo piano rispetto alla vita di tutti i giorni, ci ritroveremmo in una realtà in cui dominerebbero la morte, il dolore, la sofferenza, molto di più di quanto già stanno dominando.

«La meditazione della morte è meditazione della libertà. Chi ha imparato a morire ha disimparato a servire. Il saper morire ci affranca da ogni soggezione e costrizione». Le sagge parole di Montaigne, punto di riferimento del nostro modo di affrontare la morte, devono però essere controbilanciate dalle parole che John Keating rivolge al suo studente Charlie nel film L’attimo fuggente. Charlie, che ha cercato di farsi espellere dalla scuola che sta frequentando, rimane stupito dalla reazione negativa di Keating, il quale non approva il suo comportamento. Charlie dice: “Sta dalla parte del signor Nolan (il preside N.d.A.)? E allora il ‘Carpe Diem’, ‘Succhiare il midollo della vita’ e tutto il resto? e Keating risponde: “Succhiare il midollo della vita non significa strozzarsi con l’osso. C’è un tempo per il coraggio e un tempo per la cautela, e il vero uomo sa come distinguerli”. Forse, dovremmo non dimenticarlo in questo periodo difficile che stiamo vivendo, pur nella comprensibile consapevolezza di tutti gli aspetti drammatici che ne derivano e che segnano tragicamente la nostra esistenza.

https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2021/03/corona-virus-3-2_t-e1615754557356.jpg 264 350 sipuodiremorte https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2024/05/93409bba-2fe8-4231-86b3-36648bff989e.png sipuodiremorte2021-03-15 10:39:302021-03-15 10:39:32Il virus e la morte rimossa? di Davide Sisto

Intensiva.it, di Marina Sozzi

28 Dicembre 2020/8 Commenti/in Riflessioni/da sipuodiremorte

Prima del Covid19, le terapie intensive erano luoghi del tutto sconosciuti alla maggioranza delle persone. Si sapeva, magari, che sono luoghi in cui vengono praticate complesse cure salvavita, talvolta nella più grande incertezza del risultato. Sono luoghi che fanno paura. La mente va a Eluana Englaro e a tutti coloro che la biomedicina ha lasciato sospesi tra la vita e la morte, in stato vegetativo. Per questo nelle disposizioni anticipate di trattamento, rese cogenti in Italia per i medici dalla legge 219/2017, i cittadini che testano lasciano spesso l’opzione di non essere sottoposti a rianimazione cardio-respiratoria, né ad alimentazione artificiale.

La conoscenza delle terapie intensive non è molto migliorata con il Covid, a parte i numeri che vengono forniti quotidianamente, e che quantificano il grado di saturazione delle terapie intensive in Italia. Si sa che all’inizio della pandemia erano presenti circa 5179 posti letto in terapia intensiva, e che durante questo terribile anno sono stati portati a 6.458. Ma poco sappiamo di cosa accade in una terapia intensiva. Da quando c’è la pandemia, chi viene ricoverato in ospedale e poi magari in terapia intensiva sparisce quasi nel nulla, a parte le telefonate che i familiari ricevono dai curanti.

Parlando con i rianimatori, sappiamo che la mortalità in terapia intensiva prima del Covid si aggirava tra 22 e 25% circa, mentre con il Covid è brutalmente salita al 50%, con grave disagio e angoscia degli stessi operatori.

È bene tuttavia essere al corrente di un mutamento in corso: come è già accaduto in altre branche della medicina, anche i rianimatori si stanno interrogando sul proprio operato e sull’appropriatezza delle terapie e degli interventi, e stanno lavorando per migliorare la comunicazione con pazienti e familiari, nell’ottica di un’umanizzazione di questi reparti.

Mi fa piacere segnalare un gruppo di intensivisti, sostenuti dalle loro società scientifiche e dai sindacati (SIAARTI, ANIARTI, AAROI-EMAC) sparsi negli ospedali di tutta Italia che da anni stanno conducendo un lavoro eccellente (cominciato ben prima del Covid e portato avanti indipendentemente dall’epidemia) per modificare le prassi delle terapie intensive, a beneficio di pazienti, familiari e operatori. Hanno costruito un sito, www.intensiva.it,  che in Home page porta queste parole:

“La Terapia Intensiva (o Rianimazione) è una realtà molto dura, difficile da accettare. Ma in certi casi è l’unica possibilità per poter continuare a vivere. Quando una persona ha un incidente, una grave malattia, una grossa operazione chirurgica… quando c’è un organo vitale che non funziona, si viene ricoverati qui. Ci sono macchinari e medicine molto potenti che hanno bisogno di un controllo continuo e di personale specializzato. Lo scopo è quello di dare tempo a una persona gravemente malata, perché possa iniziare a guarire da una malattia acuta.
Avere un proprio caro in Rianimazione molto spesso cambia il modo di vivere, di considerare la vita. Naviga su questo sito per capire razionalmente cos’è la Rianimazione e ancora di più, per comprendere meglio le tue emozioni. E per non sentirti solo.”

Navigando, si trovano spiegazioni su come è organizzata un’unità di cura, e a cosa servono i macchinari che si trovano intorno al letto; c’è un filmato con le interviste ai pazienti che sono guariti, che raccontano le loro sensazioni e le loro emozioni; c’è una pagina in cui viene data voce ai familiari, una in cui parlano gli operatori. Un’altra pagina, dedicata alla morte in terapia intensiva, spiega in parole semplici anche la morte cerebrale: “In alcune malattie, invece, accade che il cervello muore, mentre il cuore continua a battere se sostenuto da medicine e da macchine. Nonostante sia presente il battito del cuore, questa condizione coincide con la morte dell’individuo: è forse più difficile comprendere e accettare che il tuo caro è morto, ma quando il cervello muore, tutto l’individuo muore.” Non manca una sezione dedicata alla donazione di organi, vista dalla parte di chi ha perso un congiunto. Tutto questo, insieme ad alcuni poster da appendere nelle sale d’attesa delle terapie intensive italiane, e ad alcune brochure dedicate ai familiari, completano il progetto di cui il sito internet è il perno centrale.

Ci sono due punti che mi preme ancora sottolineare di questo rilevante progetto. Il primo è la convinzione, che anima i promotori, che le terapie intensive debbano essere aperte, e che i familiari siano alleati degli operatori, e non ostacoli nelle procedure di cura. Questo aspetto è di primaria importanza, e occorrerebbe forse allargare questa riflessione, e chiedersi se sia corretto impedire l’ingresso ai familiari anche per i pazienti Covid, naturalmente con le medesime protezioni impiegate dagli operatori.

Il secondo è che occorre far maturare in tutti, nei medici come nei familiari, la consapevolezza che anche gli straordinari mezzi delle terapie intensive possono diventare futili, qualora sia chiaro che non è più possibile salvare la vita, o una qualità di vita accettabile per il paziente. Di quali siano le volontà del paziente, bisogna informarsi, mediante le DAT qualora siano presenti, o attraverso il dialogo con i familiari. E bisogna rispettarle. Occorre  quindi desistere, utilizzare ottime cure palliative e accompagnare il nucleo familiare del paziente alla fine della vita.

Cosa ne pensate? Avete esperienze dirette o indirette di terapia intensiva?

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I drammatici effetti psicologici della pandemia, di Davide Sisto

27 Ottobre 2020/2 Commenti/in Riflessioni/da sipuodiremorte

All’indomani del DPCM del 25 ottobre 2020, relativo alle misure politiche da prendere a causa della nuova temibile ondata del contagio da Covid-19, i cittadini, principalmente sui social media come Facebook e Twitter, si stanno interrogando a proposito della necessità di alcune decisioni, quali la chiusura totale dei teatri e dei cinema e la chiusura parziale, dopo le 18, di ristoranti e bar. Decisioni che riguardano, cioè, l’esclusiva sfera dei passatempi, dei divertimenti e degli scambi sociali all’interno dello spazio pubblico, così come lo abbiamo vissuto fino alla fine dello scorso febbraio. In particolare, stanno emergendo – in modo piuttosto problematico per la tenuta della nostra società – gli effetti negativi del lockdown primaverile, non solo da un punto di vista economico ma anche e soprattutto da un punto di vista psicologico ed emotivo. Mettendo da parte il pensiero dei negazionisti e di coloro che – dall’inizio della pandemia – hanno subito parlato impropriamente di “dittatura sanitaria”, è chiaro che la repentina trasformazione dell’altro in un possibile pericolo per sé e per i propri cari, la riscoperta altrettanto improvvisa della propria mortalità, nonché la sensazione sgradevole di essere soli e isolati dinanzi a un nemico tanto pervasivo quanto invisibile, abbiano generato conseguenze psicologiche ed emotive tutt’altro che trascurabili.

Recentemente, l’AGI ha pubblicato questa intervista sulla tenuta psicologica degli abitanti della provincia di Bergamo alla dottoressa Gloria Volpato, a cui si è rivolto anche il Comitato Noi Denunceremo dei familiari delle vittime. Volpato ha portato alla luce una situazione molto preoccupante: un numero crescente di pazienti abusa di medicine autoprescritte e di psicofarmaci per rimediare all’insonnia e all’ansia, o vive con l’ossessione quotidiana di essere un potenziale untore, isolandosi volontariamente dagli altri, o, ancora, incrementa in maniera eccessiva le attività fisiche, ammettendo di non essere più in grado di gestire il controllo dello spazio pubblico in cui vive. All’aumento della sindrome da stress post-traumatico si aggiunge il senso di precarietà determinato dal costante cambiamento di stili di vita, dovuto anche in parte al susseguirsi settimanale di DPCM che impediscono di fatto ogni forma di programmazione della propria quotidianità, dalle continue immagini televisive dei malati intubati e dei morti, nonché dagli inutili litigi perpetrati dai politici e dai medici in perenne disaccordo gli uni con gli altri.

Mani perennemente sanificate, sguardi torvi per ogni colpo di tosse in un luogo pubblico, litigi sull’uso della mascherina, timore di contagiare i propri cari e di essere – a propria volta – contagiati, l’assenza quasi totale di esperienze pubbliche che alleggeriscano la malinconica vita quotidiana: la principale sensazione che si prova è quella di essere alienati e distanti da tutti, trovando nei soli schermi dei computer e degli smartphone il punto di contatto con il mondo esterno (chissà come avremmo vissuto la stessa situazione senza le tecnologie digitali…). Ed ecco, come riporta Volpato, casi deleteri come quello della mamma che invita il figlio, una volta portato all’asilo, a non avvicinarsi agli altri bambini; oppure come quello di Nunzia de Girolamo, ex deputato di Forza Italia, che non riesce a gestire la disperazione della piccola figlia, la quale associa la morte al Covid che ha contagiato la mamma (qui il resoconto giornalistico).

Ora, siamo (quasi) tutti consapevoli della difficoltà estrema di gestire una simile situazione di emergenza, dunque di fornire delle regole per mezzo delle quali contenere il contagio e limitare i comportamenti sconsiderati dei tanti cittadini che, continuando a rimuovere la morte, vivono come esseri invincibili e immortali. Tuttavia, mi auguro che venga presa coscienza delle conseguenze psicologiche dell’emergenza, non dimenticando tutti coloro che, non contagiati dal virus, sviluppano forme gravi di depressione, ansie, atteggiamenti autodistruttivi e dipendenze legate al senso di impotenza percepito nel corso degli ultimi mesi. Non basta, cioè, assicurarsi che il minor numero di cittadini si ammali e muoia a causa del Covid; occorre non lasciare soli coloro che hanno patito di colpo un lutto, imprevisto fino a qualche mese prima, coloro che hanno visto intensificarsi un senso di solitudine già percepito nei periodi pre-Covid (fa un certo effetto leggere, oggi, la decennale scritta sulla vetrata di un parcheggio nel quartiere Crocetta di Torino: “salviamoci da questa solitudine”), coloro che per ragioni economiche hanno meno mezzi per difendersi dall’isolamento e dalla tristezza sociale.

Voi avete percepito nella vostra vita un incremento di malesseri psicologici e sociali a causa della pandemia e del lockdown? Attendiamo i vostri racconti.

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La cura, la dignità e la solitudine, di Marina Sozzi

14 Ottobre 2020/21 Commenti/in La fine della vita/da sipuodiremorte

Il Covid-19 ha portato via la dignità del morire, scrive sul Journal of Palliative Medicine  Max Chochinov, autore di un noto volume sulla Terapia della dignità. Il terribile isolamento dei pazienti Covid, l’estrema vulnerabilità e l’inclinazione a sentirsi essi stessi “contagio” fanno sì che essi vadano incontro a depressione, ansia, rabbia, e perdita di autostima. Insieme a questa condizione di solitudine, l’impossibilità di vedere i familiari, e il divieto di celebrare riti funebri qualora muoiano, hanno compromesso la loro dignità.

Chochinov parla delle persone malate di Covid-19, e sottolinea che in modo analogo sono colpiti anche i curanti, spesso inviati a curare il Covid senza alcuna esperienza pregressa di malattie infettive. La fatica di turni massacranti da fare con dispositivi di protezione difficili da gestire, la frequenza delle morti rispetto alle quali ci si sente impotenti, l’ansia di essere contagiati e di poter contagiare a loro volta i propri cari, hanno portato a una moltiplicazione di casi di burnout e di malessere psichico, di cui probabilmente non è ancora possibile misurare tutti gli effetti.

Che fare? Occorre fare in modo che chi si ammala e muore per il virus non muoia privato della dignità. Chochinov è convinto che restituire dignità ai pazienti significhi anche ridare il sentimento del controllo e dell’efficacia ai curanti, anche quando l’esito della cura non dovesse essere la guarigione.

Raccomanda che si ripristinino alcune condizioni delle cure capaci di preservare la dignità. Identifica quattro caposaldi della buona cura: 1) il corretto atteggiamento dei curanti, che implica un profondo rispetto per i pazienti. L’atteggiamento è fondamentale perché la percezione di sé dei malati dipende da come vengono visti da coloro che li curano. 2) Il corretto comportamento, che consiste in alcuni gesti significativi, come quello di prendere una sedia e sedere accanto al letto del malato per parlargli. 3) La compassione, che non coincide con la pietà, perché porta ad agire per alleviare la sofferenza del paziente, e 4) il dialogo, che riguarda le conversazioni che si hanno con il paziente nel rispetto della sua personalità. Chochinov non manca di far notare che l’attenzione posta a questi quattro punti aiuta non solo i pazienti, ma anche i curanti, che si sentono meno impotenti e frustrati.

Questo ragionamento di Chochinov va esteso non solo a chi muore per il virus, ma anche a chi muore durante il periodo del virus. E, in particolare, vorrei sottolineare un aspetto del ragionamento di Chochinov, che riguarda la dimensione dell’isolamento e della perdita di contatto con i familiari, che in Italia è stata vissuta da tutti coloro che erano ricoverati, indipendentemente dalla patologia: in ospedale, nelle RSA e, nei primi mesi della pandemia, anche in hospice. Le conseguenze di questo isolamento sono di estrema gravità per i malati, per i curanti, ma anche per i familiari, costretti ad attendere impotenti la telefonata del personale sanitario. Una comunicazione spesso inadeguata, per mancanza di competenze e per la difficoltà complessiva della situazione.

La tutela della salute dei degenti e del personale curante è obiettivo irrinunciabile, naturalmente, ed è comprensibile che di fronte alla prima ondata di pandemia si sia deciso di impedire le visite nei luoghi di cura. Tuttavia, a distanza di più di sei mesi, quando c’è stato il tempo per riorganizzare i servizi in vista della prevedibile seconda ondata, lasciare che le persone vivano la malattia e la morte in solitudine è una conseguenza non obbligata e inaccettabile della pandemia. Gli anziani, soprattutto, senza i familiari deperiscono, si lasciano andare e perdono lucidità.

Occorre anche dire che l’idea che i familiari non potessero più entrare in luoghi sanitari per via del Covid è stata accolta con facilità e con fin troppo rigore.  Probabilmente il timore del contagio si è saldato con una mentalità vecchia ma ancora piuttosto diffusa nella biomedicina: il pensiero che i familiari, lungi dall’essere alleati degli operatori, e importanti fattori di sostegno dei degenti, siano invece un ostacolo, un intralcio rispetto alla cura. Le famiglie, private della possibilità di vedere i propri cari, sono defraudate della possibilità di essere testimoni della cura, e quindi di accertarsi che la cura sia la migliore possibile, oltre che espropriate della consolazione di accompagnare i propri cari.

Occorre trovare una soluzione diversa, credo sia giunto il momento di dirlo a voce alta, soprattutto quando si parla di persone che non hanno contratto il Covid e sono ricoverate in strutture non Covid. È intuitivo pensare che basterebbe fare un tampone o un test veloce al familiare a cui è permesso entrare. E, se questo rappresenta un costo troppo alto per la sanità pubblica, si può anche pensare di farlo sostenere in parte ai cittadini.

Ma non possiamo continuare a derogare a principi inderogabili, come il diritto a morire con dignità.

Che ne pensate? Quali sono le vostre opinioni e le vostre esperienze in proposito?

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