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Riflessioni

Il virus e la morte rimossa? di Davide Sisto

Martedì 9 marzo Alessandro Baricco, sul Il Post, firma un pezzo giornalistico intitolato Mai più, prima puntata, in cui riprende e sviluppa un concetto molto in voga tra gli intellettuali, almeno in questo periodo segnato dalla pandemia mondiale da Covid-19: “rinunciamo a vivere per non morire”. Baricco si sofferma lungamente sugli effetti provocati dal lockdown e da tutte le limitazioni statali imposte alle attività sociali e lavorative quotidiane, che svolgevamo più o meno serenamente prima della fine del febbraio 2020. “E di questa altra morte quando parliamo? La morte strisciante, che non si vede. Non c’è Dpcm che ne tenga conto, non ci sono grafici quotidiani, ufficialmente non esiste. Però ogni giorno, da un anno, lei è lì: tutta la vita che non viviamo, per non rischiare di morire”.

Simili sono le parole espresse dal noto filosofo sudcoreano Byung-Chul Han, nel libro Una società senza dolore (Einaudi 2021), nel quale si sostiene che la nostra sia una società algofobica poiché si cerca in tutti i modi di anestetizzare ed evitare il dolore e la sofferenza. Han dice che “ci si scorda che il dolore purifica, emana un effetto catartico”; pertanto, la medicalizzazione e la farmacologizzazione del dolore gli toglie la possibilità di farsi linguaggio e di manifestare il suo benevolo valore simbolico. Quando affronta il tema del Covid-19, il pensatore sudcoreano riconosce un nesso tra l’algofobia e la tanatofobia: “oggi la sopravvivenza assume un valore assoluto, come se fossimo costantemente in guerra”. Addirittura, Han riconduce all’ossessione della sopravvivenza, dunque alla fobia nei confronti della morte, la rigorosità del divieto di fumare e rimane stupito dal fatto che anche i sacerdoti adottino il distanziamento sociale e indossino la mascherina.

Come dicevo, sono piuttosto ricorrenti in questo periodo le riflessioni che stabiliscono una specie di correlazione tra il non rischiare di morire a causa del Covid e la rinuncia a vivere, interpretando tale correlazione come effetto primo della rimozione sociale e culturale della morte.

Queste riflessioni risultano essere improprie, a mio avviso, sotto molteplici punti di vista. Innanzitutto, non è un unicum nella storia dell’umanità il comportamento adottato dalle istituzioni politiche nei confronti di una pandemia: basta leggere il bel libro di Frank M. Snowden Storia delle epidemie. Dalla morte nera al Covid 19 (LEG 2020) oppure le analisi più stringate, ma non meno efficaci da un punto di vista storico, di Marzio Barbagli nel libro Alla fine della vita (Il Mulino 2017), nonché – ancora – le interpretazioni date ai comportamenti nei confronti delle epidemie dal filosofo Elias Canetti in Massa e potere. Se ci si vuole addentrare nella dimensione più letteraria, i classici di Camus e Defoe sulla peste delineano un quadro sociale, politico e culturale in cui possiamo – a grandi linee – riconoscerci, pur tenendo conto delle ovvie differenze tra le epoche storiche. È, in fondo, elementare: se i nostri corpi rischiano di contagiarsi stando a contatto, la prima e necessaria soluzione razionale è quella di eliminare il contatto fisico per limitare il numero di decessi.

In secondo luogo, credere che vi sia una correlazione tra la cosiddetta “ossessione” per la sopravvivenza e il non vivere è esattamente l’effetto primo e tangibile della decennale rimozione della morte. Riconoscere la propria intrinseca finitezza e non dimenticare che vita e morte sono strettamente legate l’una all’altra, per cui l’una non può essere definita senza il riferimento all’altra, non significa in alcun modo vivere in maniera irresponsabile e mettendo a rischio la salute propria e delle altre persone. Su questo punto ho scritto nel blog già diverse volte, ma – leggendo determinate riflessioni – capisco che è necessario ritornarci ancora.

Attualmente sto guardando su Netflix la mitica serie televisiva Vikings, che rielabora – in sei lunghe stagioni – le eroiche vicende di Ragnarr Loðbrók, leggendario re norreno vissuto nella seconda metà del IX secolo. Il leitmotiv costante delle rappresentazioni belliche dei norreni, intenti a lanciarsi in imprese titaniche di conquista territoriale, è la non paura della morte. Anzi, la morte, decisa dagli dei, risulta essere una specie di fissazione: morire senza paura significa entrare gloriosamente nel Valhalla. Odino stabilisce che ogni uomo potrà godere del bottino accumulato in vita dopo la morte. Sentiamo di continuo simili frasi: “Non temete la morte. Se arriva abbracciatela come se fosse una bellissima donna” (Ragnar). Ecbert, re del Wessex e di Mercia, si rivolge a Ragnar nel modo seguente: “Tu non te ne fai una ragione. Non pensi che alla morte. Tu non pensi che al Valhalla”.

Ora, chi crede che stiamo rinunciando a vivere per non morire potrebbe lanciarsi in una delle imprese belliche dei norreni. Quindi, uscire di casa e abbracciare e toccare più corpi possibili per preservare il sacrosanto diritto a vivere, garantendosi il suo Valhalla (e garantendolo anche a coloro che non hanno un Valhalla di riferimento).

Al di fuori della battuta, occorre capire che la coscienza di non essere immortali e il riconoscimento di un proprio destino mortale inevitabile non hanno rapporto alcuno con la temerarietà e, soprattutto, la mancanza di rispetto della vita e del dolore altrui. Possiamo, certamente, riconoscere l’enorme fatica di un anno intero vissuto senza tutto ciò che ha, finora, reso viva la nostra esistenza. Dobbiamo, altresì, riconoscere le terribili conseguenze sul piano economico, educativo, sociale del distanziamento sociale e del lockdown, quindi criticando senza pietà le istituzioni politiche nel caso ci rendessimo conto che hanno agito superficialmente. Ma, al tempo stesso, è indelicato e approssimativo ignorare le conseguenze di un messaggio di per sé pericoloso: quello che ci dice che oggi vogliamo sopravvivere, rinunciando a vivere. Se la sopravvivenza, minacciata da un pericolo mortale, fosse messa in secondo piano rispetto alla vita di tutti i giorni, ci ritroveremmo in una realtà in cui dominerebbero la morte, il dolore, la sofferenza, molto di più di quanto già stanno dominando.

«La meditazione della morte è meditazione della libertà. Chi ha imparato a morire ha disimparato a servire. Il saper morire ci affranca da ogni soggezione e costrizione». Le sagge parole di Montaigne, punto di riferimento del nostro modo di affrontare la morte, devono però essere controbilanciate dalle parole che John Keating rivolge al suo studente Charlie nel film L’attimo fuggente. Charlie, che ha cercato di farsi espellere dalla scuola che sta frequentando, rimane stupito dalla reazione negativa di Keating, il quale non approva il suo comportamento. Charlie dice: “Sta dalla parte del signor Nolan (il preside N.d.A.)? E allora il ‘Carpe Diem’, ‘Succhiare il midollo della vita’ e tutto il resto? e Keating risponde: “Succhiare il midollo della vita non significa strozzarsi con l’osso. C’è un tempo per il coraggio e un tempo per la cautela, e il vero uomo sa come distinguerli”. Forse, dovremmo non dimenticarlo in questo periodo difficile che stiamo vivendo, pur nella comprensibile consapevolezza di tutti gli aspetti drammatici che ne derivano e che segnano tragicamente la nostra esistenza.

15 Marzo 2021/8 Commenti/da sipuodiremorte
Tags: Covid-19, lockdown, morire, rischio di morte, vivere
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8 commenti
  1. Ferdinando Garetto
    Ferdinando Garetto dice:
    15 Marzo 2021 in 11:20

    “Succhiare il midollo della vita non significa strozzarsi con l’osso. C’è un tempo per il coraggio e un tempo per la cautela, e il vero uomo sa come distinguerli”. Assolutamente d’accordo con questo post, in tutte le sue sfumature (vivere con prudenza non significa dimenticare il dramma sociale ed educativo di questo anno; anzi, significa fare tutta la propria parte per contribuire a superarlo…).

    Rispondi
  2. Moreno Crotti Partel
    Moreno Crotti Partel dice:
    15 Marzo 2021 in 11:35

    Ho letto lo scritto di Baricco. Condivido quanto ben descritto da Sisto. Credo che però i piani di interpretazione siano diversi. Il primo porta le sue argomentazioni per criticare il processo ad imbuto che porta alla decisione finale (there is no alternative), mentre il secondo ragiona sulla coscienziosità del vivere e del morire. In entrambi ritrovo con piacere il desiderio di aprire un dibattito sulla necessità di parlare di dolore e morte.
    Ps. da sanitario mi piace ricordare che oggi è l’anniversario di un’importante legge: 38/2010 – Disposizioni per garantire l’accesso alle cure palliative e alla terapia del dolore.

    Rispondi
  3. Marina Sozzi
    Marina Sozzi dice:
    15 Marzo 2021 in 11:40

    Caro Davide, ho pubblicato con particolare piacere questo articolo, che condivido parola per parola, come Ferdinando Garetto. Non solo. Ma il terribile libro di Byung-Chul Han (che anche Sandro Spinsanti ha criticato fermamente) riattualizza il vecchio dolorismo, questo sì tutt’altro che superato nella nostra cultura, non riuscendo a cogliere la portata innovativa della cultura palliativa, sia rispetto al dolorismo, sia rispetto all’evitamento della morte. Sono intellettuali che amano le tesi a sensazione, che si improvvisano teorici della negazione della morte. Non abbiamo affatto bisogno di loro in questo difficile momento.

    Rispondi
  4. Davide Sisto
    Davide Sisto dice:
    15 Marzo 2021 in 12:43

    Grazie mille a tutti coloro che finora hanno commentato ed esposto le loro idee. Sì, quello che evidenzia Marina lo colgo anche io: vi è una tendenza a parlare in maniera un po’ sensazionalistica, penso più a Han che a Baricco, il quale è più cauto nell’esporre un sentire che, comunque, andrebbe discusso in modo più articolato. Han cade in una forma di dolorismo veramente problematica: c’è questa tendenza del mondo umanistico di avere un pregiudizio tale nei confronti della medicina e della scienza da abbracciare tesi che, nel pratico, sono deleterie. E che mostrano chiaramente quanto sia discutibile esporre specifiche tesi senza aver riflettuto con attenzione sul ruolo della morte nella nostra vita.

    Rispondi
  5. Ersilia Cimino
    Ersilia Cimino dice:
    15 Marzo 2021 in 14:47

    Condivido il contenuto dell’articolo e l’invito alla cautela che esso contiene. Penso anche che l’epidemia potrebbe essere una buona occasione per riflettere sulla morte, che purtroppo è ancora oggi un grande tabù. Nessun dubbio sulla necessità oggi di essere estremamente prudenti. È un dovere verso noi stessi e i nostri familiari, ma anche verso la nostra comunità, oltre che di necessario rispetto per chi ci dovrebbe poi curare, già abbastanza stressato dal superlavoro di quest’ultimo anno. Io pavento il post-pandemia, al quale prima o poi arriveremo. Ho paura che questa vita dimezzata possa continuare ad abitare nella nostra mente: perché vivere a metà a volte può anche essere comodo.

    Rispondi
  6. Franca Di Mauro
    Franca Di Mauro dice:
    16 Marzo 2021 in 17:17

    Molto bello questo articolo . Da parte mia credo che la cautela e la prudenza che ci vengono richiesti, siano, in questo momento, pur se lungo, doverosi. È ,secondo me, un modo di rispettare la vita e anche la morte.

    Rispondi
  7. Antonella Cuomo
    Antonella Cuomo dice:
    16 Marzo 2021 in 23:38

    Grazie, Davide. Anche io consiglierei la ricerca del Valhalla a coloro che spasimano accorgendosi di colpo della propria finitezza. Vorrei aggiungere che un abbraccio al covid-positivo potrebbe essere la via per la santità, in ossequio al dolorismo. Chissà, forse gli assembramenti serali segnalano una qualche nuova forma di misticismo demenziale, tra Ben Hur nella valle dei lebbrosi e il senso della vita dei Monty Python.
    Battute a parte, proprio oggi mi è capitato di leggere una frase di Massimo Gramellini (capitato è la parola giusta, perché non leggerei mai Gramellini di proposito): ha scritto che la moglie del clarinettista morto dopo il vaccino Astra Zeneca, gli sembra “gigantesca” perché la povera vedova (evidentemente sconvolta) ha affermato che non se la sente di sconsigliare Astra Zeneca come vaccino. Può darsi che io non abbia capito bene. Ma se ho capito ciò che ho letto, il sensazionalismo sta toccando limiti preoccupanti.

    Rispondi
  8. Davide Sisto
    Davide Sisto dice:
    17 Marzo 2021 in 11:06

    Sono anche io dell’idea, come emerge anche negli ultimi commenti, che stiamo perdendo un po’ la bussola quando riportiamo il sacrosanto desiderio di vivere a una sottovalutazione del pericolo tangibile di morire. In fondo, anche nel mondo pre-covid, se la consapevolezza della propria finitezza non deve essere un ostacolo alla vita di tutti i giorni, al tempo stesso non deve implicare la messa in prova di questa certezza: c’è un mondo che separa la paura di vivere dall’imprudenza vitalistica. Ed è assurdo ogni tipo di discorso che si limita a scegliere o l’una o l’altra, senza appunto tener conto di tutto ciò che sta nel mezzo.

    Rispondi

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