L’OMS e il controverso rapporto con le cure palliative, di Marina Sozzi
Come abbiamo più volte scritto su questo blog, in questa pandemia le istituzioni sanitarie preposte ad affrontare l’emergenza non hanno considerato le cure palliative come una risorsa. E non solo in Italia. Nel Regno Unito (non abbiamo purtroppo dati italiani) le morti in RSA sono aumentate del 220%, quelle ospedaliere del 90%, quelle a domicilio dell’80%, mentre le morti in hospice sono calate del 20%.
Ma il fatto che mi ha maggiormente colpita, e che vorrei condividere con voi, è stato l’atteggiamento incerto e ambiguo dell’Organizzazione mondiale della sanità. Nel 2018, l’OMS aveva scritto una guida sulle emergenze, e sulle cure da prestare in condizione di calamità umanitaria o sanitaria: in quel documento aveva affermato che le cure palliative avrebbero dovuto essere presenti in quei contesti alla stessa stregua della medicina d’urgenza. Occorre salvare tutte le vite che è possibile, scriveva l’OMS, ma l’obiettivo subito successivo è impedire che le persone soffrano. Quel documento, nelle sue illustrazioni e nei suoi esempi, si riferiva a realtà molto distanti dall’Occidente, a contesti di guerra o all’epidemia di Ebola in Africa.
Tuttavia l’OMS – che nel 2018 aveva previsto un intervento massiccio della palliazione nelle crisi sanitarie – solo due anni dopo, quando ha elaborato la guida per la gestione del Covid, si è dimenticata delle cure palliative. La rivista «The Lancet», l’11 aprile del 2020, scriveva a questo proposito un editoriale, nel quale denunciava la grave lacuna costituita dall’assenza delle cure palliative tra le raccomandazioni dell’OMS volte a mantenere i servizi essenziali in sanità durante la pandemia. E metteva viceversa in evidenza il contributo che esse avrebbero potuto dare nell’emergenza Covid.
A giugno, nella nuova edizione della guida, l’OMS reinseriva le cure palliative (anche se non con la stessa rilevanza del 2018), e rendeva indisponibile l’edizione precedente.
Ciò che è accaduto nell’Organizzazione Mondiale della Sanità induce a pensare. Se nel 2018, quando ci si riferiva a contesti diversi e lontani dall’Occidente, le cure palliative venivano considerate altrettanto essenziali quanto le cure d’urgenza, esse scomparivano invece solo due anni dopo, verso la fine della prima ondata, quando la riflessione riguardava in primo luogo l’Occidente, più colpito dal virus. È come se la morte e la sofferenza fossero immaginabili in alcuni contesti, e non in altri. Come se un processo di negazione si fosse impadronito della massima autorità sanitaria mondiale.
Mi pare che ci sia ancora un grande problema culturale, di mentalità, che non permette alle cure palliative di assumere il ruolo che servirebbe. Un problema evidentemente non solo italiano. Ma, per limitarci al nostro Paese, occorrerà nei prossimi anni riflettere sullo straordinario contributo che, dove hanno potuto essere presenti, hanno dato i palliativisti ai colleghi impegnati nella cura del Covid. Infatti, nonostante le cure palliative siano state dimenticate e rese marginali nella cura dei pazienti Covid (malgrado i documenti della Società Italiana delle Cure Palliative e della Federazione delle Cure Palliative), dove i palliativisti ci sono stati la dimensione della cura del Covid è cambiata. Cambiata per i pazienti, cambiata per i curanti. I palliativisti sono stati preziosi perché hanno portato l’approccio palliativo, che è un approccio olistico e attento alla persona, nella cura del Covid. Non hanno solo praticato sedazioni palliative, non si sono limitati a controllare i sintomi, ma hanno usato le loro competenze comunicative con i pazienti, spesso isolati dal resto del mondo e dalle loro famiglie; con i familiari, in trepida attesa di notizie da ospedali divenuti fortini; e con i colleghi, travolti dal sentimento di impotenza per la quantità e la qualità delle morti. Non solo, ma alcuni pazienti, consegnati ai palliativisti perché non vi era indicazione per la terapia intensiva, grazie alle cure palliative, attente alla particolarità dei sintomi e dei bisogni, hanno superato i giorni più difficili e sono guariti.
Ora, un grande lavoro ci attende. Riflettere sull’esperienza fatta, immaginare come dovranno essere le cure palliative del futuro (e senz’altro dovranno entrare in RSA e in ospedale) e ingaggiare una rinnovata battaglia culturale per far conoscere le cure palliative ai cittadini e per formare gli operatori sanitari all’approccio palliativo.
Che ne pensate? Siete d’accordo? Come vedete le cure palliative del futuro?
Cara Marina, grazie una volta di più. Purtroppo credo che qualsiasi proposta, anche la migliore, si scontri con le scelte economiche attuali. Migliorare l’assistenza sanitaria significherebbe investire in contratti di lavoro. Al contrario, nelle fasi più acute della pandemia, abbiamo assistito a offerte di lavoro a tempo determinato, rivolte a infermieri a cui si richiedeva un impegno pesantissimo e rischioso, in cambio di un contratto a scadenza trimestrale. I medici hanno pagato un prezzo tremendo in termini di vite umane, ma qualche volta il riconoscimento del rischio non si è concretizzato neanche nella fornitura di dispositivi di sicurezza. Ho parlato con medici di base che avevano comprato di tasca propria camici monouso, mascherine, schermi ecc., per continuare a gestire direttamente presso il proprio studio il rapporto con pazienti in condizioni delicate (pazienti oncologici appena dimessi dopo cicli di chemioterapia).
Gli organici ospedalieri sono insufficienti anche solo per il carico di lavoro delle figure professionali tradizionali. Gli ospedali pubblici italiani sono in grado di assumere altri dirigenti medici?
Sono bombardata da richieste di destinazione dell’otto per mille. Se gli ospedali di rilievo nazionale fanno la questua degli spiccioli, possiamo veramente sperare in qualcosa?
Tu guardi molto più lontano di quanto la miopia politica riesca a concepire. Anche in questo momento, le RSA non vengono nemmeno nominate, eppure la ripresa di una vita di relazione sarebbe essenziale per la sopravvivenza degli anziani. Non vengono nominate perché ogni scelta efficace richiederebbe stanziamenti che non si vogliono fare, semplicemente.
Il governo ha deciso di aumentare le spese militari, nonostante l’urgenza di sostenere la sanità pubblica. Il covid19 non è più una “emergenza”, siamo ormai entrati nel secondo anno della pandemia. Il covid19 è una patologia di tipo nuovo con la quale bisognerà fare i conti per lungo tempo negli anni futuri. Affrontare malattie di questo tipo richiede la riorganizzazione della sanità, con l’impiego dei palliativisti e di altri specialisti, ma il costo in termini economici non sembra nei progetti di chi è al potere, né di chi presume di fare opposizione.
Qualsiasi miglioramento, anche il più doveroso, viene decantato come “eccezionale risultato”, in un crescendo retorico insopportabile.
Solo poche settimane fa girava un appello dell’Ordine dei Farmacisti, che esortava a consegnare le bombole di ossigeno vuote, da ricaricare. L’India che non può ricoverare i pazienti covid perché non dispone più di bombole non appare poi così lontana. La situazione indiana è la conseguenza di un’impennata nei contagi e nessuno stato, al momento, è veramente al sicuro da un rischio del genere, perché la campagna vaccinale è solo iniziata e al momento non ha affatto chiarito quanto siano efficaci, contro le varianti, i sieri disponibili.
Mi dispiace scrivere queste cose, le tue proposte sono così intelligenti e umane.
Il SIPRI di Stoccolma ha pubblicato le ultime cifre sul bilancio militare e il contrasto è stridente. Leggere di vertenze fra i governi europei e le aziende farmaceutiche, mentre si dilapidano risorse in sistemi di difesa, sarebbe grottesco se non fosse tragico. Tu riesci a vedere la sofferenza e comprendi i rimedi per alleviarla, altri sembrano semplicemente indifferenti.
Antonella
Cara Antonella, benché io comprenda il tuo sconforto, credo che siamo chiamati, ciascuno nel suo quadratino di competenza, a provare (almeno provare) a fare la nostra parte. Non so nulla di difesa e di armamenti e quindi sto nell’ambito di quello che so. Mi rendo conto che il mio pensiero conta come una goccia nell’oceano, e forse neanche… ma continuerò a dire le cose che penso, sperando che il mutamento di mentalità, che è processo lento, prima o poi si realizzi (anche se io non lo vedrò).
Cara Marina Sozzi, davvero grazie per questi dati relativi all’OMS e che riuscirebbero del tutto inspiegabili se non formulando l’ipotesi, sconcerante, che nell’Occidente si disturba la medicina tradizionale se si sostiene la diffusione della medicina palliativa. Eppure ormai in molt* abbiamo compreso che la medicina palliativa dovrebbe informar di sè tutta la medicina, poichè per essa davvero al centro c’è la Persona, con i suoi bisogni e la sua volontà, e non la malattia ed il curante la malattia. La medicina palliativa ha a cuore la qualità della vita della Persona, di quella particolare Persona, diversa da qualsiasi altra.
Quanto ai costi, certamente diffondere la Medicina Palliativa, contribuirebbe non poco a ridurre la spesa sanitaria. Spesa che verrebbe ridotta infinitamente se si facesse davvero prevenzione con un’appropriata educazione alla salute fin dalla scuola d’infanzia e poi, per concludere, come faccio ormai da tanti anni, invito alla lettura del testo teatrale di Jules Romaine “IL Dottor Knock, ovvero il trionfo della medicina” E’ un testo del 1923 ma di una attualità sconcertante.
Grazie.
Maria Laura
Grazie Maria Laura per il tuo intervento, e anche per il consiglio di lettura: acquisto subito!