I riti funebri e il Covid, intervista a Cristina Vargas, di Marina Sozzi
Abbiamo intervistato l’antropologa Cristina Vargas chiedendole come siano cambiati, a suo parere, i riti funebri in epoca Covid.
1. Il Covid, soprattutto durante la prima ondata, ha stravolto il nostro rapporto con la ritualità. Prima di questa esperienza di privazione dei riti, molti affermavano di essere piuttosto antiritualisti. Ma di fronte all’impossibilità di celebrare riti funebri, è parso che la consapevolezza dell’importanza dei riti sia aumentata. Condividi questa lettura?
Sì, sono d’accordo. Se intendiamo il rito funebri come il momento del funerale in senso stretto, allora il periodo di sospensione è circoscritto. Durante la prima ondata le cerimonie funebri, religiose e laiche, sono state sospese per poco più di tre mesi. Tuttavia, se adottiamo una prospettiva antropologica e intendiamo i riti funebri in un senso più ampio, come tutti quei gesti significativi che accompagnano la morte (l’ultimo addio, la preparazione e la cura della salma, la sepoltura o la cremazione e, infine, se presenti, tutti i momenti rituali che scandiscono il periodo di lutto) ci rendiamo conto che il problema è stato molto più ampio e ha toccato, in modi e misure diverse, moltissime persone.
I riti, in particolare i riti funebri, sono un bisogno profondamente radicato nell’essere umano, eppure la loro importanza qualche volta si perde di vista o tende ad essere data per scontata. Nelle scienze sociali – penso in particolare alla sociologia e all’antropologia – ci fu un interessante dibattito rispetto alla ritualità fra gli anni Sessanta e Settanta del Novecento, che può essere utile ripercorrere brevemente per capire come è mutato il nostro rapporto con i riti. Nodo centrale di questo dibattito è il concetto di “ritualismo”, proposto da Robert Merton per indicare tutte quelle circostanze in cui le persone si impegnavano in azioni e gesti rituali come una mera forma di aderenza alle prescrizioni sociali, senza che ci fosse né un’adesione profonda ai valori espressi da quei gesti, né un coinvolgimento interiore.
Il termine ebbe molto successo perché, di fatto, dava nome a un diffuso scollamento tra le forme rituali dominati e ciò che le persone percepivano come significativo nelle proprie vite. In un contesto sempre più urbano e secolarizzato, il senso dei riti si era svuotato e, per molti, quasi tutte le ritualità divennero “ritualismi”. I funerali cattolici tradizionali, per esempio, erano in molti contesti diventati dei “doveri sociali”, momenti standardizzati e freddi, incapaci di esprimere la dimensione profondamente personale di ogni perdita.
Eppure, come affermava l’antropologa Mary Douglas in quegli stessi anni, “in quanto animale sociale, l’essere umano è un animale rituale”. Il suo invito era quello di ripensare il rito senza pregiudizi, intendendolo innanzitutto come una forma di comunicazione essenziale tanto sul piano individuale quanto sul piano collettivo, poiché ha il potenziale di connettere la sfera simbolica, l’esperienza soggettiva e il gruppo sociale. Nella pandemia, il venir meno delle forme consuete per accompagnare ritualmente la fine, ci ha reso consapevoli delle conseguenze della mancanza della funzione integrativa del rito funebre, senza il quale è difficile trovare dei linguaggi (e dei momenti) condivisi per dire addio e per socializzare il lutto.
Per tornare alla domanda iniziale, credo che quando il rifiuto della ritualità sia una scelta personale, allora esso abbia di per sé quella funzione comunicativa di cui parla Douglas: “dire di no ai riti esprime qualcosa di profondo su di me al mio gruppo sociale”. Se invece non è una scelta, ma una costrizione, l’impossibilità di ritualizzare priva chi resta di una delle più importanti risorse culturali di cui disponiamo per far fronte alla morte.
2. Il Covid ha determinato anche molte nuove esperienze rituali, con cerimonie “inventate”, come quelle celebrate in alcuni ospedali. Come vedi questo fenomeno?
Al pari di quanto è avvenuto in precedenti situazioni di crisi sociale (le guerre, le catastrofi naturali, altre epidemie che hanno colpito in passato l’umanità), le forme socialmente codificate per accompagnare la morte e per dare risposta al bisogno collettivo di ritualità si sono dimostrate impercorribili o inadeguate a tutti i livelli: individuale, familiare, comunitario e sociale. In questo scenario, nei contesti più consapevoli e attenti molte persone hanno cercato di dare risposta a questi bisogni e si sono adoperate a “costruire” nuovi linguaggi per dire addio. Questi momenti di commemorazione sono stati importanti anche per gli operatori, penso ad esempio al caso degli ospedali e delle Rsa, dove anche chi ha lavorato ha condiviso la fatica, la sofferenza e il trauma della morte non adeguatamente accompagnata.
Anche noi, nel nostro piccolo, abbiamo collaborato con la SOCREM Torino per proporre delle commemorazioni rituali presso il Tempio Crematorio di Torino. Nel rito sono stati centrali i nomi delle persone decedute, i simboli naturali – l’albero, il sentiero, la pietra – e le “parole non dette” che le famiglie hanno potuto deporre in una teca posizionata lungo il percorso. Nelle varie settimane in cui si sono svolte le commemorazioni molti pensieri, poesie, disegni, testimonianze d’affetto e di dolore sono state affidate ai bigliettini bianchi che settimana dopo settimana riempivano la teca.
Credo che questi tentativi siano importanti e abbiano un valore umano e sociale soprattutto quando riescono a mettere al centro il vissuto dei protagonisti e offrono loro spazi di espressione (quando non sono “ritualisti”, ma rituali… per riprendere la prima riposta).
Tuttavia “costruire” nuovi riti non è facile, perché richiede la capacità di identificare i linguaggi giusti, di riconoscere dei bisogni che non sempre sono espliciti e di offrire cornici – luoghi, tempi, oggetti e simboli – perché questi bisogni possano esprimersi in modi significativi, lontani dalle retoriche e vicini piuttosto al vissuto profondo di chi partecipa al rito.
3. In molti casi si è usata la tecnologia per partecipare virtualmente a riti funebri ai quali era impossibile essere presenti. I funerali in streaming esistevano già, per le molte persone che hanno, per svariati motivi, esistenze transfrontaliere e affetti in paesi diversi. Pensi che sia l’inizio di una prassi destinata a diffondersi?
Su questo tema ho una visione ottimista. In passato mi era capitato di assistere a funerali transnazionali e, seppur con notevoli ostacoli tecnici, era stato l’unico modo per “stare insieme” a parenti e amici nonostante la distanza geografica. Non penso che i riti in streaming siano destinati a sostituire i funerali in presenza, ma le tecnologie “virtuali” possono senz’altro essere una risorsa in più. Esse, come hai detto bene, già esistevano, ma sono diventate parte della nostra normalità durante la pandemia: ora siamo più attrezzati e possiamo usarle con maggiore dimestichezza e con maggiore consapevolezza rispetto al passato.
4. Dopo la Prima guerra mondiale, quando in ogni famiglia c’era stato un lutto, si era celebrato un rituale di lutto collettivo a Roma, con l’inumazione del Milite ignoto; e altre cerimonie locali avevano avuto luogo nell’intero paese. Credi che avremmo dovuto (anche se non siamo in guerra) fare qualcosa di analogo per il Covid?
Nonostante le molteplici differenze fra il Covid e la guerra, credo che una risposta rituale istituzionale (che ancora manca) sia doverosa e necessaria. I riti funebri non hanno solo una dimensione individuale, ma hanno anche una funzione collettiva estremamente potente. A seconda dei linguaggi che vengono utilizzati, un funerale pubblico può aggregare o dividere, ricomporre o spaccare una società. Credo che in questo momento sarebbe utile puntare su ciò che unisce, pensare a ritualità collettive che ricordino la nostra comune vulnerabilità, il dolore subito da tutti, le forme di resilienza e solidarietà messa in campo a livello comunitario. Questo forse faciliterebbe il rafforzamento di legami sociali che oggi sono piuttosto tesi e rischiano di polarizzarsi ulteriormente.
L’esempio della prima guerra mondiale mi sembra utile anche per riflettere sulla dimensione monumentale, parte essenziale della memoria storica: come si racconterà la pandemia attraverso i monumenti? Quali aspetti si sceglierà di inscrivere nella pietra o nel marmo? Sono scelte importanti su cui, con i tempi e le modalità giuste, credo sia necessario aprire un dibattito pubblico.
4. C’è qualcosa che avresti voluto dire e che non ti ho chiesto?
Mi sento di dire che il Covid è stata un’esperienza epocale che, in un modo o nell’altro, ha modificato le vite di ciascuno di noi. La pandemia, e tutto ciò che ad essa si può ricondurre, ci ha costretto a misurarci con il peso della solitudine e della vulnerabilità, a rivedere le nostre priorità e a ripensare molte cose che in passato tendevamo a dare per scontate, non solo la ritualità. Molti lavori in ambito storico e sociologico hanno rilevato che, quando le paure si attenuano, le grandi epidemie sono sovente seguite da fenomeni di amnesia sociale. Credo, dunque, sia necessario attivarsi fin da subito per non rimuovere la sofferenza individuale e collettiva che ha caratterizzato questo tempo complesso che siamo stati chiamati a vivere. Mi sembra che dare spazio a una pluralità di prospettive sulla pandemia, come stai facendo tu in questo blog, sia un primo passo fondamentale in questa direzione.
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