Esprimere il lutto su YouTube, di Davide Sisto
Mi è capitato di leggere recentemente alcuni saggi di Margaret Gibson, docente universitaria australiana che si occupa da anni di Death Studies, la quale ha posto una particolare attenzione sul rapporto tra YouTube e il lutto.
Nel periodo compreso tra il gennaio e il maggio 2014 Gibson ha compiuto le sue ricerche partendo dalla digitazione, all’interno di YouTube, dell’espressione “death of a parent”. Il primo risultato ottenuto consiste in 203.000 “vlogs”, termine con cui si indicano generalmente i video usati come dei blog da parte degli utenti. Il numero esorbitante di dati ricavati viene opportunamente ridotto, escludendo i video di persone anziane che ricordano la morte dei propri cari avvenuta nel passato remoto e, soprattutto, eliminando i video che non hanno alcuna relazione con il lutto se non in maniera allegorica o simbolica. Rimane a Gibson una molteplicità significativa di testimonianze da parte di persone molto giovani, adolescenti o post-adolescenti, che davanti alla videocamera raccontano minuziosamente come sono morti i propri genitori, senza alcun tipo di pudore e con una partecipazione emotiva che spesso li porta a commuoversi. Questi video sono, perlopiù, visti da centinaia di migliaia di utenti e comprendono decine di migliaia di commenti da parte di coetanei che con il protettivo uso di nickname, oltre a offrire il proprio conforto al narratore, raccontano a loro volta i propri lutti.
In Italia la situazione non risulta molto diversa. Il numero dei video incentrati sulla narrazione della morte dei propri genitori è assai elevato, pur ovviamente più contenuto rispetto ai video in lingua inglese. In particolare, mi hanno colpito i casi specifici di due ragazze adolescenti, ciascuna delle quali ha raccontato come ha vissuto la perdita della propria madre all’interno di due video visualizzati da oltre due milioni di persone e con decine di migliaia di commenti. Tra questi ultimi risultano assai interessanti quelli di chi ammette di aver visto il video per puro caso e di sentirsi – al tempo stesso – molto coinvolto nella narrazione.
Ma il rapporto tra YouTube e il lutto è assai più esteso e complesso di quanto si possa immaginare. Per esempio, provate a cercare il toccante video musicale di “Doesn’t Remind Me” degli Audioslave, in cui vediamo un bambino americano alle prese con la morte del padre, avvenuta durante la guerra in Iraq. Il tema del brano diventa l’occasione per un confronto sulla perdita e sulla memoria dei genitori all’interno dei commenti: gli utenti, provenienti da tutto il mondo, raccontano, infatti, le esperienze simili che hanno vissuto in prima persona. Addirittura, il video della famosissima canzone “Everybody Hurts” dei R.E.M. si è tramutato, nel corso degli anni, in una specie di stanza virtuale di Auto Mutuo Aiuto in formato digitale: sono innumerevoli i racconti, nei commenti, delle sofferenze vissute da parte degli utenti, i quali si danno un reciproco sostegno che dura spesso negli anni e che, a detta di molti, genera un profondo senso di benessere. Si tenga conto che “Everybody Hurts” conta attualmente più di 75 milioni di visualizzazioni e circa 19 mila commenti.
I pochi esempi qui riportati di un fenomeno estremamente variegato e diffuso rientrano, innanzitutto, all’interno del processo di radicale trasformazione della nostra vita pubblica a causa dello sviluppo intergenerazionale delle tecnologie digitali. Nel periodo compreso tra la nascita dei primi forum e la diffusione dei social network (YouTube viene inaugurato il 23 aprile 2005) un’ampia parte della popolazione mondiale ha imparato a utilizzare le tecnologie digitali per plasmare le proprie narrazioni autobiografiche insieme a tutti gli altri utenti. Questi inediti esperimenti di autobiografie collettive, le quali integrano insieme parole, fotografie e video, assumono un significato del tutto specifico in relazione al lutto: portano alla luce, in maniera impietosa, tutte le mancanze e il senso di solitudine che i cittadini percepiscono nella dimensione offline. Quando si soffre per un grave lutto, ormai ci si è rassegnati a sentirsi soli e incompresi. Spesso, a risultare insoddisfacenti sono proprio i comportamenti degli amici o delle persone più vicine, le quali si lasciano sopraffare dall’imbarazzo e dal disagio non sapendo cosa dire o cosa fare. In più, non aiuta il tipo di società in cui viviamo, segnata tanto dalla rimozione del dolore e della morte quanto dalla mancanza oggettiva di tempo da dedicare alla sofferenza e alla fragilità. Ne consegue che il vuoto percepito nel mondo offline sia colmato dall’uso protettivo degli schermi, i quali garantiscono quella distanza e quella temporalità sospesa per mezzo di cui ci si libera dall’imbarazzo e ci si esprime serenamente, sia che lo si faccia con il proprio nome e cognome sia che lo si faccia in maniera anonima.
Non è un caso, a mio modo di vedere, che siano soprattutto le persone più giovani a utilizzare YouTube per raccontare i propri lutti: non si sentono, in primo luogo, soffocati dagli adulti, i quali spesso risultano impreparati a dare un sostegno efficace ed empatico, e quindi possono esprimere il proprio dolore usando il linguaggio e i riferimenti simbolici a loro più consoni. Trovano, in secondo luogo, un modo per evidenziare il proprio malessere e, dunque, per lanciare un messaggio anche a chi sta nella dimensione offline. Non si sentono inibiti, in terzo luogo, dai tabù culturali e sociali che reprimono i sentimenti in nome di un presunto contegno, il più delle volte foriero di traumi, disagi e insoddisfazioni.
Pertanto, è molto importante imparare a non sottovalutare le modalità con cui si manifesta il lutto nella dimensione online. Intercettare i linguaggi, i comportamenti simbolici, le norme autoprodotte che regolano le diverse comunità online significa, in presenza di un lutto, generare progressivamente le risposte giuste che, ora, mancano nella dimensione offline. Se vogliamo vivere in una società in cui non vi sia contrapposizione tra online e offline, in cui la vita online non rappresenti un’alternativa alla vita offline, ma un suo salutare complemento, occorre introdursi in queste autogestite forme di AMA digitale, osservare e capire i comportamenti. Non ha molto senso vivere di pregiudizi, a mio avviso generati anche dai sensi di colpa legati alla consapevolezza della propria inefficacia.
Bisogna, in altre parole, inserire i linguaggi e le espressioni comportamentali, che si sviluppano nel mondo online, all’interno dei percorsi di studio pedagogici, psicologici, filosofici, ecc. per riuscire – un giorno – a limitare la solitudine e l’incomprensione regnanti nel mondo offline. Perché è facile lamentarsi quotidianamente del fatto che viviamo in una società segnata dall’isolamento e dall’atomizzazione degli individui. Meno facile è capire come porvi rimedio, magari prendendo spunto dalle opportunità offerte dalla Rete e dai messaggi che arrivano da quel mondo “virtuale” generalmente guardato con sospetto e con ritrosia.
Quali sono le vostre opinioni in merito?
Sono assolutamente d’accordo. Aggiungo che lo studio dei nuovi media potrebbe andare a integrare metodi terapeutici come lo psicodramma. Potrebbe colmare la distanza tra drammaturgia e cinema con tutta la ricchezza di effetti visuali, che traspongono nella narrazione la libertà inventiva della dimensione onirica. C’è tanta strada da fare oltre il pregiudizio: acquistare familiarità con nuovi linguaggi probabilmente renderà le giovani generazioni disponibili a lavorare sempre più profondamente sulle emozioni, a riconoscerle e a sentirsene arricchite. Grazie, Davide.
Grazie a te, Antonella. Condivido totalmente le tue parole. Le opportunità offerte da questa dimensione online vanno assolutamente colte, anche per limitare le fisiologiche criticità che sono ineludibili.