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Quando la musica e il canto sono al centro del rito funebre, di Cristina Vargas

24 Marzo 2025/1 Commento/in Ritualità/da sipuodiremorte

All’inizio del mese di gennaio, mentre ero in Colombia, ho partecipato alla dispersione delle ceneri di una cara amica di famiglia. Non era prevista una vera e propria cerimonia, ma i figli hanno scelto un bel luogo di montagna, che era stato importante per lei in vita, e ci siamo riuniti lì per spargere le ceneri e per piantare un albero nativo, che può vivere per secoli nelle foreste tropicali ed è simbolo di permanenza e di rinascita. Mentre alcuni scavavano, le note del Concerto d’Aranjuez hanno scandito un silenzio lungo, appena modulato dal suono del vento, dal fruscio delle foglie, dalla vanga che smuoveva la terra e dal cinguettio degli uccelli. Non c’erano né ufficianti, né sacerdoti, ma la forza della melodia ha conferito solennità e profondità alle nostre azioni, trasformandole in un rito a tutti gli effetti.
Questa esperienza mi ha motivato a riflettere sul ruolo della musica e del canto nella ritualità funebre, e mi ha permesso di sperimentare in prima persona la potenza di questi mezzi artistico-espressivi nel dar voce a ciò che non può essere detto a parole. Mentre ascoltavamo, parlare non era necessario, perché in qualche modo sapevamo senza bisogno di dirlo quello che gli altri stavano provando: la musica ci ha offerto la possibilità di condividere significati ed emozioni profondi, senza passare attraverso la dimensione verbale. In uno dei più citati passaggi del saggio La musica e l’ineffabile, il filosofo Vladimir Jankélévitch scrive infatti: “Dove la parola manca, là comincia la musica; dove le parole si arrestano, l’uomo non può che cantare”.
Sebbene la musica sia presente in molti funerali, in alcune culture l’esecuzione musicale, il canto o la danza sono il perno intorno al quale si struttura l’ultimo rito.
In Colombia, per esempio, esiste una forma tradizionale di canto funebre, il Lumbalù, che racchiude tutte le potenzialità che abbiamo appena menzionato, a cui si aggiunge un elevato valore storico-politico, perché è sinonimo di resistenza e di lotta per la libertà.
Il Lumbalù fa parte dell’articolato ciclo rituale che accompagna la morte a San Basilio di Palenque. La storia di questo villaggio, che dista 50 chilometri da Cartagena de Indias, inizia sul finire del XVI secolo. In quel periodo Cartagena era uno dei punti nodali del traffico di schiavi africani, che sbarcavano dalle galere spagnole, venivano venduti come merci e poi trasportati verso le piantagioni del sud lungo il fiume Magdalena. Nonostante il carattere disumano delle traversate oceaniche, e i terribili abusi che erano costretti a subire, alcuni schiavi riuscirono a fuggire. Fra loro, il primo e più importante leader – ricordato dalla tradizione orale e dalle cronache dei missionari spagnoli – fu Benkos Bioho, che insieme ad altri cimarrones (così venivano chiamati gli ex schiavi ribelli e fuggiaschi) fondò il primo palenque, un insediamento libero e autogestito nelle montagne. Nel 1713, dopo oltre cent’anni di resistenza agli attacchi degli spagnoli, la corona spagnola accordò la libertà e l’indipendenza ai fuggitivi, il villaggio di San Basilio assunse ufficialmente il suo nome attuale ed è da allora considerato il primo territorio libero del continente americano.
Il Lumbalù è un rito funebre che integra la musica, il canto, la danza e il pianto, per facilitare il transito dello spirito fra il mondo dei vivi e il mondo delle ombre. Quando muore un adulto i familiari si riuniscono intorno al defunto e intonano un lamento seguendo un ritmo particolare, che alterna il pianto, i rimproveri al morto per le colpe commesse in vita e le lodi per le sue virtù e i suoi meriti. Quando il defunto è lavato, vestito e messo nel feretro, accorrono tutte le persone del villaggio e il capo del palenque porta il grande tamburo Lumbalù, da cui prende nome questa tradizione. Per nove giorni e nove notti il tamburo scandisce senza sosta il ritmo allegro e sostenuto della musica, mentre intorno al feretro si avvicendano donne e uomini, che cantano e ballano per non lasciare mai da solo il defunto e accompagnarlo con gioia nella sua dipartita verso il mondo degli antenati. Al termine della veglia, lentamente, vengono tolte le candele, si spengono le luci e ci si allontana dalle porta perché l’anima possa uscire e chi resta possa tornare a vivere.
La cultura palenquera è sincretica e, in riti come questo, tracce delle religioni africane tradizionali si mescolano con universi simbolici legati al cattolicesimo e al nuovo mondo. Nel 2005 lo spazio culturale di Palenque de San Basilio è stato riconosciuto come patrimonio culturale immateriale dell’umanità dell’UNESCO.
La tradizione dei canti e dei lamenti funebri è presente anche in tutta l’area mediterranea. L’antropologa Lila Abu Lughod ha studiato i canti legati al lutto in una piccola società beduina, e ha mostrato come essi prendano forma a partire da una tensione fra il modo in cui si parla della morte nell religione ufficiale, l’Islam, e un sentire soggettivo, che si esprime al femminile e che accoglie vissuti individuali che non trovano altrove espressione.
Nei canti prende forma la contraddizione profonda, forse irrisolvibile, fra la fede che invita al rispetto e all’accettazione della volontà di Dio, e le emozioni intense e dirompenti che si provano di fronte alla perdita, come la solitudine, la paura, l’angoscia, la frustrazione e la rabbia, persino quella contro Dio, che ha permesso che la tragedia accadesse. Quest’ultima emozione, che come sappiamo fa parte in molti casi del lutto, trova un’espressione socialmente legittima e accettabile soltanto nel contesto del canto funebre.
Ernesto De Martino, nel suo noto libro Morte e pianto rituale definiva il lamento funebre una “tecnica del piangere”, che ha la funzione sociale di offrire una risposta rituale alla “crisi della presenza”, preservando i dolenti sia dallo strazio del grido disperato, sia dal silenzio che isola e blocca ogni possibilità di condivisione.
Per quanto diversi fra loro, riti come il Lumbalù e il canto funebre beduino testimoniano che la musica è sia un mezzo comunicativo che permette di socializzare le emozioni nelle loro molteplici manifestazioni, sia il vettore che rende il funerale un’esperienza realmente condivisa. C’è infatti qualcosa di profondamente coinvolgente e umano nel sentire insieme le note; nel permettere al ritmo di entrare nel corpo; nel sostare nell’alternanza fra silenzio e suono che scandisce il respiro; nell’accogliere le immagini evocate dalle parole e nello sperimentare tutte le sensazioni che la musica è in grado di offrirci.
E voi, che ne pensate? Vi è capitato di sentire la potenza rituale della musica di fronte alla morte o al lutto?

https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2025/03/foto-evidenza.jpg 265 350 sipuodiremorte https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2024/05/93409bba-2fe8-4231-86b3-36648bff989e.png sipuodiremorte2025-03-24 09:10:252025-03-24 09:11:32Quando la musica e il canto sono al centro del rito funebre, di Cristina Vargas

I funerali sovietici che hanno fatto la storia. Intervista a Gian Piero Piretto, di Davide Sisto

4 Febbraio 2024/1 Commento/in Ritualità/da sipuodiremorte

Abbiamo intervistato Gian Piero Piretto in merito al suo ultimo libro, veramente ricco e affascinante, relativo ai funerali sovietici più significativi dal punto di vista storico, sociale e culturale, svoltisi tra il Novecento e l’inizio del nuovo Millennio. Rinomato studioso della cultura russa, Piretto mostra attraverso una serie di racconti, alcuni addirittura grotteschi, il ruolo capitale delle celebrazioni funebri sulle metamorfosi di una società piuttosto complessa come quella sovietica. Il tema è, a mio avviso, particolarmente utile per comprendere, in senso lato, il valore simbolico che i riti funebri continuano a conservare nonostante le gigantesche trasformazioni culturali del XXI secolo. 

Come mai hai intitolato il tuo ultimo libro “L’ultimo spettacolo”? Il concetto di “spettacolo” può essere inteso come il leit motiv dei funerali sovietici che racconti?

Senza alcun dubbio. Per lo meno per quanto riguarda i funerali “di Stato”. La funzione di messa in scena con esiti coinvolgenti e gratificanti per gli spettatori-partecipanti è stata fondamentale per l’ottenimento del consenso da parte del regime e la gestione delle emozioni secondo le esigenze del potere. Il dibattito relativo all’esigenza di nuove ritualità, alternative rispetto a quelle religiose, iniziò immediatamente dopo la Rivoluzione d’ottobre e continuò per tutti i decenni di esperimento sovietico. Lo testimoniano anche i molteplici e dettagliati documenti che riguardano l’organizzazione e l’estetica dei cortei funebri per i vari personaggi illustri defunti. Solennità, magniloquenza, impeccabile programmazione miravano a far sì che l’effetto spettacolo fosse impeccabile e suscitasse le previste e giuste reazioni emotive. Molto spesso sconfinando involontariamente nel Kitsch, vista la ridondanza di orpelli (fiori, drappi, stendardi), abbondanza di sinestesie (profumi, musica, sapiente gioco di luci, temperatura della camera ardente). Particolari che contribuivano (sostituendosi agli antichi equivalenti ecclesiastici) al coinvolgimento emotivo dei presenti, già di loro sovreccitati all’idea di trovarsi al cospetto di cotanto personaggio, seppur defunto.

I due funerali che, ovviamente, attirano di più l’attenzione del lettore sono quelli di Lenin e Stalin. Me ne vuoi parlare brevemente?

I due storici funerali confermano le considerazioni relative al cambiamento di registro e mentalità tra la gestione “bolscevica” del potere e quella staliniana. Le esequie di Lenin avrebbero riguardato la scomparsa di un essere umano, pur figura carismatica e fondamentale per la realtà politica del momento, e avviato la sua progressiva trasformazione in entità immortale, cristologicamente divisa in Lenin (essere umano morto) e Il’ič (natura soprannaturale rappresentante l’immortale “causa”). A caratterizzare la cerimonia funebre fu il netto contrasto tra il breve corteo che scortò la salma dalla residenza di Gorki fino al treno che l’avrebbe condotta a Mosca e quanto sarebbe invece successo nella capitale. In campagna tutto si svolse con estrema sobrietà, con il paesaggio invernale e il gelo terribile a fare da sfondo alla massa di contadini e soldati che accompagnavano il feretro. Mosca, contro la volontà del defunto, organizzò un imponente spettacolo e la ragione di Stato vinse su tutto. La camera ardente assunse l’aspetto di un’orangerie, colma di palme e corone di fiori, a contrastare grazie al suo aspetto fiabesco con il freddo, la prosaicità dell’esterno e la tragicità della morte. Tre milioni di persone sfilarono giorno e notte, nonostante il freddo atroce, per rendere l’estremo omaggio al leader e immediatamente iniziò la costruzione del mito che avrebbe dovuto ribadire il concetto: “Lenin è morto, ma la sua causa vive!”.

Quando Stalin morì il culto della sua personalità aveva già raggiunto livelli sorprendenti e le prime sconcertate reazioni della gente furono di incredulità per il fatto che proprio Stalin si fosse potuto ammalare e fosse morto. Era già un semi-dio e lo spaesamento fu totale. Nessuno, o quasi, riuscì a trattenere le lacrime e isterici singhiozzi accompagnarono la diffusione della notizia nell’intero Paese. Lo slogan dominante fu: “Il mondo non crede alla morte di Stalin, che vivrà per sempre”. Anche per lui fu allestita una camera ardente fiabesca e il tributo della folla superò quello riservato decenni prima a Lenin. Non mancò una tragica calca, la massa in preda al panico, che portò a un numero non documentato ma molto alto di vittime morte schiacciate nel pigia pigia. I volti dei cittadini immortalati nelle riprese cinematografiche testimoniano di incredulità (che faremo senza Stalin?), sbigottimento (come vivremo adesso?), paura per un futuro incerto e politicamente a rischio (chi succederà a Stalin?). Le orazioni funebri pronunciate dall’alto del mausoleo di Lenin furono interpretate cabalisticamente come ipotesi relative alla successione, ma la Storia avrebbe sorpreso ancora una volta e le pellicole pensate per immortalare le esequie (lo stesso era successo con Lenin), raffiguranti personaggi caduti in disgrazia, sarebbero state confinate nei depositi per essere riesumate soltanto dopo la perestrojka.

Qual è il ruolo delle donne nei funerali sovietici?

Pochissime furono le figure femminili che raggiunsero posizioni di prestigio in ambito politico sovietico. I funerali di Stato riguardarono quasi esclusivamente uomini. Ho dedicato un intero capitolo soltanto alle esequie di Anna Achmatova, poeta (non gradiva l’appellativo poetessa) tormentata e vittima di costanti repressioni. Il suo funerale fu epocale e rientra nella categoria di cortei funebri “spettacolari”, ma contro lo Stato, viste le repressive posizioni dell’ufficialità, accademica e politica, nei confronti della defunta. Il tamtam tra l’intelligencija portò miglia di persone al santuario dove fu celebrata la cerimonia funebre (Anna Andreevna era credente) e per la prima volta una troupe cinematografica filmò all’interno di una chiesa. Con conseguenze assai problematiche per i responsabili dell’iniziativa. Ho preso in considerazione molto sinteticamente alcuni funerali di donne importanti, scarsamente note al di fuori dei confini sovietici, soprattutto per segnalare come, a dispetto della retorica propagandistica, le figure femminili, pur responsabili di notevoli incombenze, risultassero sempre in secondo piano rispetto a quelle maschili. Per molte di loro, per quanto impegnate in politica o nell’arte, fu scelto un cimitero prestigioso ma periferico e l’onore della necropoli alle mura del Cremlino non fu tributato. Altra categoria femminile non trascurabile fu quella che ho reso, con una traduzione alquanto libera, come “maîtresse di Stato”, donne inserite nella nomenklatura e schierate con il regime, spesso invise alla popolazione proprio per queste caratteristiche, la partecipazione alle cui esequie non fu sentita.

Mi descrivi brevemente quelli che, per te, risultano essere gli episodi più curiosi e “politicamente scorretti” presenti nel tuo libro?

Ne scelgo un paio. Il funerale di Kirov, stretto collaboratore e “amico” di Stalin, ucciso nel 1934 da un fanatico, ma dietro il cui assassinio, secondo l’opinione dalla maggioranza degli storici, ci fu la mano dello stesso Stalin. Le reazioni repressive per “vendicare” la sua morte avrebbero in realtà fatto partire le famigerate purghe e le campagne punitive nei confronti dei cosiddetti “nemici interni”. Ciò non impedì che a portare a spalla l’urna con le ceneri del defunto ci fosse stato Stalin in persona. Più aneddotico ma ugualmente curioso fu il funerale del musicista Prokof’ev, scomparso negli stessi giorni in cui morì Stalin. Risiedeva in un appartamento in coabitazione nel centro di Mosca e le folle che si accalcavano per l’estremo omaggio al leader resero impossibile il trasferimento della sua salma per vie normali. Si dovette ricorre a una squadra di alpinisti che sollevarono la bara con delle corde e la trasportarono lungo i tetti fino alla Casa dei compositori dove era stata allestita la camera ardente.

Anche voi pensate che i funerali assumano il carattere di uno spettacolo, quando hanno rilevanza culturale e politica? Avete in mente dei funerali che, in Italia, hanno avuto un simile valore politico, sociale o culturale? Attendiamo le vostre riflessioni in merito.

https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2024/02/funerali-di-gorbaciov-centinaia-di-russi-alla-camera-ardente-presente-anche-orban-09-copia.jpg 265 354 sipuodiremorte https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2024/05/93409bba-2fe8-4231-86b3-36648bff989e.png sipuodiremorte2024-02-04 21:50:452024-02-04 21:50:45I funerali sovietici che hanno fatto la storia. Intervista a Gian Piero Piretto, di Davide Sisto

Il cimitero, luogo di vita, di Davide Sisto

13 Dicembre 2022/25 Commenti/in Ritualità/da sipuodiremorte

Lo scorso ottobre, a Trieste, ho avuto modo di assistere al documentario intitolato “Il Girotondo” della regista Alice Palchetti. Il documentario, ambientato in uno dei cimiteri di Berlino, ha lo scopo di evidenziare il limite e il confine tra la vita e la morte attraverso la descrizione delle molteplici attività che, in Germania, si svolgono quotidianamente all’interno delle strutture cimiteriali. In mezzo alle tombe viene ripreso, infatti, un numero significativo di bambini intenti a giocare e a rincorrersi come se fossero all’interno di un qualsiasi parco cittadino, mentre gli adulti svolgono le più disparate attività ludiche: concerti, conferenze, spettacoli teatrali, ecc. Queste attività si integrano armonicamente con le processioni funebri, segnate dal dolore per la perdita. I primi piani sulle persone in lutto si alternano a quelli su chi sta, per esempio, recitando. La regista, una volta presentato il suo documentario, non ha nascosto il suo iniziale spaesamento: abituata alle convenzioni italiane, è rimasta dapprincipio perplessa a ricevere inviti da parte degli amici tedeschi per incontrarsi dentro il cimitero quale luogo di ritrovo in vista delle successive attività ludiche. La normalità con cui gli abitanti di Berlino sostano nei cimiteri – anche per leggere, per fare jogging, per fare pausa pranzo, ecc. – l’ha spinta tuttavia a ragionare sul senso del limite e del confine in maniera differente rispetto alle sue abitudini consolidate. Il girotondo, pertanto, rappresenta la metafora dell’ininterrotto passaggio da sopra a sotto la terra e viceversa che caratterizza la casa dei morti, mettendoli costantemente in contatto con i vivi. In altre parole, indica quel confine che unisce e separa, rendendo di fatto il cimitero una specie di dogana tra due differenti mondi. Le immagini dei bambini che corrono tra le tombe servono proprio per sottolineare la circolarità tra l’inizio e la fine.

Guardando il documentario, mi è venuta subito in mente una famosa affermazione di Luigi Lombardi Satriani, appuntata nel bellissimo libro “Il ponte di San Giacomo”: “I morti sono i segni sotterranei della vita”. Questa frase nella sua semplicità, se applicata alla natura del cimitero, non solo conferma le buone intenzioni del documentario di Alice Palchetti, ma indirettamente spiega l’errore principale che commettiamo di solito in Italia.

In Germania emergono soprattutto i limiti e i confini che, dentro al cimitero ubicato nel cuore delle città, uniscono e separano i vivi e i morti, l’inizio e la fine. Nel nostro paese invece ci si sofferma maggiormente sulle alte mura che, cintando strutture cimiteriali spesso collocate ai margini delle metropoli, determinano la rigida separazione tra chi è fuori e chi è dentro.

In tal modo, eliminano la comunicazione tra l’inizio e la fine. Il nostro atavico timore nei confronti dei cimiteri, percepiti come luoghi tristi e lugubri, ci spinge ad allontanarli il più possibile dalla vita di tutti i giorni, rendendoli una tappa obbligata per il solo e canonico giorno dei morti. Ed è veramente un peccato. Lo dico da appassionato di cimiteri. Quando mi reco al loro interno, la prima sensazione che provo è quella di essere dentro una realtà estremamente ricca di vitalità. Ogni cimitero ha, innanzitutto, una sua flora e una sua fauna specifiche, le quali prosperano tra i loculi e i cimeli delle persone decedute. Il silenzio predominante accompagna, quindi, il susseguirsi di informazioni e memorie su chi ha vissuto prima di noi, facendo percepire in maniera simbolica la loro presenza fantasmatica.

È ovvio che se associamo al cimitero soltanto il momento del rito funebre, dunque un evento terribilmente doloroso, non può che scaturirne una normale repulsione. Se, invece, impariamo a popolarlo a prescindere dai riti funebri, svolgendo al suo interno le attività che caratterizzano la nostra quotidianità, riusciamo forse a cogliere meglio il legame tra il presente e il passato, dunque la dialettica tra la presenza e l’assenza che tratteggia la natura del defunto. In tal modo, possiamo disporre di uno strumento prezioso in più per superare la rimozione sociale e culturale della morte e per maturare un atteggiamento meno traumatizzato nei confronti di quel tratto mortale che ci definisce. Proprio per tale ragione, sono convinto che le scuole dovrebbero portare i bambini nei cimiteri, per abituarli a una relazione meno traumatica tra l’aldiquà e l’aldilà.

Nel consigliare il documentario di Alice Palchetti, vi chiedo qual è il vostro rapporto con i cimiteri, se li frequentate o se li evitate. Attendiamo con curiosità le vostre risposte.


ps.le persone interessate a vedere il documentario possono contattare Alice tramite email: alicepalchetti@gmail.com

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Il Dìa de Muertos: la festa messicana dei morti, di Cristina Vargas

2 Novembre 2022/0 Commenti/in Ritualità/da sipuodiremorte

La parata a Città del Messico, il 29 ottobre (AP Photo/ Ginnette Riquelme, foto pubblicata su Il Post)

Il primo e il due novembre, i popoli indigeni del Messico si riuniscono per celebrare il ritorno temporaneo dei morti. Questa festa, centrale nella vita cerimoniale e spirituale di queste comunità, oggi è condivisa in tutto il paese: ovunque si preparano degli scheletrini di zucchero e cioccolato; si inforna il pane dei morti e si cucinano i tamales, un piatto tipico che ha come base un impasto di mais, nel quale si avvolgono le verdure, le spezie, la carne e altri ingredienti. Le strade di tutto il Messico si coprono di festoni di carta ritagliata e di fiori di cempoalxúchit (Calendula americana). I cimiteri e le case si riempiono di candele e altari con cibi e bevande, e persino chi vive all’estero si adopera per costruire un luogo con tutto l’occorrente per accogliere i defunti.

Questa commemorazione, dichiarata dall’UNESCO Patrimonio Orale e Immateriale dell’Umanità il 7 novembre 2003, esprime una concezione ciclica della vita e della morte che ha profonde radici nell’immaginario mesoamericano. Per i popoli nahua, maya, zapoteca e mixteca, chi muore non scompare completamente. Il corpo è animato da un principio vitale che permane dopo la fine biologica: è il tonalli, un termine che in spagnolo può essere tradotto come alma (anima) o ánima (spirito). Gli spiriti degli antenati e dei defunti, finché vengono ricordati, dimorano nella terra dei morti e, in un certo periodo dell’anno, possono transitare verso il mondo dei vivi, incontrare le loro famiglie, mangiare, bere e condividere con loro un frammento di vita. Per usare le parole dell’antropologo messicano José Eric Mendoza Lujàn:

La morte non ci può raggiungere mentre ci sia una persona che ci commemora, che ci ricorda. È per questo motivo che in questa celebrazione non c’è il cordoglio, non c’è lutto, non c’è dolore. Non puoi ricevere un parente, un amico, un antenato con le lacrime agli occhi. È un tempo per festeggiare.

L’incontro con gli antenati, tuttavia, non è semplice sotto il profilo simbolico. Incontrare i defunti, da un lato, è un evento atteso e desiderato, che esprime l’affetto per chi non c’è più; dall’altro è un contatto temuto, che richiama le incertezze dell’ignoto e la necessità di mantenere la separazione fra ciò che è “di là” e ciò che è “di qua”. Nella festa dei morti i richiami visivi espliciti, che a tratti sconfinano nel macabro, uniti a un certo “eccesso” di convivialità hanno la funzione di esorcizzare l’angoscia del contatto con la morte. La paura non è assente, anzi, essa emerge con chiarezza in una delle narrazioni orali raccolte da Miguel Ángel Rubio e Metzli Yolosochitl Martinez, che hanno documentato i riti legati a questo giorno in varie regioni del Centro e Sud del Messico:

… alcune persone dicono che i morti non arriveranno, che non sono più come noi vivi, che non esistono più. Ma loro esistono. Quando gli anziani pregano l’aria è ferma, non c’è nessun vento, nulla, e tu preghi con loro. E, a un certo punto, senti una folata di vento, un’ombra che ti passa a fianco: sono loro che arrivano. (…) Chi non crede, invece, è raggiunto dai defunti di notte, mentre dorme: vengono a infestare le loro case, a spaventarli.

Oltre agli altari familiari, in molte regioni del Messico si offrono dei cibi e delle bevande alle “anime solitarie”, ovvero quelle dei defunti che non avevano legami significativi quando erano in vita. Questi altari, volti ad accogliere e a placare anche gli sconosciuti, testimoniano il carattere comunitario di questa festività, che non è solo un’occasione di incontro fra i vivi e i morti, ma è anche un momento di aggregazione fra i vivi.

Contrariamente a quanto spesso si pensa, l’origine del Día de Muertos non è preispanico: si tratta di una festività sincretica, che nasce dall’incontro fra le concezioni precolombiane dell’aldilà, il cattolicesimo che fu imposto durante la conquista e la colonizzazione e un insieme di simboli, pratiche e credenze contemporanee (non ultimo Halloween), che man mano si sono mescolati per produrre la festa come oggi la conosciamo.

Fra Diego Durán, missionario e storico spagnolo del XVI secolo, descrisse nella sua Historia de las Indias de Nueva España due feste dedicate ai morti. La prima era Miccailhuitontli, ovvero la festa dei “piccoli morti”, che si celebrava nel nono mese del calendario nahua (che corrisponde all’incirca al mese di agosto). La seconda era la Festa Grande dei Morti, che veniva celebrata nel mese di ottobre. Entrambe queste date coincidono con il periodo di crescita e raccolta del mais, che fin dall’epoca preispanica rappresentava la principale fonte di sostentamento dei popoli nativi. Si trattava dunque di riti collegati alla stagionalità agricola. Temendo tutti gli eventi che avrebbero potuto ostacolare il buon andamento del raccolto, gli indigeni interpellavano gli antenati e invocavano la loro protezione offrendo doni, oblazioni e sacrifici. La ciclicità della natura e la ciclicità della vita si intrecciavano simbolicamente a partire da un principio di reciprocità fra i vivi e i morti: i primi erano chiamati a condividere i doni del raccolto con i loro antenati, mentre i secondi dovevano farsi garanti della generatività della terra.

Parallelamente, dato che nei regni cattolici di Leon, Aragon e Castilla era diffusa la tradizione di preparare dei dolci che imitavano la forma delle reliquie per la festa di Ognissanti, nel mese di ottobre giungevano nel Messico cinquecentesco delle dolcissime caramelle al miele a forma di ossa, crani e femori; insieme a deliziosi scheletri di pasta di mandorle da consumare il primo novembre. Questo dolci, però, erano troppo cari perché il popolo potesse gustarli, così, in breve, gli indigeni e i creoli messicani cominciarono a “inventare” le loro versioni usando il cacao, i semi e altri prodotti tipici americani. Gradualmente, le comunità indigene spostarono le loro celebrazioni dei morti – osteggiate dalla chiesa cattolica, in quanto pagane – ai giorni dedicati alle commemorazioni di Tutti i santi, e incorporarono ai doni tradizionali (a base di mais) i dolci ispirati alla festa spagnola.

I significati originari e nuovi si mescolarono, dando luogo a una religiosità popolare sincretica, che aveva come oggetto di devozione e di culto tanto i santi quanto gli antenati. Rito e festa si mescolano in molti modi nel Día de Muertos. La vitalità e il significato di questa commemorazione stanno proprio nel suo carattere ibrido, meticcio quanto lo è l’anima dell’America Latina, che le ha consentito di trasformarsi di volta in volta, attraversando le vicissitudini storiche e sociali messicane, per dare forma a un’espressione culturale molto sentita e partecipata, che tiene insieme l’amore e il timore, il visibile e l’invisibile, la morte e la vita.

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Le parole personalizzate del ricordo, di Davide Sisto

25 Luglio 2022/7 Commenti/in Ritualità/da sipuodiremorte

In giugno a Bologna ho avuto il piacere di partecipare in qualità di relatore a un convegno che si è svolto all’interno della fiera “Devotio. Esposizione internazionale di prodotti e servizi per il mondo religioso”. Questo convegno, che ha coinvolto sociologi, esperti di storia delle religioni e di architettura sacra, nonché importanti esponenti del mondo cristiano, si è soffermato sulla metamorfosi contemporanea degli spazi e delle parole della memoria cristiana nei cimiteri. In particolare, i vari interventi hanno cercato di comprendere se il tema della Risurrezione sia ancora presente negli spazi e nelle parole che caratterizzano i luoghi dei defunti, analizzando le trasformazioni rituali e culturali del XXI secolo. L’aspetto certamente più interessante che ne è emerso, rappresentando di fatto il filo rosso dell’intero convegno, è l’ineludibile incidenza delle tecnologie digitali attualmente in uso sulle ritualità funebri cristiane.

L’iperconnessione, se da una parte è diventata una questione di natura intergenerazionale, dall’altra intercetta il fine vita sotto molteplici punti di vista. Lo abbiamo più volte evidenziato all’interno di questo blog, partendo – per esempio – dal fatto oggettivo che sono decine di milioni i profili social attivi degli utenti deceduti. Ora, l’abitudine a disporre di spazi personali tramite cui esporre pubblicamente le caratteristiche e le passioni della propria vita intercetta e condiziona la dimensione del ricordo.

Detto in altre parole: più viviamo all’interno di un contesto pubblico in cui si antepongono i bisogni del singolo individuo a quelli della collettività, qualunque sia il modo in cui venga intesa, più si cerca di personalizzare il rito funebre. Questo lo possiamo constatare, per esempio, quando visitiamo le nuove sezioni dei cimiteri cittadini. Vi è un evidente incremento di lapidi che non si limitano a fornire solo indicazioni canoniche riguardo alla vita del defunto (data di nascita e di morte, a volte l’attività lavorativa e poco altro). Si tende, cioè, a mettere il visitatore del cimitero nella condizione di conoscere meglio le prerogative del defunto: pertanto, sono sempre più numerose le lapidi con sciarpe o magliette della squadra del cuore, macchinine in miniatura per ricordare la passione dell’automobilismo, addirittura bottiglie di birra o immagini relative a località geografiche particolarmente amate.

Non è un caso che ciò succeda nell’epoca dei social media e in una fase del tutto peculiare della secolarizzazione. L’antropologo Louis-Vincent Thomas, nel suo libro Antropologia della morte (1976), sosteneva con encomiabile lungimiranza che l’evoluzione tecnologica, con la conseguente personalizzazione degli spazi digitali a disposizione, avrebbe determinato la nascita di vere e proprie mnemoteche elettroniche della memoria. “Autentici monumenti psichici” che, situandosi perfettamente entro la linea tradizionale, ravvivano il ricordo del morto, “attualizzandone ininterrottamente le informazioni da lui lasciate in eredità”, perfezionano quindi il rispetto dei resti corporei e permettono una democratizzazione della memoria: “fanno entrare il più umile degli uomini e il più eminente nello stesso monumento comune, poiché entrambi sono partecipi della stessa struttura, simbolo del corpo mistico dell’umanità”.

Non stupisce pertanto il collegamento stabilito dalle parole del ricordo tra le lapidi nei cimiteri e i profili social: è ormai capillarmente diffuso il bisogno di parlare con i morti sia all’interno dei loro profili pubblici sia in quelli privati. Le parole utilizzate in questi spazi ibridi riproducono molto spesso le formule e le immagini canoniche della tradizione cristiana: ricorrenti, per esempio, sono i riferimenti alla collocazione in Paradiso o le immagini degli angeli associate al caro estinto.

Questo particolare processo di digitalizzazione delle parole della memoria si accompagna alla trasformazione dei luoghi cimiteriali. Come è stato evidenziato durante il convegno, la trasposizione simbolica del cimitero nei social va di pari passo con nuove forme di architettura cimiteriale, le quali rispecchiano le esigenze individuali. Ecco, quindi gli spazi cimiteriali che includono le urne biodegradabili su cui vengono piantati degli alberi, le vesti funebri che nel tessuto ospitano le spore di vari tipi di funghi, le urne in bioplastica, ecc.

Questo cambiamento, amplificato da iniziative come la digitalizzazione dei cimiteri portata avanti dalla Church of England, di cui ho parlato nel blog recentemente, solleva numerosi interrogativi che riguardano la relazione tra i singoli individui e la fede religiosa. Non volendo addentrarmi in questo territorio, mi limito a sottolineare come sia importante tener conto della metamorfosi relazionale tra i vivi e i morti all’interno di una società che si concentra – nel bene o nel male – sull’esigenza individuale. È importante affinché non vi sia uno scollegamento tra i bisogni dei dolenti e le autorità e le comunità adibite alla gestione delle ritualità funebri.

Voi cosa ne pensate? Ritenete sia doveroso favorire la dimensione individuale e personalizzata del ricordo a prescindere dai riti canonici e tradizionali? Attendiamo, come sempre, i vostri commenti.

https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2022/07/cimitero-latina-e1658677824156.webp 265 350 sipuodiremorte https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2024/05/93409bba-2fe8-4231-86b3-36648bff989e.png sipuodiremorte2022-07-25 09:03:392022-07-25 09:03:40Le parole personalizzate del ricordo, di Davide Sisto

Uno sguardo su Tanexpo 2022, di Cristina Vargas

4 Luglio 2022/0 Commenti/in Ritualità/da sipuodiremorte

Dopo aver lavorato nel campo del fine vita per più di quindici anni, e aver sentito tutti i racconti possibili e immaginabili su Tanexpo, quest’anno per la prima volta ho avuto l’occasione di aggirarmi per due giorni come “osservatrice partecipante” fra i padiglioni di Bologna Fiere.

Per chi non lo sapesse, Tanexpo è una delle più importanti fiere dell’imprenditoria funebre. Accoglie espositori di 57 nazioni ed è, per citare le parole degli stessi organizzatori, “La più grande ed esclusiva vetrina della funeraria internazionale”. Coinvolta in uno degli stand, ho vissuto i tre giorni della manifestazione come un’occasione impareggiabile per riflettere sul complesso mondo delle imprese che, a vario titolo, si occupano di fine vita. Mi sembrava, inoltre, una buona opportunità per fare una prima mappatura delle continuità, delle discontinuità e delle innovazione nell’ambito dell’imprenditoria funeraria in seguito all’esperienza della pandemia.

È difficile fare una descrizione esaustiva della fiera, e ancor più complicato, se non impossibile, tentare di trarre un’analisi approfondita a partire da un’esperienza circoscritta. Vorrei piuttosto proporre, in questo articolo, una piccola raccolta di impressioni, immagini e pensieri che non pretendono di essere un insieme coerente e che mi piacerebbe commentare e integrare con le opinioni di tutti voi lettori.

È il mercoledì 22 giugno ed è una caldissima mattinata bolognese. Arrivo a Bologna Fiere e, appena entro nei padiglioni di Tanexpo, vedo in primissimo piano un’ampia gamma di feretri e urne in ogni materiale e colore; al centro ci sono le lunghe, tecnicissime e lussuose auto funebri e, accanto a loro, i marmi, l’arte religiosa e tutti gli oggetti che caratterizzano la ritualità funebre occidentale. È un ambiente commerciale e ogni cosa è in vendita. Tuttavia, oltre ad essere “merci”, questi oggetti sono il “marchio” della fiera; le colonne portanti di un linguaggio e di una modalità cerimoniale saldamente radicata da cui non è facile (e forse è inutile) discostarsi in modo brusco.

Per “scovare” forme rituali innovative è necessario addentrarsi fra gli stand. Dopo vari giri, in un angolo piccolo e poco visibile che promuove i funerali ecologici o Green Burials, trovo una proposta che mi sembra molto affascinante. Si tratta dei Reef Burials, una forma di destinazione delle ceneri che prevede la collocazione di queste (mescolate con altre sostanze in parte biodegradabili) in una struttura di cemento a forma di roccia bucata, che viene posizionata nella barriera corallina e lentamente si integra nell’ecosistema marino contribuendo a prevenirne l’erosione. Rispetto alla dispersione in mare, la differenza più significativa è che il luogo rimane riconoscibile e può essere visitato con la normale attrezzatura per le immersioni subacquee. I costi, però, sono piuttosto elevati ed è una modalità che in Italia al momento è possibile in un unico luogo. Le opzioni più attente all’ecologia sono ancora minoritarie ed esclusive. Esse faticano ad affermarsi in condizioni normali e hanno subito con il Covid una forte battuta di arresto: gli espositori mi raccontano che né i funerali ecologici “classici” (nei boschi o nella natura), né i Reef Burials sono stati possibili nei due anni di pandemia e che solo ora si sta cercando gradualmente di ripartire.

Per converso, durante la pandemia si è diffuso in modo esponenziale l’uso di supporti informatici e di tecnologie digitali. Fra gli stand ci sono numerose proposte di portali o applicazioni per permettere alle imprese di creare profili online dei defunti; oppure di piattaforme e dispositivi per trasmettere i funerali in streaming o, ancora, di geolocalizzatori per mappare i luoghi di sepoltura. Questi strumenti, seppur non particolarmente innovativi, testimoniano il consolidarsi di una costante interazione tra reale e virtuale. Esse, per usare un efficace neologismo, raccontano la normalizzazione dell’onlife e le nuove sfide che essa pone al settore funerario.

Negli stand per gli addetti ai lavori mi colpisce la materialità della morte: sacchi impermeabili per contenere le salme, sostanze per il trattamento dei corpi, carrelli tecnici per la movimentazione dei feretri, filtri, imbottiture, inchiostri e molti altri elementi che riguardano la gestione tecnica del cadavere. La nostra società ha da tempo delegato questi aspetti ai professionisti del settore, sovente trascurando il peso che ricade sulle spalle degli operatori funebri, una categoria il cui benessere psicologico è invece essenziale perché possano rapportarsi con le famiglie in un modo attento e supportivo.

Lungo il corridoio trova spazio l’opera “No time to die” di Danilo Sciorilli, proposta in occasione dei trent’anni della manifestazione. Si tratta di un’istallazione d’arte contemporanea che ha come perno una riflessione sull’immortalità e sui tentativi che l’essere umano ha compiuto, e continua a compiere, per intrappolare la vita eterna. La possibilità di essere “immortalati” nell’immagine; una biglia che raccoglie l’infinito e garantisce l’immortalità dello spirito; l’Ambrosia, una bevanda che allunga la vita e che è preparata dall’autore sulla scia delle ricerche di Nicolas Flamel e altri alchimisti oggi noti al grande pubblico grazie ad autrici come J. K. Rowling e Deborah Harkness. Anche qui, tutto è in vendita. Per la modica cifra di 2,50 è possibile bere un sorso del magico liquido che promette un anno in più di vita. La proposta dell’artista mi fa pensare al binomio oro-vita eterna, a quanto questi due grandi desideri siano stati potenti (e a volte terribili) motori della storia individuale e sociale, e al ruolo dell’artista che oggi, a torto o a ragione, rivendica la possibilità di intrappolare, e vendere, il sogno della permanenza.

Infine, fra i padiglioni, mi sembra evidente il rapido aumento delle Case Funerarie (ormai sono 537 in Italia) e delle nuove richieste di mercato che esse stanno generando: dall’arredamento, tema su cui l’offerta era piuttosto variegata, alla progettazione architettonica degli spazi, aspetto su cui invece le proposte erano piuttosto limitate. Forse questa disparità nell’offerta è sintomatica: a differenza di quanto avviene in altri paesi europei, in Italia le case funerarie non possono contare su una tradizione solida né sul piano architettonico né sugli aspetti funzionali. Molti di questi luoghi, per quanto esteticamente piacevoli, faticano a trovare un’identità propria e una collocazione chiara nel panorama rituale italiano. A proposito di queste criticità, l’architetto Luigi Bartolomei, in un articolo pubblicato nel novembre 2021 sulla rivista online Il Giornale dell’Architettura, rilevava un “annichilimento della componente simbolica”, che “ha impoverito il progetto d’architettura riducendolo alla sola soddisfazione di requisiti funzionali, licenziabili con regolare pratica edilizia”. Eppure, proprio perché sono nuovi, sono spazi che si prestano a soluzioni molteplici e innovative e che potrebbero stimolare una riflessione congiunta sulle nuove esigenze rituali della popolazione e su come offrire contenitori efficaci e carichi di significati in cui questi riti possano accadere.

https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2022/07/TanExpo-2022-678x381-1-e1656920056827.jpg 265 350 sipuodiremorte https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2024/05/93409bba-2fe8-4231-86b3-36648bff989e.png sipuodiremorte2022-07-04 09:35:412022-07-04 09:35:43Uno sguardo su Tanexpo 2022, di Cristina Vargas

La doppia morte degli indigeni wayuu, di Ana Cristina Vargas

3 Giugno 2022/3 Commenti/in Ritualità/da sipuodiremorte

Come antropologa mi sono a lungo interrogata sul tema della morte e sui diversi modi in cui le varie società umane conferiscono significato e ritualizzano il fine vita. Uno dei primi popoli presso cui ho avuto l’opportunità di svolgere ricerche etnografiche sono i wayuu, una delle più grandi comunità indigene della Guajira Colombiana e del Venezuela.

Quando giunsi per la prima volta nella Guajira, più di quindici anni fa, il mio obiettivo prioritario era quello di documentare la storia del massacro di Bahía Portete, avvenuto nell’ambito del conflitto armato colombiano. Questo massacro fu uno dei più drammatici eventi di violenza estrema ai danni dei wayuu durante l’espansione dei gruppi paramilitari nell’Alta Guajira, il loro territorio ancestrale. Il bilancio delle vittime non è mai stato chiarito ufficialmente, ma si parla di oltre cinquanta persone uccise, sottoposte a brutali mutilazioni e torture. Il cimitero, inoltre, fu brutalmente profanato e le ossa furono dissotterrate. Nel clima di negazione che caratterizzava quegli anni, la commissione che curò l’indagine escluse ogni responsabilità dello Stato e identificò come causa del massacro le dispute interne fra le famiglie indigene, coinvolte nella lotta per il controllo del traffico di benzina, droga e armi. Le vittime, insomma, vennero colpevolizzate in virtù della loro storia di regolazione autonoma dei conflitti interni e il governo – più volte sotto accusa non solo per la sua incapacità di proteggere i popoli nativi dalla violenza paramilitare, ma addirittura per la loro collaborazione con questi gruppi – se ne lavò le mani. Per contrastare questa lettura, nel mio lavoro (come in quello di altri studiosi e attivisti che si sono concentrati su questo caso), divenne prioritario conoscere l’organizzazione sociale wayuu e, nel farlo, ho realizzato che i riti funebri erano una vera e propria chiave di volta per comprendere la cultura e la storia di questo popolo.

Il ciclo della ritualità funebre wayuu è molto lungo ed è articolato in due grandi riti.

Subito dopo il decesso si svolge il primo funerale, che dura sette giorni e sette notti. Seduta sulla sua amaca Maria Apushana, una delle anziane del piccolo villaggio dove alloggiavo, descriveva questo rito come una grande celebrazione, con duecento, trecento invitati. Con orgoglio, l’anziana raccontava il grande funerale che era stato organizzato in onore di suo nonno; del suo viaggio per raggiungere il villaggio in cui si sarebbe svolta la veglia; delle amache che ognuno appendeva per dormire; delle moltissime capre che erano state sacrificate e mangiate dagli ospiti (e che avrebbero accompagnato lo spirito del defunto nell’aldilà); dei liquori – la chicha e il chirrinchi – che bevevano gli uomini mentre raccontavano aneddoti e ricordavano il defunto e, soprattutto, dei pianti cadenzati e ritmici che lei e le altre donne avevano intonato ininterrottamente, per non lasciare mai da solo il nonno nel suo viaggio. Al termine, come è consuetudine, il cadavere era stato temporaneamente seppellito in un cimitero vicino al luogo del decesso.

Il primo funerale è un evento importante della vita sociale di tutto il gruppo familiare. Nei funerali, più che in qualsiasi altra occasione, è essenziale dimostrare la generosità della propria famiglia e invitare qualcuno al proprio funerale futuro è ritenuto un gesto di cortesia, ospitalità e amicizia.

Dopo un lasso di tempo che può variare da due a sei – sette anni, quando si sono conclusi i processi di decomposizione e sono stati radunati i soldi necessari, viene realizzato il secondo funerale. Le ossa  vengono riesumate, lavate con cura e, dopo una veglia di nove notti a cui partecipa solo il gruppo familiare ristretto, vengono trasferite al cimitero del clan matrilineare o apushi. Questo luogo ha un’importanza fondamentale perché non solo sancisce sul piano simbolico il legame fra il clan e il suo territorio, ma ne attesta l’effettiva proprietà al pari di un documento catastale. Quando un defunto viene seppellito in un luogo lontano da quello del proprio clan, cosa molto frequente data l’elevata mobilità del popolo wayuu, è un dovere sociale portare via i resti dal cimitero in cui erano state temporaneamente deposte per ricollocarle nel cimitero del suo apushi: se non lo si fa, “qualcuno” potrebbe pensare che si stia cercando di avanzare delle pretese su quella terra. La distruzione del cimitero e la profanazione delle tombe che ebbe luogo nel drammatico momento del massacro aveva quindi un significato ben preciso: si è trattato di un’aggressione contro la sfera simbolico-culturale e contro il legame fra questo popolo e il territorio.

Il doppio funerale è un tema classico dell’antropologia della morte. Robert Hertz, allievo di Émile Durkeheim e uno dei primi antropologi a occuparsi in modo sistematico delle rappresentazioni collettive della morte, analizzò il rito della doppia sepoltura in area indonesiana, soffermandosi in particolare sulle tradizioni dei Dayak del Borneo. Hertz osservò che mentre nel mondo Occidentale la morte era per lo più intesa come un evento puntuale, collocabile nel preciso istante dell’ultimo respiro, per questo popolo la morte era invece pensata come un processo piuttosto lungo, che si sovrapponeva solo in parte al momento della morte biologica.

Anche nel ciclo funebre wayuu la simbologia e la ritualità rimandano a un’idea di transito, di viaggio, di trasformazione. Le due fasi del ciclo rituale infatti rispecchiano l’idea di una morte che avviene in due fasi. La morte fisica è considerata la “prima morte” del soggetto, durante la quale si verifica una separazione dello spirito dal corpo del defunto. Poche ore dopo il decesso, lo spirito diventa yoluja e inizia a percorrere il “sentiero degli indiani morti” che porta a Jepirra, il luogo dei morti. Sebbene “sopravviva” alla separazione dal corpo, l’anima, per i wayuu, non è immortale. La “seconda morte” o la “morte definitiva” della persona, come in molte culture di area Mesoamericana, corrisponde al sopravvento dell’oblio. Il yoluja (ovvero l’anima, lo spirito) muore quando nessuno fra i vivi ricorda più quella particolare persona e si sono dunque perse le tracce della sua individualità. Il secondo funerale e il sopravvento dell’oblio sono due eventi che non coincidono a livello temporale, ma che hanno un significato sociale per certi versi simile, nel senso che in entrambi i casi hanno a che fare con l’individualità che scompare per dissolversi in una dimensione collettiva.

Poiché il yoluja può comunicare con i vivi attraverso i sogni, ed è considerato per molti versi ancora parte attiva e presente della comunità, potremmo dire che per i wayuu la morte fisica e la morte sociale sono due cose ben diverse. La permanenza, per questo popolo, è saldamente ancorata alla memoria: ricordare, e tramandare il ricordo di chi muore è l’unico modo per prolungare l’esistenza e per preservare la presenza simbolica dei defunti.

Cosa ne pensate di questo modo di coltivare la memoria e di permettere l’oblio?

https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2022/06/00000125-e1654099128532.jpg 265 350 sipuodiremorte https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2024/05/93409bba-2fe8-4231-86b3-36648bff989e.png sipuodiremorte2022-06-03 08:51:002022-06-03 08:51:00La doppia morte degli indigeni wayuu, di Ana Cristina Vargas

I riti funebri e il Covid, intervista a Cristina Vargas, di Marina Sozzi

22 Dicembre 2021/0 Commenti/in Ritualità/da sipuodiremorte

Abbiamo intervistato l’antropologa Cristina Vargas chiedendole come siano cambiati, a suo parere, i riti funebri in epoca Covid.

1. Il Covid, soprattutto durante la prima ondata, ha stravolto il nostro rapporto con la ritualità. Prima di questa esperienza di privazione dei riti, molti affermavano di essere piuttosto antiritualisti. Ma di fronte all’impossibilità di celebrare riti funebri, è parso che la consapevolezza dell’importanza dei riti sia aumentata. Condividi questa lettura?

Sì, sono d’accordo. Se intendiamo il rito funebri come il momento del funerale in senso stretto, allora il periodo di sospensione è circoscritto. Durante la prima ondata le cerimonie funebri, religiose e laiche, sono state sospese per poco più di tre mesi. Tuttavia, se adottiamo una prospettiva antropologica e intendiamo i riti funebri in un senso più ampio, come tutti quei gesti significativi che accompagnano la morte (l’ultimo addio, la preparazione e la cura della salma, la sepoltura o la cremazione e, infine, se presenti, tutti i momenti rituali che scandiscono il periodo di lutto) ci rendiamo conto che il problema è stato molto più ampio e ha toccato, in modi e misure diverse, moltissime persone.

I riti, in particolare i riti funebri, sono un bisogno profondamente radicato nell’essere umano, eppure la loro importanza qualche volta si perde di vista o tende ad essere data per scontata. Nelle scienze sociali – penso in particolare alla sociologia e all’antropologia – ci fu un interessante dibattito rispetto alla ritualità fra gli anni Sessanta e Settanta del Novecento, che può essere utile ripercorrere brevemente per capire come è mutato il nostro rapporto con i riti. Nodo centrale di questo dibattito è il concetto di “ritualismo”, proposto da Robert Merton per indicare tutte quelle circostanze in cui le persone si impegnavano in azioni e gesti rituali come una mera forma di aderenza alle prescrizioni sociali, senza che ci fosse né un’adesione profonda ai valori espressi da quei gesti, né un coinvolgimento interiore.

Il termine ebbe molto successo perché, di fatto, dava nome a un diffuso scollamento tra le forme rituali dominati e ciò che le persone percepivano come significativo nelle proprie vite. In un contesto sempre più urbano e secolarizzato, il senso dei riti si era svuotato e, per molti, quasi tutte le ritualità divennero “ritualismi”. I funerali cattolici tradizionali, per esempio, erano in molti contesti diventati dei “doveri sociali”, momenti standardizzati e freddi, incapaci di esprimere la dimensione profondamente personale di ogni perdita.

Eppure, come affermava l’antropologa Mary Douglas in quegli stessi anni, “in quanto animale sociale, l’essere umano è un animale rituale”. Il suo invito era quello di ripensare il rito senza pregiudizi, intendendolo innanzitutto come una forma di comunicazione essenziale tanto sul piano individuale quanto sul piano collettivo, poiché ha il potenziale di connettere la sfera simbolica, l’esperienza soggettiva e il gruppo sociale. Nella pandemia, il venir meno delle forme consuete per  accompagnare ritualmente la fine, ci ha reso consapevoli delle conseguenze della mancanza della funzione integrativa del rito funebre, senza il quale è difficile trovare dei linguaggi (e dei momenti) condivisi per dire addio e per socializzare il lutto.

Per tornare alla domanda iniziale, credo che quando il rifiuto della ritualità sia una scelta personale, allora esso abbia di per sé quella funzione comunicativa di cui parla Douglas: “dire di no ai riti esprime qualcosa di profondo su di me al mio gruppo sociale”. Se invece non è una scelta, ma una costrizione, l’impossibilità di ritualizzare priva chi resta di una delle più importanti risorse culturali di cui disponiamo per far fronte alla morte.

2. Il Covid ha determinato anche molte nuove esperienze rituali, con cerimonie “inventate”, come quelle celebrate in alcuni ospedali. Come vedi questo fenomeno?

Al pari di quanto è avvenuto in precedenti situazioni di crisi sociale (le guerre, le catastrofi naturali, altre epidemie che hanno colpito in passato l’umanità), le forme socialmente codificate per accompagnare la morte e per dare risposta al bisogno collettivo di ritualità si sono dimostrate impercorribili o inadeguate a tutti i livelli: individuale, familiare, comunitario e sociale. In questo scenario, nei contesti più consapevoli e attenti molte persone hanno cercato di dare risposta a questi bisogni e si sono adoperate a “costruire” nuovi linguaggi per dire addio. Questi momenti di commemorazione sono stati importanti anche per gli operatori, penso ad esempio al caso degli ospedali e delle Rsa, dove anche chi ha lavorato ha condiviso la fatica, la sofferenza e il trauma della morte non adeguatamente accompagnata.

Anche noi, nel nostro piccolo, abbiamo collaborato con la SOCREM Torino per proporre delle commemorazioni rituali presso il Tempio Crematorio di Torino. Nel rito sono stati centrali i nomi delle persone decedute, i simboli naturali – l’albero, il sentiero, la pietra – e le “parole non dette” che le famiglie hanno potuto deporre in una teca posizionata lungo il percorso. Nelle varie settimane in cui si sono svolte le commemorazioni molti pensieri, poesie, disegni, testimonianze d’affetto e di dolore sono state affidate ai bigliettini bianchi che settimana dopo settimana riempivano la teca.

Credo che questi tentativi siano importanti e abbiano un valore umano e sociale soprattutto quando riescono a mettere al centro il vissuto dei protagonisti e offrono loro spazi di espressione (quando non sono “ritualisti”, ma rituali… per riprendere la prima riposta).

Tuttavia “costruire” nuovi riti non è facile, perché richiede la capacità di identificare i linguaggi giusti, di riconoscere dei bisogni che non sempre sono espliciti e di offrire cornici – luoghi, tempi, oggetti e simboli – perché questi bisogni possano esprimersi in modi significativi, lontani dalle retoriche e vicini piuttosto al vissuto profondo di chi partecipa al rito.

3. In molti casi si è usata la tecnologia per partecipare virtualmente a riti funebri ai quali era impossibile essere presenti. I funerali in streaming esistevano già, per le molte persone che hanno, per svariati motivi, esistenze transfrontaliere e affetti in paesi diversi. Pensi che sia l’inizio di una prassi destinata a diffondersi?

Su questo tema ho una visione ottimista. In passato mi era capitato di assistere a funerali transnazionali e, seppur con notevoli ostacoli tecnici, era stato l’unico modo per “stare insieme” a parenti e amici nonostante la distanza geografica. Non penso che i riti in streaming siano destinati a sostituire i funerali in presenza, ma le tecnologie “virtuali” possono senz’altro essere una risorsa in più. Esse, come hai detto bene, già esistevano, ma sono diventate parte della nostra normalità durante la pandemia: ora siamo più attrezzati e possiamo usarle con maggiore dimestichezza e con maggiore consapevolezza rispetto al passato.

4. Dopo la Prima guerra mondiale, quando in ogni famiglia c’era stato un lutto, si era celebrato un rituale di lutto collettivo a Roma, con l’inumazione del Milite ignoto; e altre cerimonie locali avevano avuto luogo nell’intero paese. Credi che avremmo dovuto (anche se non siamo in guerra) fare qualcosa di analogo per il Covid?

Nonostante le molteplici differenze fra il Covid e la guerra, credo che una risposta rituale istituzionale (che ancora manca)  sia doverosa e necessaria. I riti funebri non hanno solo una dimensione individuale, ma hanno anche una funzione collettiva estremamente potente. A seconda dei linguaggi che vengono utilizzati, un funerale pubblico può aggregare o dividere, ricomporre o spaccare una società. Credo che in questo momento sarebbe utile puntare su ciò che unisce, pensare a ritualità collettive che ricordino la nostra comune vulnerabilità, il dolore subito da tutti, le forme di resilienza e solidarietà messa in campo a livello comunitario. Questo forse faciliterebbe il rafforzamento di legami sociali che oggi sono piuttosto tesi e rischiano di polarizzarsi ulteriormente.

L’esempio della prima guerra mondiale mi sembra utile anche per riflettere sulla dimensione monumentale, parte essenziale della memoria storica: come si racconterà la pandemia attraverso i monumenti? Quali aspetti si sceglierà di inscrivere nella pietra o nel marmo? Sono scelte importanti su cui, con i tempi e le modalità giuste, credo sia necessario aprire un dibattito pubblico.

4. C’è qualcosa che avresti voluto dire e che non ti ho chiesto?

Mi sento di dire che il Covid è stata un’esperienza epocale che, in un modo o nell’altro, ha modificato le vite di ciascuno di noi. La pandemia, e tutto ciò che ad essa si può ricondurre, ci ha costretto a misurarci con il peso della solitudine e della vulnerabilità, a rivedere le nostre priorità e a ripensare molte cose che in passato tendevamo a dare per scontate, non solo la ritualità. Molti lavori in ambito storico e sociologico hanno rilevato che, quando le paure si attenuano, le grandi epidemie sono sovente seguite da fenomeni di amnesia sociale. Credo, dunque, sia necessario attivarsi fin da subito per non rimuovere la sofferenza individuale e collettiva che ha caratterizzato questo tempo complesso che siamo stati chiamati a vivere. Mi sembra che dare spazio a una pluralità di prospettive sulla pandemia, come stai facendo tu in questo blog, sia un primo passo fondamentale in questa direzione.

https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2021/12/153701-md-e1640162751163.jpg 265 350 sipuodiremorte https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2024/05/93409bba-2fe8-4231-86b3-36648bff989e.png sipuodiremorte2021-12-22 09:48:482021-12-22 09:48:48I riti funebri e il Covid, intervista a Cristina Vargas, di Marina Sozzi

La mappatura digitale dei cimiteri, di Davide Sisto

26 Novembre 2021/7 Commenti/in Ritualità/da sipuodiremorte

Il 2 novembre 2021 l’Osservatore Romano ha riportato la notizia del recente e ambizioso progetto tecnologico della Church of England: vale a dire la mappatura digitale dei suoi quasi ventimila cimiteri sparsi in tutto il territorio britannico. Il progetto, la cui realizzazione necessita di circa sette anni di lavori, ha preso il via presso l’antica chiesa di Saint Bega, all’interno della Diocesi di Carlisle, ed è il frutto della collaborazione tra la Church of England e la Atlantic Geomatics, una società che si occupa specificamente di rilevamento topografico. Il primo obiettivo è quello di inaugurare durante la primavera 2022 il sito web che permetterà agli utenti provenienti da tutto il mondo di accedere liberamente alla topografia di ogni cimitero. Si prevede che ogni operatore impegnato in questo innovativo progetto sarà in grado di rilevare circa nove o dieci siti cimiteriali al giorno, usufruendo di apparecchiature di scansione laser montate su uno zaino, nonché GPS e telecamere. In tal modo, i topografi dovrebbero velocemente mappare i vari luoghi cimiteriali, fotografando ogni singola lapide. L’Osservatore Romano evidenzia, quindi, come tutti i dati, a mano a mano che verranno raccolti, saranno uniti ad altre informazioni, «come quelle del National Biodiversity Network Atlas, per presentare quello che intende essere il quadro più completo dei cimiteri fino ad oggi redatto in Inghilterra».

Come viene indicato all’interno del sito web ufficiale della Church of England, la mappatura digitale dei quasi ventimila cimiteri inglesi è funzionale ai bisogni tanto delle piccole comunità locali, nel caso in cui vogliano ricostruire la loro storia, quanto delle singole persone, offrendo loro la possibilità di ritrovare informazioni utili sui propri cari defunti e sugli antenati, stando comodamente davanti allo schermo del proprio computer o del proprio smartphone. Ogni utente del sito web potrà visitare tutti i cimiteri del paese, potendo vedere in tempo reale la posizione dei loculi. Appositi registri digitali renderanno possibili ricerche di natura storica senza dover recarsi fisicamente all’interno dei vari cimiteri. Infine, la collaborazione con diverse società che si occupano di ricerca genealogica online dovrebbe rende particolarmente preciso il lavoro di mappatura, alleviando pertanto il lavoro amministrativo delle varie parrocchie.

Questo progetto della Church of England è l’ultimo di una lunga serie di singole iniziative volte a mettere a frutto le tecnologie digitali in vista di una visita interattiva ai cimiteri di tutto il mondo. Nel corso degli anni sono nate numerose applicazioni per smartphone (penso – per esempio – a Find A Grave) il cui obiettivo è permettere di viaggiare virtualmente tra le tombe dei cimiteri di tutto il mondo, magari ritrovando le tombe dei personaggi storici. Ma, finora, queste iniziative sono risultate alquanto sporadiche e imprecise, dal momento che presuppongono un lavoro di mappatura lungo e complesso, che non può essere realizzato senza i necessari finanziamenti. La Church of England pare, invece, intenzionata a rivoluzionare in modo concreto le caratteristiche delle ricerche e delle visite ai cimiteri, ampliando quell’idea di vivere dentro spazi oramai digitalmente integrati che connota l’epoca contemporanea. Tra QR Code sulle tombe, che permettono di accedere a un numero sempre più cospicuo di informazioni relative al defunto, le enciclopedie dei morti, con cui si identificano già oggi i social media come Facebook, e la mappatura digitale dei cimiteri ci ritroveremo, molto probabilmente, in un futuro prossimo in cui le storie personali degli individui deceduti saranno ricche di dati e descrizioni biografiche, poste all’interno di ricostruzioni genealogiche in grado di contrastare gli effetti naturali dell’oblio.

Dal mio punto di vista, questo tipo di iniziative sono molto affascinanti e non tolgono assolutamente nulla al piacere individuale di recarsi a far visita fisicamente ai propri cari nel singolo cimitero locale. Semmai, ampliano le possibilità di conservare la memoria di chi non c’è più, offrendo l’ennesima dimostrazione di come la rivoluzione digitale stia intercettando quasi più la presenza spettrale dei morti che quella delle persone in vita.

Voi, cosa ne pensate della mappatura digitale dei cimiteri? Attendiamo, come sempre, i vostri commenti.

https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2021/11/1457351447-facebook-morte-e1637840974885.jpg 265 349 sipuodiremorte https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2024/05/93409bba-2fe8-4231-86b3-36648bff989e.png sipuodiremorte2021-11-26 09:00:002021-11-25 12:53:45La mappatura digitale dei cimiteri, di Davide Sisto

Formazione tanatologica e Covid-19. Intervista a Maria Angela Gelati, di Davide Sisto

27 Giugno 2021/2 Commenti/in Ritualità/da sipuodiremorte

Abbiamo intervistato Maria Angela Gelati, che si occupa da diversi anni di formazione nell’ambito della Death Education, con sempre maggiori approfondimenti sul tema della morte e del morire. Nel 2007, insieme a Marco Pipitone ha ideato Il Rumore del Lutto, un’importante rassegna culturale che si svolge ogni anno a Parma e che è finalizzata ad attivare un dialogo profondo e multiforme, culturale e scientifico, per accettare la morte. Nel 2016 ha co-fondato l’Associazione Segnali di Vita e il Gruppo Nazionale di Lavoro Stanza del Silenzio e dei Culti. Ha scritto diversi libri, tra cui due favole per bambini: Mi chiamo Happy(Mursia, 2020) e L’albero della vita (Mursia 2015).

Cara Maria Angela, tenuto conto della tua esperienza decennale, come pensi sia cambiata la formazione degli operatori funebri durante il Covid-19?

La formazione dovrebbe essere un aspetto imprescindibile e preliminare rispetto a qualsiasi tipo di attività, in particolar modo per quanto riguarda la delicata gestione dei servizi funerari. Durante il Covid-19, i limiti dettati dalle disposizioni normative per limitare il contagio, hanno però fortemente condizionato i riti del commiato. Gli operatori funerari hanno avuto spazi temporali molto ridotti per adeguarsi alle repentine chiusure e sospensioni dei passaggi rituali destinati ad accogliere i familiari, con sensibilità e rispetto. La mancanza di queste basilari azioni ha inciso sulle modalità di preparazione del defunto, privato anche del rito della vestizione o di altra cerimonia alternativa. L’impossibilità per i familiari di vedere e toccare il corpo del defunto, perché la bara, per ineludibili motivi sanitari, andava chiusa in fretta, ha determinato una sorta di commiato sospeso, quasi pietrificato.

Il non poter fruire delle consuete forme del rito ha determinato nell’operatore funerario e nel cerimoniere la ricerca di soluzioni alternative, nel pensare a modalità che permettessero di restituire quei tasselli di vita sospesi, attivando una dimensione creativa e sempre più personalizza del rito, in accordo con le esigenze dei familiari.

In questa fase, anche la formazione ha dovuto, per forza di cose, essere adattata a tali esigenze. Prima di tutto, con la preparazione di corsi online, il cui positivo riscontro da parte degli operatori funerari ha consentito di attivare moduli formativi destinati a dare immediata risposta alle esigenze professionali. Poi, con la creazione di schemi rituali, adattabili in base alle necessità dei familiari, e di indicazioni per preparare riti di congedo in streaming.

Un aspetto importante della formazione riguarda i partecipanti ai corsi online, poiché nei contesti di cura, all’interno dei gruppi di lavoro, si è avvertito il bisogno, anche per chi non rivestiva il ruolo di cerimoniere, di riservare uno spazio e un tempo di ripensamento virtuale; una sorta di contenitore rituale in cui far rivivere le esperienze personali per restituire il nome e la storia di vita alle numerose persone morte in condizioni di isolamento e anonimato, per rendere possibile la condivisione in gruppo di riti di congedo.

Collegandomi alla precedente domanda, come pensi sia cambiato in generale, dal tuo punto di vista di tanatologa, il nostro approccio alla morte con il Covid-19 e quali pensi siano stati gli atteggiamenti sociali non adatti, sulla base di una generale impreparazione a pensare alla morte?

Se il rito funebre ha costituito il momento cardine di agevolazione nella fase di accompagnamento del morente, nell’attuale era del Covid-19 la fase di elaborazione del lutto inizia senza un abbraccio, con la solitudine dei familiari, inasprita dall’impossibilità di stare accanto ai familiari ospedalizzati e dove l’assenza dei passaggi fondamentali di un rituale priva del racconto delle storie di vita l’identità delle persone.

I tentativi di far scomparire la morte, di condannarla al vuoto culturale, con conseguenti profondi stravolgimenti, hanno minato l’equilibrio e la stabilità delle cerimonie funebri, già incrinata dalla progressiva crisi dei riti comunitari tradizionali.

Gli aspetti più significativi e, al contempo, impietosi hanno riguardato le circostanze del morire e la perdita di significato e di utilità del rito, una sorta di lutto nel lutto, in cui la separazione dal momento del ricovero ospedaliero, l’imposizione delle distanze, la privazione del funerale dopo il decesso hanno paralizzato il riconoscimento del diritto al lutto.

La mancanza delle fasi rituali di accompagnamento del defunto non inibisce il percorso di elaborazione del lutto, che avviene comunque, anche se il processo inconscio di guarigione della ferita psicologica viene diluito e dilatato nel tempo.

L’abitudine culturale a voler escludere e rimuovere il pensiero della morte dalla quotidianità può comportare vere e proprie manifestazioni di paura, come hanno dimostrato le reazioni alla quarantena da parte dei social network – a volte eccessive e irrazionali. Dare uno spazio più consistente alle attività che fanno parte della Death Education significa anche essere consapevoli della propria mortalità, e quindi preparati a disporre del testamento biologico e digitale.

Se, da un lato, la potenzialità degli strumenti digitali, con l’incremento dei funerali telematici, ha costituito e costituisce un’efficace soluzione a superare la carenza degli aspetti rituali tradizionali, dall’altro, l’utilizzo inadeguato e sconsiderato di questi sistemi potrebbe vanificare il significato della cerimonia, rendendo – qualora si utilizzi lo smartphone o si entri in un social network – una patologica sovrapposizione del passato al presente, riproducendo, in continuazione, il saluto d’addio del rito funebre, e quindi rendendo l’elaborazione del lutto più difficile e faticosa di quanto già non lo sia senza la cerimonia funebre.

Infine, sulla base delle tue pubblicazioni per i bambini, ti chiederei due brevi considerazioni sull’educazione infantile alla morte, specie dopo questa lunga pandemia.

Le ultime generazioni degli adulti sono vissute in ambienti in cui ogni aspetto legato alla morte ed al morire è passato interamente ai protocolli degli ospedali e delle case funerarie, privando l’ambiente familiare di questa particolare esperienza. E come gli adulti, anche i bambini, che non hanno visto morire i nonni, i parenti o i conoscenti, non sono in grado di gestire tali eventi.

Il non sapere cosa fare, anche dal solo punto di vista rituale, quando qualcuno muore, ha attivato stravaganti elaborazioni psicologiche, non realistiche, che non tengono conto dei cambiamenti avvenuti e che continuano a verificarsi: ad esempio quella, assolutamente non veritiera, per la quale i bambini non sono in grado di comprendere che cosa significhi morire e, se avessero anche la capacità di comprenderne gli effetti, ne rimarrebbero traumatizzati.

I bambini, che di fronte all’evento luttuoso sono più in sintonia di quanto non si creda con i sentimenti degli adulti, devono invece essere coinvolti nell’esprimere i pensieri e raccontare i loro ricordi legati alla persona che non è più.

È fondamentale, per l’educatore o l’adulto, per l’operatore rituale e il volontario, introdurre e gestire l’argomento morte sulla base di specifiche competenze. Con il ricorso alla Death Education è possibile introdurre una modalità educativa, organizzata su diversi livelli di apprendimento, con la finalità di reinserire il concetto di morte nella autenticità della vita, insinuando nei bambini, adolescenti e adulti la capacità di comprendere che cosa significa vivere e dover morire.

È stato possibile attivare l’educazione del bambino alla morte, anche on line, laddove docenti di scuola e famiglie siano stati in grado di considerarne il valore e l’efficacia.

In questo periodo di cambiamenti e trasformazioni, il momento personalizzante ha necessità ora di creare, seppur a distanza, le condizioni per convertire in parole ed in azioni il dolore e la sofferenza, anche per i più giovani.

Poiché non esistono modalità particolari di commemorazione, i rituali possono essere resi attivi in qualsiasi momento, anche da casa, individuando lo spazio o l’ambiente più consono per rendere solenne quel momento.

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I funerali in streaming nel mondo non occidentale, di Davide Sisto

12 Gennaio 2021/0 Commenti/in Ritualità/da sipuodiremorte

Nei primi giorni del 2021 si è diffusa nel mondo la notizia relativa al fatto che Microsoft sta pensando di utilizzare l’intelligenza artificiale per creare un “chatbot” che ci permetta di dialogare con i nostri cari defunti. In termini meno tecnici, si tratta di dare autonomia a tutte le tracce dell’esistenza del singolo individuo, che sono state progressivamente condivise nel mondo online sotto forma di parole scritte, registrazioni vocali e video: tali tracce vengono cioè rielaborate artificialmente, in modo tale da creare lo spettro digitale del morto, il quale ha il compito di sostituire il suo gemello biologico una volta che è deceduto.

Di questi temi ho parlato spesso nel blog, quindi non mi soffermo ulteriormente sulle conseguenze di una simile invenzione. Menziono però questa notizia perché per la prima volta un colosso commerciale come Microsoft si è interessato a un simile fenomeno, finora diffuso soltanto tra scienziati particolarmente propensi a rendere reali i propri sogni fantascientifici. Ciò testimonia in maniera cristallina il segno dei tempi: la tecnologia interferisce sempre di più nel legame tra il vivere e il morire, dunque dovremo abituarci a tenerne conto in tutti i percorsi formativi che concernono le problematiche riguardanti il fine vita. Ne dovremmo tener conto ancor di più una volta superata l’emergenza pandemica che stiamo vivendo: le reclusioni casalinghe dei corpi, nel corso dei vari lockdown, hanno infatti accelerato il processo che tende a sostituirli o a prolungarli tramite i “corpi digitali” proiettati attraverso gli schermi.

Se gli spettri digitali dei morti rappresentano la conseguenza più estrema dell’interferenza tecnologica tra il vivere e il morire, vi sono altri aspetti di natura culturale o rituale che fanno ora ampiamente parte della nostra vita quotidiana: sto pensando, per esempio, ai funerali in streaming, i quali hanno permesso ai dolenti di partecipare – a distanza – alle funzioni funebri nelle fasi più restrittive del lockdown.

Ma i funerali in streaming sono un’esclusiva del mondo occidentale fortemente tecnologizzato o sono diffusi in tutto il mondo, al di là delle differenze religiose, culturali, sociali, ecc.? La risposta, sulla base di ciò che si legge sui giornali internazionali, va nella direzione della seconda opzione. Non vi è, cioè, territorio nel mondo che non abbia deciso di adottare le tecnologie digitali per le ritualità funebri, di modo da evitare assembramenti nocivi alla salute dei cittadini e ciò è accaduto al di là del numero di cittadini dotato di una funzionante connessione al web.

Ad esempio, in Africa, risalta la situazione che si è verificata in Ghana, paese prevalentemente cristiano. I suoi eccentrici riti funebri sono famosi in tutto il mondo: i funerali possono durare anche sei-sette giorni, coinvolgendo centinaia di persone, tra le quali vi sono anche coloro che vengono pagati per piangere il caro estinto. Durante il Covid-19, il presidente del Ghana ha sospeso questo tipo di ritualità: non più di 25 persone possono partecipare al funerale, il quale è trasmesso online e in streaming per permettere a tutte le altre persone della comunità di essere presenti. Una giornalista locale ha evidenziato la stranezza di stare in jeans o, addirittura, in pigiama durante la cerimonia funebre, a cui ha partecipato stando davanti allo schermo. La CNN ha addirittura parlato di una tradizione funebre centenaria che, di colpo, si è radicalmente tecnologizzata, affrontando una metamorfosi i cui esiti futuri sono del tutto incerti.

In India non vi è pluralità religiosa che tenga: tutti i riti si sono trasferiti ugualmente sulla piattaforma Zoom. I luoghi sacri in cui si celebra il funerale vengono invasi da telecamere e microfoni i quali permettono la celebrazione del rito. Si stima, invece, che i siti web dei cimiteri pubblici di Shanghai abbiano ricevuto quasi un milione di visite da metà marzo a fine aprile 2020. Mentre in Giappone è divenuta quotidiana l’espressione “net yohai” per descrivere il funerale trasmesso in streaming: net significa “essere online” mentre yohai indica l’atto del pregare senza visitare il tempio o la chiesa. In molti altri paesi orientali, soprattutto la Corea del Sud e la Cina, la mutazione digitale delle ritualità tradizionali è in corso da diverso tempo: i cimiteri, da molti anni, sono dotati di telecamere e di connessione wifi per permettere ai cittadini lavoratori di prendere parte ai funerali o di far visita alla tomba del proprio caro tramite gli schermi, non potendo lasciare il posto di lavoro.

Le interpretazioni di questi fenomeni sono alquanto complesse e varie, richiedendo – a mio avviso – la capacità di mantenere un atteggiamento che non sia né eccessivamente apocalittico né superficialmente entusiastico. Man mano che passano gli anni, il mondo sarà sempre più popolato da cittadini “iperconnessi” fin dalle scuole elementari. L’integrazione tra mondo online e mondo offline obbliga, pertanto, a compiere riflessioni che tengano conto del mutamento ritualistico in corso, implicando uno studio attento delle caratteristiche sia tecniche sia psicologico-antropologico-filosofiche degli strumenti digitali. Solo così, riusciremo a evitare gli effetti più negativi di questa invasività tecnologica (la distanza, la solitudine, l’assenza), mettendo a frutto il nuovo modo di stare al mondo. Voi cosa ne pensate? Attendiamo i vostri commenti e le vostre esperienze.

https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2021/01/messa-in-streaming-e1610387650392.jpg 264 350 sipuodiremorte https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2024/05/93409bba-2fe8-4231-86b3-36648bff989e.png sipuodiremorte2021-01-12 09:24:512021-01-12 09:24:53I funerali in streaming nel mondo non occidentale, di Davide Sisto

Uniti nelle diversità. I riti funebri degli altri, di Marina Sozzi

2 Novembre 2020/2 Commenti/in Ritualità/da sipuodiremorte

Nel giorno dedicato alla commemorazione dei defunti, vorrei fare una considerazione che, alla luce di ciò che abbiamo vissuto in primavera con il Covid (e che in parte viviamo ancora oggi), dovrebbe essere chiara a tutti: non poter fare un funerale, religioso o laico, procura una sofferenza particolare, un terribile senso di vuoto e di non compiuto, che è un pessimo auspicio anche per la successiva elaborazione del lutto. L’addio ai propri defunti con il sostegno e la partecipazione della comunità conta dunque, e qualora se ne sia privati, non solo manca, ma destabilizza, angoscia.

Per questo dobbiamo far tesoro della nostra triste esperienza e riconoscere, oggi più che in passato, il diritto per tutte le comunità residenti sul nostro territorio, ma diverse per usanze o religione, di svolgere i riti della propria tradizione. A questo scopo il Tavolo Interreligioso di Roma, Socrem Novara ed Exitus hanno organizzato, con l’aiuto di Avventura Urbana, un Town Meeting (che è un evento partecipativo che garantisce la possibilità di coinvolgere direttamente i cittadini in merito alle politiche da realizzare in un territorio) dal titolo Uniti nelle diversità. Il diritto a un rito funebre secondo la propria tradizione. L’intento era dar voce a questa esigenza, condividendola con tutti quegli esponenti delle fedi, delle istituzioni e della società civile che hanno accolto l’invito.

Il Town Meeting, che si è svolto online per via del Covid, ha permesso in primo luogo di mettere in luce le principali criticità della situazione odierna, tra cui: 1) la mancanza di spazi per i riti funebri. Spesso in ospedale mancano spazi adeguati per il lavaggio rituale delle salme, praticato da ebrei e islamici, o le camere mortuarie sono pensate solo per la dimensione cattolica dell’addio. E nelle aree urbane mancano sale del Commiato capaci di accogliere riti differenti. 2) la frequente assenza di spazi dedicati alle diverse pratiche religiose nei cimiteri, 3) la scarsa conoscenza dei riti altrui (non cattolici) da parte degli operatori sanitari e funerari, che provoca disagio sia durante l’accompagnamento dei propri cari, sia dopo la loro morte, 4) la mancanza, in molte realtà in cui ci si occupa di fine vita, e negli ospedali, di assistenti religiosi o spirituali (anche laici).

Che fare dunque per migliorare questa situazione? Nel Town Meeting si è discusso su quali soluzioni concrete potrebbero essere adottate per rispondere alle esigenze di tutti. Si è parlato della necessità di adottare linee guida nazionali capaci di orientare i territori, le comunità locali e gli attori che si occupano di cura e di fine vita. Ed è forse una soluzione più saggia di quella che prevede accordi tra lo Stato italiano e le comunità, perché talvolta tali accordi si sono mostrati, a livello nazionale, complessi, ad esempio perché esiste più di un soggetto che intende rappresentare una certa religione, e magari le varie realtà non hanno posizioni sovrapponibili.

Si è parlato inoltre di fare formazione e informazione sulle pratiche religiose “degli altri”. È importante conoscere e diffondere le esigenze delle diverse confessioni e le loro ritualità: ad esempio nel buddismo il funerale è l’unico reale sacramento della religione, e per questo di fondamentale rilevanza.

Per molte confessioni “come muori” e “come viene trattata la tua salma” sono quasi più importanti della vita stessa, dunque è necessario un processo lungo di sensibilizzazione che richiede la collaborazione di tutti. Le minoranze dovrebbero farsi conoscere e manifestare la propria identità senza avere paura di essere giudicati (“bisogna trasmettere i propri principi e la propria cultura”). La maggioranza dovrebbe dimostrare maggiore apertura e capacità di accoglienza e comprensione degli Altri Addii, per ricordare il titolo di un volumetto del 2010 curato da Alessandro Gusman per Fondazione Fabretti, ancora oggi molto utile. La mancanza di conoscenza, infatti, alimenta la diffidenza, il timore, e di conseguenza il razzismo.

Ricordiamo che la nostra Costituzione garantisce, all’articolo 19, il diritto a professare liberamente la propria fede religiosa in qualsiasi forma, ma – anche per la difficoltà che la nostra cultura ha nei confronti del tema della morte – la libertà di espletare le pratiche funerarie della propria tradizione religiosa è spesso ancora un diritto che esiste solo sulla carta.

Occorre dunque essere concreti, lavorare per diffondere maggiori conoscenze sui riti funebri, e per creare un’atmosfera culturale maggiormente inclusiva, aperta e disponibile ad accogliere la differenza.

Siete d’accordo? Cosa pensate in proposito? Avete mai assistito a riti di tradizioni religiose diverse dalla vostra?

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I riti funebri e la pandemia, di Marina Sozzi

15 Maggio 2020/10 Commenti/in Ritualità/da sipuodiremorte

A chi segue questo blog da un certo numero di anni, sarà familiare il concetto di crisi rituale: da diversi decenni, nel nostro Paese (ma non solo) siamo di fronte a un diffuso disagio. Più volte abbiamo notato, prima della pandemia, come i riti della tradizione cattolica, in un mondo molto secolarizzato, abbiano perso l’efficacia e il potere consolatorio che avevano in passato, quando la preoccupazione per la vita ultraterrena era più rilevante. Viceversa, si è sentita molto l’esigenza di commemorare in modo più personale coloro che ci hanno lasciati, ricordando il loro ruolo, i loro affetti, il loro lascito, il loro contributo alla vita terrena.

Alcuni parroci hanno accolto questa istanza dei parenti, alcuni crematori hanno costruito cerimonie laiche, e il profilo di una nuova figura professionale, il cerimoniere, comincia a farsi strada. In tutto questo, una sottile vena antiritualista si era comunque infiltrata nelle menti dei nostri contemporanei, soprattutto relativamente all’usanza di recarsi al cimitero. «Preferisco ricordarlo com’era in vita» è una frase frequentemente ascoltata nelle interviste su questi temi, e si è parlato di una memoria della mente e del cuore.

La nostra non è certamente la prima crisi rituale della storia europea. Una molto più violenta si è avuta alla fine del Settecento, quando lo spostamento dei cimiteri fuori le mura per la scelta igienista di alcuni sovrani illuminati aveva impedito a chi aveva perduto un congiunto di seguire il feretro fino alla sepoltura. In quel periodo, inoltre, la nascita dell’individuo moderno aveva messo in crisi la prassi della fossa comune. Fu Napoleone a dare una spinta importante per la risoluzione della crisi funebre, istituendo la sepoltura individuale e dando origine ai cimiteri monumentali.

Ora, che cosa sta accadendo durante l’epidemia di Covid-19? Il divieto, per mantenere il distanziamento sociale, di celebrare riti funebri e di recarsi al cimitero ha avuto un impatto fortissimo sui cittadini italiani. Unito all’impossibilità di accompagnare i propri cari alla fine della vita, ha determinato sovente dei lutti pieni di rabbia e disperazione, che ci inducono a ripensare il panorama funebre contemporaneo alla luce del Covid -19.

La prima osservazione da fare riguarda la sottovalutazione dell’importanza del rito funebre che è stata fatta. Occorre ricomprendere l’insostituibile funzione del rito. Il rito lenisce la ferita che la morte infligge nel corpo sociale, ribadendo che la vita può continuare nonostante la morte; il rito mette ordine, laddove la morte minaccia la vita in quanto irruzione in essa del caos; il rito ci ricorda che la morte di un membro della società è un evento sociale, non un avvenimento individuale o familiare che si vive in solitudine; il rito assegna una collocazione al defunto (qualunque sia questa collocazione, tra gli antenati, in un altro mondo, o nel ricordo di chi l’ha conosciuto); il rito ci permette di smaltire il corpo morto, ma senza venir meno alla consapevolezza che quel corpo è stato persona, ancora presente nella mente dei suoi cari. Il rito, infine, dà origine al periodo del lutto, legittimandolo.
E accanto al rito occorrono luoghi funebri accoglienti, rassicuranti, pieni di bellezza (un tema, anche questo, che abbiamo trattato e che tratteremo in futuro)

E’ quindi più chiaro perché la mancanza di un rito funebre e l’impossibilità di recarsi al cimitero abbia sconvolto il rapporto con la morte dei nostri connazionali. Forse l’impatto del dolore senza nome che è entrato nelle famiglie in lutto è stato sottovalutato dalle autorità chiamate a stabilire le regole in questo terribile momento di pandemia. Forse si sarebbe potuto cercare di trovare un modo per non cancellare i riti funebri. E tuttavia, del senno del poi…

La prima considerazione che viene in mente è che il Covid – 19 abbia acceso la luce sul bisogno di riti che abbiamo. E forse potrebbe essere questa dolorosa contingenza a spingerci a modificare i nostri riti per renderli più efficaci, più adeguati ai bisogni contemporanei. Senza lasciarci trascinare dalle mode, dalla dimensione “inventiva” e creativa, in cui ciascuno costruisce il proprio addio da bricoleur.
Restando ancorati a ciò che ha una storia e radici nella coscienza collettiva, religioso o laico che sia, occorre dare spazio alla dimensione personale e individuale. Nella nostra cultura la visione dell’individuo come un unicum è molto forte, e nel commiato c’è bisogno di raccontare chi è stata la persona che è morta, cosa ha realizzato nella vita, se ha saputo amare, quale lascito etico e affettivo ci consegna.

E proprio ragionando su questa esigenza, si può riflettere a cosa si può fare per lenire il dolore di coloro che non hanno potuto celebrare riti funebri.

Ci vorrà una grande cerimonia collettiva, è indubbio. Mantenendo le debite differenze, qualcosa di simile a ciò che è stato fatto dopo la Prima guerra mondiale, con la celebrazione del milite ignoto. Tuttavia, non solo grazie a Dio non siamo in guerra, ma conosciamo i nomi di coloro che sono morti. Dovremo pronunciarli, questi nomi. Mi viene in mente a Gerusalemme, a Yad Vashem, l’edificio che conserva la memoria dei bambini morti nella Shoah. Si entra in una camera oscura attraverso un cunicolo che ci fa sprofondare nella terra, la stanza è fiocamente illuminata da lumini che si accendono nell’oscurità, e per ventiquattro ore al giorno una registrazione pronuncia i nomi dei bambini uccisi: il nome, il paese di provenienza, l’età. Si esce con un’emozione travolgente. La forza dei nomi. La pandemia non ha nulla a che fare con la Shoah, ma dovremo ricordarci la forza commemorativa del pronunciare i nomi.

Inoltre, accanto a una grande cerimonia commemorativa, ci vorranno tante piccole occasioni locali di condivisione della memoria. Alcune istituzioni, come l’associazione Maria Bianchi, ne stanno già proponendo alcune, che potete leggere qui, anche per organizzarne e immaginarne altre, in altri luoghi del Paese, soprattutto i più colpiti dal Covid-19.

Cosa ne pensate? Ritenete anche voi che sia il momento di imprimere un cambiamento nella nostra ritualità funebre? Pensate che ci voglia una cerimonia collettiva per coloro che abbiamo perso nella pandemia? Come la fareste?

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I riti degli altri. L’islam, di Marina Sozzi

25 Marzo 2019/7 Commenti/in Ritualità/da sipuodiremorte

In un contesto politico come l’attuale, dove si è estremizzato il problema dell’immigrazione ben oltre la sua reale portata per il paese, apparirà controcorrente parlare di riti funebri degli immigrati. Eppure, questo è un aspetto dell’integrazione auspicabile, che non ha perso valore perché se ne parla meno di anni fa.

Molti hanno letto il bellissimo libro Naufraghi senza volto, di Cristina Cattaneo, medico legale impegnata a dare un nome, un’identità e se possibile un rito ai cadaveri ritrovati nel Mediterraneo. Ma non tutti muoiono in mare, per fortuna, e il nostro paese ha un’immigrazione composita, sia dal punto di vista della provenienza geografica, sia da quello delle molteplici “fattispecie”: immigrati regolari residenti, richiedenti asilo, e clandestini. In totale, comprendendo anche gli immigrati comunitari, si giunge a un numero approssimativo di 6 milioni di persone, il 10% della popolazione.

Anni fa il tema della morte degli immigrati era meno attuale, essendo l’immigrazione costituita da giovani venuti in Italia per lavorare, e che spesso avevano il sogno del ritorno in patria. Ma poco per volta le cose stanno cambiando, anche per via dei ricongiungimenti familiari che hanno mutato il progetto migratorio e visto giungere nel nostro paese anche degli anziani. E, purtroppo, muoiono anche i giovani.

Le strutture sanitarie e gli hospice, infatti, si interrogano sovente sui costumi che varie culture rappresentate nel nostro paese hanno intorno al tema della morte e dei rituali, perché temono di non essere all’altezza di accompagnare persone di altre culture o religioni. Per questo vorrei riprendere su questo sito una ricerca che condotta anni fa, nel 2010, da Alessandro Gusman in collaborazione con altri antropologi, che ha dato vita al volume Gli Altri Addii, e che certo avrebbe bisogno, oggi, di essere ripetuta e ampliata. Tuttavia, alcune indicazioni di carattere generale sono probabilmente ancora valide.

Cominciamo dal rito islamico, senza mai dimenticare che, come ci sono tanti cattolicesimi quanti sono i cattolici nel mondo, lo stesso vale per la religione musulmana. Non solo le forme di religione musulmana variano con il paese di origine, la corrente religiosa (sunniti o sciiti), ma anche (questo non va mai dimenticato) le esperienze degli individui, la loro storia di migrazione, la loro personalità.

Per quanto riguarda i riti funebri, in particolare, solo poche prescrizioni essenziali giungono dal Corano. La maggior parte si ritrovano nella Sunna, raccolta di insegnamenti etici e giuridici per la comunità musulmana, originariamente orali. E per il resto, conta la tradizione popolare, soprattutto per quanto riguarda gli aspetti sociali del rito e il periodo del lutto. Questa è la ragione per cui si trovano nel mondo musulmano forme molto diverse tra loro di svolgimento del rito funebre, ispirate a una differente religiosità popolare a seconda della zona di provenienza.

L’essenziale, però, è semplice e asciutto. E’ importante che intorno al morente siano presenti parenti e amici, per fagli coraggio ed essere testimoni della sua ultima professione di fede.

Quando una persona di religione islamica muore, deve essere sepolta entro ventiquattro ore. L’elemento irrinunciabile del processo funebre è però il lavaggio rituale della salma, che ha il significato di una purificazione, e i cui gesti sono codificati nella Sunna. Il lavaggio deve essere fatto da familiari o amici del defunto, dello stesso sesso (tranne nel caso del coniuge), partendo dalle estremità superiori del corpo e procedendo verso quelle inferiori. La testa deve essere un po’ sollevata, così che l’acqua scorra dall’alto verso il basso. Alla fine del lavaggio, il corpo morto è avvolto da un numero dispari di teli bianchi, tre per gli uomini e cinque per le donne. L’integrità del corpo è molto importante.

Prima della sepoltura occorre anche recitare delle orazioni, in una moschea o in un altro luogo di preghiera. Alla glorificazione di Allah, alla benedizione del suo profeta, seguono le invocazioni in favore del defunto. Non è indispensabile che sia presente un imam, la preghiera può essere guidata da un familiare.

Poi ci si reca al luogo dell’inumazione, trasportando il morto su una lettiga. Il corpo deve essere calato nella fossa tradizionalmente senza bara, su un fianco, con la testa orientata verso la Mecca. La tomba è di estrema semplicità, senza foto né fiori, delimitata solo da pietre, mentre ogni altro tipo di sepoltura, la cremazione ma anche la tumulazione, sono vietate. I musulmani dovrebbero essere sepolti tra altri musulmani, il che richiede, nel paese di accoglienza, la disponibilità dei Comuni a riservare agli islamici aree specifiche del cimitero.

A questo essenziale processo funebre si aggiungono, in diverse zone del mondo musulmano, pasti offerti dalla famiglia ai partecipanti al funerale, per ribadire che la vita continua dopo la morte e che la comunità dei vivi è coesa intorno a chi ha subìto una perdita; inoltre, talora sono in uso visite alla tomba nel quarantesimo giorno dopo la morte, accompagnate da distribuzione di elemosine e cibo (pane e fichi) agli indigenti e ai custodi del cimitero.

La presenza delle donne ai funerali è tollerata in alcuni luoghi ed esclusa in altri: occorre non disperarsi per la morte, è necessario ostentare misura nei gesti, per testimoniare la fede nella resurrezione. Ma anche questa indicazione non è universale nel mondo islamico.

Ora, descritto sinteticamente l’essenziale del rito islamico, che cosa accade quando i musulmani vivono in terra d’accoglienza, e in particolare in Italia?

Il lavaggio rituale della salma viene in genere eseguito nelle sale autoptiche degli ospedali o degli obitori, da volontari della comunità islamica che ne conoscono i gesti. La sepoltura entro un giorno non è quasi mai possibile in Italia: le nostre leggi chiedono che la sepoltura avvenga dopo un minimo di 24 ore (che diventano 48 in caso di morte improvvisa), ma tradizionalmente i tempi sono più dilatati. Inoltre, per la legge italiana occorre seppellire con la bara, per ragioni di igiene pubblica. Se poi la scelta ricade non su una sepoltura in terra d’accoglienza, ma sul rimpatrio della salma, la deritualizzazione della morte musulmana è inevitabile: la spedizione del corpo del defunto deve avvenire mediante bara foderata di zinco, una bara che non potrà più essere aperta nel paese di origine. Sovente infatti la spedizione richiede un certo numero di giorni, affinché sia possibile sia raccogliere la cifra necessaria per il volo aereo della bara, sia espletare le pratiche burocratiche.

Altra questione è quella del cimitero. I nostri cimiteri sono organizzati con una rotazione delle fosse, ogni circa dieci anni (e i resti vengono posti negli ossari comuni), mentre gli spazi, anche privati, sono assegnati in concessione al massimo per 99 anni. Per i musulmani, invece, la sepoltura è definitiva, e non è prevista alcuna esumazione.

In genere gli islamici con cui ho parlato nel corso degli anni non si sono mai lamentati dello squallore delle sale autoptiche, con le loro gelide apparecchiature, dove viene loro permesso di fare il lavaggio rituale. Comprendono, inoltre, che non è possibile derogare rispetto alle leggi, per cui nessuno ha mai chiesto di seppellire senza bara o prima del tempo stabilito. I principali problemi, che negli anni scorsi sono emersi, riguardano le aree islamiche nei nostri cimiteri, presenti non in tutte le città.

Sarei molto interessata a sapere la vostra opinione sugli “altri addii”: è importante offrire agli appartenenti a religioni minoritarie, o a minoranze etniche, le condizioni per poter compiere i riti della loro tradizione? Avete episodi da raccontare in merito? O vostre riflessioni?

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