Uno sguardo su Tanexpo 2022, di Cristina Vargas
Dopo aver lavorato nel campo del fine vita per più di quindici anni, e aver sentito tutti i racconti possibili e immaginabili su Tanexpo, quest’anno per la prima volta ho avuto l’occasione di aggirarmi per due giorni come “osservatrice partecipante” fra i padiglioni di Bologna Fiere.
Per chi non lo sapesse, Tanexpo è una delle più importanti fiere dell’imprenditoria funebre. Accoglie espositori di 57 nazioni ed è, per citare le parole degli stessi organizzatori, “La più grande ed esclusiva vetrina della funeraria internazionale”. Coinvolta in uno degli stand, ho vissuto i tre giorni della manifestazione come un’occasione impareggiabile per riflettere sul complesso mondo delle imprese che, a vario titolo, si occupano di fine vita. Mi sembrava, inoltre, una buona opportunità per fare una prima mappatura delle continuità, delle discontinuità e delle innovazione nell’ambito dell’imprenditoria funeraria in seguito all’esperienza della pandemia.
È difficile fare una descrizione esaustiva della fiera, e ancor più complicato, se non impossibile, tentare di trarre un’analisi approfondita a partire da un’esperienza circoscritta. Vorrei piuttosto proporre, in questo articolo, una piccola raccolta di impressioni, immagini e pensieri che non pretendono di essere un insieme coerente e che mi piacerebbe commentare e integrare con le opinioni di tutti voi lettori.
È il mercoledì 22 giugno ed è una caldissima mattinata bolognese. Arrivo a Bologna Fiere e, appena entro nei padiglioni di Tanexpo, vedo in primissimo piano un’ampia gamma di feretri e urne in ogni materiale e colore; al centro ci sono le lunghe, tecnicissime e lussuose auto funebri e, accanto a loro, i marmi, l’arte religiosa e tutti gli oggetti che caratterizzano la ritualità funebre occidentale. È un ambiente commerciale e ogni cosa è in vendita. Tuttavia, oltre ad essere “merci”, questi oggetti sono il “marchio” della fiera; le colonne portanti di un linguaggio e di una modalità cerimoniale saldamente radicata da cui non è facile (e forse è inutile) discostarsi in modo brusco.
Per “scovare” forme rituali innovative è necessario addentrarsi fra gli stand. Dopo vari giri, in un angolo piccolo e poco visibile che promuove i funerali ecologici o Green Burials, trovo una proposta che mi sembra molto affascinante. Si tratta dei Reef Burials, una forma di destinazione delle ceneri che prevede la collocazione di queste (mescolate con altre sostanze in parte biodegradabili) in una struttura di cemento a forma di roccia bucata, che viene posizionata nella barriera corallina e lentamente si integra nell’ecosistema marino contribuendo a prevenirne l’erosione. Rispetto alla dispersione in mare, la differenza più significativa è che il luogo rimane riconoscibile e può essere visitato con la normale attrezzatura per le immersioni subacquee. I costi, però, sono piuttosto elevati ed è una modalità che in Italia al momento è possibile in un unico luogo. Le opzioni più attente all’ecologia sono ancora minoritarie ed esclusive. Esse faticano ad affermarsi in condizioni normali e hanno subito con il Covid una forte battuta di arresto: gli espositori mi raccontano che né i funerali ecologici “classici” (nei boschi o nella natura), né i Reef Burials sono stati possibili nei due anni di pandemia e che solo ora si sta cercando gradualmente di ripartire.
Per converso, durante la pandemia si è diffuso in modo esponenziale l’uso di supporti informatici e di tecnologie digitali. Fra gli stand ci sono numerose proposte di portali o applicazioni per permettere alle imprese di creare profili online dei defunti; oppure di piattaforme e dispositivi per trasmettere i funerali in streaming o, ancora, di geolocalizzatori per mappare i luoghi di sepoltura. Questi strumenti, seppur non particolarmente innovativi, testimoniano il consolidarsi di una costante interazione tra reale e virtuale. Esse, per usare un efficace neologismo, raccontano la normalizzazione dell’onlife e le nuove sfide che essa pone al settore funerario.
Negli stand per gli addetti ai lavori mi colpisce la materialità della morte: sacchi impermeabili per contenere le salme, sostanze per il trattamento dei corpi, carrelli tecnici per la movimentazione dei feretri, filtri, imbottiture, inchiostri e molti altri elementi che riguardano la gestione tecnica del cadavere. La nostra società ha da tempo delegato questi aspetti ai professionisti del settore, sovente trascurando il peso che ricade sulle spalle degli operatori funebri, una categoria il cui benessere psicologico è invece essenziale perché possano rapportarsi con le famiglie in un modo attento e supportivo.
Lungo il corridoio trova spazio l’opera “No time to die” di Danilo Sciorilli, proposta in occasione dei trent’anni della manifestazione. Si tratta di un’istallazione d’arte contemporanea che ha come perno una riflessione sull’immortalità e sui tentativi che l’essere umano ha compiuto, e continua a compiere, per intrappolare la vita eterna. La possibilità di essere “immortalati” nell’immagine; una biglia che raccoglie l’infinito e garantisce l’immortalità dello spirito; l’Ambrosia, una bevanda che allunga la vita e che è preparata dall’autore sulla scia delle ricerche di Nicolas Flamel e altri alchimisti oggi noti al grande pubblico grazie ad autrici come J. K. Rowling e Deborah Harkness. Anche qui, tutto è in vendita. Per la modica cifra di 2,50 è possibile bere un sorso del magico liquido che promette un anno in più di vita. La proposta dell’artista mi fa pensare al binomio oro-vita eterna, a quanto questi due grandi desideri siano stati potenti (e a volte terribili) motori della storia individuale e sociale, e al ruolo dell’artista che oggi, a torto o a ragione, rivendica la possibilità di intrappolare, e vendere, il sogno della permanenza.
Infine, fra i padiglioni, mi sembra evidente il rapido aumento delle Case Funerarie (ormai sono 537 in Italia) e delle nuove richieste di mercato che esse stanno generando: dall’arredamento, tema su cui l’offerta era piuttosto variegata, alla progettazione architettonica degli spazi, aspetto su cui invece le proposte erano piuttosto limitate. Forse questa disparità nell’offerta è sintomatica: a differenza di quanto avviene in altri paesi europei, in Italia le case funerarie non possono contare su una tradizione solida né sul piano architettonico né sugli aspetti funzionali. Molti di questi luoghi, per quanto esteticamente piacevoli, faticano a trovare un’identità propria e una collocazione chiara nel panorama rituale italiano. A proposito di queste criticità, l’architetto Luigi Bartolomei, in un articolo pubblicato nel novembre 2021 sulla rivista online Il Giornale dell’Architettura, rilevava un “annichilimento della componente simbolica”, che “ha impoverito il progetto d’architettura riducendolo alla sola soddisfazione di requisiti funzionali, licenziabili con regolare pratica edilizia”. Eppure, proprio perché sono nuovi, sono spazi che si prestano a soluzioni molteplici e innovative e che potrebbero stimolare una riflessione congiunta sulle nuove esigenze rituali della popolazione e su come offrire contenitori efficaci e carichi di significati in cui questi riti possano accadere.
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