La doppia morte degli indigeni wayuu, di Ana Cristina Vargas

Come antropologa mi sono a lungo interrogata sul tema della morte e sui diversi modi in cui le varie società umane conferiscono significato e ritualizzano il fine vita. Uno dei primi popoli presso cui ho avuto l’opportunità di svolgere ricerche etnografiche sono i wayuu, una delle più grandi comunità indigene della Guajira Colombiana e del Venezuela.

Quando giunsi per la prima volta nella Guajira, più di quindici anni fa, il mio obiettivo prioritario era quello di documentare la storia del massacro di Bahía Portete, avvenuto nell’ambito del conflitto armato colombiano. Questo massacro fu uno dei più drammatici eventi di violenza estrema ai danni dei wayuu durante l’espansione dei gruppi paramilitari nell’Alta Guajira, il loro territorio ancestrale. Il bilancio delle vittime non è mai stato chiarito ufficialmente, ma si parla di oltre cinquanta persone uccise, sottoposte a brutali mutilazioni e torture. Il cimitero, inoltre, fu brutalmente profanato e le ossa furono dissotterrate. Nel clima di negazione che caratterizzava quegli anni, la commissione che curò l’indagine escluse ogni responsabilità dello Stato e identificò come causa del massacro le dispute interne fra le famiglie indigene, coinvolte nella lotta per il controllo del traffico di benzina, droga e armi. Le vittime, insomma, vennero colpevolizzate in virtù della loro storia di regolazione autonoma dei conflitti interni e il governo – più volte sotto accusa non solo per la sua incapacità di proteggere i popoli nativi dalla violenza paramilitare, ma addirittura per la loro collaborazione con questi gruppi – se ne lavò le mani. Per contrastare questa lettura, nel mio lavoro (come in quello di altri studiosi e attivisti che si sono concentrati su questo caso), divenne prioritario conoscere l’organizzazione sociale wayuu e, nel farlo, ho realizzato che i riti funebri erano una vera e propria chiave di volta per comprendere la cultura e la storia di questo popolo.

Il ciclo della ritualità funebre wayuu è molto lungo ed è articolato in due grandi riti.

Subito dopo il decesso si svolge il primo funerale, che dura sette giorni e sette notti. Seduta sulla sua amaca Maria Apushana, una delle anziane del piccolo villaggio dove alloggiavo, descriveva questo rito come una grande celebrazione, con duecento, trecento invitati. Con orgoglio, l’anziana raccontava il grande funerale che era stato organizzato in onore di suo nonno; del suo viaggio per raggiungere il villaggio in cui si sarebbe svolta la veglia; delle amache che ognuno appendeva per dormire; delle moltissime capre che erano state sacrificate e mangiate dagli ospiti (e che avrebbero accompagnato lo spirito del defunto nell’aldilà); dei liquori – la chicha e il chirrinchi – che bevevano gli uomini mentre raccontavano aneddoti e ricordavano il defunto e, soprattutto, dei pianti cadenzati e ritmici che lei e le altre donne avevano intonato ininterrottamente, per non lasciare mai da solo il nonno nel suo viaggio. Al termine, come è consuetudine, il cadavere era stato temporaneamente seppellito in un cimitero vicino al luogo del decesso.

Il primo funerale è un evento importante della vita sociale di tutto il gruppo familiare. Nei funerali, più che in qualsiasi altra occasione, è essenziale dimostrare la generosità della propria famiglia e invitare qualcuno al proprio funerale futuro è ritenuto un gesto di cortesia, ospitalità e amicizia.

Dopo un lasso di tempo che può variare da due a sei – sette anni, quando si sono conclusi i processi di decomposizione e sono stati radunati i soldi necessari, viene realizzato il secondo funerale. Le ossa  vengono riesumate, lavate con cura e, dopo una veglia di nove notti a cui partecipa solo il gruppo familiare ristretto, vengono trasferite al cimitero del clan matrilineare o apushi. Questo luogo ha un’importanza fondamentale perché non solo sancisce sul piano simbolico il legame fra il clan e il suo territorio, ma ne attesta l’effettiva proprietà al pari di un documento catastale. Quando un defunto viene seppellito in un luogo lontano da quello del proprio clan, cosa molto frequente data l’elevata mobilità del popolo wayuu, è un dovere sociale portare via i resti dal cimitero in cui erano state temporaneamente deposte per ricollocarle nel cimitero del suo apushi: se non lo si fa, “qualcuno” potrebbe pensare che si stia cercando di avanzare delle pretese su quella terra. La distruzione del cimitero e la profanazione delle tombe che ebbe luogo nel drammatico momento del massacro aveva quindi un significato ben preciso: si è trattato di un’aggressione contro la sfera simbolico-culturale e contro il legame fra questo popolo e il territorio.

Il doppio funerale è un tema classico dell’antropologia della morte. Robert Hertz, allievo di Émile Durkeheim e uno dei primi antropologi a occuparsi in modo sistematico delle rappresentazioni collettive della morte, analizzò il rito della doppia sepoltura in area indonesiana, soffermandosi in particolare sulle tradizioni dei Dayak del Borneo. Hertz osservò che mentre nel mondo Occidentale la morte era per lo più intesa come un evento puntuale, collocabile nel preciso istante dell’ultimo respiro, per questo popolo la morte era invece pensata come un processo piuttosto lungo, che si sovrapponeva solo in parte al momento della morte biologica.

Anche nel ciclo funebre wayuu la simbologia e la ritualità rimandano a un’idea di transito, di viaggio, di trasformazione. Le due fasi del ciclo rituale infatti rispecchiano l’idea di una morte che avviene in due fasi. La morte fisica è considerata la “prima morte” del soggetto, durante la quale si verifica una separazione dello spirito dal corpo del defunto. Poche ore dopo il decesso, lo spirito diventa yoluja e inizia a percorrere il “sentiero degli indiani morti” che porta a Jepirra, il luogo dei morti. Sebbene “sopravviva” alla separazione dal corpo, l’anima, per i wayuu, non è immortale. La “seconda morte” o la “morte definitiva” della persona, come in molte culture di area Mesoamericana, corrisponde al sopravvento dell’oblio. Il yoluja (ovvero l’anima, lo spirito) muore quando nessuno fra i vivi ricorda più quella particolare persona e si sono dunque perse le tracce della sua individualità. Il secondo funerale e il sopravvento dell’oblio sono due eventi che non coincidono a livello temporale, ma che hanno un significato sociale per certi versi simile, nel senso che in entrambi i casi hanno a che fare con l’individualità che scompare per dissolversi in una dimensione collettiva.

Poiché il yoluja può comunicare con i vivi attraverso i sogni, ed è considerato per molti versi ancora parte attiva e presente della comunità, potremmo dire che per i wayuu la morte fisica e la morte sociale sono due cose ben diverse. La permanenza, per questo popolo, è saldamente ancorata alla memoria: ricordare, e tramandare il ricordo di chi muore è l’unico modo per prolungare l’esistenza e per preservare la presenza simbolica dei defunti.

Cosa ne pensate di questo modo di coltivare la memoria e di permettere l’oblio?

3 commenti
  1. Irma T
    Irma T dice:

    Un articolo bellissimo che in poche righe ti porta in quelle terre e ti invita a riflettere di cosa sia veramente importante dopo la morte, ma anche prima quando pensi di essere un piccolo puntino nella società , ma invece puoi contribuire a lasciare ricordi e qualcosa di te che può fare la differenza nel tuo ceppo famigliare e non solo. IL concetto di morte fisica e morte sociale è molto interessante quindi, e dovremmo imparare attraverso altre culture l’importanza di un esserci esistenziale che rimane per sempre nella memoria di chi ci ha amato,di chi ha fatto parte anche per poco della nostra vita e di chi non ci ha mai conosciuto ma ha sentito parlare di noi.

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