Le parole personalizzate del ricordo, di Davide Sisto
In giugno a Bologna ho avuto il piacere di partecipare in qualità di relatore a un convegno che si è svolto all’interno della fiera “Devotio. Esposizione internazionale di prodotti e servizi per il mondo religioso”. Questo convegno, che ha coinvolto sociologi, esperti di storia delle religioni e di architettura sacra, nonché importanti esponenti del mondo cristiano, si è soffermato sulla metamorfosi contemporanea degli spazi e delle parole della memoria cristiana nei cimiteri. In particolare, i vari interventi hanno cercato di comprendere se il tema della Risurrezione sia ancora presente negli spazi e nelle parole che caratterizzano i luoghi dei defunti, analizzando le trasformazioni rituali e culturali del XXI secolo. L’aspetto certamente più interessante che ne è emerso, rappresentando di fatto il filo rosso dell’intero convegno, è l’ineludibile incidenza delle tecnologie digitali attualmente in uso sulle ritualità funebri cristiane.
L’iperconnessione, se da una parte è diventata una questione di natura intergenerazionale, dall’altra intercetta il fine vita sotto molteplici punti di vista. Lo abbiamo più volte evidenziato all’interno di questo blog, partendo – per esempio – dal fatto oggettivo che sono decine di milioni i profili social attivi degli utenti deceduti. Ora, l’abitudine a disporre di spazi personali tramite cui esporre pubblicamente le caratteristiche e le passioni della propria vita intercetta e condiziona la dimensione del ricordo.
Detto in altre parole: più viviamo all’interno di un contesto pubblico in cui si antepongono i bisogni del singolo individuo a quelli della collettività, qualunque sia il modo in cui venga intesa, più si cerca di personalizzare il rito funebre. Questo lo possiamo constatare, per esempio, quando visitiamo le nuove sezioni dei cimiteri cittadini. Vi è un evidente incremento di lapidi che non si limitano a fornire solo indicazioni canoniche riguardo alla vita del defunto (data di nascita e di morte, a volte l’attività lavorativa e poco altro). Si tende, cioè, a mettere il visitatore del cimitero nella condizione di conoscere meglio le prerogative del defunto: pertanto, sono sempre più numerose le lapidi con sciarpe o magliette della squadra del cuore, macchinine in miniatura per ricordare la passione dell’automobilismo, addirittura bottiglie di birra o immagini relative a località geografiche particolarmente amate.
Non è un caso che ciò succeda nell’epoca dei social media e in una fase del tutto peculiare della secolarizzazione. L’antropologo Louis-Vincent Thomas, nel suo libro Antropologia della morte (1976), sosteneva con encomiabile lungimiranza che l’evoluzione tecnologica, con la conseguente personalizzazione degli spazi digitali a disposizione, avrebbe determinato la nascita di vere e proprie mnemoteche elettroniche della memoria. “Autentici monumenti psichici” che, situandosi perfettamente entro la linea tradizionale, ravvivano il ricordo del morto, “attualizzandone ininterrottamente le informazioni da lui lasciate in eredità”, perfezionano quindi il rispetto dei resti corporei e permettono una democratizzazione della memoria: “fanno entrare il più umile degli uomini e il più eminente nello stesso monumento comune, poiché entrambi sono partecipi della stessa struttura, simbolo del corpo mistico dell’umanità”.
Non stupisce pertanto il collegamento stabilito dalle parole del ricordo tra le lapidi nei cimiteri e i profili social: è ormai capillarmente diffuso il bisogno di parlare con i morti sia all’interno dei loro profili pubblici sia in quelli privati. Le parole utilizzate in questi spazi ibridi riproducono molto spesso le formule e le immagini canoniche della tradizione cristiana: ricorrenti, per esempio, sono i riferimenti alla collocazione in Paradiso o le immagini degli angeli associate al caro estinto.
Questo particolare processo di digitalizzazione delle parole della memoria si accompagna alla trasformazione dei luoghi cimiteriali. Come è stato evidenziato durante il convegno, la trasposizione simbolica del cimitero nei social va di pari passo con nuove forme di architettura cimiteriale, le quali rispecchiano le esigenze individuali. Ecco, quindi gli spazi cimiteriali che includono le urne biodegradabili su cui vengono piantati degli alberi, le vesti funebri che nel tessuto ospitano le spore di vari tipi di funghi, le urne in bioplastica, ecc.
Questo cambiamento, amplificato da iniziative come la digitalizzazione dei cimiteri portata avanti dalla Church of England, di cui ho parlato nel blog recentemente, solleva numerosi interrogativi che riguardano la relazione tra i singoli individui e la fede religiosa. Non volendo addentrarmi in questo territorio, mi limito a sottolineare come sia importante tener conto della metamorfosi relazionale tra i vivi e i morti all’interno di una società che si concentra – nel bene o nel male – sull’esigenza individuale. È importante affinché non vi sia uno scollegamento tra i bisogni dei dolenti e le autorità e le comunità adibite alla gestione delle ritualità funebri.
Voi cosa ne pensate? Ritenete sia doveroso favorire la dimensione individuale e personalizzata del ricordo a prescindere dai riti canonici e tradizionali? Attendiamo, come sempre, i vostri commenti.
Molto interessante questo articolo che mi ha riportato sull’isola di Ventotene dove sono stata,per pochi giorni, lo scorso anno. Scrissi anche alla dottoressa Sozzi, condividendo con lei la mia esperienza e i miei dubbi.
Ho trovato il cimitero di Ventotene davvero particolare ,a cominciare dalla targa all’ingresso che lo definisce “giardino della vita”. Penso che non si potesse trovare un attributo più adatto perché al suo interno tutto, o quasi, parla di vita. Le tombe sono particolarmente curate e quasi tutte personalizzate. Ognuna di esse, se ci si sofferma con un pò di attenzione, racconta la vita della persona attraverso svariati oggetti, dai pupazzetti di stoffa ,alla copertina, dal rastrello alla rete da pesca. È come se , in un certo modo, si volesse continuare a far vivere i propri cari. Mi ha colpito! L’ho trovato bello e triste allo stesso tempo..
Grazie, mi hai messo una grande curiosità. Se capita, lo visiterò.
In merito a questa riflessione, e in particolare alla necessità di personalizzare le lapidi come occasione per esporre pubblicamente le personali caratteristiche e passioni (e quindi come si dice all’inizio della riflessione di Davide, condizionarne il ricordo), mi è rimasta sempre molto impressa un’esperienza di parecchi anni fa (15 ca.) quando ho avuto modo di visitare il Cimitero Allegro di Sapanta in Romania. In questo anonimo e povero paesino (almeno allora) c’è questo Cimitirul Vesel diventato patrimonio mondiale dell’umanità e ormai méta di pellegrinaggio costante.
Ci sono centinaia di tombe e lapidi coloratissime, in legno, realizzate in uno stile naïf-balcanico: ognuna è personalizzata sia tramite immagini e/o piccole sculture che rappresentano il defunto con le caratteristiche tipiche che ha avuto nella vita sia con poesie, epitaffi, frasi spesso scherzose ma a volte anche profondamente nostalgiche. Sottolineano la causa della morte, la passione per le donne o il lavoro, una disavventura particolare, un momento della vita…
Quando ci andai riuscii parlare a lungo con l’artigiano responsabile che stava preparando altre lapidi e mi ricordo due sue riflessioni come risposta a mie richieste di chiarimenti. Gli domandai da dove raccoglieva i dati per scegliere le frasi da scrivere e mi disse: ‘dalla comunità’. Nella pratica non accettava che né la persona prima di morire né i familiari gli commissionassero testi e/o immagini da realizzare ma andava, dopo il decesso, a parlare con i suoi amici e parenti stretti per raccogliere queste informazioni: trattandosi di un piccolo paesino, si conoscevano tutti tra loro e da questa raccolta, unita a volte alle sue conoscenze dirette del defunto, faceva una sorta di sintesi.
Poi mi fece vedere che aveva ricevuto tre commissioni dall’estero per realizzare bare e due proprio dall’Italia; gli chiesi questa volta come avrebbe fatto vista l’evidente impossibilità di trovare quegli elementi che gli sarebbero serviti per scegliere l’immagine e le frasi da realizzare quando la persona che aveva commissionato sarebbe deceduta.
– Ma non si può andare su Internet per capire chi era la persona? mi disse, anche se era chiaro la sua scarsissima o forse addirittura nulla dimestichezza in questo campo.
E’ successo appunto molti anni fa, da un punto di vista digitale un’era fa, ma mi è sempre rimasto molto impresso come questa persona, nella sua semplicità culturale ma con vastissima esperienza in prima linea, vivesse molte delle questioni allora semi sconosciute e che adesso sono dibattute, universali e coinvolgenti per tanti: la personalizzazione delle lapidi, il rapporto tra ricordo e comunità, la digitalizzazione della parole della memoria…
A volte c’è chi, nella sua vita concreta, semplice e sconosciuta ai più, manifesta e anticipa ciò che poi esploderà a livello globale e verrà studiato da persone ben più dotate di cultura, capacità analitica e critica. So che non è una novità ma averlo vissuto in prima persona è davvero potente, fa nascere molti pensieri e ipotesi e volevo condividerlo.
Per approfondire la storia e le caratteristiche del Cimitero è sufficiente cercarlo in rete (si trovano facilmente sia aspetti storici sia racconti di visite e incontri); sottolineo infine che c’è un libro, risulta purtroppo esaurito, con le trascrizioni e le analisi delle frasi di molte lapidi dal titolo: ‘Le iscrizioni parlanti del cimitero di Sapunta’ di Bruno Mazzoni.
Contributo molto suggestivo. Cerco di sicuro in rete questo cimitero.
La personalizzazione, l’individualizzazione delle forme esteriori con le quali comunichiamo la morte sono considerate un ampliamento degli spazi di libertà. Un modo per essere più compiutamente noi stessi nel momento in cui non siamo più. E oltre. Secondo me questo pensiero è sbagliato. In un mondo che ci insegna a consumare sensazioni ed esperienze, e a fuggire dolore e paure, questa è la fragile illusione di poter continuare una vita che non c’è semplicemente più.
Il commiato come rito collettivo è qualcosa che si realizza quando la persona dalla quale ci separiamo non c’è più (è, se vogliamo, per chi crede, da un’altra parte) ed è necessario per riconoscere ancora una volta la nostra comunità di destino, per dire a chi rimane che questo momento di abbandono non è un momento di solitudine.
Quando prevale questa seconda dimensione (e quando è materialmente possibile farla prevalere), i cimiteri sono luoghi di raccoglimento, di riflessione, di quiete. Anche di serenità.
Se prevale la prima dimensione, che evidentemente intercetta lo spirito del nostro presente, direi “not in my name”.
Da ex bibliotecario mi permetto di segnalare un libro di fulminante intensità: Robert P. Harrison, Il dominio dei morti, Fazi, 2004. È facile trovare l’originale inglese, mentre la traduzione italiana mi risulta essere purtroppo fuori catalogo.
Il libro l’ho letto tempo fa. Si trova in italiano, ad esempio, nella biblioteca di Filosofia all’Università di Torino. Non lo so, per il resto. Nel senso che questa dimensione del presente a me non dispiace affatto. Ma forse la chiave di lettura sta proprio nella metamorfosi rispetto ad altri tempi. Grazie per la risposta!