Abbiamo bisogno di una pedagogia della morte? di Marina Sozzi
Si parla moltissimo di Death Education. Alla base del bisogno di “educare alla morte” sta l’idea che la nostra società sia incapace di affrontare il morire e il lutto: quindi si rende necessaria qualche forma di “pedagogia” che insegni a tutti noi come prepararsi alla morte propria e dei propri cari.
Ho già scritto in questo blog che non condivido più l’idea di questa inadeguatezza del nostro tempo. E cito solo un fattore di grande adeguatezza: la nascita e la diffusione delle cure palliative, che hanno saputo elidere la sofferenza che accompagnava il morire. E scusate se è poco…
Peraltro, la discussione sulla possibilità che gli esseri umani hanno di prepararsi alla morte è antica quanto il mondo. Per citare solo i più famosi filosofi che hanno partecipato a un dibattito che si è dipanato nei secoli, ricordiamo Socrate, Epicuro, Seneca, Marco Aurelio, Montaigne, Spinoza, Schopenhauer, e, più vicini a noi, Heidegger e Sartre. Per alcuni di questi pensatori riflettere sulla morte significava imparare a vivere una vita più piena e consapevole, attribuendole un senso più profondo.
Altri hanno ritenuto futile ragionare sulla morte e cercare di prepararsi, perché questa ci coglie spesso di sorpresa, e ignoriamo quando e come si verificherà. Siamo vivi e possiamo meditare solo sulla vita, che è l’unica cosa che conosciamo.
Questo dibattito è ancora attuale.
Ora, io non sono certa che si possa insegnare alle persone a prepararsi a morire, malgrado le innumerevoli “Preparazioni alla morte” pubblicate nel medioevo e nel rinascimento. Lo stesso Erasmo da Rotterdam scriveva, proprio nella sua Della preparazione alla morte, che non c’è buona morte senza buona vita.
Ma anche la buona vita non basta. In cure palliative è noto che soltanto poche persone con grandi risorse emotive e culturali riescono a “entrare nella morte ad occhi aperti” (per usare le parole di Marguerite Yourcenar) e con serenità.
Che fare dunque? In primo luogo, non facciamoci troppe illusioni: stiamo cercando di fare i conti con ciò che gli esseri umani sanno essere il pericolo maggiore, e che tutte le culture del mondo hanno considerato un tabù. Non è facile e continuerà a non essere facile.
In secondo luogo, occorre tenere presente una distinzione di cui abbiamo più volte dibattuto, ma che mi sembra utile riassumere. 1) La preparazione alla «morte» è impossibile, se intendiamo la morte come momento del decesso. Infatti, come scriveva Jankélévitch, di fronte al nostro annichilimento il pensiero si azzera: la morte non è pensabile. Jankélévitch affermava che talvolta possiamo sfiorare tangenzialmente la nostra morte, ad esempio quando ci troviamo un capello bianco o una ruga in più. Allora abbiamo una breve rivelazione del fatto che essa giungerà, ma questa intuizione ci fa rimbalzare verso la vita, non possiamo soggiornare nel pensiero della morte. Quando tocchiamo brevemente la fine che verrà, tuttavia, la nostra vita è arricchita dalla consapevolezza del limite comune dell’umano, la mortalità, che ci sospinge verso una dimensione più etica dell’esistere. La preparazione alla mortalità è dunque cosa diversa, i due termini morte e mortalità non sono interscambiabili.
2) La percezione della finitezza, quando è profonda e matura, ci orienta verso la dimensione della cura, del prendersi cura dell’altro, visto nella sua vulnerabilità, uguale alla nostra, e ci allontana dalla violenza, qualunque forma quest’ultima assuma. La tua vulnerabilità è come la mia, io potrei essere al tuo posto.
3) C’è ancora un terzo senso in cui possiamo preparaci alla morte, quando quest’ultima è prossima. Possiamo allora (ma è compito straordinariamente difficile) prepararci a lasciar andare la propria vita, ad accettare che possa concludersi, ed è cosa che si può fare soltanto sul letto di morte.
Ma come si raggiunge la consapevolezza della mortalità, l’unica che possiamo coltivare quando stiamo bene? Attraverso la pedagogia? Non credo. E’ soprattutto nel corso della vita, grazie all’esperienza inevitabile delle perdite, della malattia, della frustrazione. Anche se non sempre queste esperienze fanno crescere la consapevolezza, perché siamo umani e talvolta non riusciamo a orientare gli eventi della nostra biografia in una direzione progressiva, e magari accumuliamo rabbia o rancore. Ma coloro che riescono a far tesoro delle esperienze dolorose o difficili acquisiscono una più alta umanità.
Che ruolo hanno dunque gli studi sul morire e sul lutto? Non ci proteggono dall’angoscia di morte, non sono “preparazione” alla morte.
Sono fondamentali perché arricchiscono il nostro sapere e la nostra capacità di gestire la fine della vita, di garantire la migliore qualità della vita di chi muore, e di sostenere coloro che affrontano la morte altrui. In parte parliamo di studi scientifici (includendo in questa espressione anche quelli umanistici, a scanso di equivoci) rivolti ai professionisti. In parte parliamo di una buona e seria divulgazione, rivolta a tutti i cittadini. Non chiamerei tutto questo Death Education, perché mi pare presuntuoso pensare di educare qualcun altro a fare i conti con il limite e la mortalità. Come tutti gli altri studi, accrescono il nostro bagaglio di conoscenza.
Cosa ne pensate? Avete acquisito questa consapevolezza della mortalità? E se sì, come l’avete raggiunta? Grazie, come sempre, per i vostri commenti.