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Tag Archivio per: cure palliative

Abbiamo bisogno di una pedagogia della morte? di Marina Sozzi

16 Maggio 2025/10 Commenti/in Riflessioni/da sipuodiremorte

Si parla moltissimo di Death Education. Alla base del bisogno di “educare alla morte” sta l’idea che la nostra società sia incapace di affrontare il morire e il lutto: quindi si rende necessaria qualche forma di “pedagogia” che insegni a tutti noi come prepararsi alla morte propria e dei propri cari.
Ho già scritto in questo blog che non condivido più l’idea di questa inadeguatezza del nostro tempo. E cito solo un fattore di grande adeguatezza: la nascita e la diffusione delle cure palliative, che hanno saputo elidere la sofferenza che accompagnava il morire. E scusate se è poco…
Peraltro, la discussione sulla possibilità che gli esseri umani hanno di prepararsi alla morte è antica quanto il mondo. Per citare solo i più famosi filosofi che hanno partecipato a un dibattito che si è dipanato nei secoli, ricordiamo Socrate, Epicuro, Seneca, Marco Aurelio, Montaigne, Spinoza, Schopenhauer, e, più vicini a noi, Heidegger e Sartre. Per alcuni di questi pensatori riflettere sulla morte significava imparare a vivere una vita più piena e consapevole, attribuendole un senso più profondo.
Altri hanno ritenuto futile ragionare sulla morte e cercare di prepararsi, perché questa ci coglie spesso di sorpresa, e ignoriamo quando e come si verificherà. Siamo vivi e possiamo meditare solo sulla vita, che è l’unica cosa che conosciamo.
Questo dibattito è ancora attuale.

Ora, io non sono certa che si possa insegnare alle persone a prepararsi a morire, malgrado le innumerevoli “Preparazioni alla morte” pubblicate nel medioevo e nel rinascimento. Lo stesso Erasmo da Rotterdam scriveva, proprio nella sua Della preparazione alla morte, che non c’è buona morte senza buona vita.
Ma anche la buona vita non basta. In cure palliative è noto che soltanto poche persone con grandi risorse emotive e culturali riescono a “entrare nella morte ad occhi aperti” (per usare le parole di Marguerite Yourcenar) e con serenità.

Che fare dunque? In primo luogo, non facciamoci troppe illusioni: stiamo cercando di fare i conti con ciò che gli esseri umani sanno essere il pericolo maggiore, e che tutte le culture del mondo hanno considerato un tabù. Non è facile e continuerà a non essere facile.

In secondo luogo, occorre tenere presente una distinzione di cui abbiamo più volte dibattuto, ma che mi sembra utile riassumere. 1) La preparazione alla «morte» è impossibile, se intendiamo la morte come momento del decesso. Infatti, come scriveva Jankélévitch, di fronte al nostro annichilimento il pensiero si azzera: la morte non è pensabile. Jankélévitch affermava che talvolta possiamo sfiorare tangenzialmente la nostra morte, ad esempio quando ci troviamo un capello bianco o una ruga in più. Allora abbiamo una breve rivelazione del fatto che essa giungerà, ma questa intuizione ci fa rimbalzare verso la vita, non possiamo soggiornare nel pensiero della morte. Quando tocchiamo brevemente la fine che verrà, tuttavia, la nostra vita è arricchita dalla consapevolezza del limite comune dell’umano, la mortalità, che ci sospinge verso una dimensione più etica dell’esistere. La preparazione alla mortalità è dunque cosa diversa, i due termini morte e mortalità non sono interscambiabili.

2) La percezione della finitezza, quando è profonda e matura, ci orienta verso la dimensione della cura, del prendersi cura dell’altro, visto nella sua vulnerabilità, uguale alla nostra, e ci allontana dalla violenza, qualunque forma quest’ultima assuma. La tua vulnerabilità è come la mia, io potrei essere al tuo posto.

3) C’è ancora un terzo senso in cui possiamo preparaci alla morte, quando quest’ultima è prossima. Possiamo allora (ma è compito straordinariamente difficile) prepararci a lasciar andare la propria vita, ad accettare che possa concludersi, ed è cosa che si può fare soltanto sul letto di morte.

Ma come si raggiunge la consapevolezza della mortalità, l’unica che possiamo coltivare quando stiamo bene? Attraverso la pedagogia? Non credo. E’ soprattutto nel corso della vita, grazie all’esperienza inevitabile delle perdite, della malattia, della frustrazione. Anche se non sempre queste esperienze fanno crescere la consapevolezza, perché siamo umani e talvolta non riusciamo a orientare gli eventi della nostra biografia in una direzione progressiva, e magari accumuliamo rabbia o rancore. Ma coloro che riescono a far tesoro delle esperienze dolorose o difficili acquisiscono una più alta umanità.

Che ruolo hanno dunque gli studi sul morire e sul lutto? Non ci proteggono dall’angoscia di morte, non sono “preparazione” alla morte.
Sono fondamentali perché arricchiscono il nostro sapere e la nostra capacità di gestire la fine della vita, di garantire la migliore qualità della vita di chi muore, e di sostenere coloro che affrontano la morte altrui. In parte parliamo di studi scientifici (includendo in questa espressione anche quelli umanistici, a scanso di equivoci) rivolti ai professionisti. In parte parliamo di una buona e seria divulgazione, rivolta a tutti i cittadini. Non chiamerei tutto questo Death Education, perché mi pare presuntuoso pensare di educare qualcun altro a fare i conti con il limite e la mortalità. Come tutti gli altri studi, accrescono il nostro bagaglio di conoscenza.

Cosa ne pensate? Avete acquisito questa consapevolezza della mortalità? E se sì, come l’avete raggiunta? Grazie, come sempre, per i vostri commenti.

https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2025/05/clessidra.jpg 265 350 sipuodiremorte https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2024/05/93409bba-2fe8-4231-86b3-36648bff989e.png sipuodiremorte2025-05-16 10:59:552025-05-16 10:59:55Abbiamo bisogno di una pedagogia della morte? di Marina Sozzi

Paura della morte, paura della vita, di Marina Sozzi

4 Febbraio 2025/8 Commenti/in Riflessioni/da sipuodiremorte

Noi tutti abbiamo, in dosi variabili, paura della morte. Non voglio parlare della tanatofobia, che comporta sintomi paralizzanti e un terrore ossessivo. Vorrei parlare della paura che abbiamo tutti, e che fa capolino quando capita di pensarci. Questa paura ha prima di tutto un ancoraggio biologico. E’ un’area del cervello antica, chiamata amigdala, che condividiamo con gli animali, a rispondere mediante la paura (reagendo con attacco, fuga, o freezing) di fronte alle situazioni che mettono in pericolo la nostra sopravvivenza.

Mentre gli animali, però, si attivano solo in caso di rischio imminente (l’avvistamento del leone per la gazzella), gli uomini sanno che moriranno, e sono quindi perpetuamente divisi tra la consapevolezza dell’ineluttabilità della morte e il desiderio di vivere eternamente.

La paura nasce da questo scarto incolmabile.

E’ quindi paura di ciò che è massimamente sconosciuto e oscuro? Certamente, la morte è del tutto inconoscibile e impensabile, del tutto opaca per gli uomini, e per questo fonte di ansia e angoscia. Noi nasciamo vivi, e la vita è tutto quello che sappiamo, con cui abbiamo familiarità.Ma l’ignoto non è l’unica ragione del timore.

Oltre ad avere paura della morte, noi paventiamo il processo del morire, ossia le circostanze che possono condurci alla morte. Sovente temiamo di soffrire, e abbiamo in mente alcune immagini del fine vita che hanno fatto parte della nostra esperienza, e che ci inquietano in modo particolare. Da quando ho assistito mia suocera malata di Alzheimer, ad esempio, quello è diventato per me il più disturbante dei pensieri: l’involuzione, la totale perdita del controllo, il fatto di diventare un corpo ignaro di tutto, gettato nel mondo. Mi fa molto meno paura morire di cancro, perché so che potrò contare sull’assistenza e sul sostegno delle cure palliative. Ma non è così per tutti.

Proprio perché specifica e soggettiva, questa paura è diversa da un individuo all’altro, e può differire anche a seconda del momento della vita. Inoltre, visto che esistono molti tipi di apprensione che possono essere inclusi nell’idea generale della “paura della morte”, quest’ultima potrebbe essere descritta, in realtà, come una paura della vita.  Il morire fa infatti parte della vita, al contrario della morte, che la delimita e la conclude, e per questo resta estranea alla vita.

Di fronte all’ignoto, infatti, noi usiamo immagini per riempire le lacune concettuali, l’impossibilità di conoscere, il mistero. E queste immagini sono modellate dalla cultura e dalla storia: se abbiamo vissuto un conflitto o viviamo in contesto di guerra, possiamo avere il terrore della distruzione che quest’ultima comporta; oppure, se siamo anziani, possiamo temere maggiormente l’infermità e la vulnerabilità di malattie legate all’invecchiamento, e così via. Per concludere, ciò che chiamiamo “paura della morte” potrebbe essere una paura mortale di certi aspetti dell’esperienza umana, o addirittura della vita in generale.

Lo psicoanalista Irving Yalom, nel suo libro Fissando il sole, narrava alcuni casi clinici in cui la paura della morte, durante il percorso analitico, si era rivelata essere piuttosto sintomo di una difficoltà rispetto ad alcuni particolari vissuti. Una storia che mi è rimasta impressa riguarda una terapista britannica, Julia, che dopo la morte di un’amica era diventata ipocondriaca e terrorizzata dalla morte al punto da smettere di fare tutto ciò (sport, e perfino guidare l’auto) che la esponesse a un rischio anche molto piccolo. Durante un viaggio in California chiese aiuto a Yalom, il quale le rivolse una domanda che faceva spesso ai suoi pazienti: “Di quale aspetto particolare della morte ha paura?”. Julia rispose: “Tutte le cose che non ho fatto”. Da quel momento l’analisi prese un’altra via, e permise a Julia di comprendere che aveva impedito a se stessa, per il timore di non essere all’altezza, di realizzare o almeno di misurarsi con le sue ambizioni artistiche. La paura della morte, occultata dal dolore per la perdita dell’amica, nascondeva a sua volta una vita insoddisfacente da cui Julia non riusciva ad affrancarsi. L’identificazione della paura più autentica e profonda permise a Julia di mettersi alla prova, e l’angoscia di morte diminuì.

Voi avete mai riflettuto sulla vostra paura della morte? Di cosa avete soprattutto paura? La vostra paura si collega con le vostre esperienze di vita? L’idea delle cure palliative vi conforta?

https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2025/02/paura-della-morte-1-copia.jpg 265 350 sipuodiremorte https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2024/05/93409bba-2fe8-4231-86b3-36648bff989e.png sipuodiremorte2025-02-04 10:24:362025-02-04 10:24:36Paura della morte, paura della vita, di Marina Sozzi

Le sfide delle cure palliative, di Marina Sozzi

3 Dicembre 2024/4 Commenti/in Riflessioni/da sipuodiremorte

Le cure palliative, come si ripete da più parti, sono da considerarsi un diritto umano. Non a caso l’Organizzazione Mondiale della Sanità, già nel 2018, scriveva, in un testo dedicato alla medicina delle catastrofi e delle crisi umanitarie, che accanto all’intervento degli specialisti è sempre indispensabile che vi siano le cure palliative, al fine di alleviare la sofferenza, rispettare la dignità di ogni persona, sostenere i bisogni essenziali, accompagnare durante il momento più difficile, quello della morte.

Il documento della Lancet Commission del 2022 sul tema The Value of Death, già citato in questo blog, iniziava dicendo che la storia del XXI secolo è la storia di un paradosso. Mentre nei paesi ricchi ancora troppe persone muoiono male perché sottoposte a cure che tentano di prolungare la vita, spesso dilatando solo il tempo della sofferenza, nei paesi poveri mancano ancora farmaci essenziali per combattere malattie che la medicina ha già sconfitto da tempo, e sovente non vi è accesso ai farmaci antalgici. In entrambi i casi, è necessaria un’estensione delle cure palliative.

Per quanto riguarda il nostro spicchio di mondo, in un momento storico in cui il modello delle cure palliative sta diventando vincente tra la popolazione, come ha dimostrato il sondaggio del 2023 condotto da IPSOS su richiesta della Federazione delle Cure Palliative e di Vidas, c’è ancora tuttavia molto da fare per poter affermare di aver portato a termine le sfide che il mondo delle cure palliative si è dato. Le più note sono l’estensione delle cure ai malati non oncologici e la loro anticipazione (early palliative care): la prima è stata avviata, ma richiede un’intensificazione del dialogo tra palliativisti e specialisti ospedalieri, spesso ancora abbarbicati a una visione riduzionistica della medicina e riluttanti a “cedere” i loro pazienti. Lo stesso vale per i medici di famiglia.

Per quanto riguarda il secondo obiettivo, la legge italiana n. 38/2010, di istituzione delle cure palliative, per quanto abbia avuto una funzione propulsiva per il loro sviluppo nel paese, dà una definizione che ne limita temporalmente l’intervento all’ultimissima fase della vita. Definisce infatti le cure palliative come «l’insieme degli interventi terapeutici, diagnostici e assistenziali, rivolti sia alla persona malata sia al suo nucleo familiare, finalizzati alla cura attiva e totale dei pazienti la cui malattia di base, caratterizzata da un’inarrestabile evoluzione e da una prognosi infausta, non risponde più a trattamenti specifici». Occorrerebbe invece, come già ha fatto l’associazione internazionale delle cure palliative (IAHPC), modificare la definizione, affermando che: le cure palliative sono l’assistenza attiva e olistica di persone di tutte le età con gravi sofferenze dovute a malattie gravi, e in particolare di coloro che sono vicini alla fine della vita. Una definizione più ampia permetterebbe di prendere in carico le persone più precocemente, tutelando meglio la qualità della loro vita ed evitando le ospedalizzazioni inutili, che costituiscono un costo rilevante e al contempo assurdo per il sistema sanitario: ogni anno, infatti, l’1% delle persone (quasi tutte alla fine della vita) assorbe circa il 20% dell’intera spesa sanitaria, e questo costo è quasi interamente riconducibile a spese ospedaliere (anche se meno del 50% delle persone muore in ospedale).

Tuttavia, poiché la popolazione invecchia e le malattie cronico-degenerative sono sempre più diffuse, ci sono altre sfide che non possono essere trascurate: 1)  la competenza palliativa deve essere estesa, in due sensi diversi: da un lato, ci vogliono più medici e più infermieri palliativisti, le università devono istituire e rendere appetibile la Scuola di Specialità in Cure Palliative, e la ricerca in cure palliative deve essere potenziata; dall’altro lato, anche i medici non specialisti in cure palliative dovranno possedere una formazione di base, ed essere in grado di mettere in atto un approccio palliativo. Ossia, per dirlo diversamente, il modello di cura delle cure palliative deve diventare patrimonio comune della medicina. E questo è anche un tema di modificazione della mentalità, che richiederà probabilmente tempi non brevissimi, e la collaborazione di discipline diverse dalla medicina. E’ possibile che occorra attendere un cambiamento di paradigma della scienza medica, con un superamento della visione riduzionistica, facendo tesoro dei preziosi contributi delle neuroscienze.

2) Ulteriore sfida, la collaborazione tra pubblico e privato deve trovare localmente soluzioni efficaci di co-progettazione (in cui gli enti non profit di cure palliative non siano trattati come fornitori); i bisogni del territorio di riferimento devono essere rilevati e presi in seria considerazione, facendo un ragionamento che vada oltre il risparmio pensato per capitoli di spesa nelle varie ASL, per guardare con occhi complessivi alla spesa sanitaria: smettendo quindi di risparmiare sulle cure palliative, che sono invece la soluzione sostenibile per la cura della fragilità.

Inoltre, 3) è necessario che la distinzione tra cure palliative di base e cure palliative specialistiche sia chiara, concordemente stabilita in base alla complessità della situazione del paziente. Le cure palliative di base potrebbero infatti (a fronte di una migliore formazione) essere portate avanti per i casi meno complessi dal medico di medicina generale insieme agli infermieri dell’Assistenza domiciliare infermieristica (ADI). Mentre quelle specialistiche dovrebbero occuparsi solo dei casi complessi: altrimenti, non riusciranno a farsi carico da sole di tutti i pazienti bisognosi di cure palliative: infatti, i numerosi studi internazionali che hanno cercato di individuare il bisogno di cure palliative parlano di una cifra tra il 69 e l’84% dei morti annui (Murtagh et al, 2014), o dell’1-1,4% della popolazione adulta nei paesi ad alto sviluppo economico (Xavier Gomez-Batiste et Stephen Connor, 2017). In Italia, dove abbiamo circa 700.000 morti l’anno, potrebbero avere bisogno di cure palliative circa 500.000 persone, numeri che non possono essere seguiti interamente dagli specialisti. Anche le RSA e gli ospedali sono luoghi dove la cultura delle cure palliative deve poco per volta penetrare.

E se, quindi, è necessario tale ampliamento della consapevolezza di quale preziosa risorsa rappresentino le cure palliative, è anche utile non fare rientrare del tutto questa cultura della cura nell’alveo della medicina, ma restare strabici. Un occhio dentro la biomedicina, per esserne riconosciuti, per utilizzarne gli strumenti utili, clinici e di ricerca; e un occhio fuori. Quello che resta fuori, per mantenere lo sguardo olistico, e non finire ridotto al riduzionismo, non deve dimenticare il versante umanistico dei pionieri. Sociologi, antropologi, psicologi, filosofi, storici, linguisti, eccetera, hanno molto da dirci. Perché dobbiamo, non dimentichiamolo, affrontare anche il versante psicologico, sociale e spirituale della cura.

Cosa ne pensate? Aspetto con piacere, come sempre, le vostre considerazioni.

https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2024/12/cover-Bonazzi_riflettere_4-terzi-copia.jpg 265 353 sipuodiremorte https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2024/05/93409bba-2fe8-4231-86b3-36648bff989e.png sipuodiremorte2024-12-03 10:18:252024-12-03 10:18:25Le sfide delle cure palliative, di Marina Sozzi

Il modello delle cure palliative è vincente? di Marina Sozzi

28 Giugno 2024/7 Commenti/in La fine della vita/da sipuodiremorte

Una morte accompagnata e gestita in équipes multidisciplinari, con la sofferenza controllata, con attenzione olistica agli aspetti psicologici, sociali e spirituali della malattia e della fine della vita, con la tutela della dignità e dell’autodeterminazione, così che il malato, posto al centro della cura, possa mantenere la padronanza della propria vita fino alla fine. In questo modello di morte, proposto dalle cure palliative, appare meno spaventoso vivere il proprio morire. Da questo punto di vista le cure palliative sono davvero la buona novella del nostro tempo.

Ma quanto è noto, e quanto è vincente questo modello a livello sociale? Per dare una risposta possiamo fondarci, per quanto riguarda il nostro paese, su un sondaggio Ipsos, commissionato da Vidas e da Federazione Cure Palliative nel 2023.

Si trattava di comprendere quanto siano conosciute le cure palliative nel nostro Paese, sia tra i cittadini sia tra i medici, e quale sia l’opinione che ne hanno gli uni e gli altri.

In generale, i risultati ci presentano importanti progressi rispetto al precedente sondaggio, del 2008.

Tra i cittadini l’indagine mostra un notevole aumento della conoscenza: se nel 2008, infatti, il 41% degli intervistati non aveva mai sentito parlare di cure palliative, oggi quella percentuale è scesa al 6%. Parallelamente è cresciuta molto l’informazione su questa specifica modalità di cura: nel 2008 solo il 24% degli italiani dichiarava di avere le idee abbastanza chiare, ora il 54% dice di sapere bene di cosa si tratta. Sebbene il 18% delle persone intervistate ritenga che le cure palliative siano cure inutili o ‘naturali’ o alternative alla medicina tradizionale, è però sempre più diffusa la convinzione che si occupino di migliorare la qualità di vita di persone gravemente malate e delle loro famiglie, indipendentemente dalla patologia. La comprensione della parola “hospice” è più che raddoppiata, dal 24% al 56%. Secondo la ricerca, 8 cittadini su 10 sanno che le cure palliative sono un diritto (sancito dalla legge 38 del 2010), e che deve essere garantito gratuitamente dal Servizio Sanitario Nazionale.

Anche l’opinione sulle cure palliative è per la grande maggioranza positiva (il 90%), mentre solo il 4% risponde “per niente positiva”. E circa il 91% degli italiani è d’accordo, o abbastanza d’accordo, con l’utilizzo dei famaci oppiacei. Solo il 10% teme che le cure palliative abbrevino la vita.

Unico dato che dà da pensare: il 57% dei cittadini non sa se le cure palliative siano disponibili sul proprio territorio. Oltre a questa carenza di informazione sulla accessibilità per sé e per i propri cari delle cure palliative, le principali lacune sono sulla conoscenza delle cure palliative pediatriche (4 italiani su 10 pensano che le cure palliative non possano riguardare i bambini).

Agli intervistati è stato anche chiesto quali ostacoli esistano, a loro modo di vedere, per una migliore e più generale conoscenza delle cure palliative. Il 12% ha citato la paura della morte, e solo il 16% la riluttanza delle persone a parlare della morte e del morire (a dimostrazione che forse della morte se ne parla, e molto). Il 30% denuncia una cultura che si concentra sulla guarigione e sulla cura attiva delle malattie, e il 18% sulla mancanza di campagne pubbliche di sensibilizzazione.

Meno rassicuranti sono i dati che riguardano i medici: medici di medicina generale, specialisti ospedalieri, pediatri di libera scelta. Tra i medici, infatti, resiste ancora una percentuale che ignora cosa siano le cure palliative: il 21% dei pediatri, il 17% degli specialisti ospedalieri, il 15% dei MMG. E solo il 60% circa dei medici asserisce di sentirsi sufficientemente informato sulle cure palliative, anche se quasi tutti assicurano di essere propensi ad attivarle per i pazienti eleggibili (ma solo quando le cure attive non incidano più sull’andamento della malattia). Tra i pediatri questo dato peggiora, e solo uno su tre si sente abbastanza ferrato sulle cure palliative pediatriche.

Ai medici è stato anche chiesto quali siano per loro le maggiori difficoltà nell’attivarle. Molti credono (con un evidente scarto rispetto ai risultati dell’indagine sui cittadini) che le persone siano poco informate, e che quindi parlare loro di cure palliative sia difficile. In realtà, come abbiamo appena constatato, non è più così. Emerge poi un impedimento più personale, che ha a che fare con una formazione insufficiente: non è facile dare informazioni su una prognosi a breve termine.

Nonostante i limiti che abbiamo evidenziato, possiamo affermare che questa ricerca mette in evidenza la presenza di una padronanza abbastanza diffusa, e di un giudizio molto positivo sulle cure palliative.

Il modello delle cure palliative si sta dunque facendo strada nella società e sta diventando vincente dal punto di vista culturale. Non è una buona ragione per sedersi sugli allori, ma questi dati ci permettono di misurare il percorso fatto, e di continuare con maggior fiducia il lavoro di sensibilizzazione dei cittadini e di formazione dei medici.

E ci induce inoltre ad abbandonare il vuoto luogo comune della società che nega, o rimuove, o tabuizza la morte, nella quale dunque è impossibile parlare di fine della vita, e di conseguenza di cure palliative.

Voi come leggete questi dati? Cosa ne pensate? Vi ritrovate nella constatazione di un miglioramento?

 

https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2024/06/survey-immagineevidenza.jpg 265 351 sipuodiremorte https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2024/05/93409bba-2fe8-4231-86b3-36648bff989e.png sipuodiremorte2024-06-28 10:56:362024-06-28 10:56:36Il modello delle cure palliative è vincente? di Marina Sozzi

Compassionate cities: utopia concreta? di Marina Sozzi

24 Maggio 2024/17 Commenti/in Riflessioni/da sipuodiremorte
Anche se in Italia ne abbiamo parlato ancora poco (per ora esiste un progetto a Reggio Emilia), nel mondo sta prendendo forma un’idea molto interessante, quella delle “città compassionevoli”. Già molte città hanno questo titolo, in seguito al lavoro compiuto per diventarlo, come ad esempio Plymouth in Inghilterra, Colonia in Germania, Vic in Spagna, Kozhikode nel sud dell’India, stato del Kerala, eccetera. Di cosa stiamo parlando e da quale esigenza nascono le Compassionate Cities? Partiamo da una constatazione: la morte è un’esperienza sociale con una componente medica, e non il contrario. Il 95% del tempo di una persona che si avvicina alla morte è gestito dai familiari. Il lavoro dei professionisti, pur estremamente prezioso, rischia di restare frammentario se la comunità non è coinvolta nell’esperienza di cura. Sarebbe quindi opportuno che il sostegno che non richiede competenze professionali fosse offerto dalla comunità, ossia da reti di relazioni che si stringono attorno all’anziano, al dolente o al morente. I servizi professionali potrebbero così concentrarsi in modo più efficace sulle proprie responsabilità principali. Per dirlo brevemente, quindi, le Compassionate Cities sono forme di mobilitazione sociale che coinvolgono diverse realtà presenti in una determinata città, al fine di creare e potenziare l’attenzione verso una concezione diffusa della cura, e verso la morte, la perdita e il lutto nella vita quotidiana. Le Compassionate Cities sono, in sostanza, un modello di salute pubblica che incoraggia la partecipazione comunitaria nella cura delle persone. Lo scopo non è trasferire parte del lavoro di cura alle famiglie, gravando, come è stato spesso fatto, sulle donne e sul lavoro femminile; al contrario, si tratta di un modo nuovo di pensare alla comunità e alla cura. Occorre però costruire un modello pratico perché questa cura estesa alla comunità possa essere efficace. In primo luogo dobbiamo chiederci: cosa si intende per comunità? C’è infatti il rischio che la parola “comunità” indichi una generalizzazione poco funzionale e astratta, come “società” o “collettività”, che potrebbe far apparire irrealizzabile l’intero progetto delle Compassionate Cities.  Pertanto, è bene precisare che per comunità si intende una serie di reti specifiche (scuole, luoghi di lavoro, abitazioni e quartieri, sindacati, luoghi di cultura, associazioni, luoghi di assistenza per gli anziani), capaci di condividere il peso della cura in modi anche pratici. Affinché questo avvenga, le reti di solidarietà devono essere preparate a sostenere questo ruolo, apprendendo cosa dire e cosa fare per essere d’aiuto a chi affronta l’esperienza della malattia, della vecchiaia, del morire e del lutto. Le Compassionate Cities prendono sul serio domande come: “in che tipo di società voglio vivere?”, “Come vorrei che le persone si comportassero nei miei confronti quando dovrò affrontare la morte e la perdita dei miei cari?” La compassione non va pensata come un meritorio atteggiamento individuale, ma come un impulso potenzialmente universale, che può e deve produrre cambiamento nei luoghi di lavoro, nelle scuole, nelle chiese e nei luoghi di aggregazione dei cittadini. Le città compassionevoli si propongono di soddisfare i bisogni delle persone anziane, di chi convive con malattie mortali e di chi ha subìto una perdita, non solo dal punto di vista sanitario. Occorre a tale scopo vedere la salute, la morte e la perdita come fasi del ciclo della vita. Peraltro, le persone che attraversano fasi difficili della propria vita (in quanto anziani, malati, morenti, o dolenti) hanno spesso molto da comunicare al resto della comunità. Da questo punto di vista, i media (ma anche le scuole e i luoghi di insegnamento) hanno un ruolo centrale nel ridare la parola a persone che ne sono solitamente prive. Inoltre, queste città si preoccupano del rispetto delle differenze sociali e culturali: la compassione non può ignorare l’universalità dell’esperienza della perdita, che va intesa in senso lato. L’emarginazione (causata da razzismo, sessismo, discriminazione nei confronti degli anziani, eccetera) è una preoccupazione delle Compassionate Cities, perché crea morte e perdita nella vita degli altri, talvolta simbolicamente, talvolta concretamente e fisicamente. La scuola ha un ruolo centrale in tale processo educativo comunitario, perché è il luogo dove è possibile imparare gli uni dagli altri. Riconoscere le differenze non significa costruire stereotipi religiosi o culturali, anzi, occorre imparare a mantenere aperta e fluida la mente, perché le identità e gli approcci sono storici, e quindi esposti al cambiamento. Infine, le città compassionevoli si fanno carico di garantire cure palliative e supporto al lutto, e di inserirli nella loro pianificazione politica di governo locale, evitando che la morte e la perdita restino esperienze private e individuali; e promuovono la solidarietà, il rispetto e la fiducia tra cittadini, la dimensione comunitaria e conviviale e l’ampliamento delle reti di collaborazione. Che ne pensate di questo approccio? Credete che valga la pena fare lo sforzo per raccogliere le forze e promuovere le Compassionate Cities anche in Italia? Io penso che siamo pronti, che i tempi siano maturi, che questa possa diventare un’utopia concreta, nel senso dato a questa espressione dal filosofo Ernst Bloch: la concretezza dell’utopia sta nel fatto che il suo “non-ancora” in qualche modo esiste già, sia nel desiderio, nella speranza, nell’impegno degli uomini, sia come tendenza dell’evoluzione storica. Sono molto interessata alle vostre considerazioni.
https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2024/05/People-together-2-584x584-copia.jpg 265 350 sipuodiremorte https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2024/05/93409bba-2fe8-4231-86b3-36648bff989e.png sipuodiremorte2024-05-24 11:15:232024-05-24 10:51:27Compassionate cities: utopia concreta? di Marina Sozzi

Riflessioni sulla buona morte, di Marina Sozzi

9 Aprile 2024/13 Commenti/in Riflessioni/da sipuodiremorte

Scrivo questo post a partire da un interessante incontro al quale ho partecipato in Vidas, insieme a Carlo Casalone e Luciano Orsi, il 5 marzo 2024, sulla buona morte. Ringrazio pertanto Caterina Giavotto per questo invito, che mi ha indotto a riflettere su questo tema.

Dobbiamo innanzitutto chiederci che cosa significhi “buona morte”, ed evitare di dare per scontato questo concetto.

Occorre prima di tutto non mitizzarne il tema. L’obiettivo delle cure palliative è accompagnare, per ottenere la migliore qualità della vita possibile. Tuttavia, la buona morte non dipende solo dalla qualità delle cure, ma anche da come ciascuno di noi ha vissuto, e da come ha affrontato la domanda sulla morte nel corso della vita. Hans Küng, teologo cattolico della dissidenza, diceva che la buona morte è da un lato un compito, dall’altro un dono. Nella parola “dono” è espressa anche la parte di incontrollabilità che riguarda la buona morte, le caratteristiche e le evoluzioni della patologia. Nella parola “compito” c’è invece il ruolo della soggettività del paziente. E tuttavia, credo che la buona morte possibile non sia neppure un fatto individuale, ma risieda nella triangolazione della relazione tra paziente, familiari e curanti: un compito condiviso, quindi.

Ma la buona morte è buona per chi? Dobbiamo farci questa domanda, per evitare di proiettare, come curanti, la nostra idea di buona morte sul paziente, mettendo inconsapevolmente in sordina i suoi desideri. Ovviamente, la morte deve essere buona soprattutto per chi se ne va, ma è importante anche per chi resta (il lutto è influenzato dalla morte che ha avuto la persona cara, lo dico anche per esperienza personale). Questo non significa che il familiare possa prevaricare il volere del morente, ma che i curanti debbano sempre cercare di “portarlo con sé”, di non lasciarlo solo con i suoi timori o le sue fantasie. Un esempio potrebbe essere quello della richiesta, da parte del paziente, di sedazione palliativa, quando i familiari non sono pronti a separarsi dal loro caro. L’abilità dei curanti (Sonia Ambroset lo dice magistralmente nel suo libro sulla sedazione) consiste nella condivisione, nella spiegazione, nell’accompagnamento.

Talvolta ci si chiede se la buona morte possa essere un diritto. Io credo che ci siano diversi diritti da tutelare alla fine della vita. Primo tra tutti, garantito anche dalla legge 38/2010 (non ancora pienamente applicata), il diritto a ricevere cure palliative qualora ve ne sia l’esigenza. Poi la dignità delle persone, il rispetto della loro identità e unicità, malgrado la malattia e l’avvicinarsi della morte. Tutelare la dignità significa, per i curanti, rivolgere sguardi pieni di rispetto verso i malati. E significa anche, al contempo, preservare l’autodeterminazione, la capacità di compiere scelte. Vale la pena soffermarsi un attimo sul concetto di autodeterminazione. Benché spesso si pensi all’autodeterminazione come a un diritto umano, e come tale universale e già acquisito alla nascita (cosa peraltro vera), occorre tenere presente che non tutte le persone sono abituate a prendere decisioni per sé. L’autodeterminazione deve quindi essere un obiettivo concreto della cura, ossia le persone vanno accompagnate a prendere le decisioni migliori per sé, coinvolgendo le famiglie e le comunità (intese come reti di relazioni di ciascuno) e aiutandole a comprendere le scelte compiute dal loro caro.

Invece, non credo sia produttivo dare alla buona morte lo statuto di un diritto. Si rischia di scivolare in una vicenda analoga a quella della felicità. Definita la ricerca della felicità come diritto nel XVIII secolo, inserita come tale nella Costituzione americana, essere felici è poco per volta divenuto un dovere, o perlomeno una forte pressione sociale: se non hai saputo procurarti la felicità non vali nulla, se non sei felice sei un fallito. Non vorrei che toccasse la stessa sorte alla buona morte, se vogliamo definirla come diritto. C’è il rischio che si infiltri in questo concetto un elemento di giudizio (negativo) per chi, ad esempio, non riuscisse a conciliarsi con la propria morte.

Un altro punto importante è la preparazione alla morte: è importante al fine della buona morte, come afferma Küng?

Esiste una lunga storia dell’idea che sia necessario prepararsi alla morte per averne una buona. Scopo delle Artes Moriendi del 1400 era preparare il morente e coloro che lo assistevano, mediante la preghiera e il respingimento delle tentazioni. Erasmo da Rotterdam, nella sua celebre opera De praeparatione ad mortem del 1534, indica due “cure” contro la paura della morte: una invita il lettore a percorrere mentalmente le tappe della propria esistenza per rendersi conto della sua caducità e di quanto sia colma di preoccupazioni e di dolori; l’altra si incentra sulla fede in Dio, unica difesa atta a sconfiggere i limiti, le imperfezioni e la fragilità della condizione umana.

Ancora nel 1620 con il Cardinale Bellarmino indica come norma sicura del buon vivere, e anche del buon morire, il meditare spesso e seriamente che si dovrà rendere conto a Dio delle proprie azioni e del proprio modo di vivere, e cercare di non accumulare ricchezze in questa terra, ma di vivere semplicemente e con carità in modo da procurarsi beni celesti.

Che ne è oggi della preparazione alla morte in un contesto molto secolarizzato? Ha senso? E’ possibile?

Nel suo libro Morire all’italiana, Asher Colombo ha fatto otto domande molto concrete a un campione di italiani sulla preparazione alla morte: ha chiesto se avevano dato disposizioni sul destino delle proprie spoglie; comunicato ai familiari la collocazione dei documenti importanti; espresso la propria volontà sulla donazione degli organi; lasciato le proprie DAT; pianificato il proprio funerale; comunicato le password dei propri account e social network; stabilito a chi affidare la cura dei propri cari; fatto testamento. Dalle risposte a queste domande Colombo deduce che circa il 43% degli italiani non si è preparato affatto alla propria morte. Ha senz’altro un valore, soprattutto per chi rimane, trovare le cose in ordine.

Io però credo che sia necessario un approccio più complesso. E penso che ci siano vari modi, anche molto personali, per prepararsi alla morte: pensarci, ad esempio, trovare una consolazione alla finitezza, informarsi sulle cure palliative, familiarizzarsi con la propria vulnerabilità e mortalità. Cose che è difficile indagare con un sondaggio.

Non possiamo eludere, inoltre, a proposito di buona morte, la questione della morte volontaria. La buona morte può essere anche morte nel tempo ritenuto opportuno dal morente? Credo che andiamo verso il riconoscimento della possibilità di scegliere di abbreviare il proprio tempo, anche in Italia. Con una legge, non solo mediante la sentenza della Corte costituzionale. La caratteristica del mondo in cui viviamo è la pluralità: delle religioni, delle credenze, degli stili di vita, degli atteggiamenti nei confronti della vita e della morte: quindi la chiave di volta dell’etica contemporanea, in sanità, è per me il rispetto delle diverse prospettive.

Occorre però che l’opzione del suicidio assistito non ostacoli la crescita delle cure palliative, altrimenti si finirebbe non per aumentare, ma per ridurre le scelte possibili.

Io non credo neppure, però, che il mondo delle cure palliative debba tirarsi fuori da questa riflessione. Credo anzi che, essendo l’unico soggetto ad avere dimestichezza con il fine vita, abbia molto da dire. So che ci sono sensibilità diverse su questo tema nel nostro mondo, e che alcuni rifiutano decisamente ogni interruzione prematura della vita. E so anche che esiste il timore che le persone rifiutino le cure palliative perché vengono ancora confuse con pratiche di abbreviazione della vita. E tuttavia, penso che a tale riflessione occorra andare incontro, facendo chiarezza, con un lavoro culturale costante e paziente.

Cosa pensate voi della buona morte? Che esperienze avete fatto? Pensate che si possa preparare?

Vi ringrazio in anticipo per i vostri preziosi commenti.

https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2024/04/costruire_la_buona_morte_rid.jpg__1200x675_q85_crop_subsampling-2_upscale-copia.jpg 265 350 sipuodiremorte https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2024/05/93409bba-2fe8-4231-86b3-36648bff989e.png sipuodiremorte2024-04-09 11:20:522024-04-09 11:20:53Riflessioni sulla buona morte, di Marina Sozzi

Quali foto per le cure palliative. Intervista a Domiziano Lisignoli, di Marina Sozzi

16 Febbraio 2024/2 Commenti/in Riflessioni/da sipuodiremorte

Abbiamo intervistato Domiziano Lisignoli, fotografo e teorico della fotografia, autore del volume Negli occhi di chi guarda. L’equilibrio di senso nella fotografia, tra testo e contesto, del 2023, che si interroga, tra l’altro, sul rapporto tra fotografia e dolore.

Se si cerca su Google immagini di “cure palliative” si trovano prevalentemente fotografie di scarsa qualità, che ritraggono in vari modi mani che si intrecciano, la mano del curante posata sulla mano del curato, mani che tengono un cuore rosso, eccetera. Per quali ragioni secondo te c’è così poca fantasia nel rappresentare l’operato di chi accompagna la malattia inguaribile?

Mi sono cimentato più volte in questa ricerca. Ciò che osservo è una visione statica: ormai da anni le cure palliative sono rappresentate da quell’intreccio di mani cui fai riferimento. Una cosa che mi colpisce è che in molti casi la mano del curante e quella del curato sono riconoscibili solo dalla posizione, talvolta dal gesto, ma sono mani molto simili tra di loro, e nessuna delle due mostra traccia della malattia o della sofferenza.

In alternativa, ci sono le metaforiche foto di tramonti e di “fiori soffioni” che hanno dominato la scena per molti anni: sono foto puramente evocative, che sottendono una certa paura di mostrare la persona e la sofferenza. Questo è un punto nodale: si ha paura.

Dei tre soggetti coinvolti nelle fasi di scatto (fotografo, soggetto, e struttura in cui si fotografa), ho notato che i timori che più facilmente portano ad un blocco si trovano nel personale della struttura, che spesso si erge anche a paladino dei diritti della privacy del morente; il quale invece, altrettanto spesso, è orgoglioso di essere coinvolto in un progetto fotografico.

Altre immagini frequenti sono quelle di agenzia: su questi siti cercando “cure palliative”, si trovano foto costruite, in cui il ruolo del malato è interpretato da un attore, una persona anziana e sorridente, ed il ruolo del curante da una figura rassicurante anche nell’aspetto: sono foto in cui non ci sono malati giovani e non ci sono medici/infermieri grassi, calvi o con le occhiaie. Tutto è perfetto. Esiste una ricerca al riguardo pubblicata sul Journal of Death and Dying, condotta in Svizzera da Gaudenz Metzger, dell’alta scuola d’arte di Zurigo, di cui cito un passaggio:

“È naturalmente problematico se tutto ciò che circonda la morte viene visto come qualcosa di terribile, ma è altrettanto problematico che venga abbellito. Queste immagini distorte suscitano aspettative che non possono essere soddisfatte nel mondo reale.”

Metzger si riferisce ad uno studio in cui sono state analizzate più di 600 foto utilizzate per promuovere le cure palliative, in cui si nota l’assenza del lutto e del dolore.

Quando non troviamo mani, spesso troviamo siringhe, aghi, flebo…. Terapia certo, ma non cura, non nell’accezione di cure palliative. Non c’è la cura intesa come relazione.

Oggi però alcune istituzioni del Terzo settore, che offrono cure palliative specialistiche gratuite, usano la fotografia per documentare il proprio operato e per creare nel pubblico la commozione necessaria per raccogliere fondi. Manca però, nella maggior parte dei casi, una riflessione (che vada oltre la necessità di avere una liberatoria) sull’utilizzo delle immagini. Cosa possiamo dire a questo proposito? C’è un tema etico di cui tenere conto?

Questo è verissimo, ci si ferma alla liberatoria, passaggio obbligato, che ci mette al riparo da eventuali problemi giuridici, ma non sufficiente. Bisogna andare oltre, anzi, è fondamentale lavorare prima con un progetto culturale, che porti a dare una prospettiva al discorso visivo: è necessario avere una strategia comunicativa, porsi delle domande a monte, la prima delle quali, “cosa vogliamo dire e fare con le nostre foto?” Naturalmente, le immagini destinate ad una raccolta fondi saranno diverse da quelle destinate alla sensibilizzazione sull’argomento. Va da sé che non è sufficiente avere foto “belle”, ma devono essere foto adatte al progetto.

Quando parlo di progetti, non penso necessariamente a qualcosa di faraonico, ma a qualcosa di strutturato, pensato e condiviso tra coloro che si occupano di diffondere la cultura del fine vita. Una sorta di equipe culturale sul tema, che stabilisca le linee guida del lavoro da svolgere, che definisca ad esempio se le foto dovranno esprimere il punto di vista del malato, dei suoi affetti, o quello dei sanitari o del fotografo. Senza una riflessione a monte, avremo foto difficili da leggere, ed in ultima analisi avremo foto inutili.

Visitando siti di associazioni che si occupano di cure palliative, se ne trovano ora alcuni che sanno usare la fotografia in modo diretto, senza nascondere la malattia, ma documentando con garbo il lavoro di operatori e volontari, le emozioni e gli stati d’animo dei pazienti. Sono foto che non vengono evidenziate dai motori di ricerca, ma sono il segno di qualcosa che inizia a muoversi. Si tratta delle realtà che sanno progettare e sanno gestire i timori di cui ho parlato sopra.

Ci sono state iniziative di concorsi fotografici sulle cure palliative. Hanno contribuito a rappresentare questo mondo?

Ho visto molte foto di concorsi fotografici proposti da associazioni legate alle cure palliative, e anche qui il grande assente è un progetto: non è sufficiente individuare un tema.

Ci sono foto interessanti, ma sono scatti singoli, e non ci danno una prospettiva, non emerge il punto di vista del fotografo. Mi sembra che si possano dividere in due blocchi le foto che negli anni hanno partecipato a concorsi di questo tipo: da un lato vediamo le foto più varie, spesso le mani, come abbiamo già detto, o scatti che, se non sono accompagnati da un testo, risultano poco comprensibili all’interno di questo contesto, dall’altro lato vediamo le foto che parlano di terapia (che mi sembrano in aumento).

Anche nel caso dei concorsi, bisognerebbe partire da un progetto culturale: in sua assenza emerge una notevole frammentazione, e non si riesce ad avere una visione di insieme. Il concorso poi va organizzato, vanno coinvolti fotografi esterni al mondo delle cure palliative, va curata la comunicazione, e soprattutto è fondamentale che la giuria sia qualificata e non si limiti a stilare una classifica, ma che sia chiara nelle motivazioni delle proprie scelte. Sembrano banalità, ma ho visto molti concorsi perdere efficacia proprio perché gestiti male nonostante mostrassero delle buone potenzialità iniziali. Tra l’altro, aprire a fotografi esterni a questo mondo, significa anche avere un feedback su come le cure palliative siano percepite.

Tu hai fatto foto in hospice. Ci vuoi raccontare come ti sei accostato alla sofferenza delle persone e che senso ha avuto per te scattare in quel contesto?

Il mio primo incontro con l’hospice risale a più di dieci anni fa, quando stavo lavorando a Di mano in mano, un progetto personale da cui sono nati un libro ed una mostra patrocinati dalla Federazione Cure Palliative. L’idea di fondo è che le mani ci accompagnano lungo tutta la vita, perché si nasce nelle mani dell’ostetrica, ed il malato terminale cerca conforto nel contatto con la mano di una persona cara. Quindi ho rappresentato anche io delle mani (era il mio progetto), ma ho cercato una mano consumata dalla malattia, e mi sono affidato anche ad altri piccoli particolari per rendere riconoscibili il ruolo del curante e quello del curato: il polsino di una camicia a quadretti, ed il polsino di un pigiama, vanno a connotare le mani rispettivamente del caregiver e del malato in modo inequivocabile,  coerentemente con le due mani raffigurate.

In quel periodo lavoravo già da tempo in ambito sociale e sanitario, in particolare avevo maturato una buona familiarità nel fotografare il lavoro delle ostetriche in sala parto, ma quando iniziai a strutturare il progetto, al pensiero di fotografare un morente reale, mi bloccai: non fotografare gli ultimi attimi di vita sarebbe stato ipocrita, ed il progetto sarebbe stato incompleto; ricorrere alle mani scarne di un anziano, e definirle di un morente, sarebbe stato scorretto nei confronti dei miei lettori,  ma chiedere ad un morente di posare, per quanto unica soluzione,  mi sembrava di difficile realizzazione.

Il primo passo è stato quindi quello di superare il mio timore, e contattare un hospice per capire se si potesse realizzare l’immagine che avevo in mente, di cui ho parlato in precedenza. Ricordo benissimo tutte le fasi, le paure di essere inopportuno, indiscreto, magari anche egoista nel puntare un obiettivo verso una persona cui chiedevo di partecipare ad un progetto, ma che sapeva benissimo di non avere il tempo per vederlo realizzato.

Tutte le paure si sciolsero quando i miei occhi incontrarono quelli di Franca, la persona che Katri Mingardi, psicologa dell’hospice cui mi ero rivolto, aveva individuato come adatta a questo progetto. Franca mi accolse con un sorriso, lucida, e ci fu un bel dialogo di preparazione senza alcuna maschera. Questa credo sia la chiave, evitare recite, ma essere sé stessi, trasparenti, discreti, in punta di piedi. Franca morì poche ore dopo, chiaramente non ebbe il tempo di vedere il libro pubblicato, ma quando vidi il marito ed i figli per consegnare la stampa della foto utilizzata, e ringraziarli nuovamente, mi sorpresero con le loro parole: “Franca ci ha fatto un bel regalo”.

Da quel momento ho realizzato altri servizi in hospice, ho quasi abbandonato il lavoro con il materno infantile, ed ho iniziato lavorare su progetti volti a sensibilizzare verso le cure palliative ed il fine vita. Il passaggio in hospice è stato quindi un punto di svolta per me, per la mia visione, non solo professionale. Perché fotografare la morte significa viverla, e viverla significa conoscerla un po’ di più.

Cosa ne pensate? Vi siete mai interrogati sulle immagini relative alle cure palliative? ne avete scattate?

https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2024/02/mani-ospedale_shu_53417668_1600x900-copia.jpg 265 349 sipuodiremorte https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2024/05/93409bba-2fe8-4231-86b3-36648bff989e.png sipuodiremorte2024-02-16 09:26:232024-02-16 09:26:23Quali foto per le cure palliative. Intervista a Domiziano Lisignoli, di Marina Sozzi

Cure palliative e complessità, di Marina Sozzi

27 Novembre 2023/10 Commenti/in Riflessioni/da sipuodiremorte

La riflessione sulla complessità sembra aprire nuovi punti di vista su molte questioni, in tutti gli ambiti, compreso quello della cura. Credo che gli studi sulla complessità possano aiutare a integrare la cultura ancora troppo riduzionista della biomedicina. A patto che si tenga a mente che, come scrive Edgar Morin: “La complessità non potrà mai essere definita in modo semplice e prendere il posto della semplicità. La complessità è una parola problema e non una parola soluzione.”

Ora, le cure palliative sembrano aver in parte già assorbito l’idea di complessità, in quanto consapevoli, nella loro prassi, dei limiti del riduzionismo e del rilievo dell’esperienza soggettiva della malattia. Il tema della complessità è stato inoltre recentemente trattato in letteratura nell’ambito delle cure palliative, anche in Italia. Mi riferisco, ad esempio, all’articolo dal titolo Complessità e cure palliative, del 2019, in libero accesso sulla Rivista Italiana delle Cure Palliative, (che potete leggere qui).

L’articolo si sofferma su come individuare la complessità dei malati con bisogni di cure palliative, facendo riferimento a studi internazionali. Tra questi ultimi, uno è preso in particolare considerazione (di Sophie Pask) che mette in evidenza i numerosi elementi di cui tener conto per farsi carico della complessità dei pazienti: dai bisogni e dalle caratteristiche della persona, al cambiamento della sua situazione nel tempo, alla possibile discordanza tra paziente, famiglia e operatori, fino, allargando progressivamente lo sguardo, ai pregiudizi e alla complessità invisibile, alla disponibilità dei vari servizi specialistici, per concludere a quello che viene definito il macrosistema, ossia la società. L’articolo descrive anche uno strumento, che si chiama PALCOM, per individuare la complessità in cure palliative. Vi risparmio l’elenco dei “fattori di rischio”.

Infatti, quello che qui mi interessa è sottolineare che farsi carico della complessità, in cure palliative, va molto oltre l’identificazione del cosiddetto “paziente complesso”. La prima perplessità su tale identificazione deriva dall’impressione che in tal modo si oggettivi la complessità del paziente, e si ponga, di fronte al paziente cosiddetto “complesso”, un operatore neutrale, che “guarda” il paziente e ne valuta la complessità.

Credo invece che le cure palliative, in virtù della loro vocazione critica nei confronti della medicina, possano fare un passo più in là, anche dal punto di vista teorico.

Complesso è, in primo luogo, un sistema in cui vi è forte interconnessione e interdipendenza dei fenomeni, e instabilità della situazione. Ogni sistema ove esista il fattore umano lo è.

I nostri modelli e schemi sono ancora troppo influenzati da una visione lineare della realtà, considerata governabile e predicibile. Ma come è possibile assumere in modo più compiuto la complessità? In primo luogo occorre comprendere che in un sistema complesso:

  • la causalità è circolare: in un contesto interdipendente, causa ed effetto tendono a confondersi. Ad esempio, la difficoltà a confrontarsi con una famiglia ne provoca l’aggressività o viceversa? Come è intuibile, vi sono moltissimi circoli sia viziosi sia virtuosi;
  • l’approccio è olistico, ossia occorre tenere conto di tutte le parti del sistema (sia nel caso che il sistema considerato sia il corpo umano, o una famiglia, o l’intera rete locale delle cure palliative): non significa sostituire l’approccio più specialistico e verticale, ma integrarlo;
  • il punto di vista di chi osserva non è neutro né passivo: il sapere nasce dall’interazione tra il soggetto attivo e la realtà. Il nostro comportamento nasce dall’interconnessione con gli altri, dall’interpretazione che diamo al contesto nel quale ci muoviamo, dalle domande che ci poniamo: cosa sta avvenendo? Che cosa provo? Che cosa prova l’altro? Che intenzioni ha?
  • occorre rinunciare alle “ipersoluzioni”: ciò significa ricusare le soluzioni semplicistiche o le soluzioni normate e sperimentate, che quindi appaiono solide ed efficaci. I protocolli medici, se applicati senza porsi quesiti, sono un esempio di ipersoluzione.

Quindi come possiamo fare a «stare» nella complessità? I sistemi complessi si affrontano attraverso una strategia «try and learn», ossia mediante uno schema che prevede: azione-apprendimento-adattamento. Perché tale schema funzioni occorre allenarsi a tollerare l’incertezza e avere audacia nell’azione. Ma alla base, perché si possa «stare nella complessità» in modo costruttivo, occorre una competenza di pensiero complesso. Ma che significa?

Pensare vuol dire soprattutto vincere il pilota automatico. Infatti il nostro cervello, per risparmiare energia, attiva meccanismi ripetitivi e automatici di comportamento.  Il comportamento degli individui è inoltre influenzato da un conformismo sociale spesso inconsapevole, attivato dal bisogno di essere accettati dagli altri. Gli automatismi vanno bene in tutte le situazioni semplici o complicate, dall’allacciarsi le scarpe a costruire un’automobile, ma sono deleteri qualora ci si trovi di fronte a una situazione complessa. Pensare per analogia, infatti, riduce la nostra capacità di contestualizzare, quindi di comprendere realmente che cosa stia accadendo prima di agire. Questo schema limita l’apprendimento e il continuo riadattamento, che è il migliore modello per le situazioni complesse. Il dubbio è il pilastro centrale del pensiero complesso.

Attraverso il dubbio il cervello è in grado di liberarsi dal nostro bisogno di conformismo sociale (impulsi che vengono dall’interno) o dai condizionamenti che provengono dal contesto in cui viviamo (condizionamenti che vengono dall’esterno). Occorre porsi continuamente domande senza dare nulla per scontato.

Un altro errore che potremmo fare in cure palliative è prendere decisioni coerenti con il nostro sistema di valori. Siccome farlo ci fa sentire bene, il rischio di attivare meccanismi automatici di comportamento è alto. Se prendiamo decisioni fondate sulle nostre convinzioni ideologiche, non stiamo ancorando la decisione al contesto, e potremmo essere spiazzati dalle conseguenze. In cure palliative questo aspetto sembra molto rilevante, perché la fine della vita tocca temi ideologici e religiosi.

In sostanza, il numero di domande che affiorano nella mente dell’operatore prima di entrare in azione misura la qualità del suo pensiero e in particolare la sua «ridondanza cognitiva», che è la capacità di farsi le domande giuste, di riuscire a cambiare prospettiva per osservare la situazione da punti di vista differenti. E per farsi le domande giuste, occorre allenarsi, nutrire l’attitudine a dubitare e a non dare nulla per scontato. Maggiore è il numero di domande che ci si fa quando si deve prendere una decisione, minore sarà la probabilità di essere sorpreso dagli eventi e di generare soluzioni semplificatorie. L’importante non è non sbagliare mai, ma apprendere dalla situazione e dagli errori, e moltiplicare le domande.

Mi interessa molto la vostra opinione. Se siete operatori, avete esempi di situazioni complesse nelle quali avete saputo porvi le domande giuste? O al contrario esempi di situazioni in cui non siete riusciti a mettervi in gioco e non avete dubitato delle vostre soluzioni? E ancora, pensate che questa riflessione sia utile, che possa far crescere le cure palliative?

https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2023/11/la-sfida-della-complessita.jpg__1200x675_q85_crop_subsampling-2_upscale-e1701019696903.jpg 265 351 sipuodiremorte https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2024/05/93409bba-2fe8-4231-86b3-36648bff989e.png sipuodiremorte2023-11-27 12:09:312023-11-27 12:09:32Cure palliative e complessità, di Marina Sozzi

Come sostenere il bisogno spirituale alla fine della vita? di Marina Sozzi

13 Novembre 2023/22 Commenti/in La fine della vita/da sipuodiremorte

Sono convinta che alla fine della vita la dimensione della spiritualità divenga più rilevante. L’homo faber, infatti, che generalmente ha avuto un ruolo preponderante durante la maggior parte della vita, va esaurendosi. A questo punto della storia biografica delle persone la ricerca di senso è uno snodo inevitabile. La malattia e la morte fanno emergere gli interrogativi sul senso sia nelle persone sia negli operatori, che sono a contatto ogni giorno con il morire degli altri.

Inevitabilmente, il confine tra la vita e la morte interseca la dimensione del sacro, del mistero, del trascendente (inteso in senso lato, come ciò che va oltre la quotidianità dell’esperienza). Per questo è fondamentale che le équipe di cure palliative siano consapevoli che il terreno su cui si muovono è costituito anche dalla dimensione spirituale.

Tuttavia, ho cercato anche di pormi un altro interrogativo, che mi pare serpeggi nelle istituzioni che offrono cure palliative, ma al quale non è ancora stata data una risposta definitiva. La questione è: la dimensione spirituale è propria dell’équipe nel suo complesso, oppure è utile, e magari opportuno, che esista una figura di assistente spirituale laico che si occupi di questo versante dell’esperienza della fine della vita? Non entro invece nel merito della presenza di assistenti spirituali religiosi, delle varie confessioni, che possono essere presenti oppure essere chiamati dall’équipe, una volta individuato il bisogno del paziente o del familiare. Per scrivere questo articolo mi sono confrontata con alcune persone, che desidero ringraziare, perché mi hanno permesso di entrare nel merito del loro lavoro: Caterina Giavotto, assistente spirituale in Vidas, a Milano; Claudia Cavegn, assistente laica (cattolica) al Regina Margherita, ospedale pediatrico a Torino, e infine Guidalberto Bormolini, sacerdote della comunità dei Ricostruttori, e promotore della scuola di assistenza spirituale. E mi è stato inoltre utile, per chiarire le mie idee, leggere il  in assistenza spirituale della Società Italiana delle Cure Palliative, del 2019, che potete consultare qui, e che offre una riflessione molto ricca, problematica e sfaccettata.

In questo periodo, peraltro, molte istituzioni si sono concentrate sul tema della spiritualità, costruendo corsi (ad esempio quello dell’Unione Buddisti Italiani, ma soprattutto la Scuola di Alta Formazione per l’assistente spirituale in cure palliative di Ricostruire la Vita, promosso da Fondazione Luce per la Vita, Associazione TuttoèVita ETS, Federazione Cure Palliative, Società Italiana di Cure Palliative).  Il Core Curriculum della SICP esordisce affermando che l’obiettivo del documento non è tanto di formare figure di assistenti spirituali, quanto di definire quali competenze debba acquisire l’équipe, nel suo complesso, per poter aiutare i pazienti e le famiglie ad affrontare le complesse domande di carattere spirituale che si affacciano alla fine della vita.

In effetti, molti degli aspetti citati come parte di un’ipotetica formazione dell’assistente spirituale sono, senz’altro, elementi propri di una cura di qualità: la compassione, (in senso etimologico di cum patior), l’ascolto, la comunicazione non giudicante, eccetera.

Da questo punto di vista, mi pare che ci sia una certa sovrapposizione tra la figura dello psicologo (che alla fine della vita si occupa proprio del senso e delle relazioni) e quella dell’assistente spirituale: sovrapposizione che le persone che ho intervistato, ad esempio Caterina Giavotto, confermano essere presente. Anzi, ribadisce Claudia Cavegn, “non si tratta di una frontiera”, c’è lo spazio comune dell’ascolto. E Bormolini sottolinea che non dobbiamo circoscrivere gli ambiti, perché dobbiamo mantenere la logica della “persona integrale”: “se spezziamo, frammentiamo”.

Tuttavia, ciascuno di loro sottolinea un aspetto specifico del proprio lavoro, non comune con l’operato dello psicologo. Bormolini ha subito chiara la specificità della dimensione spirituale, che ha a che fare, per lui, con il trascendente (in senso ampio: se non hai qualcosa per cui morire non hai qualcosa per cui vivere), il mistero, l’orientamento (avere una direzione) e il senso di comunione con qualcosa di più grande.

Caterina Giavotti mi racconta invece di una signora che aveva chiesto di vedere un frate (non un prete). Voleva una figura con un ruolo trasversale nella chiesa. Perché? Le ha chiesto Caterina. La signora aveva, nella sua biografia, due aborti, ed era terrorizzata che “Gesù non l’avrebbe perdonata”. Insieme hanno costruito (inventato) un piccolo rito, con la meditazione, una preghiera, e con una scatolina in cui lasciar andare l’accaduto e il rimorso, un rito che ha alleggerito molto la signora in questione.

Anche Claudia Cavegn mette l’accento sull’aspetto rituale: nella sua esperienza c’è una famiglia Rom con una bimba vicina alla fine della vita, una famiglia nella quale il marito è musulmano e la mamma ortodossa. La mamma, quando ha saputo che la speranza di guarigione non c’era più, ha chiesto che la bimba fosse battezzata. Quando ha saputo che Claudia poteva battezzarla, non le è importato che fosse cattolica. La rilevanza simbolica del rito l’ha fatta andare oltre i confini della propria confessione religiosa.

La dimensione del rito (e di un rito non religioso in senso stretto) è interessante. La morte, come scriveva Van Gennep, e molti altri antropologi con lui, è un rito di passaggio. Per chi resta, naturalmente. Ma talvolta anche chi se ne va ha bisogno di una dimensione rituale, un’azione che simbolizzi qualcosa che non si riesce a dire altrimenti, o ad elaborare altrimenti (come la signora che aveva abortito).

Questa dimensione è interessante anche perché sono convinta che le invenzioni rituali possano avere un ruolo rilevante in una società molto secolarizzata come la nostra. Per molti, la scatolina è più efficace dell’unzione dei malati.

Il core curriculum di SICP propone inoltre che la formazione preveda una cultura di massima sulla dimensione rituale e culturale delle religioni. Il che può senz’altro essere utile, mantenendo però la consapevolezza della complessità e della pluralità delle modalità di abbracciare uno stesso credo. Di fronte a una persona, non ci basta sapere, ad esempio, che è musulmana. Diverso è l’islam in diverse parti del mondo e, anche all’interno di una medesima area geografica, in vari strati sociali, e in famiglie diverse. Inoltre, talvolta può accadere che le persone in terra d’accoglienza modifichino l’atteggiamento religioso che avevano in patria. La formazione in “assistenza spirituale” va dunque usata per avere un inquadramento di tipo generale, e non per incasellare i bisogni dei pazienti o dei familiari.

Non ho naturalmente una risposta definitiva alla questione del ruolo dell’assistente spirituale, e concordo con il documento SICP che non è possibile avere la preparazione necessaria a espletare questo ruolo attraverso un corso, perché si tratta di qualcosa di più di una competenza: piuttosto è un atteggiamento nei confronti del mondo e della vita, che si nutre di esperienze reiterate, dalle quali si apprende e si affina la propria spiritualità, indispensabile per confrontarsi con quella degli altri.

Volevo solo portare alcuni punti alla riflessione, e sono naturalmente in ascolto delle vostre considerazioni, risposte ed esperienze. E grazie come sempre per il fruttuoso dibattito che sempre emerge da queste pagine!

https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2023/11/RobertPopeSparrow1989-e1699889434691.jpg 265 350 sipuodiremorte https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2024/05/93409bba-2fe8-4231-86b3-36648bff989e.png sipuodiremorte2023-11-13 16:56:492023-11-21 13:40:11Come sostenere il bisogno spirituale alla fine della vita? di Marina Sozzi

La scuola della dignità, di Marina Sozzi

20 Luglio 2023/18 Commenti/in Riflessioni/da sipuodiremorte

Quando siamo più fragili, quando ci colpisce la malattia o entriamo nella vecchiaia, e necessitiamo di cure mediche e di sostegno, abbiamo bisogno che la nostra dignità, che abbiamo tutelato da soli nel corso della nostra vita, sia invece protetta anche con l’aiuto degli altri.

Invece, purtroppo, è proprio nei luoghi di cura che spesso le preoccupazioni di ordine organizzativo hanno la meglio sulla difesa della dignità dei pazienti. Vi racconto solo un breve episodio, che è rimasto scolpito nella mia mente. Qualche mese fa ho dovuto portare mio padre novantacinquenne al Pronto soccorso di un ospedale della mia città, che gode di un’ottima reputazione. Abbiamo atteso diverse ore, e papà era molto stanco, ma presente. Infine, un medico ci ha fatti entrare, ha cominciato a parlare con me ignorando totalmente mio padre, rivolgendosi a lui solo per brevi ordini, dandogli del tu. L’ho rimproverato «perché gli sta dando del tu?», allora si è scusato con freddezza. Poi l’ha fatto sdraiare sulla barella e l’ha spogliato davanti a tutti, senza alcuna privacy. Infine, mi ha cacciata fuori, e quando sono riuscita a rientrare papà aveva il pannolone ed era molto confuso. Ho firmato e l’ho portato via, indignata. Quel giorno, in quel Pronto soccorso, ho visto diversi anziani mortificati nella loro umanità e dignità, tra cui una vecchia suora minuta e spaurita che mi ha fatto molta tenerezza. Uscito da quell’esperienza, mio padre ricordava poco, ma non aveva dimenticato di essere stato “denudato in pubblico”. Analoghe mancanze di rispetto ho visto accadere in alcune RSA che ho visitato. Per questo vi propongo una riflessione.

Come spesso mi è già capitato di scrivere in questo blog, la percezione della propria dignità dipende anche dallo sguardo con cui gli altri ci osservano. Se quando siamo particolarmente vulnerabili diventiamo numeri, o organi malati, o molecole, è ovvio che andiamo incontro alla mortificazione della nostra persona. Se siamo poi considerati semplici ingranaggi di un sistema che privilegia il funzionamento della macchina ospedaliera, con criteri aziendalistici, è naturale che ci sentiremo umiliati nella nostra umanità, sviliti e semplificati, in una parola non rispettati.

Siccome però, nonostante le buone leggi che abbiamo, le cose non cambiano dall’alto (l’organizzazione della sanità continua a sottovalutare per lo più la legge 219 del 2017, e i suoi preziosi articoli sul consenso informato), occorre quindi la crescita di una consapevolezza dal basso, di un’educazione alla salute dei cittadini, che provochi un cambiamento di mentalità anche in chi cura.

A prima vista sembra un controsenso, ma la prima cosa da fare è abbandonare l’illusione che la medicina sia onnipotente. Se l’aspettativa è che io (o il mio familiare) siamo sempre salvati, i curanti si sentiranno esposti al rischio di una denuncia (il numero di denunce che ricevono è molto più alto degli episodi documentabili di malasanità), e lavoreranno sulla difensiva, irritabili e certo non attenti allo sviluppo di un atteggiamento di autentica compassione (in senso etimologico) ed empatia. La nostra pretesa infantile di respingere sempre la morte opera contro di noi.

Quando il nostro atteggiamento non è aggressivo e comprendiamo i limiti e gli sforzi di chi ci sta di fronte, dobbiamo però esigere il rispetto. Occorre notare i dettagli: dare del tu, parlare ad alta voce agli anziani anche quando ci sentono benissimo, portare farmaci senza spiegare di cosa si tratta e perché se ne propone l’assunzione, svegliare i malati per futili motivi, ignorare il dolore delle persone con demenza, usare in modo errato strumenti di contenzione, solo per alleggerire il lavoro degli operatori, usare indiscriminatamente il pannolone per non dover accompagnare i pazienti in bagno, e la lista potrebbe allungarsi indefinitamente, con tutti gli atteggiamenti paternalistici e irrispettosi con cui certamente anche voi vi siete scontrati in qualche luogo di cura.

Su questo fronte, le cure palliative hanno molto da insegnare, perché considerano fondamentale la tutela della dignità del malato, che viene messo al centro dell’attenzione e pensato come persona complessa di cui prendersi cura.

La parola “cura” è la chiave di volta di questa nostra riflessione. Occorre chiedere di essere “guariti” solo quando è possibile, ma pretendere sempre di essere “curati”. Curare anche quando non si può guarire è uno slogan per le cure palliative. Ma la cura (il prendersi cura della persona, e della sua qualità di vita) non va riservata solo alle persone alla fine della loro esistenza, a domicilio o in hospice, ma va estesa progressivamente alla dimensione sanitaria tout court. E’ la grande sfida che le cure palliative stanno intraprendendo dal punto di vista culturale. In primo luogo, portare le cure palliative in tutti i luoghi di cura, quindi contagiare con la propria cultura della cura rispettosa tutto il mondo sanitario. La pandemia ci ha dato un esempio della potenza trainante delle cure palliative: nei pochi centri in cui erano presenti dei medici palliativisti, le cose sono andate in modo meno drammatico.

Harvey Max Chochinov scrive, nel bellissimo Terapia della dignità: «Se la vita è una specie di camminata sul filo, la probabilità di cadere aumenta a mano a mano che ci si avvicina alla fine. Pensiamo, allora, alle cure palliative come a una rete di protezione. Nessuno può evitare la caduta, ma le cure palliative possono dare un atterraggio più morbido». Io aggiungerei che questa rete potrebbe essere stesa con il dovuto anticipo, per garantire un po’ di morbidezza anche a coloro che magari guariranno, ma che stanno attraversando un’esperienza difficile.

Sarà un percorso lungo, perché richiede un cambiamento di mentalità, ma ciascuno di noi potrebbe abbreviarlo per sé e per i propri cari, informandosi sui propri diritti e sulle cure palliative, e chiedendo una cura rispettosa, trasmettendo anche ai curanti l’esigenza di salvaguardare la percezione dei malati di essere portatori di dignità. Parliamone, raccontiamo, contribuiamo a modificare la medicalizzazione priva di umanità.

Che ne pensate?

Avete esperienze che volete raccontare? Vi è capitato di sentirvi privi di dignità in sanità?

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Le bambole rotte, intervista a Enrica Bertolino, di Marina Sozzi

13 Giugno 2023/7 Commenti/in Riflessioni/da sipuodiremorte

Abbiamo intervistato Enrica Bertolino, medico palliativista che opera presso l’Hospice di Chieri, per indagare come si approda alle cure palliative.

Qual è stata la sua formazione e il suo lavoro prima delle cure palliative?
Se mi fossi iscritta all’Università appena finita la maturità avrei scelto la Facoltà di Veterinaria. Quell’estate, però, il mio papà venne punto da un tafano ed ebbe una brutta reazione anafilattoide. Il medico che lo soccorse e che lo curò (un anestesista) non mi sembrò un uomo ma un essere con poteri straordinari. In quel momento decisi che mi sarei iscritta a Medicina e che sarei diventata Anestesista. Per 25 anni ho lavorato all’Ospedale S. Anna ed è stata un’esperienza meravigliosa, condividere con le pazienti la loro esperienza di diventare mamme, aiutarle a non soffrire durante il parto, curarle nelle tante complicanze che la gravidanza molto spesso comporta, mi ha fatto sentire un medico appagato sia dal punto di vista professionale sia da quello umano. In quegli anni, oltre a fare l’anestesista, mi sono anche occupata nella gestione del dolore oncologico nelle pazienti con patologie ginecologiche.

Perché a un certo punto ha deciso di frequentare un master in cure palliative?

Nel 2005, più che una scelta, il Master fu un’occasione alla quale fu impossibile dire di no. All’inizio del corso ero assolutamente ignara di cosa fossero e di cosa si occupassero le cure palliative.
Frequentare il Master mi piacque tantissimo, soprattutto perché vennero insegnate materie non sempre strettamente connesse all’ambito medico come per esempio l’antropologia, ricordo ancora perfettamente il significato del cannibalismo. Durante quei due anni alcuni miei compagni di corso, uno in particolare (oncologo palliativista pediatrico) continuava a ripetermi: “sei troppo anestesista dentro, tu  palliativista non lo diventerai mai.”

Cos’è cambiato nel suo lavoro di anestesista dopo aver assunto lo sguardo e l’approccio del palliativista?

Insieme ad una collega-amica che fece il Master dopo di me, iniziammo a seguire le pazienti oncologiche non solo per il controllo del dolore (sintomo per il quale veniva richiesta la nostra consulenza) ma iniziammo ad osservare le malate nella loro globalità di donne (spesso mutilate da interventi demolitori), mogli, mamme e/o figlie. Scoprimmo che il dolore morale era spesso molto più difficile da controllare rispetto a quello fisico.
Entrambe ci rendemmo conto che seppur molto formativo, il Master da solo non era sufficiente per aiutare le nostre pazienti, e così continuammo la nostra formazione palliativistica partecipando a corsi e congressi.

Cos’è accaduto perché lei abbia poi deciso di smettere di fare l’anestesista e iniziare il suo lavoro di palliativista? Ci sono stati incontri fondamentali?

E’ stato un percorso, non un accadimento singolo. Più diventavo palliativista più curavo e conoscevo quelle che a un certo punto definii “le bambole rotte” e più mi rendevo conto di quanto si sentissero sole e abbandonate nel momento in cui la medicina attiva non poteva più aiutarle.
Così come i giocattoli rotti vengono allontanati dalla cesta dei giochi, queste donne si sentivano allontanate dai curanti, da quei medici nei quali avevano riposto tutta la loro fiducia e la loro speranza di guarigione. Non trovavano nessuno capace di far capire loro che la cura della persona continua anche quando la cura della malattia non è più possibile.
Via via che i curanti si rendevano irreperibili, irraggiungibili, irrintracciabili, a quelle donne restavo io.
Conoscere il dottor Garetto è stata un’illuminazione. Sentirlo parlare è stato vedere i miei pensieri e i miei ideali trasformarsi da un groviglio confuso di energia, rabbia, frustrazione, entusiasmo e senso del buono e giusto in una linea dritta e ben delineata.

Cosa le piace di questo lavoro e perché è importante?

Mi piace essermi resa conto che c’è più vita in un Hospice che in una corsia di Ospedale. Perché in Hospice ci si occupa della vita, delle persone malate e non della malattia.
Come già detto prima, purtroppo la cura della malattia tiene troppo poco conto della persona che “la porta”. Poco conto della persona nella sua totalità: nei suoi affetti, nella sua emotività.
In Hospice il termine difficile non esiste. Esiste il termine complesso.
Difficile implicitamente è un termine che accetta la sconfitta, la mancanza di risultato. Complesso indica invece il bisogno di una grande richiesta di energia anzi di sinergia per raggiungere il risultato.
Lavorare in Cure Palliative mi fa sentire di essere sempre dalla parte del giusto, ha modificato il mio carattere, ho smesso di dovermi difendere e di dover difendere.
Poter ridare dignità agli esseri umani, guardare i loro occhi ritrovare la forza di alzarsi, fissare i miei e aprirsi in un sorriso pieno di parole e emozioni è importante.
Così come è importante sapere che in Hospice si entra per vivere pienamente l’ultima parte della vita, non per aspettare di morire. Ogni nuovo paziente è un dono, il dono di chi impara a fidarsi e ad affidarsi, il dono di chi si sente accolto e protetto. Dal mantello, dal pallium.
Ogni vita è come un libro, ogni paziente ci fa il dono di poterne leggere le pagine.

E voi come siete approdati alle cure palliative? attendiamo, come sempre, esperienze, considerazioni e riflessioni.

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Una malattia o una guerra? di Marina Sozzi

12 Febbraio 2023/12 Commenti/in Riflessioni/da sipuodiremorte

Ancora troppo frequentemente, quando si parla di malattie che mettono a rischio la vita, e soprattutto del cancro, si sentono da più parti incoraggiamenti alla lotta, alla guerra, al coraggio, al braccio di ferro con la malattia-intruso.

Se c’è un richiamo così ampio, così socialmente diffuso al combattimento, è perché il cancro viene sentito, ancora ai nostri giorni, come una minaccia terribile, che richiede una mobilitazione generale. Genera inquietudine in tutti. Nei pazienti, naturalmente, che scoprono la precarietà della vita in generale, e la fragilità della loro in particolare; nei familiari, che li amano, e sono a loro legati o attaccati, o da loro dipendenti; negli oncologi, per l’imprevedibilità frequente del decorso della malattia e per il tasso ancora alto di fallimenti della medicina; in tutti gli operatori sanitari, medici, infermieri e operatori socio-sanitari, che lavorano in un reparto oncologico o in un Day Hospital, e che non possono ignorare di essere anch’essi vulnerabili al cancro, che colpisce trasversalmente le persone più differenti, con storie e abitudini di vita diverse.

Di fronte all’inquietudine, la risposta più rassicurante è quella della battaglia all’ultimo sangue. Per questo la rappresentazione del tumore-bestia da battere, unita all’appello alla lotta contro il nemico alieno, è ancora, forse, la più diffusa socialmente, e quella che tiene uniti in un’unica visione pazienti, familiari e medici. Ora, è vero che l’uomo porta con sé un istinto guerriero per la difesa della vita, quello di conservazione, che è il più radicato, e rimonta alla preistoria. Tuttavia, nella richiesta che si fa al malato di tumore di lottare ci sono anche altri significati, meno evidenti.

In primo luogo, il richiamo alla battaglia è strettamente connesso al modello del “buon malato” che, indipendentemente da come il paziente si sente con se stesso, lo rende funzionale al sistema di cure dell’oncologia medica: è il malato che si adegua al contesto di cura, non viceversa.

Se il paziente “è su di morale”, combattivo e ottimista (a volte contro ogni evidenza) è più facile mantenere il controllo dei luoghi di terapia, si possono circoscrivere i dialoghi medico/paziente alla razionalità della cura e alla speranza di guarigione, non si perde tempo a consolare persone che si lasciano andare all’emotività. Resta così fuori dalla porta dell’ospedale, degli ambulatori medici, dei Day Hospital, eccetera, tutta la parte dolente dell’umano minacciato dalla malattia, la solitudine di vite in cui ogni aspetto della quotidianità viene stravolto, dal lavoro alle relazioni affettive.

I medici e gli infermieri non intendono permettere che i pazienti crollino davanti a loro. Di fronte alle lacrime o alla disperazione, non sanno cosa fare o cosa dire, e si sentono a disagio, perché nessuno li ha preparati a tale eventualità. Se possibile, meglio prevenirle. La desertificazione emotiva richiesta ai pazienti oncologici durante le cure, perlomeno in pubblico, garantisce così lo svolgimento ordinato e senza sbavature delle azioni terapeutiche, che, nella loro estrema violenza sui corpi, proprio ai corpi, oggettivati dalla medicina, devono restare confinate. Qualora si potesse menzionare la violenza insita nelle cure, necessaria ma pur sempre terribile, la loro somiglianza con la tortura, potremmo dire che l’oncologia medica ha saputo umanizzarsi, e raggiungere la consapevolezza di sé.

Inoltre, dobbiamo chiederci: questo modo di affrontare la malattia grave è efficace? E soprattutto, cosa ne pensano i pazienti?

Nel 2020 l’associazione inglese di sostegno ai pazienti oncologici Macmillan Cancer Support ha condotto un’indagine su duemila persone ammalate, chiedendo loro di narrare la propria percezione di come il cancro è raccontato, sia nei mass media, sia dalle persone che li circondano, medici, amici e familiari. La maggioranza di loro ha affermato di essere stanca delle metafore belliche usate per parlare della loro malattia. Tuttavia, dall’indagine inglese pare che la comunità dei malati sia divisa su questo punto: alcuni si riconoscono nel linguaggio militare, e affermano che considerare il cancro come una sfida da vincere sia stato per loro un modo per prendere consapevolezza dell’accaduto e per sostenere la fatica delle cure. E’ normale che, quando una visione del mondo (in questo caso della malattia) sia molto condivisa socialmente, le persone vi aderiscano, la facciano propria.

Sono interessanti, però, i molti che hanno parlato del loro disappunto a sentir parlare di battaglie da vincere, segno che nella mentalità dominante si stanno producendo alcune crepe.

Le metafore guerresche hanno seri effetti collaterali: se colui che guarisce è visto come qualcuno che ha combattuto, che ha vinto, e in ultima istanza come un eroe, colui che muore può essere interpretato come qualcuno che non ha lottato abbastanza, che non ha avuto abbastanza voglia di vivere, in una parola un perdente.

Implicitamente, siamo di fronte a una colpevolizzazione della vittima, che viene svalutata in quanto non ha saputo reggere la sfida.

Tuttavia, la visione del malato di cancro come un guerriero sta venendo sostituita, lentamente (come sempre accade nei cambiamenti di mentalità) da altre interpretazioni. Mi viene in mente Gianluca Vialli, che ha definito il suo cancro “un compagno di viaggio indesiderato”, e ha affermato che non intendeva “combattere”, perché sarebbe stata una lotta impari.

VIDAS, uno dei principali enti non profit italiani che si occupa di cure palliative, sul suo sito dà alcuni suggerimenti ai familiari e agli amici dei malati, esaminando alcune frasi da non dire. Tra queste, “Coraggio, non mollare” e “Devi essere forte”.

La prima non deve essere mai pronunciata. Infatti, “in questa frase il desiderio di incoraggiare diventa involontariamente un’attribuzione di responsabilità, come se l’esito della “battaglia” dipendesse dalla forza di volontà di chi si è ammalato.  Arriva un momento, prima o poi, in cui invece quella persona ha bisogno di sentirsi autorizzata proprio da chi ama a “mollare”, a lasciare che la malattia faccia il suo corso, senza sentirsi in colpa per aver gettato la spugna.”.

E la seconda è inopportuna perché il malato deve poter manifestare ed esprimere la propria fragilità, e ad essere forti (e di sostegno) devono piuttosto essere coloro che si prendono cura di lui ogni giorno.

L’inopportunità del discorso bellico sul tumore si accompagna, per fortuna, anche a un miglioramento e cambiamento delle terapie. Poco per volta, su molte forme di tumore le cure diventano meno invasive, più efficaci, e la metafora della guerra sempre più inadeguata.

Che ne pensate? Voi usate le metafore belliche per parlare del cancro? Vi ci ritrovate? Ritenete che si possa costruire una nuova narrazione dell’esperienza della malattia?

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Consapevolezza? di Marina Sozzi

17 Gennaio 2023/31 Commenti/in La fine della vita/da sipuodiremorte

Chiunque lavori all’assistenza nel fine vita conosce l’importanza della consapevolezza (che ha anche una sua scala di misurazione) che consiste, in ultima istanza, nella capacità di raggiungere un certo grado di accettazione di fronte alla propria morte o alla morte di una persona che amiamo. In cure palliative, la consapevolezza è rilevante perché permette agli operatori di fare un lavoro migliore, e agli psicologi e agli altri operatori di accompagnare i pazienti e i familiari a tollerare l’ineluttabile, pur nella tristezza e nel dolore. In genere, permette ai nuclei familiari di accomiatarsi con maggiore serenità, di parlarsi della morte imminente, di rinsaldare i legami e scambiarsi frasi amorevoli.

Ma proprio chi lavora in cure palliative sa anche quanto rara sia la consapevolezza. Spesso i familiari attendono le équipe fuori dalla porta di casa, per raccomandare di nascondere il logo (in Italia le équipe specialistiche di cure palliative operano generalmente nel Terzo Settore), o per avvertire: «non sa nulla, non gli dite che non ha molto da vivere». Il lavoro delle équipe più avvertite è delicato, lento, e segue la capacità di comprensione e accettazione delle famiglie. Si cerca di dire ai familiari che spesso chi muore sa che sta morendo, e tenerglielo nascosto contribuisce soltanto a creare una barriera di cose indicibili che separano chi se ne va e chi resta.

Talvolta però, per alcuni medici, infermieri e psicologi, il raggiungimento o meno della consapevolezza da parte del paziente assume la valenza di un giudizio implicito sul proprio operato, e diviene così uno degli obiettivi taciti dell’assistenza. E’ corretta questa visione epica della consapevolezza (entrare nella morte ad occhi aperti), o forse dovremmo essere più cauti nel pensarla come obiettivo universalizzabile?

Facciamo un passo indietro. Sappiamo che la mancanza di consapevolezza è spesso dovuta alla reticenza degli specialisti, che pur di non comunicare che la scienza medica ha esaurito le possibilità di contenere la patologia, mentono, o dicono verità parziali. Con la formazione e l’azione culturale, occorre ridurre queste cattive comunicazioni, come peraltro richiede la legge 219/2017.
Tuttavia, sono stata testimone del caso di diverse persone affette da tumore a uno stadio avanzato, non più controllato dalle terapie oncologiche, con metastasi diffuse a tutto il corpo, a cui era stata detta la verità sia dagli specialisti, sia dal medico di famiglia, e che ritenevano che le cure palliative fossero una specie di convalescenza, prima di riprendere le terapie. La consapevolezza non può essere perseguita a oltranza, perché la mente non va dove non vuole andare, e talvolta proprio non vuole incamminarsi a incontrare la morte.

Spesso si pensa che la mancanza di consapevolezza dipenda dalla cultura in cui viviamo, orientata a evitare il discorso sulla morte, così che i nostri concittadini arrivano molto impreparati all’appuntamento con la nera signora, che proprio per questo appare sempre più nera, in un circolo vizioso.
Su questo tema si tende a citare molto Heidegger, che nel suo libro Essere e tempo parla dell’importanza di porsi consapevolmente di fronte all’unica possibilità assolutamente certa della condizione umana, la morte. Pensare alla morte, e metterla in primo piano nella nostra mente, significa comprendere che questo “essere gettato nella morte” è la possibilità più autentica dell’Esserci dell’uomo. Le attività della vita, i progetti realizzabili, perdono il loro valore nel momento in cui si confrontano con la morte, e l’angoscia che deriva dal loro annientamento allenta anche la presa del mondo sull’uomo. Si manifesta così, al cospetto della morte, l’unica libertà possibile. Proprio nella consapevolezza della morte sta, secondo Heidegger, la libertà dell’esistere, che coincide però con la svalutazione di tutto ciò cui l’uomo dà comunemente valore.

Ma davvero per poter essere liberi e consapevoli dobbiamo annichilire il mondo? Sartre si ribella di fronte al pessimismo di Heidegger in L’essere e il nulla. Ben lungi dal vedere nella morte la più autentica possibilità dell’umano, Sartre afferma piuttosto che la morte è la negazione di tutte le altre possibilità, giunge sempre a troncarle, sovente sul più bello. E’ impossibile prepararsi alla morte, perché ignoriamo quando e come ci colpirà: gli uomini somigliano a condannati che si preparano coraggiosamente a essere fucilati, ma vengono invece falciati da un’epidemia di influenza spagnola. Non sappiamo quando e come moriremo. Gli uomini hanno progetti, che costituiscono le possibilità della loro esistenza, e questi progetti vengono interrotti dalla morte.

Questa contrapposizione così netta tra due importanti pensatori del Novecento ci indica la complessità del tema che stiamo trattando, le sue implicazioni filosofiche. Salvare il nostro rapporto con la progettualità mondana è l’obiettivo condivisibile di Sartre. D’altronde, seppure non sia possibile conoscere le circostanze della nostra morte, non è neppure immaginabile rimuoverne l’angoscia. E l’angoscia ci chiede di venire a patti con la mortalità, di trovare un aggiustamento. Questo è un lavorio arduo e mai concluso, che possiamo cercare di fare nel corso della nostra vita. La difficoltà, che solo il saggio riesce a sostenere, sta nel mantenersi in bilico tra un ingaggio e un impegno nelle vicende del mondo e la consapevolezza della nostra provvisorietà.

E quando siamo nei pressi della nostra morte? Cosa accade alla nostra consapevolezza della mortalità? Non è facile esserne certi, forse è uno di quei misteri che si possono scoprire solo ex post, quando siamo morti, da coloro che restano («è stato lucidissimo, presente e consapevole fino alla fine»).

La consapevolezza della morte fa parte di quella opacità della nostra coscienza che non possiamo mai disvelare, finché non accade che davvero ci troviamo lì vicini, accanto alla morte imminente. Riusciremo a stare lì, nella prossimità? Saremo abbastanza saggi e coraggiosi? Saremo abbastanza appagati dalla nostra vita da poterla lasciare senza troppi rimpianti nelle mani di chi viene dopo di noi? Potremo tenere gli occhi aperti di fronte al mistero? Non lo sappiamo, come non sappiamo se ci getteremo in acqua per salvare qualcuno che annega. Non ci conosciamo mai davvero fino a quel punto. Ma possiamo provare a prepararci per questo obiettivo durante la nostra vita, con umiltà.

E allora?

Come scriveva Paolo Vacondio nel suo libro Sediamoci qui, la consapevolezza di malattia o di terminalità non è una questione del tipo “tutto o nulla”. Al contrario “essa si evolve in modo progressivo e influenzato dal vissuto personale”.
Quindi, per concludere il nostro ragionamento, occorre raccomandare a chi opera in cure palliative (o comunque si trova per lavoro o perché amico, compagno, figlio, a fare i conti con il morire) di fare uno sforzo di sospensione critica del proprio giudizio, e di rispettare fino in fondo coloro che arrivano impreparati, che non sono consapevoli e non vogliono neppure esserlo. Sospendere il giudizio e stare accanto, senza mentire sulla verità della morte imminente ma con la giusta gradualità, rispettando la capacità della mente altrui di fare spazio a questa immensamente difficile verità.

Cosa ne pensate? Vi capita di immaginare come sarete nella prossimità della vostra morte? Avete esperienze di accompagnamento in cui la consapevolezza o la sua mancanza hanno avuto un ruolo importante?

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Elena, la Svizzera e la dignità della morte, di Marina Sozzi

3 Agosto 2022/59 Commenti/in La fine della vita/da sipuodiremorte

In genere preferisco non parlare del tema dell’eutanasia e del suicidio assistito, su cui ho già in alcune occasioni espresso il mio pensiero.

Ma quando leggo sui quotidiani descrizioni approssimative e imprecise delle storie delle persone che scelgono di andare in Svizzera, mi viene il desiderio di commentare. Non intendo certo commentare la scelta della signora Elena, che si è recata a Basilea con Cappato a concludere la sua vita. Non si può e non si deve giudicare le scelte delle persone, che si sentono o non si sentono di vivere la propria malattia fino alla fine. Ciascuno sceglie in base alla propria storia, alle proprie risorse, a molti altri fattori della propria vita che non sono sindacabili.

Tuttavia, quando la storia di Elena, su Repubblica o sulla Stampa, è narrata come se l’alternativa di Elena fosse morire soffocata per via del suo microcitoma, non si può tacere.

Scrive Maria Novella De Luca su Repubblica: «Se n’è andata così Elena, con la voce sottile e il coraggio di un leone, lasciando un video che è un limpido testamento di amore per la vita. “Mi sono trovata davanti a un bivio. Una strada più lunga che mi avrebbe portata all’inferno, una più breve che poteva portarmi qui in Svizzera, a Basilea: ho scelto la seconda.”»

Ora, l’alternativa al suicidio assistito, nel caso di Elena, non è la sofferenza bruta a cui fa riferimento sia lei stessa che la giornalista: “l’inferno”.

E da questo punto di vista credo sia importante che, oltre a poter scegliere – e in Italia, dopo la sentenza della Corte Costituzionale, prima o poi una legge sul suicidio assistito si farà- si possa scegliere sulla base di buone informazioni.

E queste informazioni non le troviamo mai, o quasi mai, sui mass media nazionali: le cure palliative permettono di non soffrire dal punto di vista fisico, e di essere sostenuti dal punto di vista umano, psicologico e spirituale. Nel caso di Elena, se il microcitoma (tumore polmonare molto aggressivo) o le metastasi le avessero provocato dei sintomi cosiddetti “refrattari” (che non si riescono a contenere con i farmaci), o se la sua angoscia di morire soffocata fosse troppo forte, ci sarebbe stata l’indicazione per una sedazione palliativa. Questa sedazione non ha nulla a che fare con il suicidio assistito, perché non abbrevia né allunga la vita, e perché diverso è l’obiettivo (nel suicidio assistito i farmaci ingeriti sono volti a provocare la morte, mentre nella sedazione palliativa viene indotta una forma di sonno profondo che azzera la coscienza e anche la sofferenza, che sia fisica o mentale).

Quindi Elena avrebbe potuto finire la sua vita nella sua casa, circondata dall’affetto dei suoi cari, con una sofferenza tenuta sotto controllo. Quindi massimo rispetto per la sua scelta, ma l’alternativa non sarebbe stata “l’inferno”. E questo è importante dirlo per tutti gli altri innumerevoli malati di tumore che devono affrontare la fine della propria vita.

Ancora Repubblica: «Elena ha registrato un video – lucido e straziante – in cui testimonia la sua libera e inappellabile scelta, ma accusa anche il nostro paese di averla costretta ad emigrare per poter morire con dignità. “Avrei sicuramente preferito finire la mia vita nel mio letto, nella mia casa, tenendo la mano di mia figlia, la mano di mio marito. Purtroppo questo non è stato possibile e quindi sono dovuta venire qui da sola.» Ecco, no.

Nulla da eccepire sulla libera e inappellabile scelta di Elena, ma in Italia abbiamo due ottime leggi sul fine vita (la 38 del 2010 e la 219 del 2017) che le avrebbero permesso di morire nel suo letto, tenendo la mano dei suoi familiari.

Quando si decide che il malato non se la sente più di affrontare la malattia, l’équipe propone la sedazione palliativa, e la spiega accuratamente al paziente e alla sua famiglia, così che possano prendere insieme una decisione, e prima che la sedazione venga praticata la famiglia può riunirsi per un saluto, per le ultime parole d’amore. La sedazione non è sempre irreversibile, e talvolta è possibile programmare una sedazione intermittente, che permetta ad esempio al malato di riposare ma di essere ancora presente in alcuni momenti. La sedazione palliativa è uno strumento terapeutico duttile ed efficace, e, insieme a tutti gli altri, è volto a garantire la dignità alla fine della vita. Le cure palliative hanno come priorità la dignità del malato. Troppo spesso si rivendica la dignità come se la morte programmata fosse l’unica soluzione per garantirla.

Le storie che talvolta si sentono, di persone prese in carico troppo tardi, e che hanno sofferto, sono storie che dipendono prevalentemente dalla mancanza di cultura sulle cure palliative. Mancanza di cultura dei medici, che tardano troppo ad attivare le cure palliative; e anche mancanza di cultura dei cittadini, che ignorano i loro diritti (le cure palliative sono garantite a tutti come diritto dalla legge 38). Talvolta, certo, dipendono anche dalla cattiva organizzazione delle ASL e dai loro ritardi.

Ma anche di questo siamo tutti responsabili. Perché, oltre ad invocare il suicidio assistito e l’eutanasia, dovremmo informarci meglio e conoscere le possibilità che le cure palliative offrono di affrontare con dignità, con la tutela della qualità della vita, la propria morte. E dovremmo fare una battaglia civile perché le cure palliative siano estese a tutti i malati che ne hanno bisogno, in tutti i contesti di cura.

Sono ansiosa di sapere cosa ne pensate. Grazie in anticipo per i vostri commenti.

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